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(n)PCI (nuovo)Partito comunista italiano

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Comunicato CC 27/10 - 12 novembre 2010

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I Congressi della Federazione della Sinistra devono servire a mobilitare per la costituzione del GBP i residui seguaci della sinistra borghese!

Un simpatizzante del (nuovo) Partito comunista italiano ha segnalato al Centro del (n)PCI l’articolo di Dino Greco L’insostenibile leggerezza della politica comparso in Liberazione di mercoledì 10 novembre e ha accompagnato la segnalazione con un suo commento. Riteniamo utile in questo fase della lotta politica del nostro paese portare il commento a conoscenza di tutti i lettori dei Comunicati CC perché ci riflettano: esso illumina l’azione che i comunisti devono compiere tra i residui seguaci della sinistra borghese e tra quei membri di essa che la corruzione morale e intellettuale insita in anni di collaborazione di classe, di interclassismo e di trasformismo non ha reso incapaci di capire e agire.

Riteniamo che la lettura del commento sarebbe utile a tutti i lettori di Liberazione e a quanti in un modo o nell’altro seguono con interesse gli sforzi dispiegati dall’ex ministro di Prodi e successore di Fausto Bertinotti, Paolo Ferrero e dai suoi vicini, per portare a nuova vita i frammenti della sinistra borghese. Probabilmente leggere il commento del nostro simpatizzante e riflettere su di esso sarebbe utile anche allo stesso autore dell’articolo, Dino Greco: infatti a priori non dubitiamo dell’onestà della sua ricerca di comprendere e di orientarsi, vista anche la virata che ha impresso a Liberazione, liberata finalmente dalla direzione apertamente anticomunista di Piero Sansonetti.

Per comodità dei nostri lettori, di seguito alla lettera del nostro simpatizzante riportiamo integralmente l’articolo di Dino Greco.

 


 

Cari compagni,

vi segnalo l’articolo allegato perché esprime efficacemente la contraddizione intellettuale in cui si dibatte non solo l’autore, ma migliaia di seguaci del PRC e della FdS in costruzione e in generale personalità e semplici seguaci della sinistra borghese.

“L’epilogo non è scritto nelle stelle”, scrive Dino Greco a proposito della situazione politica attuale del nostro paese, a conclusione del suo articolo. Al positivo, diciamo che la nostra storia la facciamo noi, a meno che ci limitiamo a osservare e commentare quello che succede e lasciamo che siano altri a farla.

Ma lo stesso DG poi ripetutamente afferma, addirittura nello stesso contesto, che non sa, addirittura che non è possibile sapere come le cose andranno a finire. Per un uomo politico è una confessione di impotenza, la conferma della resa! È la rinuncia dichiarata a far parte di quelli che decideranno loro come finiranno “gli ultimi giorni di Bisanzio” della Repubblica Pontificia. Se la storia del nostro paese la fanno le masse popolari, ogni loro esponente politico deve indicare quali sono gli sbocchi realistici dell’attuale corso delle cose, spiegare onestamente e apertamente quale lui sostiene e perché, indicare cosa fa e cosa bisogna fare (la quantità fa qualità) per realizzarlo.

In realtà, l’incoerenza tra le due posizioni esposte nell’articolo di DG illumina la natura della sinistra borghese e delle tribolazioni in cui per sua natura si dibatte in questo momento.

Da una parte vi è la reminiscenza del marxismo: sono gli uomini che fanno la loro storia, ovviamente non la fanno arbitrariamente, ma sulla base dei presupposti che si ritrovano e delle condizioni in cui si trovano, a loro volta eredità della storia che hanno alle spalle; la fanno usando quei presupposti secondo le leggi proprie che la società segue nella sua trasformazione che derivano dalla natura delle classi, degli organismi e dalle circostanze con cui si ha da fare nel caso determinato.

Dall’altra parte vi è la condizione pratica in cui si trova chi, per scelta consapevole o per aderenza al senso comune dominante nella sinistra borghese, rifiuta l’instaurazione del socialismo come obiettivo della fase e tanto più rifiuta la costituzione del Governo di Blocco Popolare come obiettivo immediato, corrispondente al fatto che l’aggregazione delle masse organizzate e in particolare della classe operaia attorno al partito comunista (in breve, la rinascita del movimento comunista) è ancora embrionale. La sinistra borghese, ivi compresi i frammenti in libertà che cercano di rimontare l’abisso in cui la linea di Fausto Bertinotti li ha precipitati, hanno gli occhi fissi sul Parlamento, come se fossero abbacinati dai vertici della Repubblica Pontificia. Non concepiscono altro mandato a governare che non venga da quei vertici. Forse addirittura non concepiscono per il nostro paese altro ordinamento che quello. Di certo non lo concepiscono praticamente, cioè come obiettivo possibile che si danno da fare per realizzare. Se si guardano le loro azioni, si vede solo la ricerca di una strada per riconquistare un seguito elettorale e, come premessa, riconquistare una certa fiducia delle masse che li hanno abbandonati.

DG dice che è impossibile prevedere come finirà la crisi politica in corso perché essa si svolge tutta e solo “tra le forze politiche che sono al governo del paese”. Quindi le masse popolari non possono fare la propria storia a prescindere da quelle forze politiche, contro di esse? DG non lo dice chiaramente, ma il suo sguardo è limitato alle forze politiche che compongono il teatrino della politica della Repubblica Pontificia.

Dei partiti che giostrano in questo teatrino, giustamente DG dice che non sono “la nomenclatura di classi” (non rappresentano ognuno una classe sociale) e che alle frenetiche manovre di questi partiti “non corrisponde una dinamica sociale altrettanto forte e visibile”.

Effettivamente i partiti che giostrano nel teatrino della politica della Repubblica Pontificia non rappresentano le classi che oggi fanno “la dinamica sociale”, ma che pure esistono: DG stesso cita il 16 ottobre. Ma se si guarda solo al teatrino, è giocoforza constatare che tra il paese politico e il paese reale vi è un abisso. I partiti che giostrano in quel teatrino rappresentano una sola e unica classe. Essi con i loro bisticci sono le controfigure dei gruppi di una sola classe, divisi tra loro da contrasti di interessi e da contrasti di orientamento su quale sia il modo più efficace per tenere in riga la massa della popolazione nel contesto della crisi.

Ma anche se non sono rappresentate in quel teatrino, le altre classi esistono e si agitano comunque. Forse DG pensa che per fare la propria storia queste classi devono essere rappresentate in quel teatrino? Questo è l’unico obiettivo che traspare chiaramente dall’attività dei frammenti in libertà della sinistra borghese. Da qui la ridda di questioni su come combinarsi o non combinarsi tra loro, se legarsi o non legarsi col PD e via cantando. DG non indica altro obiettivo per “le pratiche sociali, la democrazia partecipata, la vera rappresentanza del lavoro e la credibile, concreta progettualità” che auspica.

L’esperienza dei decenni passati dalla fine della Resistenza a oggi e, per chi ha la memoria corta, anche solo l’esperienza dei governi Prodi ha dimostrato che agli operai e alle altre classi delle masse popolari non basta essere rappresentate in quel teatrino. Tutto quello che hanno fatto e fanno i governi Berlusconi, lo hanno fatto anche i governi Prodi ed è la continuazione, in altre vesti e in un contesto internazionale che ha fatto la sua strada, di quello che prima hanno fatto i governi del CAF (Craxi, Andreotti, Forlani) e i successivi. Questo vale per tutti i campi che DG nomina (guerra, patto sociale, ridimensionamento del welfare, stretta sul lavoro, politiche fiscali e redistributive) e per altri ancora che non nomina: anche in tempi in cui la Repubblica Pontificia non doveva ancora fare i conti con la gravità che ora la crisi economica e la crisi ambientale hanno raggiunto.

Per chi non si limita a osservare le “manovre interne al palazzo” e ad aspettare di vedere “su quale disegno si fisserà, se si fisserà, il caleidoscopio politico” dei vertici della Repubblica Pontificia, per chi erige a guida della propria attività la tesi che la storia delle masse popolari “non è scritta nelle stelle” ma la possono fare le stesse masse popolari, la questione è: a quali condizioni le classi escluse dai vertici della Repubblica Pontificia possono fare esse stesse la loro storia?

Per fare maturare un progetto, bisogna averlo un progetto. Quale progetto ha DG? Per quale progetto scrive e fa propaganda? Per quale progetto esiste Liberazione?

DG denuncia i mali presenti, in particolare la riduzione in schiavitù dei migranti italiani e la natura antipopolare del governo Berlusconi. Del PD in poche parole DG fa una giusta fotografia: impotente perché la fotocopia val meno dell’originale. Il governo Prodi lo ha confermato e perfino Kossiga ha messo in piazza che D’Alema non è che uno zimbello degli imperialisti USA, per intelligente che si creda. Del progetto di Fini, DG dice giustamente che è una ripresa del progetto di Fiuggi, ora che Berlusconi ha definitivamente introdotto Fini nei vertici della Repubblica Pontificia (in sintesi: sdoganato) e che con tre anni di PdL si è liberato dei colonnelli che, se restava in piedi AN, Berlusconi comperava uno a uno. DG non dice però che comunque Fini non ha davanti a sé un futuro più lungo di quello della Repubblica Pontificia, anche se riuscirà a mettersi a capo del suo governo o a collocarvi un uomo di sua fiducia, che sia Draghi o Montezemolo: o DG pensa che la Repubblica Pontificia durerà a tempo indeterminato?

Ma nulla DG dice proprio di quella parte del paese che può fare il futuro: quali sono le potenzialità delle classi oppresse, ivi compresi i migranti italiani che da Rosarno a Brescia stanno dicendo con forza e generosità crescenti che qui sono e qui combatteranno con i lavoratori che in Italia ci sono anche nati; quale è l’azione che devono compiere intellettuali e militanti per mobilitare queste potenzialità e fare di esse una forza politica, capace di prendere in mano il paese e rimetterlo in sesto.

Implicitamente DG dice che lui e i suoi compagni non hanno “il baricentro ideologico nell’impresa”, che non considerano l’impresa “il soggetto propulsivo, procacciatore del bene comune”. Bene, ma come considerano le imprese, visto che gli operai ci lavorano e che i padroni le chiudono, le ristrutturano, le delocalizzano e il governo Prodi non è stato da meno del governo Berlusconi?

Più in generale, che prospettiva propongono agli operai e al resto delle masse popolari? Quale obiettivo danno e si danno per questi mesi? Che attività svolgono e propongono per realizzarlo? Queste sono le tre domande a cui bisogna rispondere. Ci sono queste risposte in Liberazione, nei discorsi che si fanno ai congressi della Federazione della Sinistra, nei documenti in discussione?

 

Il (n)PCI avanza un progetto: le Organizzazioni Operaie e le Organizzazioni Popolari devono formare un loro governo d’emergenza che ponga fine subito agli effetti più gravi della crisi e rimetta il paese sulla via del progresso; indica cosa il GBP dovrà fare, i criteri a cui a questo fine dovrà ispirare la sua azione; indica come le OO e le OP, che effettivamente esistono, possono arrivare a costituire un simile governo e ad imporlo ai vertici della Repubblica Pontificia; indica cosa i comunisti, tutti i militanti e gli intellettuali ancora capaci di capire e agire possono e devono fare, facendo leva sulla dinamica che già anima le OO e le OP che esistono, per portarle a compiere la loro opera storica. Nei recenti Comunicati, e più in dettaglio nell’ultimo numero 36 della rivista La Voce che è appena uscito, il (n)PCI indica il significato della manifestazione del 16 ottobre e del ruolo che con essa la FIOM ha assunto (confermato dallo scontro in atto nella CGIL con la destra capeggiata dalla ex collega di Maurizio Sacconi nella banda Craxiana, Susanna Camusso) e indica cosa i comunisti, tutti i militanti e gli intellettuali coscienti devono fare per sviluppare questo ruolo.

Questo è un progetto coerente, realistico, radicato in una analisi della crisi economica e ambientale che il corso delle cose conferma. Da tutto questo la sinistra borghese, Dino Greco compreso, rifugge. Non ne parla neanche (ognuno avrà i suoi motivi, ovviamente): ha gli occhi fissati sui vertici della Repubblica Pontificia e sul suo teatrino e si lamenta per quello che esso non è e non può essere. Ma a che serve lamentarsi, se non si sa e non si indica cosa fare?

DG dice che “il conflitto sociale oggi vive di troppo intermittenti sussulti”. È il solito lamento: “Le masse non ci seguono”. Ma dove devono seguirli: in un nuovo governo Prodi? “Le masse non lottano”: ma se pensano che le masse possono lottare con determinazione e con continuità senza prospettive, senza progetto, senza organizzazione, senza direzione, solo perché stanno male, che spieghino che cosa ci stanno a fare loro. Per parlare a nome delle masse in quel teatrino?

Certo, nella sinistra borghese, tra i residui seguaci e perfino tra gli esponenti, ci sono persone che la lunga pratica dell’interclassismo e la lunga frequentazione dei vertici della Repubblica Pontificia non hanno corrotto intellettualmente e moralmente al punto che oramai sono incapaci di capire e di fare. Per mobilitare questi, in primo luogo noi comunisti dobbiamo andare comunque avanti anche senza di loro e darci i mezzi per farlo (come stiamo facendo ma, certo, la quantità fa qualità) e, in secondo luogo, dobbiamo approfittare di ogni occasione e appiglio per metterli di fronte alle contraddizioni della loro posizione: così vediamo chi è ancora capace di capire e agire.

Per questo ultimo scopo vi segnalo l’articolo di Dino Greco.

  


L'insostenibile leggerezza della politica

di Dino Greco (da Liberazione mercoledì 10.11.2010)

 

Non è la cosa più agevole districarsi nel groviglio politico presente, distinguervi ciò che è "sostanza" e ciò che è "accidente", e azzardare previsioni, anche a breve termine, capaci di reggere per più di qualche giorno. Questa indeterminatezza degli scenari prossimi venturi dipende, in primo luogo, dal fatto che tutto si svolge in un perimetro ben delimitato: quello dei rapporti fra le forze politiche e, precisamente, fra quelle che sono al governo del Paese. Qui tutto sembra (e in effetti è) in vorticoso movimento, ma a questo bailamme, alle quotidiane convulsioni che scandiscono lo scontro fra i duellanti, non corrisponde una dinamica sociale altrettanto forte e visibile.

Una volta si poteva sostenere con sufficiente approssimazione al vero che “i partiti sono la nomenclatura delle classi”. Oggi, nel tempo del trionfo dell'interclassismo e del trasformismo, vale a dire dell'egemonia del capitale e del pensiero mercatista, tutti i partiti che siedono in parlamento hanno il loro baricentro ideologico nell'impresa, riconosciuta come soggetto propulsivo, procacciatore del bene comune. Questa fondamentale adiacenza culturale fa sì che la politica sia rappresentata o, per meglio dire, spacciata per un libero confronto fra idee, del tutto - o quasi - spogliate degli interessi ad esse sottesi.

La crisi economica rappresenta certo lo scenario di fondo entro cui si consuma l'autocombustione del governo. Ma non si può dire che a promuoverne lo smottamento stia concorrendo il conflitto sociale che oggi vive di troppo intermittenti sussulti, anche se carichi di potenzialità che si scorgono dietro eventi come la grande manifestazione promossa dalla FIOM lo scorso 16 ottobre. Il fatto è che la CGIL non riesce a guadare il fiume, a porsi alla guida di un movimento che avrebbe bisogno di una rappresentanza sindacale forte, non prigioniera di una coazione unitaria che rischia di riassorbirla dentro un sistema di relazioni industriali totalmente subalterne.

Lo sciopero generale, reclamato a gran forza dai metalmeccanici, non arriva mai, mentre in piena era Marchionne, con una Confindustria che chiede tagli sempre più robusti al welfare, più fatica e meno diritti al lavoro e di fronte ad un governo che dopo l'approvazione del "collegato lavoro" si appresta a mettere le mani sullo statuto dei lavoratori, il tema che tiene banco è quello di un patto sociale per la produttività dal quale i lavoratori non hanno nulla da guadagnare e tutto da perdere. Chiude il cerchio l'evanescenza politica del PD, la sua manifesta incapacità - giunta allo stadio cronico - di schierarsi nel conflitto fra capitale e lavoro. Che una volta espunto e reso ininfluente rispetto alla dinamica politica, ne consegna l'evoluzione, puramente e semplicemente, alle manovre interne al palazzo.

Per non prendere lucciole per lanterne, allora, servirebbe capire che Gianfranco Fini non sta preparando la transumanza della sua neonata formazione politica verso una contiguità con il centrosinistra, bensì un aggiornamento culturale (vero) della destra che egli si candida a guidare dentro una riarticolazione (non uno sbancamento) dei rapporti di coalizione. Non sorprenderebbe, perciò, se un nuovo patto che contemplasse un trapasso di leadership, implicasse persino il viatico al Quirinale del caudillo di Arcore. Se è vero che l'uomo di Fiuggi ha davvero in mente quella destra europea, liberale, parlamentare e non più cripto-golpista (ancorché presidenzialista) di cui si parla, lo è altrettanto che sempre di destra trattasi.

Si compia il banale esercizio di esaminare i contenuti della politica sociale di FLI per togliersi ogni dubbio in proposito: politica estera (la guerra), economica (il patto di stabilità), sociale (ridimensionamento del welfare, stretta sul lavoro, politiche fiscali e redistributive). Né risulta che i finiani abbiano alzato la voce, o intendano alzarla, di fronte all'annichilimento di ogni diritto e alla riduzione in schiavitù che i migranti italiani stanno subendo.

Si può semmai osservare che neppure i cosiddetti riformisti coltivino ambizioni troppo diverse: non la neo-ortodossia vagamente socialdemocratica di Bersani, non la (apparente) furia demolitrice dei giovani "rottamatori" che vorrebbero sostituire la nomenclatura del Pd, tanto meno il moderatismo parademocristiano di Enrico Letta.

In questo quadro, dove l'opposizione istituzionale si affida a metamorfosi interne al centrodestra, del tutto inabile a produrre fatti in proprio, il gioco politico è nelle mani di Umberto Bossi, investito dai due cofondatori del PdL del compito di escogitare una mediazione che - incassato il federalismo - prepari l'avvicendamento alla guida del centrodestra, assicurando nel contempo a Berlusconi un futuro istituzionale e - ovviamente - l'agognato salvacondotto giudiziario.

In questo clima da ultimi giorni di Bisanzio, mentre l'Italia affoga (non metaforicamente), nessuno può dire su quale disegno si fisserà, se si fisserà, il caleidoscopio politico.

Resta da dire che ci sarebbe molto spazio a manca, se invece di improbabili, taumaturgiche illusioni entriste nel nuovo Ulivo, maturasse un progetto di unità a sinistra capace di una narrazione fatta non solo di parole, di fascinazione mediatica, ma di pratiche sociali, di democrazia partecipata, di vera rappresentanza del lavoro, di credibile, concreta progettualità. Finché questa salutare intenzione non penetrerà nel sistema venoso dell'arcipelago della sinistra dovremo scontare altre delusioni. Ma non potremo dire che un simile epilogo fosse scritto nelle stelle.