Per il bilancio dell’esperienza dei paesi socialisti

Rapporti Sociali n. 5/6,  gennaio 1990 (versione Open Office / versione MSWord )

Proponiamo ai nostri lettori queste note sommarie sul bilancio dell’esperienza dei paesi socialisti, benché siano solo un primo approccio al problema. “L’analisi è il presupposto necessario della esposizione genetica, della comprensione del processo reale di formazione nelle sue diverse fasi”, e l’analisi dell’esperienza dei paesi socialisti è ancora sommaria, nel movimento rivoluzionario italiano. Proprio per questo pubblichiamo queste note. Speriamo infatti sopratutto che siano di stimolo a qualche lettore a intraprendere lo studio sistematico dell’argomento. A tali lettori la redazione di Rapporti Sociali assicura l’appoggio di bibliografie, di documenti e di partecipazione alla riflessione.

 

Quali sono gli insegnamenti dell’esperienza dei paesi socialisti a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre a oggi?

Una volta preso il potere politico, tolto il potere alle vecchie classi dominanti, distrutto il vecchio Stato e creato al suo posto un nuovo Stato, le masse proletarie e popolari, sotto la direzione del Partito Comunista e delle organizzazioni di massa e con l’aiuto del nuovo Stato, iniziano a trasformare i rapporti di produzione.

La conquista del potere da parte del proletariato e l’eliminazione delle istituzioni di dominio della borghesia non portano infatti di per se stesse all’instaurazione di nuovi rapporti di produzione, né questi nuovi rapporti di produzione sorgono immediatamente né essi sono ordinamenti legislativi che si instaurano con un atto di Stato.(1) Di conseguenza esse non determinano neanche, di per se stesse, l’estinzione dello Stato, ma instaurano un nuovo Stato che, stante il ruolo che la nuova classe dominante (la classe operaia) ha nella società, ha in sé i germi della sua graduale estinzione. (2)

 

1. Solo la fantasia elusiva dei processi reali di Antonio Negri, di Rossana Rossanda e di altri declamatori della “maturità del comunismo” poteva partorire l’idea dei nuovi rapporti di produzione come un ordinamento della società già pronto a cui solo la resistenza della borghesia impediva di avere corso.

 

2. Quando i marxisti dicono estinzione dello Stato non intendono la scomparsa di organismi dove si forma la volontà collettiva dei membri della società e che danno ad essa esecuzione. I borghesi e i loro succubi contrabbandano lo Stato attuale per un organismo del genere (ossia come portavoce ed esecutore della “volontà della società”) e quindi travisano in tal senso la parola d’ordine dei comunisti, rendendola una parola priva di senso. È evidente infatti che nella società socialista e comunista dovranno esistere e finalmente esisteranno organismi in cui si esprime la volontà collettiva e che daranno ad essa attuazione, proprio per il ruolo che finalmente il collettivo assumerà nei riguardi dell’attività produttiva di ogni membro della società, in conformità con le esigenze già poste dal processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza quale il capitalismo l’ha sviluppato. I marxisti dicono estinzione dello Stato nel senso di estinzione di quello che lo Stato principalmente è nelle società divise in classi antagoniste: monopolio della violenza organizzata, con cui la classe dominante impone la sua legge alle altre classi, sia o no questa sua legge presentata come “volontà generale”. Per chi comprende questa sostanza dello Stato, è ovvio che la sua estinzione procede di pari passo con la scomparsa della divisione della società in classi antagoniste.

 

 

Dopo l’instaurazione del proprio potere politico, del proprio Stato, il proletariato si trova di fronte il compito di superare il rapporto di produzione capitalistico (il dominio del lavoro morto sul lavoro vivo, il rapporto in cui il lavoro passato subordina a sé e succhia il lavoro vivo per accrescersi, il ruolo di venditori di forza lavoro in cui la società borghese pone e mantiene i lavoratori).

Più alla radice, il proletariato si trova di fronte il compito di superare il rapporto di produzione mercantile su cui poggia il rapporto di produzione capitalistico (una produzione sociale compiuta da individui tra loro indifferenti, individui dipendenti l’uno dall’altro per la produzione delle condizioni della propria esistenza, che lavorano come se  questa dipendenza non esistesse: una unità sociale non riconosciuta a priori, affermantesi solo a posteriori nello scontro tra gli individui sul mercato).(3) Il proletariato si trova quindi di fronte il compito di creare istituzioni sociali adeguate alle forze produttive già sociali, di sviluppare le forze produttive ancora prevalentemente individuali, di creare gli strumenti della gestione da parte dei lavoratori associati del processo produttivo in conformità ai loro bisogni.

 

3. Questi compiti della transizione dal capitalismo al comunismo, quindi i compiti della fase socialista, sono chiariti meglio nell’articolo Il socialismo: transizione dal capitalismo al comunismo pubblicato in Rapporti Sociali n. 0 (Don Chisciotte) p. 20 e segg.

 

Dopo la rivoluzione inoltre, con la distruzione del potere politico dei capitalisti e l’abolizione della proprietà capitalista delle forze produttive non spariscono da sé immediatamente tutte le contraddizioni proprie dei rapporti di produzione che devono essere trasformati, né la vecchia ideologia, né le vecchie piaghe sociali provocate dalla borghesia. Allo stesso modo non spariscono immediatamente l’arretratezza e i limiti sociali, culturali, economici e di ogni altro tipo che il paese appena liberato può avere.

Le forme transitorie che concretamente i rapporti di produzione e le istituzioni della società assumono durante la transizione dal rapporto di capitale al comunismo sono varie e concretamente determinate (non escogitate arbitrariamente) e sottoposte a verifica e al trapasso a forme superiori, in un processo che, a parte il contributo degli slanci soggettivi e la dialettica avanguardia-masse, è necessariamente collegato al processo di superamento del lavoro necessario.

Ci sono inoltre due premesse indispensabili della società comunista. L’abbondanza di beni materiali e la trasformazione degli uomini in tutti i loro aspetti: morali, culturali, ecc. Sono due condizioni che si devono perseguire contemporaneamente durante la fase di transizione dal capitalismo al comunismo.

 

Questa fase che separa la società capitalista dalla società comunista è la fase di costruzione socialista. Una fase di transizione durante la quale si creano le premesse per raggiungere il comunismo. Una fase nella quale ci sono avanzamenti e arretramenti, all’interno della tendenza generale, storica, che è di avanzamento verso il comunismo.

Il socialismo non è dunque un nuovo modo di produzione, ma una fase storica di transizione dal modo di produzione capitalista al comunismo, come ha già messo in chiaro Marx, in Critica del programma di Gotha. Un paese socialista è un paese dove gli uomini sono ancora divisi in classi e vi è lotta tra le classi, dove il rapporto di capitale non è ancora cancellato, ma dove è stata abolita per l’essenziale la proprietà individuale capitalista delle forze produttive e il potere politico (lo Stato) è in mano alla classe che lotta per superare il rapporto di capitale e per trasformare se stessa e l’intera umanità in uomini capaci di padroneggiare uniti le condizioni della propria riproduzione e i propri rapporti, che realizza queste esigenze in organizzazioni, istituzioni, pratiche e abitudini di milioni di uomini. Un paese socialista è un paese le cui istituzioni sociali personificano, danno volontà, coscienza e voce alla forza motrice del superamento del rapporto di capitale, in cui la forza dello Stato e del potere in generale sono tese a facilitare la crescita e la generalizzazione di quei germi di comunismo di cui parlava Lenin nelle sue analisi sul significato dei sabati comunisti.(4)

 

4. Sulle forme transitorie dei rapporti di produzione e delle corrispondenti istituzioni della società, si veda Lenin, La grande iniziativa, in Opere vol. 29 e Rapporto sui sabati comunisti, in Opere vol. 30.

 

Il proletariato, una volta conquistato il potere, applica subito alcune misure che avviano il processo di transizione o che permettono il suo sviluppo. Si tratta poi di vedere se le misure via via prese e la situazione creata continuano ad essere funzionali alla transizione.

 

Il potere politico è esercitato dal proletariato non per definizione. Il proletariato esercita il potere

 1. se il proletariato, il movimento proletario, le organizzazioni del proletariato sono il luogo dove si forma la linea che guida l’azione degli organismi dello Stato,

2. se le persone che compongono gli organismi statali sono in costante interscambio con il proletariato,

3. se la linea che guida l’azione degli organi dello Stato attua gli interessi storici, generali del proletariato,

4. se si promuove la partecipazione delle masse all’esercizio del potere politico (che è qualcosa oltre la partecipazione al dibattito politico e la conoscenza delle questioni politiche) con la conseguente graduale diffusione delle funzioni politiche e conseguente estinzione dello Stato come corpo separato che ha il monopolio della repressione.

 

Uno degli aspetti che differenzia la società socialista da quella capitalista è la proprietà dei mezzi di produzione. Abolire la proprietà individuale capitalista dei mezzi di produzione, farli proprietà di una organizzazione sociale (nell’URSS tale organizzazione fu sia lo Stato federale, sia gli Stati repubblicani, sia i soviet locali) è un passo necessario (non è una misura esclusiva: anche la proprietà cooperativa, cioè la proprietà di un gruppo di lavoratori, è stata in tutti i paesi socialisti la forma di organizzazione dell’attività economica di interi settori produttivi in cui le forze produttive avevano un limitato carattere sociale). Ma una volta abolita la proprietà individuale capitalista dei mezzi di produzione, resta da realizzare una partecipazione effettiva dei lavoratori al governo di essi, un’effettiva collaborazione di ogni unità produttiva con le altre unità produttive, un effettivo orientamento dell’attività di ogni unità produttiva al soddisfacimento di determinati bisogni della società.

La sottomissione delle attività economiche delle singole unità produttive ad un unico piano valido per l’intera società è una caratteristica necessaria della società socialista. Ma se dove esiste un piano del genere, diviene una regola per le unità produttive e per gli individui sottrarsi al piano con sotterfugi, inadempienze ed eccezioni e sviluppare attività escluse dal piano, allora il piano è un piano di carta. O, almeno, esiste una contraddizione tra il piano e l’attività economica reale. Non dobbiamo confondere il fatto che venga redatto e approvato un piano economico con il fatto che l’attività economica degli individui e delle unità produttive sia conforme a questo piano: sono due fatti distinti.

 

Bisogna capire, di fronte a ogni misura e trasformazione, quali passi successivi questa porterà con sé e renderà necessari se verrà effettivamente attuata. Vediamo due esempi.

1. L’autonomia finanziaria ed economica di ogni unità produttiva sulla base di rapporti mercantili con le altre unità produttive comporta necessariamente la mercificazione anche della forza lavoro. Se questa ulteriore misura viene negata per legge, ogni unità produttiva ne risentirà negativamente. A questo punto o si abbandonerà l’autonomia finanziaria ed economica delle unità produttiva o si accetterà la mercificazione della forza lavoro. Non si può avere il capitalismo senza le cose sgradevoli del capitalismo (è quello che sognano i riformisti, ma la loro è un’utopia).

2. L’accettazione della piccola produzione mercantile come sistema generale e prevalente, porta necessariamente alla formazione della grande produzione capitalista o alla arretratezza economica. Quindi se si consolida, incrementa, sviluppa, reintroduce la piccola produzione mercantile, ci si troverà presto di fronte alla necessità o di accettare anche la grande produzione capitalista, che diventerà una “ragionevole e giusta” strada per progredire economicamente o di trasformare la piccola produzione mercantile in produzione socialista.

Quanto alla direzione del cammino, la possibilità di un ritorno al capitalismo e di un nuovo consolidamento del capitalismo in una società socialista dipende da quanto erano sociali le forze produttive già prima della rivoluzione e da quanto è proceduta la trasformazione socialista.

Un paese socialista è un paese dove germi di comunismo ad un livello più o meno avanzato di sviluppo si contrappongono a elementi di capitalismo ad un livello più o meno avanzato di estinzione: gli uni non possono che svilupparsi a spese degli altri. Quale dei due prevarrà dipende da vari fattori. La situazione di un paese socialista è in  qualche modo paragonabile non a quella in cui si trovano gli attuali paesi capitalisti ora che il capitalismo ha prevalso definitivamente sul feudalesimo, ma a quella in cui si trovarono quando forme di produzione capitalista contrastavano ancora forme di produzione feudale.

 

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Nella Rivoluzione d’Ottobre i comunisti e il proletariato risolsero i problemi del mantenimento del potere, della eliminazione della borghesia come classe dirigente e dominante. La storia successiva dell’Unione Sovietica è anzitutto storia di lotte tra classi antagoniste. La storia dell’Unione Sovietica non è una storia di sviluppo continuo: sotto l’apparenza della continuità di uno Stato e di una società civile, vi è la storia reale della lotta del proletariato per la costruzione di un sistema di rapporti sociali comunisti, contro tutta la forza oggettiva e soggettiva, interna e internazionale dell’economia mercantile e dell’economia capitalistica.

 

In URSS, come poi in Cina, i comunisti e il proletariato hanno dovuto fare i conti anche con rapporti sociali di produzione precapitalistici, rispetto ai quali i rapporti mercantili e capitalistici sembravano già un enorme progresso (fu la situazione di gran lunga prevalente in agricoltura dopo la riforma agraria, ma presente anche in altri settori).

Hanno dovuto fare i conti con società nelle quali i rapporti di produzione mercantili e capitalistici non si erano sviluppati fino raggiungere i limiti del loro sviluppo possibile, fino ad esaurire le loro potenzialità. Un tratto essenziale dell’imperialismo è lo sviluppo diseguale dei popoli. In esso si è creata una situazione per cui in interi paesi i rapporti mercantili e capitalistici non si possono sviluppare pienamente.

Di conseguenza in questi paesi, una volta rotta la soggezione e il legame con il mercato capitalistico mondiale, vi è una spinta oggettiva a incamminarsi sulla via del capitalismo, anche se è una via fallimentare perché porta alla reintegrazione nel mercato capitalistico mondiale, ad una nuova sottomissione all’imperialismo e quindi anche al soffocamento dell’incipiente sviluppo capitalistico locale, come vari casi hanno dimostrato.

È la stessa cosa che succede in ogni paese se si considera il produttore piccolo-borghese: esso è soffocato dal grande capitale che impedisce il suo sviluppo. Quindi, in certe condizioni, può essere anticapitalista. Ma una volta liberato dal grande capitale, trova finalmente via libera per svilupparsi e vuole costruire una nuova società capitalista. Ovviamente se si imbocca questa strada, si arriva nuovamente al grande capitale con una massa di produttori piccolo-borghesi soffocati.

 

I comunisti e il proletariato hanno inoltre dovuto fare i conti con la pressione degli Stati imperialisti e del mercato capitalistico mondiale. I limiti del cammino compiuto dall’Unione Sovietica e dalla Cina verso il comunismo e le difficoltà incontrate su questa strada sono stati determinati sopratutto dalla sconfitta della rivoluzione socialista in Europa Occidentale, dall’incapacità dei comunisti e del proletariato europeo di prendere il potere.

Tra le due guerre mondiali, il proletariato italiano, tedesco, austriaco, polacco, finlandese permisero addirittura ai fascisti di prendere il potere senza neanche combattere. Solo in Spagna le masse popolari resistettero per ben tre anni al colpo di Stato fascista.

 

Nel caso concreto dell’Unione Sovietica, questo è stato il primo paese che ha affrontato questa tappa e non poteva contare su esperienze precedenti, come invece hanno potuto fare i paesi che si sono liberati successivamente. Di conseguenza i comunisti sovietici hanno dovuto improvvisare, in molti aspetti, i primi passi di un popolo sulla strada verso il socialismo. Per decine di, anni (fino alla fine della Seconda Guerra mondiale), importanti aspetti della politica sovietica furono determinati dall’incalzare dei paesi capitalisti e dallo stato di guerra, praticamente permanente, in cui  l’URSS viveva.

I comunisti e il proletariato sovietici con alla testa Stalin riuscirono a resistere alle pressioni interne ed esterne e alle aggressioni da cui erano investiti, fino a portare il movimento comunista ad un livello superiore in tutto il mondo, a permettere il trionfo della rivoluzione in Cina e lo sviluppo del movimento di liberazione nazionale in tutte le colonie.

Essi costruirono un sistema industriale completo pianificato e basato sulle tecnologie più avanzate dell’epoca; introdussero la produzione collettiva in agricoltura ponendo le basi per la crescita culturale e politica dei contadini e la eliminazione della loro arretratezza tecnica, culturale e politica; introdussero un sistema di distribuzione del prodotto tra gli individui basato per l’essenziale sulla quantità e qualità del lavoro prestato; introdussero sistemi di emancipazione delle donne e dei bambini; introdussero forme (quanto si vuole iniziali) di potere diretto dei lavoratori; trovarono soluzioni per far vivere in qualche misura il nuovo mondo in tutte le forme della vita sociale (sistemi di istruzione generale, di partecipazione diffusa al patrimonio culturale della società, di uso diffuso delle cure mediche, ecc.).

Questo fece sì che il potere sovietico potesse esistere per vari anni e desse un potente contributo alla causa comunista e alla causa della liberazione nazionale in tutto il mondo. Per circa trent’anni non ci fu nel mondo un movimento di liberazione e di emancipazione delle classi, dei popoli e delle razze oppressi che non trovasse nell’Unione Sovietica un punto di forza, un aiuto, un’ispirazione, nonostante le difficoltà in cui l’essere rimasti l’unico paese socialista poneva il proletariato e i comunisti sovietici.

 

Di questa esperienza fecero più tardi tesoro i comunisti e il proletariato cinesi e, applicandola creativamente alla loro situazione, nella Rivoluzione Culturale Proletaria essi avanzarono ulteriormente sulla strada di sviluppare, far crescere e predominare i germi di comunismo, di creare la nuova società.

A fronte dello stesso problema posto da vaste masse di piccoli produttori autonomi (i contadini), essi cercarono di sostituire la fase (prima ritenuta necessaria) del completamento della separazione dei lavoratori dalle condizioni materiali del loro lavoro (l’accumulazione originaria) con la trasformazione per fasi della proprietà individuale ancora esistente in proprietà associata e con lo sviluppo di questa proprietà (le comunità agricole e urbane e la loro industrializzazione). Essi svilupparono lotte di massa già nell’ambito della proprietà colletti dei mezzi di produzione,

- attorno ai regolamenti nei luoghi di lavoro e ai rapporti masse-dirigenti nella società e nei luoghi di lavoro;

- contro la separazione dai lavoratori del contenuto scientifico del lavoro e contro la sua costituzione in patrimonio di una parte della società;

- sul contenuto di classe delle forme del processo lavorativo;

- non solo contro l’uso borghese della cultura e della tecnica, ma contro il contenuto di classe della cultura e della tecnica.

 

***

 

Nonostante queste lotte condotte dalle masse con alla testa i comunisti e nonostante i successi conseguiti, dagli anni ’50 in poi l’Unione Sovietica cessò di essere all’avanguardia del socialismo nel mondo. I revisionisti moderni presero il potere nel partito, nello stato e nella società. Le sconfitte possono tuttavia essere fruttuose come le vittorie, se si ricavano gli insegnamenti che esse contengono. Noi comunisti dobbiamo comprendere come i revisionisti moderni hanno potuto prendere il potere e mantenerlo così a lungo: così saremo meglio attrezzati per impedire che prevalgano nelle lotte che stanno davanti a noi.

 

L’Unione Sovietica dovette sopravvivere e svilupparsi per quasi trent’anni in un contesto internazionale ostile. La  borghesia imperialista, fallita l’aggressione diretta dei primi anni contro la giovane repubblica dei soviet, oltre al boicottaggio e al sabotaggio economici, sviluppò per anni i preparativi della rivincita. Allevò Stati e organizzazioni fascisti e nazisti che alla fine scatenarono l’aggressione del 1941. Solo l’abilità del gruppo dirigente sovietico con alla testa Stalin e l’azione dei comunisti dei paesi imperialisti riuscirono ad impedire che a questa aggressione la borghesia imperialista arrivasse compatta.

 

Questo contesto permise il consolidamento di alcune concezioni errate dovute alla mancanza di esperienza ed esse furono determinanti per il successo dei revisionisti moderni.

La costruzione di un sistema industriale completo al livello tecnologico più avanzato in un paese le cui forze produttive erano arretrate era nel periodo tra le due guerre mondiali una necessità assoluta: senza di esso l’URSS non avrebbe vinto il nazismo. Questo compito immane costrinse i comunisti sovietici a trascurare per un certo periodo alcuni aspetti della costruzione del socialismo.

Nello stesso tempo sul terreno politico e sociale, per le medesime condizioni sopra descritte, predominò per lungo tempo il centralismo esasperato e l’uso di misure amministrative come forma di governo e come modo di risoluzione dei problemi in tutti i settori della società.

Sebbene il fare le cose in questa maniera e l’affrontare la costruzione del socialismo in questo modo per un certo periodo siano stati inevitabili e necessari (era in gioco la sopravvivenza del primo paese socialista), i comunisti sovietici con alla testa Stalin, nonostante tutto quello che erano riusciti a fare (e che bisogna riconoscere senza ambiguità), prolungarono erroneamente questa forma di funzionamento anche dopo che le condizioni erano cambiate grazie alla vittoria contro il nazismo, alla rottura dell’accerchiamento imperialista e allo sviluppo della guerra di liberazione nazionale antimperialista in Cina e in altri paesi coloniali. E benché alla fine della sua vita Stalin cominciasse ad intravedere alcuni di questi problemi,(5) non arrivò a dar loro soluzione.

 

5. Si veda Stalin, Problemi economici della costruzione del socialismo in URSS., in gran parte pubblicato, in traduzione rivista, in Rapporti Sociali n.3

 

 

Alla morte di Stalin, la combriccola revisionista di Krusciov lo giudicò e condannò per i suoi “eccessi”. In realtà ripudiò gli aspetti positivi del lavoro dei comunisti sovietici guidati da Stalin, mentre adottò ed eresse a linea generale proprio i loro aspetti negativi: i metodi autoritari di direzione, il funzionamento amministrativo e la priorità dell’economia sull’ideologia e sulla politica. Con questo e con la successiva soppressione “per decreto” della lotta di classe, la società sovietica entrò in un periodo di stagnazione. I revisionisti guardarono con sospetto e repressero i movimenti delle masse che, nonostante i limiti sopraddetti, avevano invece avuto un ruolo importante nella costruzione del socialismo durante gli anni ’20, ’30 e ’40.

Dagli anni ’50 a oggi nei paesi socialisti non vi sono state mobilitazioni di massa se non quelle represse. Invece di promuovere una sempre maggior partecipazione delle masse alla direzione della società e dello Stato, per iniziare il processo verso la progressiva scomparsa di questo e verso la formazione di uomini nuovi, conformi alla struttura economica della nuova società, sotto i revisionisti moderni i metodi burocratici, i decreti e i comandi divennero i metodi esclusivi di direzione della società, non si lasciò alle masse altro ruolo da giocare che quello di obbedire ed aumentare la produttività in funzione degli incentivi materiali.

 

Risulta quindi che, nonostante le molte vittorie, le difficoltà incontrate dal proletariato sovietico nell’affrontare le contraddizioni della trasformazione propria e delle altre masse popolari e l’accumularsi di errori commessi nella  costruzione per fasi delle forme concrete di esistenza della società dei lavoratori associati padroni delle condizioni materiali del proprio lavoro, furono tali che le forze oggettive e soggettive contrarie all’avanzata verso il comunismo si consolidarono ad un punto sufficiente a prendere il sopravvento dopo la scomparsa di Stalin.

I comunisti e il proletariato sovietici sotto la direzione di Stalin non seppero tenersi sempre all’altezza delle possibilità che i loro successi crearono, non diedero soluzione tempestiva ai problemi posti dai loro stessi successi, non sempre compresero che le vittorie conseguite trasformavano il terreno dello scontro, mantennero forme di rapporti sociali che oramai erano superate dallo sviluppo delle forze produttive e dallo sviluppo della formazione culturale dei lavoratori. Il gruppo dirigente non comprese il modo in cui si ponevano concretamente, nella nuova situazione, i rapporti di classe in Unione Sovietica e i nuovi rapporti politici creati nel mondo dalla conquista del potere in numerosi altri paesi, dallo sviluppo delle forze rivoluzionarie proletarie e anticolonialiste, dall’esito della 2° Guerra Mondiale.

Le forze borghesi interne all’URSS vennero contenute e represse nelle loro manifestazioni, anziché eliminarne la base materiale nei limiti in cui la situazione oggettiva lo consentiva. Gli errori di Stalin per noi comunisti sono da ricercarsi in tutt’altra direzione da quella indicata dalla borghesia.

Chi accetta l’impostazione che del problema dà la borghesia, sia che aderisca alle sue conclusioni sia che vi si opponga, inevitabilmente accetta un’impostazione apparentemente interclassista del problema, di fatto lo affronta dal punto di vista degli interessi della classe borghese. Così come chi in nome del comunismo difende l’Unione Sovietica prodotta dalla direzione dei revisionisti come paese socialista, inevitabilmente difende una concezione borghese della società e del suo sviluppo (vedasi i cossuttiani e il Movimento per la Pace e il Socialismo (MPS)).

 

***

 

I revisionisti moderni conquistarono il potere in URSS come portavoce, nell’ambito del socialismo, della borghesia e permisero il rafforzamento, sia pure ancora timido, di una nuova borghesia che veniva dall’interno della nuova società e quindi rivestiva anche la sua azione di una ideologia mistificatoria attinta ai “luoghi comuni” della nuova società. Contrariamente a quanto si affannano a dire ancora oggi Teng e soci, la borghesia che prende il sopravvento in queste circostanze non è in generale composta da ex capitalisti, ex proprietari fondiari né da elementi marginali della società socialista (profittatori, sabotatori, criminali, ecc.). Come diceva Mao, la nuova borghesia è “interna al partito comunista”, viene dal cuore della nuova società.

È da notare che Mao, nonostante la consapevolezza che, in ciò pare a differenza di Stalin, ebbe per tempo del pericolo grave di restaurazione, non poté evitare che Teng e i suoi soci prendessero il potere dopo la sua scomparsa: questo solleva dei problemi sulla forza oggettiva delle forze antagoniste in campo.

 

Da quando i revisionisti moderni presero il sopravvento nella direzione dell’URSS, ogni progetto di riforma economica proposto o attuato fu teso programmaticamente a ristabilire e rafforzare rapporti mercantili e capitalistici tra le imprese, tra le imprese e i lavoratori e tra le imprese e il resto della popolazione. L’obiettivo è stato che ogni impresa bastasse a se stessa, misurando i suoi risultati sul mercato; che ogni impresa potesse assumere e licenziare lavoratori e impiegarli secondo le necessità dettate dall’obiettivo di prevalere sul mercato e allargarsi; che ogni impresa vendesse e comperasse a prezzi tali da garantire il suo successo nel mercato; che ogni lavoratore dovesse vendersi al miglior offerente per poter vivere e che il livello della vita sua e dei suoi familiari fosse determinato dal contratto di vendita con cui si legava. Non a caso gli USA divennero il costante termine di riferimento e l’ideale della nuova borghesia sovietica. Ovviamente essa ne metteva in luce solo i successi produttivi e tecnologici. Taceva sullo sfruttamento interno e internazionale su cui questi erano inscindibilmente basati, sul carattere temporaneo del successo USA (il gigante aveva i piedi di argilla), sul fatto che la capacità di sviluppo economico (e anche tecnologico) della  società socialista si era di fatto già dimostrata di gran lunga superiore a quella della società capitalista USA. Di conseguenza l’Unione Sovietica guidata dai revisionisti moderni cessava gradualmente di essere esempio e punto di forza dei movimenti proletari e di liberazione nazionale antimperialista.

 

Invece di applicarsi a risolvere i problemi e le contraddizioni che proprio il successo del periodo precedente aveva reso manifesti o creato e di cui aveva anche reso ora possibile la soluzione, i revisionisti moderni si diedero da fare per restaurare rapporti mercantili e capitalistici.

 

La nuova borghesia non è mai riuscita però ad avere pieni poteri.

Nell’Unione Sovietica come nei paesi dell’Europa Orientale i comunisti avevano creato svariate e molteplici organizzazioni di massa che coinvolgevano in qualche modo e in qualche misura milioni di lavoratori. Erano uno strumento della rivoluzione e della lotta per la costruzione del comunismo. Nel contesto in cui erano state create esse adempivano al compito

- di creare gradualmente l’unità dei lavoratori,

- di dare forme concrete di esistenza ai lavoratori come collettivo e come unità cosciente e capace di azione,

- di consentire il graduale passaggio dallo Stato alle masse delle funzioni politiche, di direzione e organizzazione,

- di contribuire alla estinzione della politica in quanto funzione esclusiva e professione riservata degli uomini politici.

I revisionisti moderni hanno trovato queste organizzazioni di massa e, controllandole ed epurandole, le hanno usate come strumenti formidabili di controllo, di consenso e di selezione dei loro nuovi membri. Ma il carattere antagonistico dei rapporti sociali generali rendeva impossibile che i lavoratori affrontassero, tramite queste organizzazioni, i problemi della produzione come problema del potere dei lavoratori uniti di dirigere la produzione, i piani di produzione, i piani di distribuzione e quindi tutta la vita della società sovietica. Da organismi per l’estinzione graduale dello Stato, i revisionisti moderni li hanno trasformati in organismi di controllo, orientamento o direzione capillare dello Stato sui lavoratori. Ma queste organizzazioni restavano in qualche maniera armi a doppio taglio, il cui rovescio balzava e balza improvvisamente alla luce nei momenti di agitazione sociale.

 

Il potere della nuova borghesia era così poco assoluto e illimitato, i suoi divieti assicuravano così poco la totale pace sociale e la soppressione per decreto della lotta di classe era così poco efficace che, ad esempio, questa borghesia non osò (nonostante questi obiettivi fossero nei suoi programmi) arrivare alle estreme conseguenze delle sue scelte.

 

La nuova borghesia non osò stabilire la piena libertà mercantile per le singole aziende, non osò lasciare completamente al mercato i prezzi, non osò prendersi nelle aziende la libertà di licenziare e assumere manodopera secondo le esigenze di valorizzazione del capitale delle singole aziende. Il nuovo corso rese infatti sempre più antagonisti i rapporti immediati tra lavoratori e dirigenti delle unità produttive. Completare o no i piani di produzione, far “rendere” l’azienda, sfruttare per bene il macchinario e le altre dotazioni dell’azienda, aumentare la produttività del lavoro, queste divennero preoccupazioni tanto più esclusive dei dirigenti quanto più i rapporti sociali in cui le imprese erano inserite ponevano in questi termini i compiti delle imprese e quanto meno le aziende mantenevano come proprio scopo il soddisfacimento di bisogni immediati o indiretti della popolazione (non producevano più valori d’uso per il bisogno di questi valori d’uso, ma producevano valori d’uso per l’interesse che avevano per il loro valore di scambio). L’antagonismo si manifestava nella bassa produttività del lavoro (quantità di prodotto per lavoratore) tanto lamentata dai dirigenti sovietici e dei paesi dell’Europa Orientale ed in particolare nella bassa intensità del lavoro.

 

 La nuova borghesia sovietica non arrivò a darsi quella formidabile arma di pressione, ricatto e disciplina contro gli operai costituita da una massa di disoccupati che premono alle porte delle fabbriche pronti a prendere il posto dell’operaio licenziato. La nuova borghesia sviluppò la ricerca di altri mezzi per costringere al lavoro, per acquistare un maggior dominio sui lavoratori, tra questi la creazione delle condizioni per una reale differenziazione tra i lavoratori stessi nella distribuzione e nel consumo come strumento di pressione sui lavoratori. La diversificazione nei consumi e nei livelli di vita tra i dirigenti da una parte e la massa dei lavoratori dall’altra (che era stata mantenuta anche sotto la direzione di Stalin come aspetto necessario della prima fase della costruzione del socialismo e che la nuova borghesia ereditava) non era neanche lontanamente paragonabile come strumento di disciplina e di stimolo, dove per di più:

1) i privilegi goduti dai membri della classe dominante restavano legati alla loro funzione (il direttore che ha l’auto con autista non è un incentivo a lavorare per la massa degli operai che non possono in massa essere convinti a voler diventare direttori);

2) molti dei privilegi dei membri della classe dominante erano goduti in qualche maniera di nascosto, senza pubblicità (il negozio con merci pregiate e di lusso dove possono andare a fare acquisti solo i membri della classe dominante non costituisce uno stimolo di massa per i lavoratori a guadagnare di più per poter comperare);

3) la cultura diffusa dalla borghesia tra le masse esaltava (ipocritamente) la parsimonia nei consumi, la semplicità dei costumi, l’uguaglianza per cui chi vive al di sopra del livello comune, si distingue per il lusso, ecc., viene generalmente riprovato.

La nuova borghesia introdusse varie forme di incentivi collettivi ed individuali miranti a costringere i lavoratori all’autodisciplina e ad adattarsi meglio alle macchine, miranti a mobilitare i lavoratori attirati dall’aumento di salario contro i compagni di lavoro recalcitranti. I capi ricorsero a svariate forme di patteggiamento con l’organizzazione informale dei lavoratori per ottenere la quantità di produzione voluta.

 

La borghesia sovietica e dei paesi socialisti dell’Europa Orientale iniziò quindi da allora ad appropriarsi di questi strumenti di dominio sui lavoratori e ad usarli. Ciò comportava però modifiche nella produzione: bisognava che i negozi dell’intero paese si riempissero di merci nuove e che queste cambiassero rapidamente per compiere quotidianamente e capillarmente la loro funzione di pungolo al lavoro e al guadagno in generale.

Bisognava che le condizioni di vita universalmente assicurate si riducessero o in assoluto o almeno relativamente alle condizioni di vita considerate ottime ed effettivamente accessibili ad alcuni lavoratori pur restando tali. La tendenza all’abolizione dei “prezzi politici” di alcuni prodotti e servizi base o, il che è lo stesso, il peggioramento della loro qualità e la crescita di un mercato parallelo di prodotti e servizi migliori e a “prezzo libero” tendeva proprio a questo scopo.

 

Le riforme degli anni di Krusciov hanno complessivamente questo ben definito indirizzo.

Nel periodo della “direzione amministrativa” la direzione degli uomini da parte degli uomini, che è la sostanza di ogni rapporto sociale, si manifestava in tutta la sua nudità, chiara e limpida, senza veli e immediata. E tanto in quanto i rapporti tra gli uomini erano ancora o diventavano rapporti tra classi antagoniste, assumeva necessariamente le vesti dell’oppressione, dell’arbitrio, della corruzione, dell’imposizione e della violenza. Nei limiti in cui i rapporti tra gli uomini erano rapporti di unità o di alleanza, tendeva a diventare gradualmente direzione degli uomini su se stessi, le loro attività e generalmente la loro vita.

Le riforme degli anni di Krusciov tendevano complessivamente a sostituire alla “direzione amministrativa” un sistema di “direzione economica”. I rapporti sociali restavano rapporti tra classi antagoniste, ma il dominio di alcuni  uomini sulla maggioranza della popolazione veniva nascosto dietro il velo mistificatorio della eguale e libera sottomissione di tutti alle merci, all’apparato produttivo, al denaro, al mercato, alle leggi “oggettive”, “naturali” dell’economia.

I rapporti sociali erano nuovamente reificati, si presentavano cioè come esigenze di cose. L’elemento che direttamente connette milioni di lavoratori in un unico sistema di produzione sociale non era più né la libera e consapevole decisione dei lavoratori uniti sul come far fronte al loro bisogni, né gli ordini sostenuti dalla violenza dell’autorità dello Stato, dei suoi funzionari negli organismi di pianificazione e nelle unità produttive, ma diventava il denaro che, frapponendosi tra ogni uomo e gli oggetti del suo bisogno, costringe impersonalmente, imparzialmente, capillarmente e senza intervento di poliziotti e di “tribunali di compagni” milioni di lavoratori a correre ad occupare tutti i posti disponibili di un meccanismo produttivo, senza alcuna conoscenza, intesa o rapporto preliminare tra di loro, muovendosi ognuno per “libera decisione” presa individualmente. E, fuori dal luogo di lavoro, nella società, gli ordini della borghesia ai lavoratori e gli ordini per gli stessi membri della borghesia non comparivano più come ordini di uomini ad altri uomini, ma come imparziali e “scientifici” interventi su cose (la quantità di moneta messa in circolazione, il tasso di sconto, il saggio di interesse, il tasso di ammortamento, la spesa pubblica, i prezzi controllati, l’emissione di prestiti, la legislazione fiscale, la legislazione bancaria, creditizia, valutaria, sociale, doganale, ecc. ecc. ecc.).

Questo era il programma della nuova borghesia come risulta evidente se si considerano le riforme di Kruscev del 1957; le riforme sostenute da Liberman e Trapeznikov e applicate in via sperimentale a partire dalle aziende Bolschevicka di Mosca e Maiak di Gorki nel 1963; la riforma generale del 1965; le riforme iniziate nel 1967 a partire dal complesso chimico di Schekino. Alle stesse conclusioni si arriva se si considerano le storie dei regimi dei prezzi, delle autonomie finanziarie e di gestione delle imprese e delle unioni di imprese, dell’altalena tra centralizzazione e suddivisione del capitale, delle scelte produttive relative ai beni di lusso, dello sviluppo tecnologico, sia in Unione Sovietica che negli altri paesi dell’Europa Orientale.

Ma, come dissero poi i borghesi, Krusciov era troppo precipitoso, credeva di poter restaurare con la stessa velocità con cui prima i comunisti avevano costruito. Egli diede alla restaurazione un ritmo tanto rapido da coagulare contro il suo programma troppi gruppi e classi. Perciò venne sostituito.

 

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Sotto la direzione di Breznev il programma restò lo stesso. La “rivoluzione tecnico-scientifica” di Breznev-Kossighin andava nella stessa direzione. Ma tutto assunse un ritmo più lento, più prudente. In breve tempo si determinò una situazione di stagnazione. Nessuna delle due classi antagoniste era abbastanza forte per smuovere decisamente la situazione a suo favore.

Il proletariato era senza partito, poteva opporre resistenza passiva giovandosi delle istituzioni residue del passato e appoggiare gruppi dissidenti che via via si creavano nella classe dirigente incrementando così le sue contraddizioni; non poteva però prendere l’iniziativa.

La borghesia dirigeva lo Stato, l’economia e la cultura, ma non poteva scontrarsi con il proletariato imponendo ad esso le misure necessarie ad una valorizzazione massima del capitale. La cura che essa poneva ad impedire e soffocare ogni movimento di massa in campo economico, politico e culturale era la riprova della sua debolezza oltre che del suo carattere antipopolare.

Di conseguenza fiorirono la piccola economia commerciale (“sommersa”: in realtà tollerata, sostenuta e difesa dallo Stato, ma non formalmente legalizzata) con il connesso enorme spreco di risorse materiali e di energie umane e la corruzione. L’arricchimento sotto forma di tesaurizzazione e di opulenza e lusso dei consumi occupò il posto che le leggi vietavano alla proprietà individuale delle forze produttive.

 L’equilibrio che ne derivava produsse la paralisi diffusa, il ritmo di sviluppo economico rallentò, il rinnovamento tecnologico si ridusse, le forme obsolete di vita sociale e di gestione economica restarono in vita, le importazioni di impianti e di beni di consumo dal mercato capitalista aumentarono, crebbero l’indebitamento estero e l’integrazione nel mercato capitalista mondiale. La stagnazione economica fu la manifestazione della paralisi politica: nessuna delle due classi antagoniste aveva forza sufficiente per imporre all’altra la sua volontà. La nuova borghesia assunse prevalentemente un carattere da “borghesia compradora” nei rapporti con la borghesia imperialista (commercio e prestiti internazionali) e si diede all’arricchimento individuale accumulando potere di acquisto e beni d’uso all’estero e in patria, restando in sostanza ad essa precluso l’accesso al capitale produttivo (quello che compie il percorso D - M - L - M’ - D’).

Tra la popolazione la divisione in classi si andò accentuando e le condizioni di vita di larghe fasce della popolazione divennero difficili.

Gli avvenimenti di questi mesi sono l’esplosione delle contraddizioni create dal lungo periodo di stagnazione. La situazione è arrivata ad un punto che nessuna delle due classi antagoniste può continuare a vivere come prima.

La situazione deve cambiare. Si è creata una situazione rivoluzionaria.

 

 

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