Scritti del movimento comunista italiano

 

Risposta di un comunista unitario al compagno Lenin 

G.M. Serrati

Dall’Avanti! del 16 dicembre 1920 (edizione piemontese)

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Presentazione della redazione di La Voce

Giacinto Menotti Serrati (1876-1926) era direttore dell’Avanti dal 1914, quando si dimise Benito Mussolini (assoldato dal governo francese perché si schierasse per l’intervento dell’Italia nella Grande Guerra a fianco della Francia). Serrati ha avuto un ruolo importante nella nascita del Partito comunista italiano e nell’indirizzo da esso preso nei primi anni di vita: dal suo schieramento dipese il fatto che a Livorno nel gennaio 1921 il futuro PCI nacque composto in maggioranza dagli esponenti dell’“estremismo comunista” e sotto la direzione del loro capofila (Amadeo Bordiga) che pochi mesi prima Lenin aveva addirittura escluso che al momento potessero, in Italia e negli altri paesi imperialisti, far parte dei nascenti partiti comunisti (L’estremismo, malattia infantile del comunismo, aprile-maggio 1920). Serrati ammise poco dopo l’errore che aveva fatto, divenne membro del Partito comunista e fu nel corso di un’operazione del Partito che morì nel 1926.

La sua lettera aperta, pubblicata alla vigilia del Congresso del PSI a Livorno che doveva decidere dell’adesione all’Internazionale Comunista, è oggi interessante per vari motivi. Il principale è che essa mette in luce un tipo di dirigente comunista da cui dobbiamo particolarmente guardarci in questo periodo di lotta per la rinascita del movimento comunista: un comunista ammirato e degno di rispetto per disinteresse personale, dedizione alla causa, altruismo e resistenza alla repressione, ma alieno dal dedicarsi a comprendere adeguatamente le condizioni della lotta di classe e in generale dall’assimilare la scienza delle attività con le quali gli uomini fanno la loro storia e quindi raggiungere quella comprensione più avanzata delle condizioni, delle forme e dei risultati della lotta di classe che rende i comunisti capaci di spingerla in avanti fino all’instaurazione del socialismo e alla transizione al comunismo.

A Lenin che spinge i migliori dei socialisti dei paesi imperialisti a mettersi alla testa delle masse popolari in rivolta (in Italia siamo nel Biennio Rosso: gli anni dell’immediato dopoguerra, dell’occupazione delle fabbriche da parte degli operai, dell’invasione delle terre da parte dei contadini, del fermento dei milioni di reduci da anni di trincea, di incertezza della borghesia e di paralisi di vari suoi apparati politici), Serrati contrappone le difficoltà oggettive della rivoluzione socialista, i vizi e le arretratezze di tanti ferventi rivoluzionari, le capacità professionali dei dirigenti riformisti, il proprio altruismo e anche eroismo personali.

Comunisti unitari si dicevano i membri del PSI che volevano aderire all’Internazionale Comunista ma senza rompere con i riformisti dirigenti del PSI (Turati, Treves, Modigliani e altri), come l’IC aveva stabilito nell’estate del 1920, al suo II Congresso, con le 21 condizioni alle quali avrebbe accettato i partiti socialisti nelle proprie file.

Le pochissime note tra parentesi quadre inserite nel testo di G.M. Serrati sono della redazione di La Voce.



Caro compagno Lenin,

già al Congresso di Mosca [II Congresso dell’IC 18 luglio - 7 agosto 1920] io vi dissi - in adunanza generale - quanto sia difficile e penoso per un modesto compagno, quale io sono e quali erano gran parte dei delegati a quel congresso - il porsi in discussione con voi. Difficile perché voi avete attorno tutta la potente suggestione che promana dall’uomo che ha voluto, che ha fatto la rivoluzione proletaria e la difende, con forza e con sagacia, contro un mondo di nemici. Penoso perché il discutere può parere alle anime ingenue una specie di avversione e può dar pretesto ai nemici del proletariato per interpretazioni false e maligne ai danni della rivoluzione proletaria internazionale, mentre io non mi sono mai sentito tanto rivoluzionario e così preso dalla coscienza della necessità ineluttabile del moto finale come oggi che pure affronto tante discussioni e tante polemiche.

Obbedisco tuttavia ad un dovere imperioso della mia coscienza tentando di superare la difficoltà e la pena.

Prendo atto della vostra dichiarazione che quando voi fate dei nomi di dirigenti da espellere dal partito, non intendete indicare delle persone ma delle correnti di idee. Vi faccio però osservare che fare un nome prima ed il tacerlo poi, da parte vostra non poteva non dare luogo a interpretazioni diverse, sia per ciò che si riferisce alle persone che alle correnti di idee da esse rappresentate. Si sapeva d’altra parte che, in Francia, il fatto della precisa indicazione del nome di Longuet fra i dirigenti da espellere aveva creato un certo disagio nelle file del partito. Si poteva argomentare che - avendo voi, poi, taciuto quel nome - da parte vostra e da parte del Comitato esecutivo della Terza Internazionale, si fosse venuti a più miti consigli. Donde il mio commento al vostro articolo era del tutto naturale e più naturale mi pare oggi mentre rileggo le dichiarazioni fatte dal comunista Frossard al Congresso della CGT a Orleans e alla riunione della Federazione della Seine a Parigi e la mozione che i “comunisti” francesi - mozione che credo combinata fra Zinoviev e Renault ad Halle - presenteranno al prossimo Congresso di Tours. Quelle dichiarazioni e quella mozione contengono concetti che sono in contrasto con i ventuno punti e con le tesi di Mosca [documenti approvati dal II Congresso dell’IC tenuto a Mosca], eppure in Francia, con queste riserve - e con la storia recente del PS francese - si entra a vele spiegate nella Terza Internazionale!

Né si offende perciò la vostra rigidezza programmatica. “Si possono tenere i riformisti nelle file del partito?”.

A questa vostra domanda permettetemi che io risponda con un’altra: “Chi sono i riformisti?”.

Se - come pare dalla vostra lettera - i riformisti sono coloro che vogliono la collaborazione di classe, intendono andare al potere con la borghesia, fanno opera controrivoluzionaria e potrebbero, quando che sia, tramutarsi in tanti Scheidemann e Noske del nostro paese, voi avete ragione e io sono con voi per l’espulsione.

Ma questi “riformisti” noi li abbiamo espulsi dal nostro Partito fino dal Congresso di Reggio Emilia [1912], ed essi sono ora ben lontani da noi. Gli attuali - Turati, Treves, Modigliani ed altri la cui politica io non approvo e non difendo, i cui errori tattici sempre per primo e tenacemente combattei - sono quelli che in parlamento hanno difeso la rivoluzione russa, provocandone il riconoscimento di fatto. Sono quelli ai quali uno dei vostri rappresentati in Italia - l’ing. Vodovosov - due mesi fa - per incarico del vostro Governo - si rivolgeva perché intervenissero a nome del gruppo parlamentare presso Giolitti onde ottenere certe concessioni. E fummo noi che ci opponemmo a simile sollecitazione! Sono quelli che ieri ancora per la difesa del nostro partito, assalito dalla reazione, ebbero l’incarico da tutto il gruppo, anche dai comunisti “puri” e parlarono anche a nome loro e col loro plauso. Né io so che, mai, nel parlamento italiano, si sia levata una voce di deputato comunista a fare discorsi più accesi di quelli fatti da loro, a proporre decisioni ed azioni più consone al programma della Terza Internazionale, di quelle da loro proposte. Nessuno. Mai.

Senonché a me, ripeto, non preme affatto la difesa degli uomini che voi chiamate riformisti. Io guardo più in alto e più lontano. Guardo al partito, al proletariato, alla rivoluzione.

Voi dite che io sono contro l’espulsione perché essa scinderebbe il partito, i sindacati, le cooperative, le municipalità. No, compagno. Io sono contro l’espulsione perché comprometterebbe il successo della rivoluzione sia nella fase della demolizione sia in quella, soprattutto, della ricostruzione.

La mancanza di uomini, che io lamento e deploro nel nostro partito, non mi preoccupa tanto per gli errori normali di amministrazione e di organizzazione, errori che sono deplorevoli, ma anche inevitabili e, in pari tempo, correggibili; mi preoccupo per gli errori rivoluzionari, che possono essere decisivi in un periodo critico. L’abbiamo visto negli ultimi avvenimenti di Bologna, dove forse sarebbe bastato un uomo più cosciente delle proprie responsabilità per impedire l’attuale situazione quanto mai difficile e dolorosa.

Non vi è contrasto ed opposizione tra questa mia preoccupazione di salvare gli organismi proletari e la vostra di salvare la rivoluzione. Esse anzi si completano. Sono la stessa cosa. Non vi è possibilità di azione rivoluzionaria, se non si conservano integre e compatte le forze delle nostre istituzioni. Sentirsi tutto intimamente preso da questa passione unitaria, farne lo scopo della propria attività - mentre i nostri nemici soffiano nel fuoco della discordia - non è, compagno Lenin, andare a destra. È restare al proprio posto, a compiere tutto il proprio dovere per quanto possa essere amaro. Un opportunista non terrebbe il mio atteggiamento, no certo. E io vi aggiungo che, quando fosse necessario alla salvezza della rivoluzione proletaria e del mio partito, io saprei avere anche il coraggio di fare qualche passo a destra, come voi stesso ammettete possibile a seconda delle necessità delle circostanze.

Non fatemi dunque comparire nella veste ridicola di chi ha posto sulla bilancia da una parte la rivoluzione, dall’altra la salvezza dell’amministrazione comunale di Milano e questa a quella preferisce. No. Non c’è antagonismo - ripeto - tra il voler salvare tutto il partito - con tutti i suoi elementi costitutivi, coi suoi organismi politici ed economici - e la salvezza della rivoluzione - anzi v’è concomitanza di intenti e di sforzi. E nessun socialista italiano - oso dirlo - anteporrebbe mai il piccolo interesse locale o particolare all’interesse della rivoluzione nazionale ed internazionale. Nessuno.

Se io fossi perfettamente d’accordo con voi - o meglio, con i vostri informatori - circa la valutazione del momento storico che l’Italia attraversa, se cioè io fossi persuaso, come voi siete, che il problema della rivoluzione in Italia è solo un problema di “capi”, che vi sono cioè tutti gli elementi e mancano soltanto gli uomini per un’azione immediata, non esiterei a dichiararmi con voi concorde nella necessità di scartare dai posti di responsabilità e forse anche dal partito non solo i riformisti, ma anche i comunisti esitanti.

Ma, in questo argomento, il dissenso non è soltanto nelle file della destra o nelle nostre. Il dissenso esiste anche fra i “puri”, tanto che, mentre taluni credono davvero che chi impedisce alla rivoluzione il suo fatale andare sia la barba di Modigliani, altri non hanno concezioni così limitate ed infantili. Pochi poi, io penso, sono d’accordo con voi circa l’aiuto che alla rivoluzione italiana potrebbe venire oltre che dalla rivoluzione dell’Europa centrale, anche dall’Inghilterra, dalla Francia e dagli Stati Uniti per la rivoluzione che in quei paesi dovrebbe, per vostro ordine, essere affrettata.

Vi sono, dunque, degli esitanti anche nelle file dei “puri”.

Sono egualmente informato, caro compagno, di quanto avvenne al tempo della rivoluzione bolscevica di ottobre, quando voi vi batteste con ostinato accanimento contro coloro che non avevano fiducia nel successo rivoluzionario e - nel momento del rischio - abbandonarono ostentatamente tutte le cariche pubbliche. So anche che in quei giorni voi avete scritto contro Zinoviev un periodo del genere: “Conosco da molti anni Gregorio Zinoviev, l’ho sempre ritenuto un deficiente, non lo ritenevo un vile”. Voi avete qualche volta di queste espressioni che cavano la pelle: ma il vostro giudizio non ha impedito all’amico vostro di diventare, più tardi, presidente della Terza Internazionale! Il che significa che vi sono dei giudizi che hanno un valore per il momento in cui sono pronunciati e non offendono perché sono dettati da vivo affetto per la causa comune. Chissà che un giorno voi non siate indotto a mutare giudizio nei nostri riguardi! Dal canto nostro vi assicuriamo che o come dirigenti o come semplici gregari, non avremo “mai esitazione alcuna nel difendere la causa proletaria”. Né l’abbiamo mai avuta, né l’abbiamo ora. E non sarà necessario che voi ci mettiate da parte per dopo il periodo decisivo della lotta. È nella lotta che noi vogliamo fare tutto il nostro dovere, come l’abbiamo sempre fatto, quanto ogni altro rivoluzionario di ogni altro paese, e senza incitamenti e senza reprimende.

Temiamo però assai che voi non siate pienamente aggiornato sulla situazione italiana. Voi infatti dite che nel nostro paese “il proletariato ha mostrato la sua capacità di insorgere e di fare insorgere le masse in un potente movimento rivoluzionario. I contadini poveri e il semiproletariato hanno mostrato di essere capaci di insorgere e di elevarsi all’altezza della lotta rivoluzionaria insieme al proletariato”.

Queste vostre affermazioni sono troppo categoriche perché io non mi debba permettere di precisare i fatti. In Italia - tranne l’episodio di Ancona - un’insurrezione vera e propria non v’è stata ancora. La presa di possesso delle fabbriche fu un avvenimento grandioso veramente; ma essa - deliberata dalla organizzazione metallurgica che è capeggiata da riformisti - s’è svolta dinanzi alla completa passività del governo, il quale, ai fini della propria politica, non ne ha neppure tentato la repressione. Quando si trattò di dare al fatto uno sviluppo rivoluzionario - secondo quanto proponeva la direzione del partito - non furono soltanto i dirigenti della Confederazione generale del 1avoro, ma anche, e per i primi, i rappresentanti dei lavoratori torinesi (Tasca) coloro che sconsigliarono il tentativo. Non è il caso dunque “di parlare di dimostrazione della capacità insurrezionale, là dove non vi era stata insurrezione alcuna, ma solo un largo e profondo movimento sindacale - salvo qualche incidente sporadico - totalmente pacifico.

L’agitazione dei contadini per l’occupazione delle campagne è avvenuta in tempo e luogo assai diverso e, purtroppo poi, senza alcuna intesa col proletariato della città e per il possesso privato della terra. L’agitazione - capeggiata da partiti monarchici e conservatori, quasi dovunque - ebbe anch’essa un carattere pacifico e fu solo in qualche località che la folla, tranquilla sempre, guidata dai nostri, lasciò qualche morto sul terreno. Ma anche in tal caso non vi furono vere e proprie insurrezioni. Vi furono solo, dolorosamente, delle fucilazioni.

Dove noi abbiamo nostre organizzazioni di contadini il problema agrario si pone ben diversamente. Non si tratta più, là, della ripartizione delle terre, ma della proprietà collettiva e della lavorazione in comune mediante le associazioni dei lavoratori. E le agitazioni che si compiono in tali località rivestono veramente il carattere di movimenti di classe.

Non bisogna dimenticare che anche in Italia - paese a densa popolazione, dalle forme economiche le più diverse, con una storia assai antica e temperamento scettico ed utilitario - i partiti si modellano secondo l’ambiente. La divisione delle terre e la creazione della piccola proprietà agraria è nel programma dei partiti conservatori - popolari e combattenti. Fa persino parte del proposito del governo e quindi quelle invasioni delle terre che voi avete viste come avvenimenti rivoluzionari e che, come tali, Zinoviev magnificò al Congresso di Halle, se furono indici di una situazione dolorosa, furono però anche manifestazioni, in parte almeno, gradite ai privilegiati. Il partito socialista non vi entrò che in parte e non poteva esservi di più. Ricordatevi che in Sicilia - dove quelle invasioni avvennero - i socialisti sono pochi, sono perseguitati, sono uccisi a tradimento e la divisione nelle loro file non migliorerebbe certo questa disgraziata situazione.

E veniamo ora ad un argomento assai scabroso. Voi dite che il proletariato italiano si trova di fronte ad uno dei periodi più difficili e che sarebbe superficiale e criminoso chiudere gli occhi dinanzi a queste difficoltà e mi rimproverate perché ho pubblicato in Comunismo un articolo non mio, ma di P.K., nel quale si cercava di dare una versione meno pessimistica della vera situazione italiana. Quelli che conoscono l’opera nostra sanno che noi - pur affermando sempre che queste difficoltà non possono trattenerci dal compiere tutto il nostro dovere - abbiamo costantemente posto dinanzi agli occhi dei compagni e dei proletari la necessità di valutare serenamente e con coraggio tutti gli ostacoli che la rivoluzione incontrerà sul suo cammino. Ma in Italia basta fare questa opera onesta di coraggiosa valutazione delle proprie forze e delle avverse per essere chiamati “pompieri”. Basta accennare ai dolorosi errori commessi dalla vostra rivoluzione e da voi ammessi - allo scopo di evitarli, per essere tacciati da controrivoluzionari. Basta esporre, non con intento critico, ma con desiderio di giovamento e di esempio, le difficoltà da voi attraversate, per trovarsi di fronte all’accusa di calunniatori della rivoluzione, tanta è l’infatuazione miracolistica di alcuni compagni pieni di ottimo sentimento, ma troppo ancora lontani dalla mentalità socialista.

E voi ora ci ripetete quanto già ci avevate scritto opportunamente nell’ottobre ‘19 che “il blocco dell’Italia da parte della Francia, dell’Inghilterra e degli Stati Uniti, se il proletariato riesce vittorioso, è non solo possibile, ma molto verosimile”. Siamo dello stesso avviso e l’abbiamo scritto a parecchie riprese e siamo anche dello stesso avviso che, nonostante la possibilità del terribile blocco, noi dovremo agire egualmente, anche senza attendere ipotetici aiuti dal di fuori. Ma non pare a voi - dopo questa serena valutazione di fatto - di trovarvi in contraddizione con voi stesso quando poi promettete di affrettare la rivoluzione in Inghilterra e in Francia?

Noi conosciamo la situazione internazionale forse quanto voi, almeno per ciò che si riferisce ai paesi occidentali e sappiamo che, purtroppo, i partiti comunisti non vi hanno tale influenza da potervi compiere dei seri movimenti di massa in aiuto di una rivoluzione estera. Il tradimento del 20-21 luglio ‘19 ci ha ammaestrati.

In Inghilterra - nonostante i deliberati di Mosca - l’unità fra comunisti è di là da venire e le forze delle nove diverse frazioni sono tutt’altro che tali da incutere qualche timore agli avversari. Forse non contano in tutto cinquantamila membri, non hanno un solo quotidiano ed i loro settimanali vivono di stenti e di aiuti vostri.

In Francia, il partito - con i se, i ma, ed i forse di Frossard - aderirà per convenienza alla Terza Internazionale; ma sarà vano domandargli un’azione decisiva in aiuto nostro o di altri, data la sua poca efficienza numerica e politica e dato l’ambiente politico nazionale completamente reazionario.

Negli Stati Uniti le cose non vanno meglio. L’unità delle varie frazioni comuniste non è stata ancora raggiunta ed esse sono totalmente stremate in confronto della potenza del movimento sindacale puro e semplice e della reazione violenta che oramai da oltre due anni perseguita accanitamente quei nostri compagni. Non credo che le loro forze siano tali, oggi, da poter lasciar concepire anche il più lontano barlume di speranza intorno ad un qualsiasi moto rivoluzionario. Le notizie che ricevo d’oltre oceano sono tutt’altro che rosee.

Nei paesi degli ex-Imperi centrali - anche là dove la sconfitta bellica e la crisi, che ne è conseguita, parevano far sperare più rapidi successi alla marcia rivoluzionaria - si attraversa un periodo di stasi, per non dire di regresso.

Non parlo dell’Ungheria dove il moto - sconfitto non tanto per la condotta dei social-democratici, quanto per le ragioni veramente marxiste elencate da Trotski - ha dato luogo alla reazione che tenacemente imperversa contro i nostri migliori. Ma in Austria, nella stessa Germania - dove pure voi siete giustamente riusciti a sbloccare gli Indipendenti - la situazione non è più rivoluzionaria oggi di ieri. Dovunque la borghesia risolleva la testa, si riorganizza, approfitta dei nostri movimenti stessi per procurarsi un’amnistia dal nemico esterno ed oppone la sua forza organizzata a quello interno. Il bolscevismo ha servito il nazionalismo. In Baviera si parla apertamente di restaurazione e se ne parla, dove più, dove meno, in tutta la Germania.

Forse nei paesi balcanici - tormentati più di ogni altro dalla crisi postbellica – vi era fino a poco tempo fa un movimento proletario e rivoluzionario considerevole e tale da poter fare concepire speranza per un’azione combinata. Ma anche là, la reazione è sopraggiunta. In Romania, in Bulgaria, in Jugoslavia le cose sono ora assai mutate, e non è, d’altra parte, da paesi tanto poveri di materie prime e di prodotti agricoli ed industriali che il nostro paese può aspettarsi un ristoro qualsiasi in caso di una rivoluzione.

Quanto ai paesi nordici essi sono in condizioni economiche, morali e politiche tali che non credo che voi vi facciate illusione qualsiasi circa una relativamente prossima insurrezione proletaria colà.

In questa situazione internazionale l’unico paese - dopo la Russia - che si trovi socialisticamente in buone condizioni di lotta contro la borghesia, è l’Italia. Qui, anche se “vittoriosi”, tutte le storture economiche, politiche, morali dei vinti. Qui, più che altrove, la crisi, qui il disagio, qui l’irritazione. Qui, in pari tempo, una preparazione politica delle masse ed un’organizzazione economica - proporzionalmente - migliore che altrove. Il nostro partito conta 250.000 membri, ha 150 deputati alla Camera, 2.500 Comuni. Le organizzazioni economiche di resistenza raggruppano oltre due milioni e mezzo di aderenti. Le cooperative che seguono le nostre direttive si contano a migliaia. Abbiamo il terreno ed i materiali per la ricostruzione. Per la massa dei nostri compagni non c’è dissenso fra quelle che si sono chiamate le due anime: anzi esse non sono che un’anima sola, realizzatrice ed avveniristica, per la conquista immediata e per la rivoluzione: un’anima socialista e rivoluzionaria.

Come pensare che, seminando in quest’anima, fattivamente creatrice, lo sfacelo e la disgregazione, si possa compiere opera rivoluzionaria? Come credere che i comunisti “puri”, una volta separati dal grosso del partito possano dar mano all’azione? Ma davvero voi pensate che siano stati Turati e D’Aragona - novelli Giosuè! - a fermare il sole della rivoluzione? Questa concezione è fenomenalmente miracolistica ed antimarxista.

La rivoluzione non è un atto magico di questo o di quel “capo”, anche se le influenze personali hanno in esse concomitanza di circostanze varie e diverse, di elementi molteplici che insieme si sommano e cospirano, in un dato momento storico, alla soluzione di una crisi che ha cause economiche radicate e profonde. Credere che i comunisti “puri” in Italia faranno la rivoluzione quando si saranno liberati di Modigliani o di Turati, e proclamarlo, vale quanto diminuire la portata e il significato della rivoluzione diffondendo tra le masse quei pregiudizi miracolistici e faciloni che sono tanto esiziali al nostro movimento e che voi ci avete spesso consigliato di evitare e combattere.

Queste cose le nostre masse - che hanno viva l’intelligenza e assai sviluppato lo spirito critico - le comprendono a perfezione.

Non discuto la vostra proposta di sostituire i vecchi dirigenti con dei nuovi comunisti in tutte le organizzazioni proletarie, non solo politiche, ma anche sindacali, cooperative, di coltura, ecc. So che, in Italia, la cosa vi riuscirà un poco difficile, perché degli uomini ne abbiamo pochini. Può darsi che parecchi, degli ultimi venuti, vi si dichiarino comunisti ad oltranza per afferrare il potere. E questo sarà un grave pericolo.

Questo pericolo voi lo conoscete, perché è uno dei più dolorosi che la vostra Repubblica attraversa. Il vostro partito, dalla Rivoluzione di ottobre ad oggi, ha sestuplicato i propri membri, ma, nonostante la vostra strettissima disciplina e le periodiche revisioni, non ha guadagnato molto in qualità. È corsa a voi, perché siete forti, tutta la marmaglia abituata a mettersi al servizio dei forti. I meriti della rivoluzione sono vostri: gli errori e le infamie sono di costoro, che voi chiamate “i pescecani della rivoluzione”. Sono essi che hanno costituito quella burocrazia, cieca e feroce, che sta per crearsi un nuovo privilegio nella Repubblica sovietica, mentre la folla operaia e contadina, paziente e rassegnata, sente tutta la grandezza della sua rivoluzione contro tutti i privilegi.

Sono questi nuovi venuti, questi rivoluzionari del giorno dopo, che - esagerando nell’interpretazione - hanno fatto del terrore un fine, là dove per voi era ed è un mezzo. Sono essi che della rivoluzione proletaria, attraverso le sofferenze delle masse, si sono fatti uno strumento di godimento e di dominio.

Ammaestrati dall’esperienza nostra e vostra, noi vogliamo andare coi piedi di piombo prima di accettare come la più pura delle perle chiunque ci si mostri in veste di comunista nuovissimo e prima di affidargli la direzione del nostro movimento, tanto più se fu fino a ieri un fautore della guerra, della sacra unione e della partecipazione al governo.

Mi consta però che le disposizioni del paragrafo 8 della tesi sui “Compiti fondamentali dell’Internazionale Comunista” sono state per i francesi alquanto allargate e mi consta egualmente che ad Halle, Zinoviev concesse a Renault anche qualche altra larghezza interpretativa per ciò che si riferisce al comma 20 della tesi circa le condizioni di ammissione. E il fatto risulta dai discorsi di Frossard e dagli articoli dell’Humanité.

Epurate dunque il partito, compagni, e liberatelo da tutti gli incerti e da tutti i tentennanti; ma guardatevi dalle improvvisazioni, le quali sono spesso assai pericolose.

Quanto a noi, personalmente, crediamo che voi non ci conosciate se ci credete capaci di disertare dal nostro posto nel momento dell’azione. Potremo non accettare il compito di dare degli ordini ripugnanti alla coscienza ed alla nostra ragione, ma non ci sottrarremo mai dal compiere il nostro dovere. Vero è che l’episodio da voi tirato di Zinoviev e compagni, dimessisi nel momento della crisi rivoluzionaria e tornati a rivoluzione trionfante, potrebbe incoraggiare qualcuno ad imitare l’esempio del presidente della Terza Internazionale. Tuttavia noi pensiamo che, fra i vostri amici, ritiratisi in buon ordine per tornare più tardi e gli uomini della Confederazione generale del lavoro italiana, offertisi di operare come semplici soldati anziché come capitani, ci corre non breve tratto. E poiché, nonostante quella ritirata, i Zinoviev, i Kamenev, i Rykov, i Miliutin e compagni - traditori allora! - hanno potuto tornare più tardi al vostro fianco, noi dobbiamo essere tratti a considerare che i “tradimenti” sono fiori del vostro linguaggio, immagini della vostra letteratura. Sono “tradimenti” retorici.

Noi resteremo dunque e faremo il nostro dovere, che non è soltanto quello di obbedire ai vostri ordini, ma anche di dire la nostra opinione apertamente a tutti ed anche a voi, come sempre si è usato nel Partito socialista internazionale.

Concludendo. Noi non siamo dei difensori dei riformisti. Difendiamo il partito, il proletariato, la rivoluzione da una insana mania di distruzione e di demolizione. Difendiamo l’unità del movimento socialista rivoluzionario perché esso possa affrontare le difficoltà ed i sacrifici del domani per l’opera negativa e per quella di ricostruzione.

La borghesia italiana ha già cominciato la sua azione reazionaria. In ogni paese la borghesia organizza la sua resistenza contro il proletariato. È iniziato oggi il periodo del contrattacco borghese in risposta all’attacco sferrato dalle classi lavoratrici dal giorno dell’armistizio fino ad oggi. Il capitalismo italiano - forte del potere dello Stato, forte della sua polizia e della sua magistratura, forte dell’esercito che è ancora in piena efficienza - non è disposto a cedere le armi e va organizzandosi strettamente, serrando le proprie fila. Le ultime elezioni amministrative ed i recenti episodi di qualche città italiana - come Pola, Trieste, Bologna, ecc. - hanno provato a sufficienza come la classe dominante intenda opporre il proprio blocco strettissimo al risoluto procedere della classe lavoratrice. Giolitti - che è il più cinico rappresentante della borghesia - mira a sfasciare il nostro movimento per dominarlo, soffocando gli estremi di sinistra con la repressione violenta, lusingando gli estremi di destra con gli atteggiamenti riformatori. Noi, che non siamo dei centristi, chiediamo soltanto alla Terza Internazionale che essa applichi a noi, come li applica ad altri, i suoi stessi criteri: ci lasci cioè giudici della situazione che si matura e dei provvedimenti da prendersi in essa, per la difesa del movimento socialista italiano.

Gregorio Zinoviev ha scritto:

L’Internazionale comunista non ha naturalmente l’intenzione di foggiare tutti partiti sulla medesima forma. L’Internazionale comunista ha provato non soltanto con le parole, ma di fatto che sa tener conto di tutta la diversità di condizioni nelle quali i diversi partiti vivono e lottano. L’Internazionale comunista riconosce sicuramente che vi è uno sviluppo di questioni locali che bisogna risolvere secondo le esigenze dei diversi partiti”.

Chiediamo che si applichi anche per noi questo criterio, relativista, pienamente conforme al nostro pensiero ed alla necessità del nostro movimento.

Alcuni compagni di Francia, membri influenti del comitato della Terza Internazionale, fino dal 13 ottobre così ci scrivevano:

La nostra frazione al prossimo congresso [di Tours, autunno 1920: il partito socialista francese si trasformò in partito comunista] adatterà le 21 condizioni alle circostanze in cui si trova il nostro partito. Il Comitato esecutivo di Mosca, il quale ha previsto precisamente delle eccezioni per taluni casi, comprenderà che nella situazione in cui noi ci troviamo - e in cui vi trovate voi stessi – L’APPLICAZIONE SUBITANEA, STRETTA, INTEGRALE DELLE 21 CONDIZIONI È UNA COSA IMPOSSIBILE”.

Noi non domandiamo altro, egregio compagno. E se voi - dopo aver amnistiato e premiato i Zinoviev - contrari alla rivoluzione - ed i Cachin - fautori della collaborazione di classe ed ambasciatori internazionali della grande guerra “democratica” - condannerete noi, che non abbiamo mai esitato un momento nella difesa del proletariato rivoluzionario, non ci meraviglieremo, né ci dorremo per questo.

Ma continueremo l’opera nostra.

G.M. Serrati