La Voce 65 (ritorna all'indice)

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XXII - luglio 2020

Scaricate il testo in formato PDF - Formato Open Office - Formato Word

 


I comunisti e il campo delle masse popolari, la mobilitazione reazionaria e la rivoluzione socialista

 

“La rivoluzione socialista in Europa non può essere altro che l’esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi e di tutti i malcontenti. Una parte della piccola borghesia e degli operai arretrati vi parteciperanno inevitabilmente - senza una tale partecipazione non è possibile una lotta di massa, non è possibile nessuna rivoluzione - e porteranno nel movimento, non meno inevitabilmente, i loro pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori. Ma oggettivamente essi attaccheranno il capitale. L’avanguardia cosciente della rivoluzione, il proletariato avanzato, esprimendo questa verità oggettiva della lotta di massa varia e disparata, variopinta ed esteriormente frazionata, potrà unificarla e dirigerla, conquistare il potere, prendere le banche, espropriare i trust odiati da tutti (benché per ragioni diverse!), attuare altre misure dittatoriali che condurranno in fin dei conti all’abbattimento della borghesia e alla vittoria del socialismo, il quale si “epurerà” dalle scorie piccolo-borghesi tutt’altro che di colpo” (Lenin, Risultati della discussione sull’autodecisione 1916).

Questo scriveva Lenin nel 1916, quando non c’era ancora esperienza della mobilitazione reazionaria delle masse popolari alla quale i gruppi più reazionari della borghesia imperialista fecero ricorso dopo la prima Guerra Mondiale, quando erano minacciati dalla rivoluzione socialista.

Nel 1920, in L’estremismo, malattia infantile del comunismo, scriveva cose ancora più nette, importanti nelle circostanze attuali. “Il capitalismo non sarebbe capitalismo se il proletariato ‘puro’ non fosse circondato da una folla straordinariamente variopinta di tipi intermedi tra il proletario e il semiproletario (colui che si procura di che vivere solo a metà mediante la vendita della propria forza-lavoro), tra il semiproletario e il piccolo contadino (e il piccolo artigiano, il piccolo padrone in generale), tra il piccolo contadino e il contadino medio, ecc.; e se, in seno al proletariato stesso, non vi fossero delle suddivisioni in strati più o meno sviluppati, delle suddivisioni per regione, per mestiere, talvolta per religioni, ecc. E da tutto ciò deriva la necessità, la necessità assoluta e incondizionata per l’avanguardia del proletariato, per la parte cosciente di esso, per il partito comunista, di destreggiarsi, di stringere accordi, compromessi con i diversi gruppi di proletari, con i diversi partiti di operai e di piccoli padroni. Tutto sta nel saper impiegare questa tattica allo scopo di elevare, e non di abbassare il livello generale della coscienza proletaria, dello spirito rivoluzionario del proletariato, della sua capacità di lottare e di vincere”.

La borghesia imperialista ha portato l’umanità su una strada che in ogni paese distrugge persino quel poco di coesione sociale che ancora rimane dopo quarant’anni di liquidazione delle conquiste strappate durante la prima ondata della rivoluzione proletaria. La crisi del sistema di potere della borghesia da una parte e la diffusa resistenza spontanea che le masse popolari oppongono al corso disastroso delle cose dall’altra caratterizzano il contesto in cui noi comunisti agiamo. Per intervenirvi seguiamo due principi guida.

1. Viviamo in una società divisa in due campi antagonisti: quello della borghesia imperialista e quello delle masse popolari, con il primo che domina e opprime il secondo. Noi comunisti siamo i promotori e dirigenti della guerra delle masse popolari contro la borghesia imperialista. Espandere e rafforzare il sistema politico del proletariato (il nuovo potere) fino a farlo prevalere su quello della borghesia è il nostro compito, solo così l’umanità porrà fine alle crisi sanitaria, economica, sociale e ambientale che l’affligge.

2. Abbiamo a che fare con due tipi di contraddizioni, derivanti dagli interessi contrastanti delle classi della società  attuale, dall’influenza della borghesia e del clero nel campo del proletariato e dalla gestione borghese delle relazioni sociali, economiche e di ogni altro genere: le contraddizioni in seno al popolo e le contraddizioni tra noi e i nostri nemici. Per avanzare nella guerra popolare rivoluzionaria, ci rifacciamo all’insegnamento di Mao Tse-tung: i due tipi di contraddizioni sono di natura completamente diversa, quindi anche i metodi per risolverle devono essere diversi. Le contraddizioni in seno al popolo si confondono facilmente con le contraddizioni tra borghesia e masse popolari se per comprendere il corso delle cose e per trasformarlo non usiamo la scienza comunista e il materialismo dialettico.

 

*****

I numeri dei lavoratori autonomi nel nostro paese

Nel nostro paese i lavoratori autonomi sono circa 5,4 milioni (erano 6,3 milioni nel 2004), che con familiari e pensionati fanno circa 14 milioni di persone. Il calo di quasi un milione di persone in 15 anni è dovuto agli sconvolgimenti prodotti dall’entrata, nel 2008, della crisi nella fase acuta e terminale: chiusura di molte piccole attività commerciali e artigianali e cambiamenti di alcune attività con l’aumento delle partite IVA e dei piccoli professionisti. La composizione di massima è la seguente: 1.8 milioni sono commercianti, 1.4 milioni artigiani, 1.3 milioni professionisti-lavoratori autonomi, 650mila lavoratori agricoli, il resto sono lavoratori stagionali e di altre categorie. Il grosso rientra tra quanti hanno chiesto i 600€ di indennità mensile per l’emergenza Corona-virus (secondo calcoli dell’INPS i potenziali beneficiari erano 4,8 milioni e l’indennità di aprile e maggio è stata erogata a 4,06 milioni).

*****

 

Questi due principi guida distinguono noi comunisti della Carovana del (n)PCI dai comunisti dogmatici e settari, che hanno una concezione idealista (basata su idee e pregiudizi anziché sull’esame della situazione concreta) della rivoluzione socialista, della situazione e della lotta politica, una concezione che prescinde dalla natura della crisi generale in corso e non trae insegnamento dalla prima ondata rivoluzionaria. Essi non fanno una chiara politica di classe (distinzione del campo delle masse popolari con alla testa la classe operaia dal campo della borghesia imperialista) e di conseguenza non concepiscono l’egemonia anche come direzione che un organismo politico di una classe (della classe operaia) esercita sulle altre classi delle masse popolari (le altre classi proletarie, sostanzialmente i dipendenti pubblici, e le classi popolari non proletarie: lavoratori autonomi, piccoli professionisti e commercianti).(1)

 

1. Per l’analisi di classe della società italiana si rimanda al cap. 2.2 del Manifesto Programma, pagg. 167-171.

 

Secondo loro le classi popolari non proletarie sono “piccola borghesia”, base di manovra della mobilitazione reazionaria della borghesia e si dividono (oggi, ieri e forse anche domani) in due parti: una parte sfruttatrice e parassitaria che è per sua natura reazionaria e una parte impoverita e non sfruttatrice che è la base sociale naturale della prima. Alcuni di questi partiti si dichiarano leninisti, ma in realtà si oppongono, in questo come in altri campi, all’insegnamento dato da Lenin già nel Che fare? (1902): il proletariato rivoluzionario (i comunisti) deve inviare propri distaccamenti in ogni classe della società per far valere, nel modo adeguato a ogni singola classe, gli interessi del proletariato, deve aggregare e dirigere, nella sua lotta per la conquista del potere, anche queste classi oscillanti. Nonostante le loro dichiarazioni e la loro convinzione, in questo campo sono seguaci non del leninismo ma

del trotzkismo che si opponeva alla direzione del proletariato nella rivoluzione democratica dei contadini in Russia e nella rivoluzione antifeudale e antimperialista dei popoli delle colonie.

 

Lavoratori autonomi e lotta di classe

Il (n)PCI ha illustrato in più occasioni il ruolo che hanno le classi popolari non proletarie e i movimenti che raccolgono e mobilitano lavoratori autonomi (Forconi, Movimento 9 Dicembre ma anche M5S e Lega) nella lotta per il GBP e il  socialismo e indicato perché e come i comunisti devono intervenire.(2) È utile tornare sulla questione nella fase attuale di disgregazione del sistema sociale della borghesia che mette a repentaglio le condizioni di sopravvivenza della stragrande maggioranza dei proletari e dei lavoratori autonomi, perché ha a che fare con la lotta che noi comunisti conduciamo per assumere la direzione della classe operaia, con il ruolo della mobilitazione dei lavoratori autonomi nella rivoluzione socialista (nella guerra popolare rivoluzionaria) e con la linea dei comunisti verso di loro.

Nel nostro paese i lavoratori autonomi sono all’incirca un quarto degli adulti che formano le masse popolari (la parte della popolazione che riesce a vivere solo se riesce a lavorare) e stando ai loro interessi la crisi generale del capitalismo li contrappone sempre più nettamente alle classi che compongono il campo della borghesia imperialista. Sono una parte considerevole della popolazione del nostro paese (e di altri paesi con un’analoga composizione di classe) e lo sviluppo della rivoluzione socialista comporta necessariamente il loro coinvolgimento.

Per la posizione che la classe operaia (intesa come i lavoratori delle aziende capitaliste) occupa nella società attuale, essa può e deve essere la classe dirigente della rivoluzione socialista, quindi noi comunisti dobbiamo promuovere l’egemonia della classe operaia sulle altre classi proletarie (dipendenti pubblici, dipendenti di aziende non capitaliste e di enti no-profit, domestici, lavoratori precari, ecc.) e anche sulle classi non proletarie delle masse popolari (lavoratori autonomi, piccoli proprietari, persone che “sbarcano il lunario in qualche modo”). Il (n)PCI si pone l’obiettivo di guadagnare alla causa del comunismo il maggior numero di alleati, di unire nella lotta comune contro la borghesia e per il GBP e il socialismo le masse popolari che rappresentano il 95% della popolazione.

A questo fine bisogna fare chiarezza sulla natura dei lavoratori autonomi nella società attuale.(3)

 

2. Vedi in particolare Avviso ai naviganti n. 36 del 29 dicembre 2013; La Voce 41 (Il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo e Liste Civiche disgregano i partiti di regime. Movimento dei Forconi, Movimento dei Pastori Sardi: mobilitazione dei lavoratori autonomi); La Voce 60 (Intervenire su attivisti ed esponenti della Lega e sui suoi elettori!).

 

3. A questa questione ne sono strettamente connesse altre due: 1. l’antifascismo padronale, cioè l’antifascismo della sinistra borghese, che cerca di inquinare e soffocare l’antifascismo popolare, 2. la presunta impossibilità, per un gruppo comunista che non ha ancora conquistato la direzione del proletariato, di intervenire nelle proteste e nei movimenti delle altre classi senza subire l’influenza della borghesia. Su di esse rimando ai testi già indicati in nota 2.

 

I dogmatici li chiamano “piccola borghesia” e nei libri di Marx ed Engels, che descrivono la società borghese quando era ancora nella fase della sua formazione e della sua crescita, hanno letto che la piccola borghesia è una classe in disfacimento: una classe formata da individui che aspirano a far parte della borghesia, mentre la maggior parte di essi è ridotta dallo sviluppo del capitalismo (dalla sussunzione crescente delle attività produttive nell’economia capitalista) alla condizione di proletari. Questa condizione di classe che sta dividendosi in una piccola parte che riesce ad accumulare capitale ed entra a far parte della borghesia e una massa che finisce nel proletariato, anche nel nostro paese oggi è praticamente del tutto scomparsa. La società borghese non è più in ascesa, ma in disgregazione; l’economia reale capitalista non si espande, ma è soffocata dal capitale finanziario. I lavoratori autonomi subiscono anch’essi, a loro modo, le conseguenze di questo corso delle cose. Per capire in quale modo essi le subiscono, bisogna però rifarsi non alla piccola borghesia della società borghese in espansione, ma ai lavoratori autonomi della società borghese giunta al massimo della sua espansione (al massimo della sussunzione delle attività produttive nell’economia capitalista) e assillata dagli sconvolgimenti della seconda crisi generale, dal 2008 entrata nella sua fase acuta e terminale.

Da tempo i lavoratori autonomi sono figure ausiliarie e complementari dell’economia capitalista: lavoratori che l’economia capitalista relega a compiere alcuni lavori ad essa necessari che per vari motivi l’azienda capitalista non svolge direttamente in proprio. I lavoratori autonomi sono oramai appendici delle aziende capitaliste e quanto queste appendici sono estese, dipende dalle convenienze delle aziende capitaliste. In sostanza sono alla mercé dell’andamento  degli affari della borghesia imperialista.

Che la cultura borghese li presenti come lavoratori autonomi dal capitale, è un fatto. Ma la realtà e l’immagine che ne dà la cultura borghese sono molto spesso cose diverse e noi comunisti non dobbiamo essere mai succubi della cultura borghese. Un fatto ben più solido dell’immagine data dalla cultura borghese è che i lavoratori autonomi di fatto dipendono strettamente dall’economia capitalista, vivono ai suoi margini, di quello che l’economia capitalista lascia loro, di quello che ognuno di essi riesce a prenderle (e questa è una delle fonti dell’individualismo che li caratterizza: non hanno un contratto collettivo di lavoro). Ne dipendono direttamente nel senso che lavorano per le aziende capitaliste e sono queste che forniscono loro i mezzi di produzione ed elaborano la tecnologia del loro mestiere. Ne dipendono indirettamente nel duplice senso 1. che è lo Stato della borghesia imperialista che stabilisce le regole e le condizioni del loro lavoro e le imposte che devono pagare quelli di loro che non riescono, ognuno a suo modo, ad evaderle; 2. che i loro clienti, quando non sono direttamente le aziende capitaliste, dipendono da queste per il loro potere d’acquisto, quindi per gli ordinativi che passano ai lavoratori autonomi. Questo stato delle cose ognuno lo può facilmente constatare considerando i tipi di lavoratori autonomi che ha a portata di mano: il camionista, l’allevatore, il coltivatore, il bottegaio e altri.

I lavoratori autonomi in realtà dipendono dal capitalista, ma hanno con il capitalista e con il suo Stato una relazione formale (contrattuale e legislativa) sostanzialmente diversa da quella che hanno gli operai e i dipendenti pubblici. Quando gli affari gli vanno bene, il lavoratore autonomo spesso guarda con commiserazione e perfino disprezzo il lavoratore dipendente che si accontenta del prezzo che il capitalista o la Pubblica Amministrazione gli pagano per la sua prestazione. Quando gli affari gli vanno male, il lavoratore autonomo spesso considera i lavoratori dipendenti dei privilegiati se non anche dei parassiti, perché “comunque” hanno un reddito “garantito” (finché non sono licenziati o ridotti a dipendere da ammortizzatori sociali). Nella Repubblica Pontificia i lavoratori autonomi sono stati terreno di pascolo e riserva della DC e dei partiti di governo e la borghesia e il clero hanno coltivato tra loro tutti gli opposti pregiudizi.

Gli economisti della sinistra borghese dicono (e forse credono) che la fonte della crisi attuale sta nella politica della spesa pubblica e nella politica fiscale delle autorità (mentre in realtà sta nell’impossibilità per i capitalisti di realizzare nella produzione di merci una massa di profitto adeguata all’enorme quantità di capitale accumulato). Per chi è imbevuto delle loro concezioni, è naturale pensare che l’aumento degli investimenti pubblici e in generale della spesa pubblica (“una politica keynesiana”) è la via maestra per uscire dalla crisi. Risultato: i lavoratori dipendenti (operai, dipendenti pubblici, proletari) dovrebbero reclamare l’aumento della spesa pubblica, mentre i lavoratori autonomi reclamano la riduzione delle tasse. Questa “politica di uscita dalla crisi” è talmente inconsistente che, esponendola, si avvertono le crepe logiche del ragionamento: tuttavia è questo ragionamento pieno di crepe che sta nelle teste di quanti proclamano che la crisi in corso crea una contrapposizione di interessi tra proletari e lavoratori autonomi, per cui i lavoratori autonomi sarebbero “naturale” riserva di caccia della destra borghese e dei promotori delle prove di fascismo.

In realtà la crisi generale del capitalismo in corso travolge i proletari, ma travolge e soffoca anche i lavoratori autonomi da mille lati (ordinativi, tariffe, imposte e tasse, regolamenti, ecc.), mentre anch’essi sono esclusi dai profitti e dai privilegi del capitale finanziario.

La crisi sanitaria prodotta dall’epidemia da Coronavirus di questi mesi ha già sconvolto interi settori economici (turismo, ristorazione, artigianato, ecc.) e ha creato condizioni precarie e un futuro incerto per milioni di lavoratori dipendenti, lavoratori autonomi e per le loro famiglie. Quindi il malcontento e la ribellione si estenderanno tra le loro file. I promotori della mobilitazione reazionaria e delle prove di fascismo possono certamente avvalersi e si avvarranno dei pregiudizi individualistici, antiimmigrati, particolaristi, campanilistici e antiproletari (contro gli operai e contro i  dipendenti pubblici) che la Repubblica Pontificia ha alimentato tra i lavoratori autonomi. Essi cercano e cercheranno di prendere tra i lavoratori autonomi il posto che fu della DC, come già a loro modo lo hanno fatto la Lega e la banda Berlusconi. Ma la realtà dei fatti e l’esperienza pratica contrappongono sempre più apertamente i lavoratori autonomi al capitale finanziario (che distrugge l’economia reale capitalista ai cui margini essi vivevano, che non è in grado di assicurare un corso ordinario degli affari) e al suo Stato (che li soffoca con imposte e tariffe e restringe da mille lati i margini della loro attività, che non è in grado in questa fase di assicurare neanche condizioni minime di vita).

Chi confonde il processo che oggi vivono nel nostro paese e negli altri paesi imperialisti i lavoratori autonomi e in generale le classi popolari non proletarie, con quelle della piccola borghesia dell’epoca in cui la società borghese era ancora in formazione e in ascesa, è completamente fuori strada e “vive sulla luna”.(4) Legge libri e si nutre di letteratura, invece che guardarsi attorno e studiare le relazioni produttive e le altre relazioni sociali in cui è immerso. Non vede che il malcontento, le proteste e le rivolte delle masse popolari non proletarie crescono e che spetta ai comunisti incanalarle nella costruzione del socialismo.

4. Chi per capire e descrivere il ruolo attuale dei lavoratori autonomi fa ricorso al ruolo svolto in Italia dalla piccola borghesia urbana reduce dalla prima Guerra Mondiale, è ancora più fuori strada. Per ignoranza o interesse concepisce e descrive il fascismo come regime della piccola borghesia, mentre il fascismo è stato il regime terroristico messo in opera dalle frazioni più reazionarie della borghesia imperialista per stroncare il movimento comunista. Lenin e Gramsci hanno chiaramente mostrato che furono i partiti socialisti e comunisti, a causa dei loro limiti, a “regalare” ai settori più reazionari della borghesia imperialista come sua massa di manovra centinaia di migliaia di lavoratori che essi potevano e dovevano arruolare per la rivoluzione socialista contro la borghesia imperialista.

 

Dogmatici e settari non comprendono che nei movimenti di massa la borghesia riesce a occupare solo lo spazio che noi comunisti le lasciamo (dove non ci sono i comunisti è la borghesia a farla da padrona) e che la borghesia non può portare fino in fondo le istanze di cambiamento su cui fa leva per promuovere la mobilitazione reazionaria delle masse (mettere gruppi di masse contro altri gruppi di masse, guerra tra poveri, razzismo, ecc.), perché direttamente o indirettamente la contraddizione su cui fa leva per promuoverla è un risultato della sua dominazione. Se andasse a fondo finirebbe per colpire se stessa. I nazisti mobilitavano i disoccupati a svaligiare i negozi degli ebrei. Ma non potevano mobilitare i disoccupati a svaligiare tutti i negozi, tanto meno a partire dai più ricchi e ben forniti! Il fascismo del ventennio ha dovuto annegare le istanze di rinnovamento su cui aveva fatto leva nelle pastoie della monarchia sabauda, della Corte Pontificia, delle relazioni generali della borghesia e degli agrari, delle banche e delle istituzioni finanziarie e dei loro legami internazionali. È in definitiva per questo che la Lega è finita ad annaspare nelle sabbie mobili del marciume della Repubblica Pontificia. Chi fa leva sul bisogno delle masse di cambiare ma è legato alla borghesia e al clero, non può andare fino in fondo e finisce per invischiarsi nel vecchio. Tanto più rapidamente quanto più noi comunisti siamo presenti e lo incalziamo.

Sergio G.