La lotta sulle pensioni

Rapporti Sociali n. 16 (inverno 1994-1995) - (versione Open Office / (versione Word)

1. Una lezione di marxismo

Dopo l’attacco ai lavoratori dipendenti privati e pubblici (vogliono salari troppo alti, il salario variabile indipendente, posti di lavoro sicuri, ecc.) e quello contro i lavoratori autonomi (non pagano le tasse) condotti all’epoca dei governi Amato e Ciampi, nei primi mesi del governo Berlusconi, i portavoce della borghesia imperialista hanno concentrato contro i pensionati il loro attacco. Le accuse sono varie: i pensionati sono dei privilegiati, una categoria protetta, falsi invalidi e inabili; hanno pensioni troppo alte, insopportabilmente alte; i pensionati vivono alle spalle dei lavoratori attivi; l’attuale sistema pensionistico fa gravare sulle spalle dei lavoratori un fardello insostenibile; e finanziariamente insostenibile; porta allo sfascio di tutto il sistema della finanza pubblica, è la causa del dissesto delle finanze statali. La tesi che “l’attuale sistema pensionistico e di previdenza sociale è finanziariamente insostenibile e porta allo sfascio le finanze statali e in generale il sistema finanziario italiano” concentra e riassume le varie accuse ed è lo zoccolo duro di tutti gli attacchi ai sistemi di sicurezza sociale. Il ragionamento con cui Dini, Urbani, Mastella, Pizzuti e compagnia (1) sostengono la riduzione delle pensioni e l’eliminazione dell’attuale sistema pensionistico è semplice e apparentemente inoppugnabile.(2)

 

1. Dini è il ministro del Tesoro e Mastella il ministro del Lavoro del governo Berlusconi, Urbani è l’ideatore di Forza Italia e il prof. Roberto Pizzuti è l’esperto designato dalla CGIL a far parte della Commissione Castellino, incaricata al tempo del governo Ciampi di elaborare una proposta di riforma del sistema pensionistico italiano.

 

2. Vale la pena di ricordare che la borghesia imperialista iniziò a introdurre il sistema obbligatorio di pensioni per i lavoratori dipendenti a partire dal 1906 e diede ad esso l’attuale struttura organizzativa nel 1930, nel pieno del regime fascista. Esso nacque come sistema di risparmio forzoso, che riduceva i salari correnti dei lavoratori (è significativo che ne furono esentati gli impiegati con alti stipendi, quindi “abbienti”) e li costringeva a consegnarne una quota ai capitalisti che l’avrebbero amministrata e, ad un certo punto e a certe condizioni, l’avrebbero restituita ai lavoratori con gli interessi (sistema a capitalizzazione). In Italia come negli altri paesi imperialisti il sistema di sicurezza sociale (sistema pensionistico, sistema igienico-sanitario, ecc.) costituisce per il suo contenuto un effetto del carattere collettivo assunto dall’attività economica, per le sue forme un effetto del concreto andamento della lotta di classe. Il primo sistema di sicurezza sociale venne introdotto in Germania dal governo Bismarck nel 1883, quindi in Gran Bretagna nel 1911. Esso costituisce una tipica forma antitetica dell’unità sociale (FAUS), tentativo di far fronte agli effetti del modo di produzione capitalista, restando nel suo ambito (vedasi Rapporti Sociali n. 4, pag. 20 e segg.).

Il sistema in Italia fu perfezionato dal regime fascista nel 1930 con la creazione dell’INPS (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale), dell’INAIL (Istituto Nazionale Assistenza Invalidi del Lavoro) e dell’INAM (Istituto Nazionale Assistenza Malattia).

Durante il periodo del “capitalismo dal volto umano” (1945-1975), sotto il regime DC il sistema venne gradualmente trasformato, fino a farne una delle istituzioni principali del sistema di sicurezza sociale: estensione a tutti i lavoratori dipendenti, ai lavoratori autonomi (ai coltivatori diretti nel 1953, agli artigiani nel 1959, ai commercianti nel 1966) e ai professionisti, introduzione delle pensioni agli invalidi civili e agli anziani privi di reddito, cassa integrazione guadagni dei lavoratori sospesi dal lavoro, introduzione del sistema a ripartizione (pagamento delle prestazioni con i contributi via via incassati dai lavoratori in attività), agganciamento (con i provvedimenti del 1975 e del 1980) delle prestazioni sociali alle variazioni dei salari dei lavoratori in attività.

 

In questo scritto mostreremo

1. che questo “inoppugnabile” ragionamento fa a pugni con alcuni altri luoghi comuni della “scienza” economica borghese e mostra le intrinseche contraddizioni di una teoria che si vuole scientifica mentre è solo l’ideologia, l’immagine mentale con cui la borghesia imperialista combatte la sua battaglia per la sopravvivenza dell’attuale sistema di rapporti di produzione;

2. che l’unico risultato reale di una riforma del sistema pensionistico nelle attuali circostanze non può essere che la riduzione dell’ammontare delle pensioni, la riduzione dei casi coperti dal sistema pensionistico e la riduzione dei sala ri;

3. che quell’”inoppugnabile” ragionamento, a differenza dei suaccennati luoghi comuni, descrive, nel modo in cui può farlo la classe dominante, una tendenza reale dell’attuale sistema finanziario allo sfascio, che non può essere arrestata da una riforma del sistema pensionistico;

4. che quel ragionamento proposto dalla borghesia imperialista, proprio perché descrive una tendenza reale, conferma che la vita della gran massa dei lavoratori è incompatibile con la sopravvivenza dei rapporti di produzione capitalisti che la borghesia imperialista in ogni modo, con ogni mezzo e a qualsiasi costo difende.

“L’impossibilità di mantenere un cosi gran numero di pensionati all’attuale alto (!?) livello di vita” è in realtà “impossibilità di mantenere un cosi gran numero di pensionati all’attuale alto livello di vita restando nell’ambito di rapporti di produzione capitalisti". Ciò risulta chiaro a ogni nostro lettore se solo considera che non vi è alcun bene o servizio (case, bistecche, auto, frigo assistenza sanitaria, ecc.) di cui si nutre “1’attuale alto livello di vita” dei pensionati che, stante le forze produttive esistenti, non possa essere prodotto in quantità ancora maggiore di quella attualmente prodotta e quindi in misura adeguata a un livello di vita anche più alto di un numero di pensionati anche maggiore dell’attuale. Non siamo circondati da impianti fermi o sotto regime? Da lavoratori disoccupati? Da beni prodotti in quantità maggiore di quella che si riesce a “smerciare” (sovrapproduzione di merci)? Che cosa ci impedisce di produrne di più se non i rapporti di produzione capitalisti?

“Lo scandalo delle baby-pensioni” è in realtà lo scandalo della borghesia imperialista che, nonostante il grande progresso tecnologico (l’informatica, la telematica e la robotica!), alza l’età pensionabile, prolunga la durata della vita di lavoro obbligatorio per milioni di lavoratori ed emargina milioni di lavoratori (35 milioni di disoccupati ufficiali, più 15 milioni di sottoccupati ufficiali nei soli paesi OCSE). Lo scandalo reale è la borghesia imperialista che spinge e, se e dove non incontra resistenze adeguate, costringe una parte della popolazione all’abbrutimento, all’ignoranza, a un lavoro massacrante i condizioni umilianti e degradanti. È chiaro a chiunque esamini con un po’ di cura il problema che, stante anche solo l’attuale potenza delle forze produttive di cui gli uomini dispongono, quando ci saremo liberati dai rapporti produzione capitalisti e dalla rispettiva sovrastruttura politica e culturale ogni uomo valido farà la sua parte di lavoro, gli uomini potranno produrre riprodurre le condizioni materiali della loro esistenza lavorando tutti per un parte relativamente piccola del tempo della loro vita: in sintesi, parlando nel linguaggio corrispondente all’attuale miserabile condizione, godranno tutti delle baby-pensioni.(3)

 

3. La divisione della vita di un uomo tra periodo lavorativo e pensione ha la sua origine storica nel fatto che il capitalista getta sulla strada il lavoratore anziano, a cui non può più spremere quanto spreme dal lavoratore giovane o adulto. È proprio dei rapporti di produzione capitalisti consentire a un uomo di lavora solo se il pluslavoro che da esso il capitalista può spremere è il massimo storicamente possibile (a questa condizione il capitalista è competitivo sul mercato). Man mano che cresceva la proletarizzazione della popolazione e la separazione degli operai dalle campagne, ciò creava una massa di popolazione priva di qualsiasi mezzo di sussistenza, che quando non poteva essere a carico dei figli alimentava la mendicità. Il sistema pensionistico e previdenziale ha posto un rimedio a quest’ultimo effetto dei rapporti di produzione capitalisti. Non ha ovviamente intaccato l’emarginazione sociale del lavoratore anziano. Il capitalismo è incompatibile con un’attività lavorativa libera e creativa della massa della popolazione. Nell’ambito dei rapporti di produzione capitalisti, il lavoro non può perdere il carattere servile e coercitivo di mezzo di valorizzazione del capitale. La liberazione da questo momento si presenta quindi come liberazione dal lavoro e condanna all’inattività. La pensione baby diventa quindi la massima conquista a cui un lavorare può aspirare nell’ambito del capitalismo.

 

Del resto gli stessi fautori della “riforma del sistema pensionistico” dicono sinceramente e ingenuamente) che il suo mantenimento è “incompatibile con l’equilibrio del sistema finanziario”, ossia con il sistema del capitale finanziario che è l’attuale forma dirigente di tutto il capitale. Involontariamente suggeriscono la via d’uscita: eliminare il sistema del capitale finanziario. In ogni caso, involontariamente, pongono le alternative reali che ci stanno davanti: o le masse popolari “sacrificheranno” il sistema del capitale finanziario o il sistema del capitale finanziario sacrificherà le masse po polari.

I fautori (borghesi) della “riforma del sistema pensionistico” (in realtà, come vedremo, i fautori della riduzione delle pensioni e in generale dei salari) danno una bella lezione di marxismo ai nostri “compagni” economicisti, che si affannano a escogitare una qualche misura che concili l’attuale sistema pensionistico con il sistema del capitale finanziario, che propongono la lotta in difesa delle pensioni (cosa positiva) omettendo il “piccolo dettaglio” che per difendere le pensioni bisogna in definitiva eliminare “il sistema del capitale finanziario”, cioè instaurare una società socialista.

 

2. Un ragionamento irrefutabile che sconfessa vari luoghi comuni della “scienza economica” borghese e rivela alcune realtà

Ricostruiamo uno a uno i passaggi del ragionamento dei fautori della “riforma del sistema pensionistico” (possiamo immaginarci Dini, Mastella Urbani, ma anche Visco, Spaventa, Giugni o Pizzuti).

 

1. In base alle norme vigenti, il numero delle persone aventi diritto pensione di vecchiaia o di anzianità aumenta via via rispetto al numero lavoratori in attività.

 

Questa è una tendenza reale. Ma non è dovuta semplicemente all'"andamento demografico naturale” né solo alla “diminuzione della mortalità infantile” e al “prolungamento della durata della vita” a causa delle “migliorate condizioni igienico-sanitarie e alimentari”, come dicono gli esponenti borghesi. È dovuta al fatto che l’attuale sistema capitalista da un lato scoraggia per mille vie la natalità, dall’altro espelle un numero crescente di persone in età da lavoro dai posti di lavoro “a contratto” (quindi che pagano contributi per la pensione) e valuta il lavoro che una persona può svolgere solo in base alla quota di pluslavoro che contiene.(4)

 

4. È tipico del carattere conflittuale dei rapporti di produzione capitalisti che l’andamento della capacità lavorativa degli uomini al variare dell’età debba porsi come contrasto tra inserimento e non inserimento dell’attività produttiva sociale. Le pensioni di vecchiaia, di anzianità e di invalidità (come per altro verso il limite minimo di età per l’avviamento al lavoro degli adolescenti) furono conquistate e imposte dai proletari ai capitalisti come barriera contro lo sfruttamento, il degrado fisico e intellettuale e il pauperismo cui il modo di produzione capitalista condanna i lavoratori. Infatti nell’ambito dei rapporti di produzione capitalisti, il lavoratore non è in produzione principalmente per produrre dei beni e dei servizi (e quindi in linea di massima per produrne secondo le sue forze e capacità: un lavoratore che produce solo 5 è meglio dello stesso costretto a produrre zero, anche se il suo compagno di lavoro più in forze produce 10), ma per produrre plusvalore; la legge suprema che regola il suo rapporto al mondo del suo lavoro è la massima estorsione possibile di pluslavoro. È la stessa legge che fa sì che il capitalista divida i lavoratori adulti in disoccupati ed emarginati da una parte, e in lavoratori sottoposti al lavoro più intenso e più prolungato possibile (lavoro nero, lavoro straordinario, doppio lavoro, ecc.) dall’altra. Il capitalista getta via il lavoratore meno produttivo e assume quello più produttivo. Il lavoratore anziano (come il bambino) per il capitalista è un peso: rispetto ad altri lavoratori disponibili sul mercato, produce meno pluslavoro.

È evidente che nel comunismo il rapporto di ogni persona col suo lavoro cambierà radicalmente (e questa trasformazione verrà attuata per tappe nella fase socialista): ogni persona contribuirà secondo le sue forze capacità al lavoro complessivo necessario alla produzione e alla riproduzione delle condizioni materiali all’esistenza della società (e quale e quanto sia questo lavoro sarà una decisione collettiva, un “affare pubblico”), svolgendo nella sua vita una quota anch’essa definita collettivamente, come si decide un affare pubblico, di quel lavoro.

 

2. Nell’attuale sistema pensionistico, i soldi per pagare le pensioni correnti sono dati dai “contributi sociali” (in parte detratti dalla paga lorda dei lavoratori in attività e in parte a carico dell’azienda e da questa comunque computati nel “costo del lavoro”).(5)

 

Le categorie della “scienza” economica borghese complicano e confondono; usando le categorie scientifiche elaborate dal marxismo, le pensioni fanno parte a pieno titolo del salario pagato al lavoratore.(6) Attualmente, se un lavoratore in attività in un posto di lavoro a contratto (quindi esclusi i lavoratori in nero, ecc.) ha una paga lorda di 100 lire, circa 10 vanno in contributi sociali, 20 in ritenute fiscali e 70 in busta paga (salario netto diretto). L’azienda paga a sua volta altre 40 lire in contributi sociali. Quindi l’azienda ha un “costo del lavoro” di 140 (per semplicità non si tiene conto di co sti indiretti come mensa, ecc.). Di questi 70 vanno al lavoratore, 50 all’INPS (o ad altro ente previdenziale) e 20 allo Stato. L’INPS a sua volta paga 50 in pensioni (non teniamo conto delle ruberie, dei costi di funzionamento, degli “stipendi” e “trattamenti” degli alti dirigenti, del costo delle intermediazioni di patronati e trafficoni vari, ecc.).

 

5. Misure come la “fiscalizzazione degli oneri sociali”, i “contratti di formazione-lavoro”, ecc. avevano e hanno lo scopo di diminuire il “costo del lavoro” per le aziende esonerandole in tutto o in parte dal pagamento della loro quota di contributi pensionistici. Anche il lavoro in nero ha, tra gli altri, anche questo scopo: liberare l’azienda dal pagamento dei contributi al sistema pensionistico.

 

6. Le pensioni fanno parte del valore della forza-lavoro e quindi anche del suo costo. Nella società attuale vengono confuse nella stessa categoria di “pensioni” anche le prebende, gli appannaggi e i redditi che a vario titolo vengono erogati ai membri della classe dominante e ai loro agenti (i 12 milioni mensili di pensione del ministro Dini, ad esempio e quelli degli ex ministri Gaspari o Craxi) che si confondono cosi con le pensioni pagate ai proletari anziani o invalidi; cosi come si confondono nell’unica categoria di “salari-stipendi” i redditi erogati al ministro Dini e al presidente della Montedison, il salario pagato all’operaio della FIAT e lo stipendio pagato all’impiegato della USSL. Salvo accorgersi (e nascondere) in periodo di crisi che per far funzionare il modo di produzione capitalista (o meglio, per prolungarne l’agonia) occorre aumentare i primi e diminuire i secondi, tanto sono tra loro diversi non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente.

La confusione sopra indicata è per altro una conferma che la divisione della società in classi è “storicamente superata” e attende solo l’esecuzione della sentenza per diventare effettiva.

 

Guardiamo ora le cose dal punto di vista dell’intero paese e della ripartizione del suo prodotto nazionale lordo annuo. Per capire la sostanza del problema semplifichiamo.

Supponiamo che tutti i lavoratori lavorino alle dipendenze di capitalisti e che, quindi, il valore dell’intero prodotto nazionale lordo annuo si suddivida nelle tre categorie in cui si suddivide il prodotto del processo lavorativo messo in moto dal capitale, come Marx ha abbondantemente illustrato:

- capitale costante: il valore delle materie prime, dei semilavorati e della quota dei mezzi di produzione consumata durante l’anno (ammortamenti);

- capitale variabile: il valore della forza-lavoro che supponiamo misurata dalla somma di salari e pensioni;

- plusvalore: la quota di valore di cui si appropriano i capitalisti, comprensiva di profitti, rendite e interessi.

Supponiamo che le tasse riscosse dallo Stato si dividano, quanto alla loro destinazione, in tre parti:

- una prima parte impiegata per pagare salari-stipendi e pensioni a lavoratori dipendenti, per fare trasferimenti alle famiglie e per erogare servizi alle famiglie (sistema sanitario nazionale, scuole, ecc.: salario indiretto) e quindi facente parte del capitale variabile;

- una seconda parte spesa per l’acquisto di merci e per il proprio funzionamento, equiparabile alla parte del suo reddito che un ricco percettore di profitti, interessi o rendite spende nell’acquisto di merci per il suo consumo e quindi la conteggiamo nel plusvalore;

- una terza parte impiegata in trasferimenti alle aziende e in erogazione a vario titolo a esponenti della classe dominante e suoi omologhi o agenti (e la conteggiamo quindi anch’essa nella voce plusvalore).

Con queste e altre minori semplificazioni assumiamo che prodotto nazionale lordo annuo di 1.000 si suddivida in:

 

salari

140

pensioni

120

plusvalore

300

capitale costante

440

totale prodotto naz. Lordo

1.000

 

Le cifre sono arbitrarie e servono solo per porre una base rispetto alla quale poter indicare i cambiamenti introdotti da un nuovo sistema pensionistico o dalla crescita del rapporto numerico pensionati/lavoratori attivi.

Nel nostro esempio, il costo del lavoro per i capitalisti è 140 + 120 + 40 = 300, di cui il 46% va ai lavoratori attivi e il 40% va agli ex lavoratori pensionati (la terza voce, 40, sta a rappresentare le ritenute fiscali usate dallo Stato per l’acquisto di merci e per il suo funzionamento, il cui ammontare è da noi per ipotesi posto eguale a 40), mentre il valore  della forza-lavoro è 140 + 120 = 260.

 

3. Se si lasciano andare avanti le cose cosi, i lavoratori prenderanno sempre di meno e sempre più lavoreranno per mantenere i pensionati.

 

Se il numero dei pensionati aumenta e il costo del lavoro (come voce del prodotto nazionale lordo) resta fisso a 300 (e i capitalisti ci dicono: guai ad aumentarlo, ne andrebbe della competitività delle aziende e dei posti di lavoro! Chi lo vuole aumentare ci costringe a licenziare, è un nemico dei lavoratori! Ci impedisce di assumere, è un nemico dei disoccupati! Tutte cose che nella logica dei rapporti di produzione capitalisti in determinate circostanze sono vere),(7) occorre ridurre quanto va in tasca ai lavoratori. Se ad esempio il Monte pensioni sale a 140, il monte salari deve ridursi a 120. Perché i pensionati vivono alle spalle dei lavoratori.

 

7. È altamente significativo della reale disuguaglianza tra le classi, della diversa dignità sociale delle varie classi in cui divisa la società capitalista il fatto che lo Stato può imporre imposte e vessazioni varie ai lavoratori dipendenti, ma deve essere rispettoso del “mercato”, ossia della volontà dei capitalisti quando si tratta dei loro redditi e profitti. Infatti i lavoratori devono comunque lavorare altrimenti non mangiano; invece i capitalisti non investono (“non intraprendono” direbbe Berlusconi) se i loro redditi e profitti non sono di loro soddisfazione e continuano a “godersi la vita”. I lavoratori possono essere obbligati, dei capitalisti occorre ottenere l’accordo.

 

Come sono bravi i borghesi! Quando parlano dei rapporti capitale/lavoro, si fanno in quattro a dimostrare che non è solo il lavoro che “produce”, ma anche il capitale “produce”. Quando si tratta invece di trovare dove attingere per pagare le pensioni, ovvio che bisogna attingere ai salari. Ma il capitale non “produce” anch’esso? Non si può attingere a quanto esso produce? Si, ma il suo “prodotto”, il profitto, non si può toccare, se no ne va di mezzo l’intera “economia nazionale”. Ma andiamo oltre queste quisquilie.

Se il monte “costo del lavoro” diminuisce, poniamo da 300 a 280 (per riduzione dei salari, per fiscalizzazione degli oneri sociali, per diminuzione del numero dei lavoratori, ecc.) e il “monte pensioni” aumenta (per l’aumento del numero dei pensionati, ecc.), la suddivisione diventa del tipo

100 (salari) + 140 (pensioni) + 40 = 280

Ai lavoratori attivi va il 36%, ai pensionati i1 50%. Inaudito! Chi lavora, lavora per mantenere i pensionati! Altro che “diritto alla vita”, bisogna far fuori i pensionati! Qualche “impertinente” potrebbe dire: “Meglio lavorare per mantenere i miei vecchi che sono in pensione e che comunque non potrei lasciare morire in miseria, piuttosto che lavorare per mantenere padroni e parassiti!”. Ma lasciamo stare anche queste quisquilie!

 

4. Occorre passare dall’attuale sistema pensionistico (retributivo a ripartizione) a un sistema “contributivo a capitalizzazione”. Ogni lavoratore attivo consegna, volontariamente o obbligatoriamente,(8) una parte del suo salario, come risparmio, a una società di assicurazione “di sua scelta”.(9) Questa gli assicura, dopo un certo tempo o a un’età definita, un vitalizio proporzionale a quanto ha versato (grossomodo come per gli attuali fondi pensioni delle assicurazioni e come avrebbe dovuto avvenire con l’INPS fino al 1945).(10)

 

Se questo sistema funzionasse a livello nazionale e per tutti i lavoratori, cosa cambierebbe rispetto all’attuale sistema?

Ogni pensionato incasserebbe la sua pensione non più come “regalo” dell’INPS o come “regalo” che i lavoratori attivi gli fanno tramite l’INPS, ma, semplificando, come interesse e quota del suo risparmio, che la società di assicurazione gli paga perché ha fatto fruttare il suo risparmio inglobandolo nei capitali monetari che essa manovra.

 

8. Tenuto presente che l’attuale Stato italiano non si fida a consegnare ai lavoratori dipendenti neanche la parte dei salari che devono versare al fisco, ma la fa trattenere direttamente dall’azienda (ritenuta alla fonte), sul “volontariamente o obbligatoriamente” ci sarebbe da scrivere un romanzo! I capitalisti hanno bisogno di aumentare il loro bottino, cioè il denaro da gettare in pasto al loro sistema finanziario. Quanto ai salari, non si può correre il rischio che ai lavoratori venga in mente di  spendere tutto, scialacquoni come sono, per poi dipendere dalla “pubblica beneficenza”!

 

9. Una scelta “libera” come è libera per un salariato la scelta del padrone presso cui lavora: spesso non sa neppure chi è il padrone dell’azienda in cui lavora e grazie tante a trovarne una. Certamente non saprà chi il padrone dell’assicurazione con cui fa il contratto!

 

10. Come si vede, le proposte di Dini, Mastella, Urbani, ma anche Visco, Spaventa, Giugni, Pizzuti, ecc., sono una scoperta avveniristica! È significativo che l’INPS, fondata nel 1930, nel 1945,  quando in base al sistema a capitalizzazione avrebbe dovuto incominciare a pagare le pensioni, passò al sistema a ripartizione (pagare pensioni con i contributi che si incassano), perché i risparmi forzosi incamerati erano scomparsi nella voragine degli investimenti finanziari della guerra. Questo sarà il futuro anche del nuovo sistema a capitalizzazione, se questo o il successivo governo dovessero riuscire a introdurlo.

 

E se la società di assicurazione è fallita? Se i suoi investimenti hanno reso poco o nulla? Se il suo capitale ha trovato un’anonima e silenziosa via verso le tasche dei suoi amministratori? Se gli investimenti e le speculazioni finanziarie e immobiliari della società di assicurazioni si sono rivelati un disastro? Pagherà per un po’ con le quote fresche che le vengono dai nuovi assicurati e poi ... fallirà! Ma lasciamo anche queste quisquilie!

Se i redditi dei pensionati non diminuissero rispetto ai casi precedenti, il prodotto nazionale lordo dovrebbe ora suddividersi

- quantitativamente nelle stesse parti viste nei casi precedenti. Prendendo il primo caso: costo del lavoro 300 di cui 140 ai consumi, 120 al risparmio consegnato ai fondi pensioni delle assicurazioni e 40 di tasse. Ai pensionati 120 derivate dalla voce profitti, interessi e rendite.

- qualitativamente le pensioni si troverebbero alla mercé degli andamenti e degli sconvolgimenti del capitale finanziario da cui dipenderebbero (andamento delle quotazioni dei titoli, inflazione, speculazioni finanziarie e immobiliari, truffe e raggiri, ecc.).

In sostanza, se si esclude che il “monte pensioni” diminuisca o se si ammette che esso aumenti, la situazione non è cambiata, salvo che ora i pensionati ricevono come interesse quello che prima ricevevano come pensione. Ma con più incognite e possibilità di raggiri anche rispetto all’attuale non rosea situazione. Anziché passare direttamente (si fa per dire, conoscendo la storia dell’INPS, dell’INPDAP, ecc. che attualmente sono incaricate di questo passaggio) dalle aziende (almeno da quelle che la versano davvero all’INPS) ai pensionati, la parte di salario sottoposta, domani come oggi, a risparmio forzoso passerebbe attraverso le “abili” mani dei finanzieri delle società assicurative!

Ma nel periodo di transizione da un sistema all’altro (ossia per tutti gli anni di cui vale la pena che qui ci interessiamo), i lavoratori in attività dovranno continuare a versare i contributi sociali all’INPS, oltre che versarne altri alle assicurazioni “di loro scelta”: altrimenti come farebbe l’INPS a pagare le pensioni correnti? Di conseguenza i salari netti saranno drasticamente ridotti, come avvenne negli anni ’30 per imposizione del governo fascista.

Comunque lo si rigiri, ogni esame porta alla conclusione che la sostanza della riforma proposta, quali che siano le misure e le regole adottate, in realtà consisterà solo in

- riduzione dell’ammontare delle pensioni correnti;

- riduzione delle persone coperte da pensione dei casi di invalidità, inabilità, ecc. coperti;

- precarizzazione delle pensioni che ancora sussisteranno;

- una boccata di aria fresca, un pingue bottino per finanzieri, banchieri, assicuratori, ecc. che andrebbe a colmare per un po’ la fame di danaro del casinò del capitale finanziario.

Gli obiettivi reali dei ventilati progetti di riforme del sistema pensionistico sono quindi due: pagare meno ai pensionati (diminuire quanto INPS, Stato, INPDAP, ecc. versano ai pensionati) e far pagare ai lavoratori (sotto altro nome) più di quanto oggi pagano come contributi sociali (condendolo con “libera scelta della società assicuratrice”, promesse mirabolanti su quanto gliene verrà, ecc.): i padroni litigano già su chi di essi incasserà l’equivalente degli attuali contributi sociali, sulla spartizione del bottino che stanno cercando di estorcere ai lavoratori.

 La sostanza della riforma quindi, comunque venga definita, è la riduzione delle pensioni e l’aumento dei contributi, ossia la riduzione dei salari.

È inevitabile questa riduzione con l’attuale sistema finanziario? Permanendo i rapporti di produzione capitalisti, la tendenza alla riduzione delle pensioni e dei salari in qualche misura si realizza, più o meno celermente (contribuendo ad aggravare uno dei fattori della crisi politica, la contraddizione tra borghesia imperialista e masse popolari). Quanto questa tendenza alla riduzione dei salari si realizzi e quanto celermente si realizzi, dipende dalla resistenza che incontra da parte delle masse popolari e dal resto delle circostanze politiche (basta pensare a questo per comprendere l’importanza delle lotte difensive in periodo di crisi e la loro possibile efficacia).

Nel corso della crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale, aumenta via via il capitale esistente nella veste di capitale finanziario: ossia cresce la montagna di titoli di credito che esigono il pagamento di un interesse quale che sia l’andamento della produzione di plusvalore. D’altra parte la produzione complessiva in termini di valore (ossia, semplificando,(11) di monte ore lavorate) non cresce o addirittura diminuisce e comunque non cresce in proporzione alla crescita del capitale finanziario (ossia del capitale nominale, del capitale fittizio). La quantità di interessi da pagare cresce e non può non essere pagata. Se non fosse pagata, ciò provocherebbe il collasso di tutto il castello dei titoli di credito, ossia l’annullamento del “valore” (12) dei titoli di credito, cioè del capitale finanziario; ne conseguirebbe lo sconvolgimento di tutto l’apparato economico di cui quello è la sovrastruttura (a meno che questo sia preso in mano dalla classe operaia che si imponga come nuova classe dirigente della società e lo faccia funzionare al di fuori dei rapporti di produzione capitalisti, ossia a meno di una rivoluzione socialista). Ma la borghesia imperialista, che è la personificazione del modo di produzione capitalista, lotta in ogni modo e con ogni mezzo per conservarlo e quindi per evitare questo sbocco.

 

11. “Semplificando” in questo contesto equivale a dire ’a parità di altre condizioni”, ossia escludendo variazioni del rapporto tra lavoro semplice e lavoro qualificato, di intensità del lavoro, ecc.

 

12. L’espressione “valore” qui non sta ad indicare l’omonima categoria economica marxista, ma è usata nel significato che essa ha nel linguaggio corrente.

 

13. Plusvalore relativo è il plusvalore che si ottiene diminuendo, a parità di valore prodotto (quindi, esemplificando, di monte ore lavorate) il valore della forza lavoro, equivalente al salario.

 

14. Stando alle stime correnti, solo il mercato dei titoli finanziari derivati (cioè non titoli di proprietà di aziende produttrici di beni o servizi, ma titoli su titoli) ha aggiunto a livello mondiale nel 1994 i 14.000 miliardi Ai dollari USA, ossia circa il doppio del prodotto interno lordo (PIL) annuale degli USA.

 

Per evitare il collasso del sistema del capitale finanziario che si preannunzia con mille sintomi (in realtà per ritardarlo), la borghesia imperialista ha solo due vie. 1. ricorrere alla moltiplicazione del capitale finanziario e 2. ricorrere alla riduzione dei salari diretti e indiretti (spese “sociali”) e delle pensioni, cosa che aumenta il plusvalore relativo (13) e quindi la massa complessiva del capitale estorto. Finché questo le riesce, il collasso è differito.

1. La moltiplicazione del capitale finanziario e una prassi che è stata largamente praticata nel corso oramai quasi ventennale dell’attuale crisi generale: attraverso il ricorso alla moltiplicazione della massa monetaria (e l’inflazione che in condizioni di sovrapproduzione assoluta di capitale ne consegue) e all’indebitamento (l’emissione di nuovi titoli di credito). È questo che ha determinato la crescita del capitale finanziario al livello che ha attualmente raggiunto.(14) Ma ciò “compromette l’equilibrio finanziario” (rende sempre meno stabile il castello di carta) e accelera l’aumento della massa di interessi da pagare. È come pagare un debito contraendo un nuovo debito a tasso più alto e poi pagare il debito risultante contraendone un altro ancora maggiore a tassi ancora più alti e cosi via: il processo che ben conoscono le vittime degli usurai. Detto questo è anche chiaro lo sbocco del processo.

2. L’aumento della massa del plusvalore tramite l’aumento del plusvalore relativo significa riduzione dei salari, delle  pensioni e dei servizi sociali (sanità, scuola, ecc). La borghesia imperialista sta seguendo anche questa via da anni: è quello che chiamiamo peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle masse popolari ed eliminazione delle conquiste strappate dalle masse popolari nel periodo del “capitalismo dal volto umano”. Ma anche la massa del plusvalore che nasce dalla crescita del plusvalore relativo in condizioni di sovrapproduzione assoluta di capitale viene convertita in capitale finanziario, benché non richieda l’aumento dei tassi di interesse e anzi contrasti la tendenza alla caduta del saggio del profitto. È la via sulla quale la borghesia imperialista preme l’acceleratore di fronte alla crescente “instabilità del sistema finanziario”. Essa premerà tanto più l’acceleratore su questa via quanto minore sarà la resistenza che incontrerà da parte della classe operaia e delle masse popolari. Infatti questa è per la borghesia finanziaria una via che imprime alla crescita della massa del capitale finanziario un’accelerazione minore di quella impressa dalla diretta moltiplicazione del capitale finanziario. Quindi la preferenza per essa è, dal punto di vista dei suoi interessi, una preferenza “scientifica”, benché questa “scienza” sia ignota alla borghesia imperialista che è spinta su questa via da motivi più immediati e superficiali.

L’obiettivo perseguito dalla borghesia imperialista nello scontro in corso quindi in sostanza si riduce:

- nell’immediato a sacrificare i lavoratori (attivi e pensionati) per tutelare i titolari di interessi e rendite (nel linguaggio della borghesia di sinistra: togliere ai poveri per dare ai ricchi);

- in termini più generali, storici, a prolungare l’agonia del suo sistema, a ritardare lo sconvolgimento sacrificando a questo scopo i pensionati e più in generale i lavoratori dei paesi imperialisti, come già ha sacrificato (e sta sacrificando) a milioni le popolazioni dei paesi semicoloniali.

Abbiamo con ciò risposto anche alla domanda: le riduzioni delle pensioni (e dei salari) salveranno il sistema finanziario dalla catastrofe?

La borghesia imperialista rallenta la corsa verso la catastrofe, non l’arresta. Distruggendo il sistema di sicurezza sociale (di cui fa parte il sistema pensionistico) che essa sotto l’incalzare della lotta di classe aveva creato durante il periodo di ripresa e sviluppo (1945-1975),(15) a sua insaputa impersona il capitale in preda alla seconda crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale che si apre il cammino distruggendo quelle forme antitetiche dell’unita sociale (16) che lo intralciano, che non permettono alle leggi proprie del modo di produzione capitalista di sviluppare in tutta ampiezza la loro forza devastante, cosa indispensabile affinché la crisi stessa trovi una sua soluzione che resti ancora nell’ambito dei rapporti di produzione capitalisti.

 

15. Nella nota 2 abbiamo mostrato che nel nostro paese il sistema pensionistico, nato tra il 1906 e il 1930 come mezzo per ridurre i salari - oltre che in risposta, sul terreno del capitalismo, al carattere collettivo assunto dall’attività economica della società - ha cambiato natura nel periodo di ripresa e sviluppo del capitalismo (periodo detto del “capitalismo dal volto umano”) 1945- 1975. È diventato uno dei pilastri dello “Stato del benessere”, di fatto del sistema di sicurezza sociale. Esso infatti doveva fornire sicurezza di vita alla massa della popolazione anche in caso di vecchiaia, di invalidità e di sospensione dal lavoro (cassa integrazione guadagni). Contemporaneamente contribuiva anche di assicurare la continuità del volume degli acquisti di merci-beni di consumo. Tutto ciò “incompatibile con l’equilibrio del sistema finanziario” stante la crisi generale in corso.

 

16. Per le forme antitetiche dell’unità sociale vedasi Rapporti Sociali, n. 4, pag. 20 e segg.

 

Tutti i sacrifici che la borghesia imperialista oggi impone, se accettati e sopportati, non fanno che accelerare la corsa verso la distruzione del capitale accumulato oramai in misura inaccettabile per il capitale stesso (questa è la sovraccumulazione assoluta di capitale), ossia verso la catastrofe. Catastrofe che, come è già stato vane volte spiegato su questa rivista, come è già sotto gli occhi di tutti e come è ben visibile dalla storia dell’epoca imperialista, non si concretizza nel “crollo” del sistema, ma nel precipitare della crisi politica e culturale, ossia dello scontro tra mobilitazione rivoluzionaria e mobilitazione reazionaria delle masse, tra rivoluzione socialista e guerra interimperialista.

Di fronte a questa corsa impressa alla società dal modo di produzione capitalista, cosa devono fare i portavoce della  classe operaia che lotta per il potere, i comunisti?

1. Sostenere, promuovere e organizzare ogni lotta difensiva, quale che ne siano le forme e le dimensioni, delle masse popolari (anche quelle che riguardano una sola piccola frazione delle masse popolari, che inizialmente saranno la stragrande maggioranza) contro le misure che la borghesia imperialista vuole prendere, per contrastarle, impedirle, ritardarle, attenuarle il più possibile.

2. In ogni lotta di difesa porsi sempre come obiettivo anche la mobilitazione, la raccolta e l’unificazione delle forze popolari per incanalarle nella lotta per una società socialista.

Non ripeteremo mai abbastanza, infatti, che ogni lotta di difesa

- da una parte è utile alle masse popolari, perché in determinate circostanze può strappare successi nell’immediato e può in ogni caso contribuire ad accrescere le forze rivoluzionarie, cioè alla mobilitazione rivoluzionaria delle masse;

- dall’altra, se in essa non si realizza questo secondo obiettivo, ogni suo risultato immediato verrà prima o poi eliminato perché, per le leggi oggettive che lo sviluppo del capitalismo segue, si creeranno le condizioni sociali che renderanno impossibile mantenerlo. Senza attacco, ogni lotta di difesa diventa, per alcuni aspetti, una componente della mobilitazione reazionaria delle masse in quanto i suoi protagonisti diventano, consapevolmente o meno, collaboratori della borghesia, movimento “corporativo”,(17) componente o meno stabile) del suo esercito nella lotta contro il resto delle masse popolari che si troveranno sempre più divise nello scontro con la borghesia imperialista.

 

17. Il corporativismo consiste nella “collaborazione” di capitalisti e salariati (padroni e lavoratori) sotto la direzione dei capitalisti.

 

 

3. Un’opposizione che si prepara a governare, gli alleati-concorrenti di Berlusconi e la lotta delle masse popolari

Le TV, di Stato e no, indicano D’Alema, Cofferati e compagnia (ossia il PDS, il Polo progressista, CGIL-CISL-UIL e addirittura Bossi, Fini, CISNAL, ecc.) come campioni della lotta in difesa delle pensioni e dei salari, come fieri difensori delle pensioni.

In ogni scontro concreto, tutti quelli che sparano sul mio nemico concorrono alla mia vittoria. Quindi i comunisti, la classe operaia e le masse popolari possono giovarsi del fatto che i paladini del “rigore” (contro le masse popolari) e dei sacrifici (dei lavoratori), gli alleati di Berlusconi, ecc. approfittino del fatto che il successo elettorale ha posto lui a capo del governo che deve attuare la “volontà” comune di tagliare le pensioni, per portargli via un po’ del “consenso popolare”: se egli fallisce nel compito, il posto diventa vacante e i giochi del potere si riaprono. Ma la prima indispensabile condizione per servirci noi di loro, è di non lasciare a loro la direzione della lotta, di fare in modo e che anche questa lotta serva anzitutto come strumento per mobilitare, raccogliere e organizzare forze rivoluzionarie e di non lasciarci legare le mani in nome dell’unità con loro. Essi lottano contro Berlusconi per i loro interessi, che sono diversi dai nostri. Proprio per questo, non è vero che essi lottano “alla condizione che le masse popolari stiano ai loro ordini”, se le masse popolari “non esagerano”, come sostengono i fautori dell’unità agli ordini della borghesia. Essi lottano per i propri interessi e sono costretti a rincorrere le masse popolari per avere armi nella loro concorrenza a Berlusconi. Con la direzione della lotta nelle loro mani, la sconfitta delle masse popolari è sicura e noi saremo serviti solo come massa di manovra per loro.

Chi condivide sinceramente un obiettivo, dispone tutte le forze per conseguirlo, svolge tutta la sua condotta in modo da giovare al suo raggiungimento. Proprio il contrario di quello che fanno quei signori. CGIL-CISL-UIL indicono scioperi generali e mobilitazioni di massa “a difesa delle pensioni”. Ma da anni e ancora in questi giorni stanno facendo di tutto per scoraggiare, dividere, demoralizzare i lavoratori, per legare loro le mani in ogni lotta, per convincerli che “qualche sacrificio bisognerà farlo”, ecc. Il corso di gran lunga principale delle loro attività, la linea direttrice della loro politica  non ha fatto che preparare le condizioni perché i lavoratori siano sconfitti e contrastare il crearsi delle condizioni indispensabili al successo dei lavoratori. Essi preparano le condizioni per cui una lotta non può che essere sconfitta, quindi si servono della sconfitta per accrescere la demoralizzazione e la confusione tra i lavoratori. Quello che essi veramente vogliono è che il “consenso popolare” ti porti a occupare il posto che ora è di Berlusconi. Alla borghesia imperialista essi giurano di essere capaci di fare, con Ciampi, Giugni, Spaventa, ecc. quello che cercano di impedire che riesca a fare Berlusconi. E ben venga il loro attuale tentativo che non può che giovare alla nostra lotta, se solo non ci lasciamo menare per il naso.

La differenza che essi rivendicano rispetto a Berlusconi quella di essere capaci di “attuare una politica di rigore” (e governo Ciampi anche se è durato poco ci aiuta a capire il reale significato dell’espressione) senza “scontro sociale”, con il “consenso delle parti sociali”. Cioè ridurre pensioni e salari (il governo Ciampi insegna) senza permettere che si creino le condizioni perché il malcontento delle masse popolari diventi una forza politica, forza che invece essi, da “signori delle masse” come si reputano, minacciano di scatenare contro Berlusconi.

“Consenso delle parti sociali” significa infatti l’accordo delle grandi organizzazioni sindacali e dei grandi partiti dell’opposizione (del Polo progressista) che hanno capacità di “mobilitazione della piazza”, a non fare da punto di riferimento, di centralizzazione e di mobilitazione del malcontento e dell’opposizione popolare, in modo che il malcontento, l’opposizione e la protesta della grandi masse della popolazione restino frammentate, disperse, un malcontento molecolare di milioni di individui che danno luogo solo a proteste di piccoli gruppi e alimentano solo comportamenti individuali che la cultura di regime definisce “asociali”, “assurdi”, “inspiegabili”.

Il “consenso delle parti sociali” è ottenuto con concessioni di particolare interesse per ognuna di loro (tanto, come dice candidamente Dini che “ha studiato’ e ha letto Keynes,(18) i soldi si fanno intervenendo su grandi numeri, sulle grandi masse: non serve “infierire” su piccoli gruppi, e poi si può sempre ripensarci!), con leggine e decreti ministeriali che “stanno particolarmente a cuore”, facendo un po’ di posto nella spartizione del bottino (che diamine, CGIL-CISL-UIL, CISNAL, ecc nell’INPS e negli altri enti previdenziali ora minacciati avevano delle belle entrate e dei comodi posticini!) con posti, appannaggi e privilegi, con promesse di chiudere gli occhi su questo o quello (“state tranquilli che nessuno metterà il naso in ...”), con ricatti e minacce (“e la volta che andiamo a vedere chiaro in ...”). Questo è il terreno su cui “le parti sociali” tratteranno con Berlusconi e il suo governo. Saperlo è una buona cosa se vogliamo giovarci della loro “opposizione” e non restare a terra quando troveranno, certamente dopo “lunghe ed estenuanti trattative in riunioni fiume e notturne”, un accordo che “limita i sacrifici rispetto a quelli che inizialmente il governo, e Dini più di tutti, ritenevano necessari”.

 

18. J.M. Keynes, Il finanziamento della guerra. In esso Keynes “dimostra” che l’unico modo in cui il governo britannico può finanziare la guerra (si trattava della seconda guerra mondiale) è ridurre i1 reddito della massa della popolazione, perché il prelievo sui ricchi non sarebbe comunque bastato e inoltre avrebbe indotto i ricchi a desistere dall’intraprendere e quindi avrebbe rovinato l’economia nazionale, cioè tutti. Keynes propone però anche che il governo prometta solennemente alle masse popolari che, a vittoria conseguita, ecc., ecc.: il lettore si immagini il roseo futuro promesso!

 

In conclusione che fare? Per “fare l’opposizione” e ottenere qualcosa, oppositori e alleati di Berlusconi dovranno in qualche misura fare da cassa di risonanza del malcontento delle masse popolari, dovranno il qualche misura fare da centro di mobilitazione delle masse popolari (fare denunce, indire manifestazioni, ecc.). Noi dovremo servirci al massimo grado di cui siamo capaci delle loro iniziative, per sopperire al fatto che nel nostro paese nessun organismo comunista oggi è ancora nelle condizioni di essere punto di centralizzazione e di mobilitazione generale per le masse, dovremo portare avanti la nostra politica indicata sopra, in queste iniziative oltre che nelle iniziative che saremo in grado di promuovere noi stessi.

 Vale la pena di ricordare che ciò è esattamente contrario di quanto vanno predicando e praticando comitati, organismi e “quarti sindacati” “veramente rivoluzionari”, “veramente onesti”, “veramente comunisti”, ecc. che isolano solo alcuni lavoratori dalla massa dei lavoratori per illudersi di essere, loro, meno soli e isolati nello “splendido isolamento” che essi stessi si costruiscono.