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1.6. La seconda crisi generale del capitalismo e la nuova ondata della rivoluzione proletaria

 

Nei trenta anni (1945-1975) trascorsi dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale la borghesia imperialista ha di nuovo esaurito i margini di accumulazione che si era creata con gli sconvolgimenti e le distruzioni delle due guerre mondiali. Dagli anni settanta il mondo capitalista è entrato in una nuova crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale.(*) L’accumulazione del capitale non può più proseguire nell’ambito degli ordinamenti interni e internazionali esistenti. Di conseguenza il processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza dell’intera società è sconvolto ora in un punto ora in un altro in misura via via più profonda e sempre più diffusamente.

Apparentemente i capitalisti sono alle prese ora con l’inflazione e la stagnazione, ora con l’oscillazione violenta dei cambi tra le monete; qui con l’ingigantirsi dei debiti pubblici, là con la difficoltà di trovare mercati per le merci prodotte; un momento con la crisi e il boom delle Borse e un altro momento con 1a sofferenza dei debiti esteri e la disoccupazione di massa. Essi e i loro portavoce non possono comprendere la causa unitaria dei problemi che li assillano. Ma la sovrapproduzione di capitale produce i suoi effetti anche se i capitalisti non la riconoscono e anche se non ne hanno coscienza alcuna gli intellettuali la cui comprensione degli avvenimenti non supera gli orizzonti entro i quali i capitalisti sono rinchiusi dai loro interessi materiali, nonostante che alcuni di questi intellettuali si proclamino marxisti e perfino marxisti-leninisti e marxisti-leninisti-maoisti. I contrasti economici tra i gruppi imperialisti diventano nuovamente antagonisti: la torta da dividere non aumenta quanto necessario per valorizzare tutto il capitale accumulato e ogni gruppo può crescere solo a danno degli altri.

In tutti i paesi imperialisti i contrasti economici tra la borghesia imperialista e le masse popolari stanno diventando di nuovo apertamente antagonisti. In tutti i paesi imperialisti la borghesia sta eliminando una dopo l’altra le conquiste che le masse lavoratrici avevano strappato o abrogandole (scala mobile, stabilità del posto di lavoro, contratti nazionali collettivi di lavoro, ecc.) o lasciando andare in malora o privatizzando le istituzioni in cui esse si attuavano (scuola di massa, istituti previdenziali, sistemi sanitari, industrie pubbliche, edilizia pubblica, servizi pubblici, ecc.). Il capitalismo dal volto umano ha fatto il suo tempo. In tutti i paesi imperialisti la borghesia viene via via abolendo quei regolamenti, norme, prassi e istituzioni che nel periodo di espansione hanno mitigato o neutralizzato gli effetti più destabilizzanti e traumatici del movimento dei singoli capitali e le punte estreme dei cicli economici. Ora, nell’ambito della crisi, ogni frazione di capitale trova che quelle istituzioni sono un impedimento inaccettabile alla libertà dei suoi movimenti per conquistarsi spazio vitale. La liberalizzazione, la privatizzazione delle imprese economiche statali e in generale pubbliche sono all’ordine del giorno in ogni paese imperialista. La parola d’ordine della borghesia è in ogni paese “flessibilità” dei lavoratori, cioè libertà per i capitalisti di sfruttare senza limiti i lavoratori.

Ciò rende instabile in ogni paese imperialista il regime politico, rende ogni paese meno governabile con gli ordinamenti che fino ad ieri avevano funzionato. I tentativi di sostituire pacificamente questi ordinamenti con altri, che in Italia si riassumono nella riforma della Costituzione, vanno regolarmente in fumo. In realtà non si tratta di cambiare regole, ma di decidere quali capitali vanno sacrificati perché altri possano valorizzarsi e nessun capitalista è disposto a sacrificarsi. Tra capitalisti solo la guerra può decidere. Infatti nelle relazioni tra i gruppi borghesi la parola non è più principalmente all’accordo e alla spartizione, ma è principalmente alla lotta, all’eliminazione e alle armi. Tentativi, a livello interno e internazionale (ONU), di ridurre l’espressione politica dei contrasti proprio perché questi crescono, espansione del ricorso delle classi dirigenti a procedure criminali e a milizie extralegali e private, creazione di barriere elettorali, accrescimento delle competenze dei governi e degli apparati amministrativi a spese delle assemblee elettive, restrizione delle autonomie locali, limitazione per legge degli scioperi e delle proteste, ecc. sono all’ordine del giorno in  ogni paese imperialista. Le misure e, ancora più, le operazioni repressive dilagano in ogni paese. L’aumento della repressione delle masse popolari è la risposta che la borghesia dà universalmente a ogni contrasto economico e sociale che essa stessa genera. Ogni Stato imperialista per ostacolare la crescita dell’instabilità del regime politico nel proprio paese deve sempre più ricorrere a misure che accrescono l’instabilità di altri Stati: dall’abolizione nel 1971 della convertibilità del dollaro in oro e del sistema monetario di Bretton Woods,(46) alla politica degli alti tassi d’interesse e dell’espansione del debito pubblico seguita dal governo federale USA negli anni ‘80, alle misure protezionistiche e di incentivazione delle esportazioni commerciali sempre più spesso adottate da ogni Stato, alla guerra che si profila tra i sistemi monetari del dollaro e dell’euro, all’aggressione dei paesi oppressi le cui Autorità oppongono ostacoli alla ricolonizzazione (in primo luogo i paesi arabi e musulmani: Iraq, Afghanistan, ecc.). “Mondializzazione” è diventata la bandiera che copre e giustifica le brigantesche aggressioni degli Stati e dei gruppi imperialisti in ogni angolo del mondo, la nuova “politica delle cannoniere”. La lotta per la sopravvivenza del suo ordinamento sociale spinge la borghesia imperialista ad allargare e a rendere più spietata la guerra di sterminio(*) non dichiarata che essa conduce contro le masse popolari in ogni angolo del mondo. Milioni di uomini e donne, bambini e anziani, di ogni età, razza e paese, vengono ogni anno uccisi dalle guerre, dalle privazioni, dall’inquinamento, dal saccheggio del territorio, dalla depravazione e da malattie curabili. Una parte importante dell’umanità è relegata a vivere in condizioni di miseria, di emarginazione sociale, di ignoranza, di abbrutimento intellettuale e morale, di precarietà. Ciò contrasta non solo con i sentimenti e le concezioni che oramai gli uomini hanno sviluppato in massa, ma anche con le possibilità materiali e intellettuali disponibili e genera nelle masse popolari una resistenza sempre più diffusa e accanita. La lotta per la direzione di questa resistenza è l’oggetto della lotta politica del periodo in corso.

La crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale ha dato luogo alla seconda crisi generale del capitalismo: una crisi economica che trapassa in crisi politica e culturale. Una crisi mondiale, una crisi di lunga durata.

La maggior parte dei paesi semicoloniali è diventata dapprima un mercato dove i gruppi imperialisti hanno riversato le merci che la sovrapproduzione di capitale rendeva eccedenti; poi un campo in cui gli stessi gruppi hanno impiegato come capitale di prestito i capitali che nei paesi imperialisti non potevano essere impiegati come capitale produttivo che a un tasso di profitto decrescente o che, se impiegati come capitale produttivo, avrebbero addirittura ridotto la massa del profitto; infine un terreno che i gruppi imperialisti devono invadere direttamente per farne un nuovo campo di accumulazione di capitale. I gruppi imperialisti razziano le risorse umane e ambientali dei paesi semicoloniali, li devastano e quindi ad opera compiuta li abbandonano e si trasferiscono in altri paesi. I paesi coloniali vengono ridotti nuovamente al rango di colonie, ma ora di colonie collettive dei gruppi imperialisti, sicché nessuno di questi assume alcuna responsabilità per la conservazione a lungo termine delle fonti di profitto e di rendita. L’emigrazione selvaggia e atroce di masse di lavoratori e una sequela interminabile di guerre sono le inevitabili conseguenze di questa nuova colonizzazione.

Nella maggior parte dei primi paesi socialisti(*) i regimi instaurati dai revisionisti moderni si sono trovati dapprima schiacciati nella morsa della crisi economica in corso nei paesi imperialisti da cui si erano resi dipendenti commercialmente, finanziariamente e tecnologicamente, quindi sono crollati rivelando la fragilità politica dei regimi stessi. La borghesia ha dovuto prendere atto che era impossibile restaurare gradualmente e pacificamente il capitalismo e ha precipitato questi paesi in un turbine di miseria e di guerra, aprendoli alla restaurazione violenta e a qualsiasi costo. Il sistema imperialista li ha ingoiati, ma non riesce a digerirli. Anzi essi hanno accelerato il procedere della crisi generale anche nei paesi imperialisti.

Tutto ciò viene creando una nuova situazione di guerra e di rivoluzione, analoga a quella che esisteva all’inizio del secolo scorso. Il mondo deve cambiare e inevitabilmente cambierà. Gli ordinamenti attuali dei paesi imperialisti e le attuali relazioni internazionali ostacolano la prosecuzione dell’accumulazione di capitale e quindi saranno inevitabilmente sovvertiti. Saranno le grandi masse, prendendo l’una o l’altra strada, a “decidere” se il mondo cambierà ancora sotto la direzione della borghesia creando ordinamenti diversi di una società ancora capitalista o se cambierà sotto la direzione della classe operaia e nell’ambito del movimento comunista, creando una società socialista. Ogni altra soluzione è esclusa dalle condizioni  oggettive esistenti: gli sforzi dei fautori di altre soluzioni in pratica faranno il gioco di una di queste due soluzioni che sono le uniche possibili. Questa è la nuova situazione rivoluzionaria in sviluppo che si sta sviluppando e nella quale si svolge e si svolgerà il nostro lavoro di comunisti. Le divergenze importanti tra i comunisti e la confusione che ancora regna nelle nostre fila riguardano appunto il riconoscimento che siamo nuovamente in una situazione rivoluzionaria in sviluppo e la linea da adottare per sviluppare da essa la rivoluzione e condurla fino all’instaurazione di nuovi paesi socialisti.

La borghesia imperialista cerca di superare l’attuale crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale e conquistarsi così un altro periodo di ripresa, con l’integrazione degli ex paesi socialisti nel mondo imperialista, con la ricolonizzazione e un maggiore grado di capitalizzazione dell’economia dei paesi semicoloniali e semifeudali,(34) con una distruzione di capitale di dimensioni adeguate negli stessi paesi imperialisti. Essa combina queste tre soluzioni variamente da paese a paese e di fase in fase. Ognuna di queste soluzioni porta anzitutto a un periodo di guerre e di sconvolgimenti. Ogni guerra è e sarà ovviamente presentata alle masse nella veste più lusinghiera: di spedizione umanitaria, di guerra per la pace, di guerra per la giustizia, di guerra per la difesa dei propri diritti e bisogni vitali, di guerra contro il terrorismo, di ultima guerra. Ma l’esito di questo periodo e la direzione che prenderà la mobilitazione delle masse che in ogni caso si svilupperà, e che la stessa borghesia imperialista in ogni caso dovrà promuovere, sarà deciso dalla lotta tra le Forze Soggettive della Rivoluzione Socialista e le forze soggettive della borghesia imperialista. In definitiva il dilemma è o la rivoluzione precede la guerra o la guerra genera la rivoluzione.(60)

La classe operaia può infatti superare l’attuale situazione rivoluzionaria prendendo la direzione della mobilitazione delle masse popolari e guidandole alla lotta contro la borghesia imperialista fino a conquistare il potere e avviare la transizione dal capitalismo al comunismo su scala maggiore di quanto è avvenuto durante la prima crisi generale. Questa è la via della ripresa del movimento comunista già in atto nel mondo, che ha i suoi punti qualitativamente più alti nelle guerre popolari rivoluzionarie già in fase avanzata in alcuni paesi (Nepal, India, Filippine, Perù, Turchia).

 

 

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