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La Voce 44 del (nuovo)Partito comunista italiano

simbolo (n)PCI(nuovo) Partito comunista italiano - CdP Anna Maria Mantini

23 giugno 2013

Dissolvere l’inquietudine

 

Bisogna fare cose grandi e mai fatte prima, e questo genera inquietudine.

Essere inquieti, temere il fallimento, sono forme dell’influenza della borghesia imperialista tra le masse popolari. La borghesia imperialista infatti, dal lato suo, al di là dello spreco di propaganda che fa per mostrarsi onnipotente, è più che inquieta, anzi è terrificata perché non ha futuro, e non è in grado di comprendere chi invece guarda al futuro con tranquillità e fiducia. Dal lato nostro, di noi che facciamo parte delle masse popolari, la borghesia ha tutto l’interesse a che siamo intimoriti e sfiduciati, perché questo è un elemento fondamentale per la il mantenimento del suo regime.

 

La carovana del (nuovo)PCI opera per fare dell’Italia un nuovo paese socialista, obiettivo che riassume le cose grandi e nuove da fare e che si stanno facendo. Quelli che operano dentro la carovana del (nuovo)PCI da un lato sono tesi a realizzare questo obiettivo, e in quanto ne sono consapevoli e riescono nell’opera tanto più sono animati da fiducia e serenità. D’altro lato portano in sé i segni della società in cui vivono, ne respirano l’aria, e per questo sono assillati da inquietudine, dal timore di non riuscire, dall’incertezza che accompagna chi avanza in un terreno non esplorato. Questo si manifesta in due modi. Entrambi i modi hanno in comune il sentirsi inadeguati all’opera e si manifestano come opposti.

Un modo è quello di chi pensa che il Partito e i suoi dirigenti chiedono troppo, chiedono di fare cose che non si possono fare, e che questo avviene perché, secondo loro, i dirigenti non sono sul campo, non si rendono conto delle situazioni concrete in cui un compagno o una compagna operano. Il compagno o la compagna in questo caso si dichiarano nel giusto quando affermano la difficoltà eccessiva o addirittura l’impossibilità di una impresa, e rivolgono la loro critica ai dirigenti, che “pretendono l’impossibile”. L’atteggiamento del compagno o della compagna in questo caso è rivendicativo, analogo a quello di chi critica il padrone perché pretende troppo da lui o da lei oppure non gli/le fornisce strumenti adeguati. A questo atteggiamento segue un lavorare con fatica, senza gioia, e ci si appresta all’impresa come a un lavoro in più, terminato il quale ritornare all’andamento solito, come se questo lavoro non fosse destinato a trasformare loro stessi e l’ambiente, a creare la premessa per un lavoro di livello superiore (concatenazione), come se fosse un lavoro in qualche modo imposto da un estraneo.

Un modo opposto è quello di chi pensa che l’impresa è possibile, dato che vede altri compierla, e considera se stesso inadeguato a compierla per problemi suoi individuali. In questo caso i dirigenti avrebbero ragione, ma lui o lei non sarebbe adeguato all’impresa.

In entrambi i casi l’impresa è vista come una prova da superare o meno, animati/e da poca fiducia, spesso tesi/e a tirare i remi in barca di fronte agli ostacoli, poco attenti/e alle molte opportunità e molto ai problemi, sottolineati costantemente o, nel primo caso, a riprova del fatto che i dirigenti chiedono cose non fattibili o, nel secondo caso, a giustificazione dei propri limiti.

In entrambi i casi siamo al di qua della sponda del “largo burrone” di cui si parla nel Comunicato del Comitato centrale del (n)PCI n. 26 del 6 giugno 2013, rivolto ai promotori, aderenti e partecipanti dell’Assemblea del 22 giugno a Firenze. In entrambi i casi temiamo di non farcela e questo si manifesta come irritazione e ansia.

Il Comunicato n. 26 spiega come combattere questi sentimenti negativi. Ogni cosa che facciamo, grande o piccola che sia, non è un atto isolato, al termine del quale noi si debba essere valutati per quanto ha avuto successo o sconfitta, e nell’un caso e nell’altro stabilire meriti o responsabilità con sentenze definitive. Ogni cosa che facciamo è un passo di un percorso, e il suo successo vale solo in quanto ci consente di fare un altro passo da posizione più avanzata, ma anche una sconfitta avrebbe pari valore, se sappiamo trarne lezione. L’iniziativa che faremo domani è un punto di partenza, un momento di un percorso. “Certo è un percorso che conosciamo solo a grandi linee e ogni passo richiede attenzioni, iniziativa, analisi, sforzo e audacia, richiede di applicare il generale nel concreto. Ma è fattibile, benché ci sia sempre anche la possibilità di ruzzolare. Ma se non ci arrenderemo, passo dopo passo ci troveremo nelle condizioni di prendere il potere in mano e di essere sull’altra sponda del burrone, quella che ora pare la lontana e irraggiungibile sponda opposta a quella dove siamo. Ci troveremo a essere dove ora ci pare impossibile arrivare. Anche l’ultimo passo, quello con cui poseremo il piede sulla cima, sarà solo un passo. Ma si tratta di compiere il primo passo e poi proseguire un passo dopo l’altro. Anche la conquista del potere e l’instaurazione del socialismo sarà in definitiva solo un passo, l’ultimo dei molti che avremo fatto, difficile come quello che dobbiamo fare oggi, ma non più difficile di esso e di quelli che da qui ad allora avremo fatto. Oggi per ognuno si tratta solo di fare il primo passo.” (Comunicato CC 26/2013 - 16 giugno 2013)

Ogni passo è un punto, il percorso completo è una linea. Nel Partito e ancora di più fuori dal Partito si trovano difficoltà a mettere insieme le varie iniziative anche importanti che si fanno. Magari quando un’iniziativa ha successo, dopo non si sa che fare e magari a volte un’iniziativa nemmeno si fa perché sia che si perda sia che si vinca, dopo non si sa che fare. Sotto questo aspetto punto e linea sono opposti, come in geometria.

Ma ogni punto non è qualcosa di immobile e assoluto, è e non è qualcosa, è, come il presente, incrocio tra il passato e il futuro, e quindi si muove, e un punto che si muove fa una linea. Dall’altro lato, non c’è linea che non sia fatta di punti (di passi): la linea è un percorso concreto, non un dogma a fronte del quale inginocchiarsi. Sotto questo aspetto punti e linee sono lo stesso.

Quanto maggiore è la consapevolezza del legame tra ogni passo e il percorso integrale, la padronanza della linea, tanto più si dissolve l’inquietudine.

 

Un esempio. A un compagno o a una compagna che già si sentono oberati dagli impegni arriva una nuova indicazione operativa dai dirigenti di livello superiore, e la reazione è una di quelle sopra descritta: o i dirigenti non si rendono conto della situazione in cui sono o non si rendono conto dei limiti che ho. Questa reazione è generata dalla vecchia concezione del mondo, quella per cui io, ferma restando una determinata situazione (cioè presumendola non modificabile) e fermo restando quello che io sono (cioè presumendomi non modificabile) “faccio con generosità tutto quello che sono capace di fare, meglio che sono capace di fare”. (La Voce 41, luglio 2012, p. 48). Secondo la vecchia concezione del mondo una nuova indicazione operativa (bisogna partecipare a questa assemblea, bisogna studiare questo materiale, bisogna trovare mille euro, ecc.) è di troppo, sommato a quello che già si fa.

Noi però in nessun altro campo della nostra attività applichiamo la vecchia concezione del mondo, quella secondo cui né la situazione né noi ci trasformiamo.

Nell’ambito particolare del lavoro, ad esempio, vediamo bene che le cose cambiano di continuo, e se non cambiano in meglio (a favore nostro) cambiano in peggio (a favore del padrone). Infine, il lavoro è azione che trasforma la realtà per definizione.

Nell’ambito particolare della famiglia vediamo bene come le cose cambiano: chi ha figli, ad esempio, li vede crescere, e se non crescessero sarebbe drammatico, come ben sanno quelli cui capita di avere figli il cui sviluppo intellettivo si arresta.

Pensare quindi che solo nell’ambito generale della società le cose non cambiano (non le possiamo fare cambiare) e che noi stessi nella sostanza non cambiamo (andiamo sostanzialmente bene come siamo, quindi non è il caso di metterci in discussione, oppure è inutile farlo perché non abbiamo forza di cambiare) è una idea del senso comune la cui ragione di esistere è dovuta a pigrizia intellettuale e al fatto che fa molto comodo alla classe dominante.

Se a un compagno o a una compagna arriva una direttiva che non sono in grado di portare avanti oggettivamente (perché il tempo è quello che è, la giornata è fatta di 24 ore, eccetera) una soluzione (altre ce ne sono) sta nell’estendere le proprie fila: in un area dove opera uno si fa in modo che operino quattro, cioè si recluta. I compiti che sono non in eccesso, ma in crescita, vengono distribuiti.

Come reclutare, e con quali strumenti? Secondo la Tesi 102 del Terzo Congresso del Partito dei CARC “quanto maggiore è la padronanza della concezione comunista del mondo tanto più un compagno è in grado di orientare, di raccogliere e mobilitare le forze, di reclutare e tanto più alte sono quantità e qualità di ciò che si raccoglie (il terreno è fertile, il nostro paese è gravido di cambiamento e di rivoluzione, la quantità del raccolto dipende dalla qualità del nostro lavoro!). Infatti per convincere bisogna sapere quello che si dice ed esserne convinti.”

Invitiamo a riporre fiducia nella concezione comunista del mondo, e nei nostri dirigenti, e a trasformarsi, certi che così facendo trasformeranno i diretti e ne moltiplicheranno il numero.

 

Infatti, chi dà per scontato che, per un motivo o per l’altro, non si trasforma, come può trasformare chi gli sta intorno? Non è vero, forse, che molti di noi si fermano a costatare gli aspetti negativi di un compagno o di una compagna come fossero caratteristiche che non possono essere tolte, e quindi aggiungono alla critica nei confronti di chi ci dirige la critica a chi da noi è diretto?

 

Il Comitato di Partito A.M. Mantini chiede a compagni e compagne di riflettere seriamente su questi argomenti, che propone come valutazioni di carattere scientifico, che quindi vanno sperimentate nella propria situazione concreta, per verificare se sono strumenti adatti per superare i problemi descritti, tenendo conto che

1. o sono adatti, e quindi o si applicano e quindi il problema si risolve e siamo un passo avanti o, se non si applicano, ne derivano tutte le conseguenze negative di un agire contro una legge socialmente oggettiva (per il significato del termine, vedi Manifesto Programma, p. 264),

2. o non sono adatti, e quindi bisogna trovarne altri, perché ci servono strumenti per problemi reali, la cui risoluzione è obbligatoria al fine di preservare interessi e aspirazioni collettivi e individuali delle masse popolari del nostro paese.

Non intervenire nel modo adeguato per affrontare i problemi montanti sul piano politico, avrebbe esiti catastrofici, infatti, anche sul piano economico (del lavoro) e sul piano familiare, a livello esteso e capillare. Ne è prova quello che già succede nel paese.

D’altro lato, intervenire usando gli strumenti che abbiamo, mostra sempre più essere il modo che apre una via di sviluppo luminosa. Invitiamo quindi compagne e compagni a riporre fiducia nella scienza che il Partito sta elaborando, a sperimentarla, perché questa è la via giusta per costruire la rivoluzione.