Un bilancio necessario

Rapporti Sociali 34 - gennaio 2004   (versione Open Office / versione MSWord)

 

Sono passati due anni e mezzo da quando, con le elezioni del 13 maggio 2001, la banda di speculatori, mafiosi, fascisti, razzisti e avventurieri che Berlusconi aveva raccolto intorno a sé ha preso in mano il governo con il mandato di gran parte della “Italia che conta” (decision-maker): il Vaticano, la Confindustria, la Mafia, le agenzie dei gruppi imperialisti sionisti e USA. I gruppi imperialisti ostili per motivi di interesse o politici erano rimasti una minoranza con Repubblica e il pool Mani Pulite come punti di riferimento. Sono anche passati dieci anni da quando Berlusconi è “sceso personalmente in politica” per salvare il suo patrimonio e la sua persona (e quella di alcuni suoi complici: Previti, Dell’Utri, ecc.) dalla dissoluzione del regime DC che aveva trascinato con sé anche l’uomo di paglia di Berlusconi, quel Bettino Craxi che invano aveva cercato di diventare l’erede e il riformatore del regime DC. Qual è il bilancio?

Da una parte Berlusconi ha imposto alla borghesia imperialista italiana e internazionale il rispetto della sua persona e del patrimonio che egli, il più grande profittatore del regime DC, ha accumulato, a partire dall’inizio degli anni ‘70 come finanziere della Mafia. Quindi Berlusconi ha pienamente realizzato l’obiettivo per cui è “sceso personalmente in politica” dieci anni fa. Il suo impero finanziario e industriale-mediatico è sopravvissuto allo sconvolgimento istituzionale dei primi anni ‘90 travestito da “moralizzazione della vita pubblica”. Ormai è diventato parte integrante e indiscusso delle acque torbide in cui, nell’ambito della crisi generale del capitalismo, si consuma la putrefazione del vecchio regime DC.

Dall’altra parte Berlusconi e la sua banda hanno lasciato in gran parte cadere il compito politico che si erano assunti e che i loro mandanti avevano loro affidato due anni e mezzo fa. Berlusconi ha dovuto annacquare il programma che aveva promesso ai suoi mandanti di realizzare.

Nei due anni e mezzo di governo Berlusconi, la borghesia imperialista ha certamente aumentato il suo sfruttamento degli operai, ha reso più precaria la condizione di tutti i lavoratori dipendenti (di tutti i proletari) e ha aumentato la dipendenza dei lavoratori autonomi dalla borghesia imperialista: dalle sue autorità, dalle sue banche e istituzioni finanziarie, dai suoi monopoli industriali e commerciali. Essa ha anche certamente peggiorato le condizioni economiche e sociali degli altri membri delle masse popolari: i pensionati, le casalinghe, gli studenti, i disoccupati cronici, gli emarginati e gli immigrati. Essa ha spinto il complesso delle masse popolari un po’ più avanti nella via del degrado morale, intellettuale ed economico travestito dalla mascherata macabra ed oscena che è la facciata con cui l’attuale società borghese copre il suo sconvolgimento, come la musica e le danze che accompagnarono il naufragio del Titanic. Ma tutto ciò la borghesia lo ha realizzato in questi due anni e mezzo in misura non sostanzialmente maggiore di quanto sarebbe avvenuto e stava avvenendo con i governi del centro-sinistra. Nemmeno il ruolo e la quota di partecipazione dei gruppi imperialisti italiani nel saccheggio dei paesi semicoloniali e dei paesi ex socialisti, nello sfruttamento dei popoli oppressi e nella ricolonizzazione del mondo hanno fatto quel balzo in avanti che i mandanti della banda Berlusconi si ripromettevano di fare e che la banda Berlusconi aveva loro promesso. In conclusione se i governi del centro-sinistra avevano preparato il terreno e aperto la strada al governo della banda Berlusconi, questo governo si è di fatto assimilato ai governi di centro-sinistra. Quindi la banda ha fallito il suo compito politico specifico. Persino i passi avanti nella riabilitazione del fascismo e del vecchiume reazionario realizzati con l’ingresso nell’area governativa del vecchio ambiente fascista di Fini e con il ritorno dei Savoia e nell’esaltazione della forza e della ricchezza come valori morali di riferimento per gli italiani e del profitto come indice e misura della buona gestione di ogni ospedale, scuola od opera pia, sono stati la continuazione di un processo già in corso con i governi del centro-sinistra.

Che il governo Berlusconi venga o no sostituito prima della sua scadenza elettorale del 2006 dipende ormai non dalla  forza del governo stesso, ma dalla possibilità e convenienza per i caporioni dell’“Italia che conta” di formare una coalizione di ricambio con il personale politico di cui dispone. Non si tratterà comunque, per quanto oggi si può prevedere, di un cambio sostanziale di programma. Il programma reale che il governo Berlusconi sta attuando è quello del vecchio centro-sinistra e non si profilano per ora nell’immediato le condizioni né interne né internazionali perché un prossimo governo ne abbia uno diverso.

I motivi del sostanziale fallimento della banda Berlusconi sono fondamentalmente tre.

1. I gruppi imperialisti USA chiedono molto e danno poco. Essi sono sempre più assorbiti dalla necessità di difendere la loro egemonia sul mondo perché questa è sempre più contestata e le loro difficoltà interne e internazionali crescono inesorabilmente. Essi devono quindi non solo mobilitare ai loro ordini le risorse finanziarie, politiche e militari dei loro alleati e satelliti (soldi e soldati per l’occupazione dell’Afghanistan e dell’Iraq, soldi e appoggi per il loro avamposto sionista in Palestina, soldi per i traballanti regimi fantoccio: dalla Colombia all’Egitto); devono anche succhiare a proprio uso, per contrastare la destabilizzazione del loro potere sulle masse popolari USA, sempre più uomini, sempre più denaro e sempre più merci dal resto del mondo e riservare a se stessi i campi di investimenti che riescono ad aprire: dalla fornitura per l’Iraq e l’Afghanistan, ai grandi investimenti petroliferi in Asia centrale, alle grandi forniture militari per le forze armate USA (400 miliardi di dollari di spese militari dirette) e per i grandi progetti di ricerca e sviluppo. Questo ha obbligato e obbliga i gruppi imperialisti italiani ad accodarsi ai gruppi imperialisti europei (principalmente al nucleo franco-tedesco) che in questi due anni e mezzo si sono ulteriormente inoltrati sulla via della competizione con i gruppi imperialisti USA e della contrapposizione ad essi. La velleità di porsi come collaboratori privilegiati e agenti speciali dei gruppi imperialisti USA era la sostanza della linea di politica estera che distingueva la banda Berlusconi dal centro-sinistra. Essa si è scontrata con la dura realtà. Le spedizioni militari in Afghanistan e in Iraq si sono rivelate e si rivelano come avventure senza sbocchi, anziché come inizio di una promettente espansione politica ed economica: non le sognate riedizioni moderne della “spedizione in Crimea” di Cavour, ma piuttosto riedizioni ridotte della spedizione dell’ARMIR sul Don montata dal cavalier Benito Mussolini. In sintesi: i gruppi imperialisti USA non hanno fatto fortuna né in Asia (Afghanistan, Iraq, Corea del Nord, Siria, Iran, Arabia Saudita, Cina, Palestina) né in America Latina (Venezuela, Brasile, Ecuador, Argentina, Bolivia) e i loro satelliti ancora meno. La depressione economica degli anni 2001-2003 ha ulteriormente aggravato la tendenza generale. La resistenza dei popoli oppressi (Afghanistan, Iraq e Palestina) pure.

2. I contrasti tra i gruppi imperialisti italiani, tra le loro consorterie e tra i loro esponenti e portavoce politici si sono rivelati tenaci. Essi hanno quindi impedito quella concentrazione di forze e quell’unità di orientamento sia degli organi dello Stato sia della “società civile” che la realizzazione dell’ambizioso programma della banda Berlusconi avrebbe comunque richiesto. L’incertezza sull’orientamento del Vaticano connessa alla successione del Papa, “il moribondo che non muore mai”, ha anch’essa indebolito lo sforzo che era necessario fare. La coesione della stessa banda Berlusconi si è rivelata debole. Le liti al suo interno sono in continuo aumento. Il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio (uomo di punta del Vaticano) e il presidente della Confindustria, Antonio D’Amato - che nel 2001 erano due dichiarati fautori del governo della banda Berlusconi - sono ora due suoi dichiarati avversari. In sintesi: la banda Berlusconi non è riuscita a instaurare tra i gruppi imperialisti italiani e nell’“Italia che conta” la coesione e la disciplina, “la dittatura” necessarie per realizzare l’ambizioso programma di contro alle masse popolari italiane e di contro ai gruppi imperialisti a livello internazionale (quello che la banda Bush-Cheney ha cercato di fare negli USA con gli attentati dell’11 settembre ‘01). I gruppi imperialisti italiani per un motivo o per l’altro ostili a Berlusconi, pur gridando alla dittatura incombente, sono riusciti a evitarla, pur dissociandosi dall’opposizione popolare e di piazza quando questa prendeva forza: come dopo il tentato colpo di mano di Genova.

3. Il terzo e principale motivo del fallimento della banda Berlusconi è costituito dalla mobilitazione tenace e diffusa  delle masse popolari. Esse le hanno contrastato continuamente il passo. Quanto alla mobilitazione basta ricordare quanto furono diffuse, nonostante la clamorosa dissociazione dei partiti dell’opposizione, le proteste dopo il colpo di mano tentato dal governo Berlusconi nel luglio 2001 a Genova con l’uccisione di Carlo Giuliani e le aggressioni intimidatorie dei manifestanti: insomma il tentativo di dimostrare che il nuovo governo era capace di far passare “la voglia di manifestare in piazza”, cosa che il governo di centro-sinistra aveva a sua volta invano tentato con le aggressioni del 17 marzo 2001 contro i manifestanti di Napoli. E poi la quantità di ore scioperate nel 2002, le mobilitazioni contro il tentativo di liquidare lo Statuto dei lavoratori (art.18) e i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, le mobilitazioni contro la riduzione delle pensioni e il furto delle liquidazioni (TFR), la lotta che almeno temporaneamente ha impedito la liquidazione della FIAT, la mobilitazione contro l’aggressione dell’Iraq. Certo gli operai e le masse popolari hanno ceduto altro terreno alla borghesia imperialista praticamente su tutti i fronti. Le tasse pagate dai ricchi sono diminuite e le masse popolari pagano più imposte indirette e imposte locali, i posti di lavoro precari e mal pagati hanno preso ancora un po’ più spazio ai posti di lavoro a tempo indeterminato con il seguito di maggiori rischi per la sicurezza e la salute e di minore potere contrattuale. La scuola e l’assistenza sanitaria sono diventate un po’ più merci riservate a chi ha i soldi per comperarle e gestite da imprese private. La partita sulle pensioni e sulle liquidazioni non è ancora chiusa ma l’oggetto in palio è già di quanto le pensioni saranno peggiorate e a chi e quanto gli accantonamenti futuri saranno in balia degli speculatori. Sono diventate pratica corrente le operazioni combinate di polizia e magistratura contro organizzazioni e individui che a torto o a ragione le autorità reputano siano e stiano diventando centri di promozione, mobilitazione, orientamento, organizzazione o direzione della resistenza delle masse popolari contro la borghesia imperialista. Il governo italiano ha impegnato ancora più soldati nella ricolonizzazione dei paesi semicoloniali e oppressi (in particolare in Afghanistan e in Iraq).

Tutto questo è evidente. Quindi gli individui e le organizzazioni che erano e restano convinti che le masse popolari nelle attuali circostanze possono riportare vittorie complessive e su larga scala sul terreno economico e culturale anche se la loro mobilitazione e la loro lotta non sono dirette dalla classe operaia tramite il suo partito comunista, cioè le organizzazioni e gli individui che hanno una concezione movimentista e “antipartito”, trovano ampio spazio per fare un bilancio fallimentare e disfattista: le masse popolari non si sono mobilitate abbastanza, non hanno lottato con la tenacia e la forza necessarie, ecc. E da qui poi possono ricavare e ricavano discorsi in libertà sulla “integrazione degli operai dei paesi imperialisti del blocco dominante”,(1) sull’equiparazione dell’aristocrazia operaia con gli operai dei paesi imperialisti perché ancora oggi costano ai capitalisti 20 volte quello che costa loro un operaio cinese, sugli operai che nei paesi imperialisti non esisterebbero più solo perché la produzione di merci-servizi ha di gran lunga sopravanzato la produzione di merci-beni, sulle masse popolari dei paesi imperialisti che vivrebbero alle spalle dei lavoratori dei paesi oppressi dall’imperialismo e tutte le altre cento “teorie” di cui si alimentano l’“addio alle armi” e l’attendismo che vengono suonati e fatti suonare tanto più diffusamente e da orchestre tanto più diverse quanto più la borghesia imperialista ha difficoltà a tenersi in piedi e quanto più si intensificano le retate mattutine contro veri o presunti capi della sovversione che la minaccia.

 

1. L’ultima, in ordine di tempo, rimasticazione di tale teoria l’ha presentata, con una supponenza che ha eguale solo in quella del suo collega Costanzo Preve, Moreno Pasquinelli (D-17, La voce operaia, Campo Antimperialista) sulle pagine di Praxis n.31 (marzo-aprile ‘03), nella prima puntata della sua “nuova” teoria dello Stato. La redazione di Praxis ha intrapreso l’elaborazione di una concezione del mondo avendo il gruppo D-17 finalmente compreso che è il primo passo che deve compiere chi si propone di trasformare il mondo attuale assumendo il ruolo che può e deve svolgere la “potenza politica soggettiva del movimento comunista” (vedi i suoi “Undici punti fermi sul blocco sociale, alleanze ed egemonia” in Praxis n.33 pagg.7-8). Cioè quello che fece nel 1985 la redazione di Rapporti Sociali: i comunisti riescono a “spingere sempre in avanti il proletariato” solo se “comprendono le condizioni, la direzione e i risultati generali della sua lotta” (Manifesto del partito comunista, 1848). Ma i primi annunci della “nuova” concezione del mondo di Praxis non fanno ben sperare: tra essi compare l’integrazione di “buona parte della stessa classe proletaria” nel “blocco dominante”, presentata come un “tratto distintivo dei sistemi imperialisti”. Vale tuttavia la pena di far notare che in proposito lo stesso M.P. senza rendersene conto si smentisce. Nello stesso contesto in cui espone la sua “nuova” teoria dello Stato - che dovrebbe soppiantare quella di Engels e Lenin e, pare, anche quella che Marx “ si “ripromise di trattare … ma non riuscì a farlo” - M.P. ammette che la borghesia riesce a  mantenere la sua egemonia sulla “piccola borghesia produttiva”, sulla “zona alta dello sterminato ceto medio e impiegatizio” e su “buona parte della stessa classe proletaria” non perché ne “tutela gli interessi” (come M.P. sostiene, senza però precisare quali interessi: si tratta del suo interesse di classe a emanciparsi come classe dalla dipendenza dai capitali? Del suo interesse a essere un salariato meglio pagato? Dell’interesse di ogni proletario ideologicamente dipendente dalla borghesia alla sua emancipazione individuale dalla condizione di proletario per diventare un capitalista?), ma solo finché “consente una crescita costante del progresso e del benessere collettivo” (espressione che nella lingua di M.P. indica quella cosa spirituale e interclassista che i periti indicano con l’espressione “bene comune”), mentre “ove il mercato non assicuri quella diffusione del benessere, l’egemonia capitalista vacilla e il sistema scricchiola”. Purtroppo M.P. concepisce le masse popolari come le concepisce la borghesia (cioè “tese solo a soddisfare i loro istinti bestiali” per dirla con Churchill), altrimenti aggiungerebbe che la borghesia dopo la seconda guerra mondiale riuscì con grandi sforzi a ristabilire per alcuni decenni la sua egemonia sulle masse popolari dei paesi imperialisti non solo perché la ripresa dell’accumulazione del capitale e dell’espansione dell’attività economica (cioè la fine della prima crisi generale del capitalismo) le consentì di accordare alle masse popolari mobilitate “progresso e benessere collettivo”, ma anche e prima ancora perché in seno al movimento comunista i limiti e gli errori portarono alla direzione i revisionisti moderni e quindi resero impossibile la rivoluzione socialista nei paesi imperialisti. Quindi non di nuovo “blocco dominante”, “tratto distintivo di sistemi imperialisti” si tratta, ma di una sconfitta della prima ondata della rivoluzione proletaria che i gruppi e Stati imperialisti riuscirono a fermare (la “politica di contenimento” di Kennan) già negli anni ‘50 a causa dei limiti e degli errori che il movimento comunista non riuscì a superare o correggere. È però ovvio che riescono a vedere i limiti e gli errori (reali) del movimento comunista solo quelli che anzitutto ne vedono e comprendono il valore e il ruolo positivo. Cosa preclusa a M.P. che confessa di aver rotto con i trotzkisti perché questi si ostinavano a sostenere che la classe operaia era capace di dirigere il passaggio dal capitalismo al comunismo (cioè di “avere capacità intermodale”, nella lingua di M.P.): ossia per una delle poche cose giuste dei suoi vecchi maestri (Praxis n.33 pagg. 29 e 30).

La “nuova” teoria dello Stato di M.P., sia detto già che ci siamo, consiste nella tesi che “lo stato non è solo un apparato coercitivo”. Affermazione che dopo decenni che si parla di diritto pubblico, di democrazia borghese, e di capitalismo monopolistico di Stato potrebbe sembrare una banalità. Ma che M.P. usa invece per aprirsi la strada per retrocedere alla confusione dello Stato con tutto il resto della società civile e alla teoria dello “Stato di tutto il popolo” condivisa da una vasta compagnia che va da Bismarck a Kruscev: tanto poco è nuova. Che lo Stato non abbia creato il dominio sociale della classe dominante, ma sia solo un’espressione di esso lo hanno sostenuto tutti i marxisti, a partire da Marx a Engels (ad es. Anti Duhring).

 

Gli unici centri nazionali di mobilitazione delle masse popolari oggi sono ancora tutti nelle mani della borghesia imperialista: sindacati, partiti di opposizione, associazioni culturali con raggio d’azione nazionale.(2) Le masse popolari sono costrette a lottare contro le misure più ostili e più generali della borghesia sotto la direzione di gruppi sindacali e politici dipendenti ideologicamente e politicamente (quando non anche organizzativamente) dalla borghesia. A ciò si aggiunge che l’orientamento culturale e morale delle masse popolari è largamente controllato dalla borghesia. Queste condizioni generali sfavorevoli in cui versano le masse popolari del nostro paese sono aggravate ulteriormente dalle condizioni internazionali. Il movimento antimperialista è forte oggi nel mondo ma è ancora orientato e diretto dalle forze reazionarie (il clero islamico) che l’imperialismo stesso alcuni decenni fa ha spinto in avanti contro il movimento comunista già internamente minato dal revisionismo moderno.

 

2. Ma allora, diranno alcuni lettori, perché la borghesia non le usa al 100% per i suoi interessi e permette che funzionino anche come centri della mobilitazione delle masse e nelle lotte rivendicative contro di essa? Perché non può fare diversamente. Sono sia centri di mobilitazione delle masse sia nelle mani della borghesia proprio perché sono una mediazione tra le masse popolari e la borghesia. Devono dare un qualche spazio alle rivendicazioni delle masse popolari se vogliono riuscire a mantenerle nell’ambito e nell’orizzonte dell’ordinamento sociale e della concezione del mondo borghesi, impedire che diventino scuola di comunismo per le masse e tramite tra le masse popolari e il partito comunista. Riescono a espletare questa funzione perché espletano anche l’altra. Se cessano di espletare la prima, se cioè non lasciassero alcuno spazio alle rivendicazioni delle masse, non potrebbero espletare neanche la seconda: la borghesia si troverebbe tra le mani dei comandi e delle strutture che funzionerebbero a vuoto e noi comunisti subentreremmo nell’espletamento della prima funzione più facilmente e più rapidamente di quanto comunque ci riesce di subentrare. È una morsa a cui la borghesia non può sfuggire. Non è sfuggita durante la prima ondata della rivoluzione proletaria e non ci sfugge neanche durante la seconda. La rabbia con cui espelle i comunisti dai sindacati, vedi ad esempio il caso della FIOM di Reggio Emilia e della FILLEA di Torino, è un segnale delle sue difficoltà e casi come quelli di Reggio Emilia e di Torino sono per i comunisti esperienze-tipo per imparare a combattere efficacemente la battaglia per impadronirsi delle grandi organizzazioni di massa e farne delle scuole di comunismo e armi della lotta di classe.

 

Chi prende atto che queste sono le condizioni in cui si svolge attualmente la resistenza collettiva delle masse popolari  all'eliminazione delle conquiste non può non constatare che le masse popolari del nostro paese hanno condotto bene una guerra in cui per forza di cose sono sulla difensiva. Certamente hanno ceduto terreno, ma contrastando continuamente l’avanzata del nemico. Questi non è riuscito a determinare la rotta generale che era il programma specifico che il governo della banda Berlusconi aveva promesso di attuare.

Questa complessiva tenuta delle masse popolari non esclude vittorie più o meno durature in questo o in quel settore e sconfitte pesanti, vere proprie rotte, in settori limitati del fronte: in campo economico, ma non solo. Anche in campo ideologico, morale, intellettuale e organizzativo. Ma il quadro d’assieme è che le masse popolari sono ripiegate e ripiegano in ordine e combattendo.

Le condizioni che hanno fatto sì che il ripiegamento inevitabile è stato e viene fatto con ordine e combattendo, a nostro parere sono sostanzialmente due.

3.1. Anzitutto l’esperienza del vecchio movimento comunista e in particolare della prima ondata della rivoluzione proletaria ha sedimentato nelle masse popolari del nostro paese un modo di essere, una coscienza diffusa e una capacità organizzativa che sarà difficile se non impossibile alla borghesia eliminare completamente. Esse si esprimono al livello più alto negli elementi avanzati delle masse popolari, quelli che nell’analisi dei CARC sono descritti nelle 4 categorie.(3) È una cosa che non capiscono e non possono capire i denigratori del vecchio movimento comunista, del “comunismo novecentesco”: da quelli che in fondo condividono la concezione e i luoghi comuni del “libro nero” diffuso da Berlusconi, ai salottieri denunciatori dell’“errore e orrore” di Bertinotti, ai sinistri fautori del “ritorno a Marx”, ai semplici e tradizionali trotzkisti e anticomunisti vari. Chiunque ha un po’ di cultura storica o anche solo di conoscenza delle diversità culturali e politiche del mondo attuale (perché la partecipazione pratica e di massa all’esperienza storica del movimento comunista è stata diversa da paese a paese) ha modo di rendersi conto che gli operai e le masse popolari di oggi non sono quelli dell’inizio del secolo scorso, nonostante lo scempio, la disgregazione, la corruzione e gli arretramenti che la lunga direzione dei revisionisti moderni e la lunga prevalenza ideologica e morale nuovamente affermatasi quasi monopolisticamente della borghesia imperialista hanno prodotto rispetto ai livelli più alti raggiunti nel passato. Nel nostro paese l’esperienza pratica fatta dagli operai e dalle masse popolari è stata vasta e profonda. È impossibile comprendere le vicende di questi anni senza tenerne conto. Per lo stesso motivo la rinascita del movimento comunista come movimento pratico delle masse che trasformano il mondo e se stesse richiede che i comunisti procedano oltre i livelli già raggiunti, elaborino i limiti e gli errori del vecchio movimento comunista, elaborino, assimilino e applichino un bilancio giusto e adeguato della sua esperienza. E assolutamente non “si ricomincia da Marx”, ma dai livelli più alti raggiunti dal vecchio movimento comunista. È la realtà delle masse popolari che lo impone.(4)

 

3. Distinguiamo gli operai, gli altri lavoratori, gli altri elementi avanzati delle altre classi delle masse popolari in quattro categorie:

1. gli operai, gli altri lavoratori e gli altri elementi delle masse popolari che impersonano la tendenza a ricostruire il partito comunista (è una tendenza che si esprime in vari modi: nell’aderire a un partito - in genere PRC o DS - anche se non soddisfatti della sua attività, nello sforzo di inquadrare ogni problema particolare in un quadro generale di trasformazione - riforma della società, nella consapevolezza che “bisogna essere uniti”, ecc.);

2. gli operai, gli altri lavoratori e gli altri elementi delle masse popolari che esercitano un ruolo dirigente sui loro compagni nelle lotte di difesa (siano o non siano membri di organismi sindacali);

3. gli operai, gli altri lavoratori e gli altri elementi delle masse popolari che in qualche modo si pongono il compito di unire e mobilitare i propri compagni di classe sui problemi specifici che via via si pongono;

4. gli operai, gli altri lavoratori e gli altri elementi delle masse popolari che impersonano altre tendenze positive che si sviluppano tra i lavoratori (ad esempio quelli che cercano di capire come va il mondo, quelli che sono curiosi di conoscere altre situazioni, quelli che sono curiosi di conoscere programmi e metodi di organismi politici, quelli che vogliono rendersi utili, ecc.).

 

4. Il bilancio del movimento comunista è una delle sei discriminanti che Rapporti Sociali indicò già nel 1997 (vedi Rapporti Sociali n. 19, pagg. 8-9). È il problema della “identità comunista” su cui la Rete dei Comunisti (Contropiano) ha tenuto la sua assemblea nazionale di marzo 2002. È il problema che molte FSRS non hanno ancora risolto (vedasi ad esempio la posizione non solo di  Praxis ma anche di Rosso XXI). I fautori del “ritorno a Marx” o “ricominciare da Marx” sono esponenti timidi del rinnegamento dell’esperienza storica del movimento comunista che i declamatori della tesi bertinottiana dell’”errore e orrore” compiono apertamente e su cui confluiscono con i denigratori sistematici (alla “libro nero del comunismo”) e storici (come i trotzkisti). Il crollo del campo socialista, la via della restaurazione del capitalismo seguita dalla Repubblica Popolare Cinese e la dissoluzione o il passaggio alla borghesia di gran parte dei vecchi partiti comunisti hanno alimentato i fautori di un bilancio negativo del movimento comunista. Così come il crollo dell’Impero napoleonico e la Restaurazione del 1815 alimentarono il bilancio negativo della Rivoluzione francese e della sua espansione in Europa.

 

3.2. In secondo luogo vi è l’azione delle forze soggettive della rivoluzione socialista (FSRS). Pur con tutti i loro limiti e le loro arretratezze, esse portano tra le masse popolari un orientamento anticapitalista che è tanto più efficace perché è confortato dall’esperienza quotidiana e capillare delle più larghe masse e si innesca sul terreno lasciato dalla prima ondata della rivoluzione proletaria di cui ho già detto. L’azione delle FSRS non può sostituire l’azione del partito comunista, non solo per l’aspetto offensivo della resistenza (di cui la ricostruzione del partito è oggi essa stessa la sostanza) ma neanche nell’aspetto difensivo: nell’impedire, ritardare e o attenuare l’eliminazione delle conquiste. Ma essa esercita un effetto positivo sulla resistenza e obbliga gli attuali centri di mobilitazione nazionale delle masse popolari a svolgere in una qualche misura il compito che le masse popolari si attendono da loro, nonostante siano al 90% costituiti da aristocrazia operaia infeudata alla borghesia imperialista e contrastino con ogni mezzo la presenza e l’influenza dei comunisti al loro interno. Vale la pena di far notare che in linea generale le FSRS sottovalutano questo loro ruolo positivo. In particolare lo sottovalutano quelle che non capiscono la loro differenza rispetto al partito comunista, si considerano di fatto un partito comunista (di cui ovviamente hanno quindi una concezione che prescinde dal bilancio dell’esperienza del movimento comunista) e misurano i risultati della loro azione quotidiana non con il metro di quello che sono, ma con il metro di quello che pensano di essere. Ovviamente anche da questo travisamento viene una spinta alla demoralizzazione e al disfattismo. Il corso reale delle cose conferma invece gli effetti benefici che, nei loro limiti, le FSRS esercitano. La comprensione di essi apre anche la strada alla comprensione di come ogni FSRS può, se solo lo vuole, migliorarli e accrescerli.

Questo bilancio dei due anni e mezzo del governo della banda Berlusconi a me pare realistico. A chi non lo condivide, io chiedo semplicemente di avanzare il suo bilancio e di formulare chiaramente le sue critiche, però con una limitazione. Che abbia assimilato l’elementare lezione universalmente data dal movimento comunista da 150 anni a questa parte: che nei paesi imperialisti le masse popolari riescono a condurre una offensiva contro la borghesia solo se dispongono di un “gruppo dirigente”, cioè di un partito comunista in grado di “comprendere le condizioni, la direzione e i risultati generali della loro lotta” e capace per i suoi legami organizzativi di mobilitare e dirigere le forze delle masse popolari (come già insegnarono Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista del 1848). Infatti chi non assimilato questo basilare ed elementare insegnamento non fa che confrontare quello che le masse popolari hanno fatto con quello che egli desidererebbe che esse facessero. Quindi in realtà fa senza saperlo il bilancio di quanto i suoi desideri sono campati in aria.

Se è vero che il bilancio realistico del periodo considerato va fatto tenendo conto del ruolo insostituibile del partito comunista, per chiudere veramente questo bilancio è indispensabile fare il punto sui passi fatti in questo periodo dalla ricostruzione del partito. È ovvio che il punto può e deve essere fatto in modo esauriente solo dai compagni e organismi impegnati direttamente nella ricostruzione del partito. Infatti la ricostruzione è in primo luogo (nel primo stadio, per usare l’espressione usata da Umberto C. nel suo articolo I tre stadi comparso su La Voce n. 9 del novembre 2001) l’organizzazione sulla base del Programma e dello Statuto del partito dei comunisti oggi esistenti e quindi prima che un’attività visibile e valutabile dal “pubblico” per i suoi effetti pubblici, è un’operazione che sono in grado di valutare quelli che ne sono i protagonisti. Quindi in questa sede non è possibile andare oltre alcune note.

 Il primo dato da mettere in conto è che nel corso di questi due anni e mezzo la borghesia ha sempre più concentrato contro la ricostruzione del partito comunista la sua attività repressiva. Le operazioni condotte dalle forze di polizia il 17 maggio ‘01 a Napoli e il 20-21 luglio ‘01 a Genova erano azioni intimidatorie di massa. Erano operazioni volte a togliere la “voglia di andare in piazza” e a compattare la classe dominante attorno a una linea di contrapposizione in forze alle masse popolari. Ma il risultato è stato l’opposto di quello che i fautori di quella linea si proponevano. Quindi quel tipo di operazioni non ha più avuto grandi sviluppi. Il Forum Sociale Europeo del novembre ‘02 a Firenze si è svolto nella calma. Ma il governo Berlusconi ha invece intensificato e moltiplicato, sotto la bandiera della “guerra al terrorismo”, le operazioni di polizia contro singoli e organizzazioni a torto o a ragione ritenuti capaci di contribuire alla costruzione di un centro organizzativo dell’attività delle masse popolari autonomo dalla borghesia stessa. Una serie di operazioni di polizia di questo genere (perquisizioni, fermi, interrogatori, arresti, intimidazioni) si è sviluppata lungo tutto il periodo in esame. A differenza delle FSRS economiciste, delle organizzazioni militariste e dei loro simpatizzanti, le autorità della borghesia imperialista hanno chiaro che, dal punto di vista degli interessi storici e strategici della classe operaia, la lotta per il potere è più importante della lotta per questo o quell’indirizzo di politica economica, per questa o quella misura economica o sociale che, se conserva il potere, la borghesia potrà prima o poi revocare. Il “cuore dello Stato” è la repressione della lotta della classe operaia per il potere, cioè oggi in primo luogo la repressione della ricostruzione del partito comunista. La piega presa dall’attività dello Stato in questo periodo è stata sempre più improntata da questa coscienza. Questa piega presa dagli avvenimenti ha rafforzato quindi la tesi che la Commissione Preparatoria (CP) del congresso di fondazione del (nuovo) Partito comunista italiano sostiene fin dalla sua costituzione (vedi La Voce n. 1) e su cui si sono via via costituiti i Comitati di quel partito, in conformità al “piano in due punti” che la CP da tempo propaganda: che i nuovi partiti comunisti dei paesi imperialisti devono costituirsi dalla clandestinità, secondo la linea seguita all’inizio del secolo scorso da Lenin e dal suo partito. Gli avvenimenti di questi anni si sono aggiunti all’esperienza storica e hanno fatto diventare quella tesi una questione con cui devono e dovranno inevitabilmente misurarsi e si stanno misurando tutti quelli che vogliono in prima persona essere protagonisti diretti della costruzione del nuovo partito comunista.

Il colpo che lo Stato italiano ha inferto alla CP con gli arresti e le perquisizioni del 23 giugno conferma la tesi della CP in linea generale. Mentre in termini pratici costituisce e costituirà una verifica per la CP e i Comitati di Partito di cui essa ha promosso la costituzione. Sono la CP e i suoi Comitati di Partito costituiti in modo da saper resistere ai colpi della repressione che ovviamente non potevano e non possono evitare in assoluto? Anche questa è una di quelle questioni a cui solo la pratica può rispondere. È chiaro che resistere alla repressione non è solo e neanche principalmente il non piegarsi degli individui alle pressioni e alle lusinghe del nemico. È soprattutto la capacità dell’organismo di continuare a svolgere la sua funzione sociale nonostante la repressione e di trarre dai successi del nemico gli insegnamenti adatti a impedire che si ripetano. Un organismo capace di questo, non viene indebolito ma viene rafforzato dalla stessa repressione e percorre il cammino già indicato da Marx nella presentazione del suo opuscolo Le lotte di classe in Francia del 1848-1850: “La rivoluzione avanza facendo sorgere una controrivoluzione potente e feroce, solo facendo fronte alla quale il partito della sovversione assurge alla maturità di un vero partito rivoluzionario” capace quindi di guidare le masse popolari del nostro paese a fare dell’Italia un nuovo paese socialista nell’ambito della seconda ondata della rivoluzione proletaria che avanza in tutto il mondo.

La parola d’ordine “via governo Berlusconi” resta ancora la parola d’ordine riassuntiva di tutte le lotte di massa del nostro paese. Perché è la parola d’ordine della sconfitta del progetto di attacco conclusivo che la borghesia aveva concepito e cercato di realizzare. Ma essa deve combinarsi sempre più apertamente con le due parole d’ordine “fare dell’Italia un nuovo paese socialista” e “ricostruire un vero partito comunista”, per non lasciare ai fautori di un governo di centro-sinistra, di un governo “più a sinistra”, di un governo integrato nell’“Europa democratica” dei gruppi  imperialisti franco-tedeschi contrapposti ai gruppi imperialisti USA l’egemonia sulle FSRS, sugli operai avanzati e sugli elementi avanzati delle masse popolari. Cioè per non mettersi alla coda e al servizio del partito imperialista antiamericano che si fa strada in Europa, ma contribuire a costituire il fronte delle masse popolari che lotta per creare un paese socialista.

 

Marco Martinengo

Rapporti Sociali 1985-2008 - Indice di tutti gli articoli