Crack di borsa e capitale finanziario

Rapporti Sociali 1 - febbraio 1988  (versione Open Office / versione MSWord )

Difatti la maggior difficoltà di intendere e di continuare i materialismo storico non istà nella intelligenza degli aspetti formali del marxismo, ma nel possesso delle cose in cui quelle forme sono immanenti, delle cose, che Marx per conto suo seppe ed elaborò, e di quelle altre moltissime, che tocca a noi di conoscere e di elaborare direttamente.

(Discorrendo di socialismo e di filosofia, A. Labriola)


Per il metodo dialettico è soprattutto importante non già ciò che, a un dato momento, sembra stabile ma già comincia a deperire, bensì ciò che nasce e si sviluppa, anche se nel momento dato sembra instabile, poiché per il metodo dialettico solo ciò che nasce e si sviluppa è invincibile.

(Storia del partito comunista (bolscevico) dell’URSS, G. Stalin)


Il crack odierno e il boom di ieri di tutte le maggiori Borse di titoli azionari (New York, Tokyo, Londra, Francoforte, Toronto, Parigi, Milano, Zurigo, Amsterdam, Hong Kong, Sydney, ecc.) fanno parte di un unico fenomeno: è impossibile capirne le cause egli sviluppi se non nel contesto dell’intero fenomeno (Tab. 1).

Così pure è impossibile capire gli effetti dell’attuale crack, al di là del sensazionalismo giornalistico e delle reazioni dei protagonisti diretti, se non si capisce il modo in cui funzionano le Borse di titoli azionari (vedasi il riquadro a pag. 15 “La Borsa dei titoli azionari”) e quali sono i rapporti tra le operazioni di Borsa e il resto della vita economica delle società borghesi. Non a caso molti mezzi di comunicazione si limitano a riferire le “autorevoli” dichiarazioni e le opinioni di personaggi, spesso gli stessi di cui alcuni mesi fa riferivano dichiarazioni, anch’esse “autorevoli”, di tutt’altro senso.

D’altra parte l’esplosione ed il declino della speculazione nelle Borse dei titoli azionari costituiscono un fenomeno indicativo e rivelatore della condizione attraversata dalle società imperialiste.

Lo studio della vicenda delle Borse porta a capire le tendenze e le contraddizioni di questa società e, a sua volta, questa vicenda può essere capita solo come un atto della vita attuale delle società imperialiste.


La vicenda attuale delle Borse di titoli azionari inizia nel 1982. Grossomodo a partire dalla metà di quell’anno gli indici delle principali Borse mostrano una decisa tendenza al rialzo.


Dal 1982 in avanti:

- i prezzi dei titoli azionari quotati mostrano una tendenza (durata fino agli inizi del 1987) a salire rapidamente, con cadute solo di breve periodo e locali dovute a fatti contingenti (fanno eccezione le piazze di Francoforte e Milano, dove il boom subisce una battuta d’arresto già nella seconda metà del 1986 dopo una tardiva ma rapidissima ascesa);

- aumenta il numero di società quotate in Borsa (questo fenomeno ha talora assunto proporzioni di grande rilievo: ad esempio, il numero delle società quotate alla Borsa di Milano è aumentato da 134 a 184 unità fra il 1980 e il 1986);

- si verificano consistenti emissioni di nuove azioni (aumenti di capitale),

- aumenta il numero di titoli trattati giornalmente in Borsa.



In definitiva, oltre ai prezzi delle azioni, aumentano:

- la capitalizzazione di Borsa (cioè la somma dei prodotti del prezzo giornaliero di ogni azione per il numero di azioni di quel tipo esistenti)(Tab. 2),

- il volume (in numero e in valore) di titoli scambiati giornalmente (Tab. 3).


Per ogni Borsa le autorità che la gestiscono o autorevoli istituzioni finanziarie interessate alle sue operazioni elaborano degli indici generali dei prezzi dei titoli trattati (una combinazione ragionata dei prezzi dei titoli più trattati in quella Borsa). L’andamento di questi indici è, per ogni Borsa, abbastanza indicativo dell’andamento generale dei titoli trattati (Tab. 4).

Altro dato significativo del boom è il rapido sviluppo delle emissioni internazionali (emissioni di azioni su di una Borsa diversa da quella del paese di residenza della società emittente; ad es., una società tedesca sulla Borsa di Londra).

Le emissioni internazionali sono cresciute da poche centinaia di milioni di dollari nei 1983 a circa 12 miliardi di dollari nel 1986. Complessivamente, fra il 1983 e il 1986 il valore globale delle emissioni azionarie su Borse estere è stato di 16,6 miliardi di dollari, a conferma dell’inasprirsi di quella concorrenza fra le frazioni del capitale mondiale per sottrarre quote di profitto agli avversari di cui parleremo più avanti.




1. Boom delle Borse dei titoli azionari e capitale eccedente


Il terreno su cui si è sviluppato il boom è quello della esistenza di una massa enorme di capitale in forma monetaria. Gli anni ‘60 e, in maniera ancora più massiccia, gli anni ‘70 sono stati infatti caratterizzati da una crescente accumulazione di capitale che non ritornava nel ciclo produttivo, ma si manteneva in forma monetaria.(1)


1. Questo capitale monetario ha anch’esso la forma di denaro (moneta cartacea, titoli di credito) ma ha nel movimento economico della società un ruolo distinto

- sia da quello del semplice denaro che svolge la funzione dimezzo di circolazione ed esiste, in ogni società borghese, nelle forme e nella quantità determinate dal volume delle operazioni di scambio e dalle caratteristiche della circolazione (velocità di circolazione, abitudini e modalità dei pagamenti, ecc.);

- sia da quello del denaro che, in ogni società borghese, costituisce il risparmio personale in vista di spese future o a fronte di pericoli futuri;

- sia da quello del denaro che costituisce quella parte di capitale che viene periodicamente e temporaneamente espulso dal ciclo produttivo perché il suo reimpiego immediato nella forma di mezzi di produzione, materie prime, forza-lavoro, ecc., è per il momento impedito (ad es., perché per effettuare un nuovo investimento produttivo è necessario accantonare una massa di plusvalore minima maggiore di quella attualmente disponibile).

Si tratta invece di una massa di moneta che cerca di valorizzarsi senza entrare nel processo produttivo, costituitasi in modo permanente in quanto non più riassorbita in cicli di valorizzazione (Denaro - Mezzi di produzione e Forza lavoro - Processo lavorativo - Merci - Più denaro) e che cerca di valorizzarsi egualmente e quindi accrescersi con un processo di crescita della moneta (Denaro - Più denaro) senza la mediazione del processo di produzione.

Questa massa trascina nel movimento a cui dà luogo anche il denaro costituente risparmio e il denaro costituente capitale temporaneamente inattivo che quindi partecipano dei suoi successi e delle sue disavventure. Ma è essa, nella sua ricerca di valorizzazione, che determina forme e tempi del movimento comune. In questo è determinante il ruolo delle banche, delle società di assicurazione e delle società finanziarie. Queste favoriscono la concentrazione del denaro costituente risparmio e del denaro costituente capitale temporaneamente inattivo e la loro compenetrazione con il capitale monetario sopra definito.

La condizione economica del formarsi di questa massa di capitale monetario è a sovrapproduzione di capitale. La condizione istituzionale è la creazione di mezzi di pagamento (denaro) da parte delle autorità monetarie(il regime di moneta mondiale fiduciaria, le grandi spese statali finanziate dalle autorità monetarie creando nuova moneta fiduciaria).

Come nacque infatti storicamente questa massa? La produzione capitalistica è produzione per il profitto, non per il consumo, e pertanto la sua espansione dipende non già dalla domanda di consumi, ma dall’accumulazione sociale complessiva, cioè dal volume di nuovi investimenti. In mancanza di una crescita adeguata della massa del plusvalore, i capitalisti reagiscono mantenendo il volume di nuovi investimenti al di sotto del livello necessario per assorbire tutta la produzione. A seguito di ciò le merci costituenti il capitale nella parte finale di ogni ciclo di valorizzazione sarebbero rimaste invendute, i prezzi sarebbero crollati e la crisi avrebbe avuto subito il suo corso catastrofico. Invece proprio grazie alle istituzioni create nel secondo dopoguerra (e successivamente chiamate “lacci e lacciuoli” da un vegliardo privo di senso storico), questo decorso fu per anni evitato creando, a fronte d produzione, nuovi mezzi di pagamento, gonfiando la spesa pubblica creando un apparato produttivo pletorico (interi settori produttivi - fibre artificiali, acciaio, cantieristica, ecc. - che producevano al 60 e fino anche al 20% della loro potenzialità, ecc.) che viveva egualmente in forma di imprese capitalistiche (nel senso che il capitale ivi investito si accresce grazie a mille forme di finanziamento.

La massa monetaria via via creata veniva così ad assolvere ad un duplice scopo:

1)la creazione di denaro da prestito con cui finanziare attività che altrimenti sarebbero risultate non profittevoli per il capitale (e perciò abbandonate) e al tempo stesso di mezzi di pagamento adeguati alla realizzazione delle merci prodotte nel corso di queste stesse attività;

2) la creazione di denaro da reimmettere nei circuiti creditizi e finanziari (Denaro - Più Denaro) per garantire la valorizzazione del capitale monetario non riassorbito nel ciclo produttivo.

Ma questo significava che il capitale era riuscito ad evitare la svalorizzazione (cioè la distruzione di una frazione di se stesso in qua capitale)?

In realtà il capitale veniva egualmente distrutto nella forma di impianti lasciati inoperosi o lavoranti a basso regime e di spese pubbliche improduttive, ma in modo non traumatico, lasciando inizialmente intatte condizioni di realizzazione (conversione da merce in denaro) di singole frazioni di capitale produttivo.

Da qui si vede come gli elementi che poi i portavoce dell’esperienza immediata dei singoli capitalisti sempre più altamente denunciarono come impedimenti e flagelli (l’inondazione di dollari carta, la spesa est USA, il credito agevolato, il finanziamento pubblico e manovrato, le sovvenzioni statali, il settore economico pubblico e in genere le altre istituzioni del capitalismo monopolistico di Stato) furono in realtà quelli che hanno posposto per anni il manifestarsi violento della crisi. In effetti però, accumulandosi i loro effetti negli anni, quelli che erano stati al momento efficaci rimedi alla situazione divennero impedimenti alla valorizzazione e un fardello per le singole imprese. Allora si pose la necessità di “ristrutturare”, di “tagliare i rami secchi”, di “risanare imprese” e, quindi, come premessa, di rompere “i lacci e i lacciuoli” che soffocavano la “libera impresa capitalistica”.


Questo fu un effetto della crisi di sovrapproduzione di capitale iniziata in quegli anni.

Per sovrapproduzione di capitale si intende la situazione in cui il plusvalore prodotto in un ciclo di valorizzazione è più di quanto possa essere impiegato con profitto, come nuovo capitale che si compenetra con quello preesistente, nel successivo ciclo di produzione: acquisto di mezzi di produzione e di forza-lavoro, conduzione del processo lavorativo, vendita delle merci prodotte.(2)


2. Per maggiori chiarimenti sulla crisi di sovrapproduzione di capitale si veda il n.0 della rivista Rapporti Sociali, pag.12-19. Il concetto di sovrapproduzione di capitale viene esposto da Marx in Il Capitale Libro III, cap.15 e nelle Teorie sul plusvalore, II parte, cap.17.



Quando si ha sovrapproduzione di capitale:

- da una parte si ha concorrenza crescente tra le varie frazioni di capitale, ognuna delle quali cerca di accaparrarsi le occasioni di sfruttamento, i campi di investimento produttivo e di primeggiare nella corsa alla riduzione dei costi di produzione (ristrutturazione del processo lavorativo e del ciclo produttivo e ristrutturazione finanziaria). Come risultato di questo sforzo, frazioni di capitale già esistenti come capitale monetario scacciano dal campo produttivo altre e ne prendono il posto: alcune imprese falliscono, ne sorgono di nuove, nuovi capitalisti sostituiscono i vecchi, e così via;

- dall’altra parte viene ad esistere una massa crescente di capitale in forma monetaria che cerca di valorizzarsi all’esterno del processo di produzione del plusvalore.(3)


3. Alcuni in questi anni si schierano contro il riarmo perché sottrarrebbe capitale all’impiego produttivo e affermano che il disarmo porterebbe benessere perché permetterebbe di usare a scopo produttivo capitali oggi immobilizzati nella produzione militare e nelle spese militari in genere.

Probabilmente si tratta di persone ben intenzionate, che credono di aver scoperto una teoria semplice, un obiettivo mobilitante (come dicevano alcuni anni fa i loro padri ora ignorati) per le masse, che non si rendono conto che ripetendo stupidaggini (paragonabili a quelle pertiniane su granai e arsenali) saranno sempre sconfitti, anche sul terreno da essi così scelto della demagogia, dai loro avversari politici forti del dato di fatto di comune esperienza che nella società borghese le industrie militari e le spese militari “danno da mangiare” a gente che altrimenti non mangerebbe.

Certamente queste persone ignorano e nascondono che le ragioni della crisi economica stanno nella natura del Modo di Produzione Capitalista, nei rapporti di produzione dell’attuale società e ne additano invece la causa nelle scelte riarmiste dei governi borghesi. Così mettono una foglia di fico sulle magagne intrinseche del capitale e, a questo fine, contrabbandano una concezione soggettivista della vita della società borghese, ossia la presentano come una società il cui movimento è determinato e diretto da libere e consapevoli decisioni di individui, governi e altri organismi vari. Il corollario è che questa società è in fin dei conti migliorabile senza intaccare i rapporti di produzione su cui si basa: e qui gli antimilitaristi (terribili e arcirivoluzionari) si saldano con i riformisti.

L’attuale crisi economica non nasce dalla penuria, ma dalla sovrabbondanza di capitale (e quindi postula come sua soluzione e sbocco, nell’ambito di rapporti di produzione borghesi, non uno sforzo di accumulazione accelerata di nuovo capitale, ma la distruzione del capitale già accumulato.



Dato che il plusvalore che viene estorto alla forza-lavoro in un nuovo ciclo di valorizzazione è insufficiente perché tutto il capitale già accumulato possa continuare a riprodursi come capitale impiegato nel ciclo produttivo - e quindi ad accrescersi realizzando un profitto che viene al mondo oggettivato in una quantità di merci che devono essere vendute - la massa di capitale eccedente quella impiegata nel ciclo produttivo ed esistente sotto forma di denaro affluisce (assieme al denaro costituente risparmio e a quello costituente capitale momentaneamente inoperoso).

- al mercato del credito (in cui gruppi di capitalisti prestano capitale-denaro ad altri capitalisti o non capitalisti sotto forma di prestiti bancari, di sottoscrizione di titoli del Debito Pubblico e di acquisto di obbligazioni, esigendone un interesse che va ad accrescere il capitale prestato e rimborsato);

- alle Borse dei titoli azionari, di altri titoli finanziari, delle materie prime, delle valute e in tutte le altre operazioni finanziarie di fatto esistenti e che con grande fantasia e inventiva vengono in gran numero create.

Dapprima il capitale eccedente è una quantità di denaro che si aggiunge al denaro già operante in questi circuiti e ne ingrossa gradualmente il flusso. Poi, man mano che la sua massa aumenta, ne diventa la parte determinante e dirigente e determina esso stesso, secondo la sua natura, le attività, i movimenti e la sorte del primo.

I singoli capitalisti dal canto loro diventano protagonisti e personificazione di questi movimenti proprio in quanto ognuno di essi persegue il suo doveroso compito di fare profitti:


- lottando per la spartizione della medesima massa di profitti (cioè del plusvalore creato nel processo di produzione),

- sfruttando le condizioni economiche (monopolio, ecc.) ed istituzionali (moneta manovrata, ecc.) che consentono di aumentare i prezzi (inflazione),

- cercando di appropriarsi del capitale altrui,

- lottando per appropriarsi di denaro altrui.


Di conseguenza, nel movimento economico complessivo della società borghese acquistano un ruolo preminente varie operazioni in cui il capitale (sia monetario sia produttivo) si valorizza creando nuovo capitale monetario.

Questo processo crea ovviamente le condizioni oggettive perché alcuni, dispiegando le proprie attitudini soggettive a fermarsi alla superficie delle cose e a cantare come il padrone detta, si possano mettere a gridare alla fine del processo produttivo come mezzo di valorizzazione del capitale o, in altre parole, alla fine della classe operaia. Con lo stesso acume di quel tale che, abbagliato dal prorompente e ipertrofico lussureggiare del fogliame di una foresta, concluse che le radici erano ormai diventate una parte residuale e superflua degli alberi.(4)


4. Ideologi al soldo della borghesia, sindacalisti, rappresentanti teorici dell’aristocrazia proletaria dei paesi imperialisti ed ex-rivoluzionari “tornati a casa” andavano e vanno a braccetto nel proclamare ai quattro venti la “morte della classe operaia”, dimostrando - ammessa per alcuni di costoro la buona fede - di non saper vedere al di là del proprio naso.

La classe operaia (ossia la forza-lavoro che si scambia contro capitale) a livello mondiale in termini quantitativi non è affatto diminuita ma è anzi aumentata: a fronte della diminuzione relativa, cioè in rapporto alla popolazione totale, e talora assoluta sperimentata nei paesi imperialisti, l’entità della classe operaia è in continuo aumento nei paesi dipendenti.

Al di là di ciò, il suo ruolo centrale nel Modo di Produzione Capitalista è confermato proprio dal fatto che il plusvalore estorto ad una certa quantità di operai consente la riproduzione di una quantità di uomini via via più grande.

E’ indicativo della condizione attuale della società borghese il fatto che mentre la cultura borghese grida alla fine della classe operaia, alla morte del marxismo e al sorpasso della legge del valore-lavoro, le iniziative politiche e poliziesche e le politiche economiche ruotano, in tutti i paesi capitalisti, attorno alla riduzione del “costo del lavoro”.


Furono manifestazioni del processo or ora descritto:

- il gonfiarsi, a partire dagli anni ‘60, del mercato dell’eurodollaro;

- lo sviluppo grandioso raggiunto nel corso degli anni ‘70 dai mercati nazionali ed internazionali del denaro e del capitale (depositi in conto corrente, prestiti bancari a breve e medio termine, emissioni di obbligazioni e di titoli di Stato) con la creazione di nuovi strumenti finanziari (titoli a tasso variabile, prestiti convertibili in obbligazioni e quindi negoziabili sul mercato, operazioni di riporto, operazioni a termine, ecc.) e con l’introduzione di tecnologie che consentono di operare 24 ore su 24 in tempo reale su tutte le principali piazze finanziarie del mondo;

- le enormi proporzioni assunte dal mercato internazionale delle valute;

- lo sviluppo delle Borse merci; ecc., fino al boom dei titoli azionari.(5)


5. La diffusione di titoli a tasso variabile è una conseguenza delle oscillazioni violente e spesso imprevedibili che i tassi di interesse sul mercato mondiale del credito hanno iniziato a mostrare a partire dal 1973, come conseguenza di numerosi fattori concomitanti (aumento della massa del capitale monetario in circolazione, fluttuazioni dei tassi di cambio, inflazione, ecc.), tutti riconducibili al manifestarsi della sovrapproduzione di capitale. In questo contesto, per le banche diventava sempre più difficile la gestione dei propri affari, dato che esse si trovano normalmente a dover finanziare prestiti a lunga scadenza con raccolta di depositi a breve scadenza. Ora, la concessione di prestiti a tasso fisso in una situazione di forte variabilità dei tassi di interesse può comportare che, ad es., un prestito a suo tempo erogato al tasso del 10% debba essere finanziato raccogliendo depositi su cui la banca deve pagare un interesse del 12%. Con i prestiti a tasso variabile, la banca stabilisce un tasso di interesse variabile (ad esempio, il tasso interbancario sulle operazioni di prestito a sei mesi sul mercato di Londra) e su di esso applica un margine che riflette la maggiore o minore affidabilità del debitore. Il contratto di prestito stabilisce che il tasso in base al quale chi si indebita deve pagare gli interessi sia rivisto periodicamente (di regola ogni sei mesi) in base ai movimenti del tasso di riferimento.

La convertibilità dei prestiti in obbligazioni (che viene stabilita da clausole apposite nei contratti creditizi) consente la vendita del credito sul mercato, come se si trattasse di un comune titolo di credito (un’azione, un’obbligazione, ecc.).

Le operazioni di riporto consentono a due banche, che abbiano concesso crediti l’una a tasso di interesse variabile e l’altra a tasso di interesse fisso, di scambiarsi gli interessi ricevuti dai rispettivi debitori, accordandosi sulla compensazione dei rischi.

Le operazioni a termine sono quelle in cui ci si impegna a vendere o comprare un’attività finanziaria (una quantità di valuta, un’azione, un’obbligazione, un titolo di credito, una certa quantità di merci, ecc.) ad una data diversa da quella in cui si conclude il contratto (ad es. fra una settimana, ire mesi, un anno), con l’intento di trarre un guadagno dal movimento del prezzo di quell’attività nel periodo prestabilito.

La possibilità di operare in tempo reale (ossia immediatamente) è concessa dall’uso della trasmissione delle informazioni via cavo; sulla maggior parte dei mercati finanziari, il tempo intercorrente fra il momento in cui viene presa la decisione di effettuare un’operazione e la sua effettiva conclusione è oggi minimo (il tempo di comunicare attraverso un terminale o telefonicamente una richiesta e riceverne la banche, società finanziarie e imprese di intervenire tempestivamente sui mercati per lucrare profitti anche su variazioni di brevissima durata dei prezzi.


Ciò ha esaltato quella che è già una caratteristica generale del capitalismo nella fase imperialista: il predominio del capitale finanziario, ossia il suo ruolo dirigente su tutta la vita economica, su tutto il capitale. I movimenti del capitale finanziario scuotono e travolgono tutte le iniziative capitalistiche(e le attività produttive, lavorative che ne costituiscono il substrato materiale), ma d’altra parte il capitale finanziario è sempre di più l’unica loro possibile forma di esistenza: imprese capitaliste non integrate nel circuito del capitale finanziano sono sempre più marginali e precarie.(6)


6. Per comprendere la natura ed il ruolo del capitale finanziario nella fase imperialista del Modo di Produzione Capitalista la miglior fonte è ancora la classica opera di Lenin L’imperialismo,fase suprema del capitalismo (Ed. Riuniti).


Contemporaneamente la ricerca di valorizzazione da parte delle singole frazioni di capitale provoca il superamento di regolamenti, normative, prassi e istituzioni che hanno favorito e sostenuto la valorizzazione del capitale nel periodo della sua ripresa dopo la 2° Guerra Mondiale, ma che ora ogni singola frazione di capitale sente come impedimenti al suo movimento. La deregulation,(7) iniziata negli anni ‘70 e generalizzatasi a tutti i paesi imperialisti, è la condizione perché alcune frazioni possano valorizzarsi nonostante tutto. Al tempo stesso crea anche le condizioni perché la crisi generale del capitale possa esprimersi nuovamente in tutta la necessaria forza distruttiva anch’essa imbrigliata da quegli stessi lacci e lacciuoli.


7. Coniato dai mass-media con riferimento alle politiche dei governi Thatcher e Reagan, il termine deregulation (alla lettera “deregolamentazione”) è passato nell’uso comune per definire l’insieme di misure che grosso modo a partire dalla fine degli anni ‘70 gli Stati dei principali paesi imperialisti hanno intrapreso, sotto la pressione delle rispettive borghesie, al fine di rimuovere quell’insieme di regole, norme ed istituzioni di natura economica, finanziaria, giuridica, politica, amministrativa che a partire dalla fine della 2° Guerra Mondiale l’intervento statale nell’economia aveva messo in piedi. Sorte con lo scopo di favorire l’accumulazione capitalistica, queste regole, norme ed istituzioni avevano finito - per lo stesso procedere del movimento economico delle società borghesi - per essere (quale per una parte, quale per un’altra parte della grande borghesia monopolista) dei limiti al libero sviluppo dell’accumulazione.


Alcuni hanno interpretato e interpretano questo processo, attraverso cui la borghesia ha smantellato un complesso di condizioni economiche, politiche e giuridiche che è stato alla base dello sviluppo delle società borghesi dal secondo dopoguerra fino agli anni ‘70, come una dimostrazione di vitalità del capitalismo stesso, che avrebbe avviato il superamento della sua crisi attraverso scelte efficientistiche, operate in base a progetti lungimiranti e organici.

In realtà costoro mostrano di rimanere al rimorchio della borghesia e delle sue immaginazioni (divenendo essi stessi apologeti del Modo di Produzione Capitalista): non vedono infatti che le scelte operate dalle classi dominanti non sono che risposte di corto respiro a problemi impellenti di sopravvivenza, che spostano in là nel tempo l’esito catastrofico della crisi economica, ma che ad ogni passo e a tale fine eliminano anche alcune delle istituzioni e delle prassi che impedivano il dispiegarsi catastrofico della crisi. Il che, ovviamente, non attenua il contenuto di repressione e di miseria per le masse popolari e la modificazione dei rapporti di forza che quelle misure sottendono.


2. Dall’eurodollaro degli anni ‘60 alla rottura degli accordi di Bretton Woods


La prima fra le manifestazioni evidenti dell’esistenza di una massa di capitale monetario di dimensioni crescenti fu la formazione negli anni ‘60 di un grande mercato internazionale di capitali da prestito e da speculazione, il mercato dell’eurodollaro, che permetteva ai possessori di capitale monetario di operare al di fuori dei regolamenti del sistema monetario, creditizio e finanziario dei singoli Stati (sulla base del fatto che questi però accettavano l’esistenza e l’azione di quel mercato).(8)


8. “Il mercato degli eurodollari è costituito dall’insieme dei depositi in dollari, appartenenti a non residenti negli Stati Uniti, depositi raccolti e gestiti da banche situate fuori degli Stati Uniti. Questi depositi vengono utilizzati, sempre da non residenti negli Stati Uniti, per operazioni di credito internazionale. Derivano, in genere, da fondi in dollari ricevuti da non residenti negli Stati Uniti; costoro, anziché convertire i dollari presso la banca centrale del proprio paese, li mettono in circolazione su questo particolare mercato...

L’espressione “eurodollari” - che si continua ad adoperare, essendo radicata nell’uso -non sta, pertanto, a indicare uno speciale tipo di dollari, ma piuttosto il mercato dove questi dollari sono trattati: fuori degli USA, e in particolare l’Europa, specialmente Londra, Parigi e Zurigo.

L’origine tecnica degli eurodollari è, generalmente, di questo tipo: una società europea vende negli Stati Uniti a una ditta americana prodotti per un milione di dollari. La merce viene pagata con un assegno da un milione di dollari depositato presso una banca americana. Invece di cambiare l’assegno in moneta del proprio paese, la società europea lo trasferisce in una banca in Europa aprendo a proprio favore un conto in dollari.

Nasce da quel momento un nuovo milione di eurodollari. La banca, poi, può usare questo deposito in dollari (tenendone una piccola parte come riserva) per finanziare operazioni commerciali o industriali. Quel milione di dollari entra nel grande mercato dell’eurodollaro” (Cit. da (3. Stammati, Il sistema monetario internazionale, Boringhieri 1974, pp. 193-4).

Venne così a crearsi, sulla base di acquisti e vendite di eurodollari (concretamente, spostamenti di scritture contabili da un deposito bancario ad un altro), una rete di transazioni basate su una liquidità internazionale privata, non soggetta, se non in minima parte, al controllo delle banche centrali, e che il capitale finanziario internazionale poté mobilitare rapidamente per operazioni speculative di grosso calibro. E’ interessante notare che il mercato dell’eurodollaro creò una sorta di circolo vizioso: da una parte, esso fu alimentato in misura preponderante dalla massa di dollari che usciva dagli USA a causa del deficit della bilancia dei pagamenti statunitense; dall’altra, esso attrasse capitali dagli USA, contribuendo a perpetuare quel deficit.

Le stesse borghesie europee hanno spesso puntato l’indice in segno di accusa nei confronti del mercato dell’eurodollaro. Nella misura in cui le operazioni su di esso si svolgono nel più totale anonimato, i capitalisti che vi operano hanno completa libertà di manovra. I movimenti di capitali da un paese all’altro (ossia trasferimenti di scritture contabili, ad esempio dalla filiale londinese di una banca americana alla filiale londinese di urta banca svizzera, oppure le conversioni di un deposito bancario da una valuta all’altra, ad esempio da franchi francesi a marchi tedeschi, dato che gli eurodollari o le eurovalute in genere non “si spostano” affatto da Londra o dalle altre piazze citate) che avvengono su questo mercato si sommano così ai movimenti di capitali trasferiti direttamente da un paese all’altro nel produrre pressioni speculative sui tassi di cambio dell’una o dell’altra moneta, eccesso o scarsità di denaro in un paese, condizionamento delle politiche monetarie degli Stati, e così via.


La possibilità di muovere denaro da un paese all’altro o, più esattamente, da una moneta all’altra senza dover sottostare alle regole imposte dalle varie autorità nazionali e dagli accordi tra esse sottoscritti, finì con l’assestare il colpo decisivo alla stabilità già oramai precaria del sistema monetario internazionale creato nel 1944 a Bretton Woods dagli Stati imperialisti vincitori e basato sulla convertibilità del dollaro in oro a prezzo fisso, sulla convertibilità a cambio fisso tra le altre monete e il dollaro e sull’azione congiunta delle autorità monetarie dei maggiori paesi imperialisti.

Il sistema di Bretton Woods dalla fine degli anni ‘50 aveva iniziato a diventare una camicia sempre più stretta per il movimento economico reale delle società borghesi.

Da una parte il declinare del tasso di profitto spingeva naturalmente ogni capitalista, oltre che a ridurre i costi, ad aumentare i prezzi di vendita come mezzo con cui la singola frazione di capitale manteneva o aumentava il suo profitto.

La struttura monopolistica dell’economia ed i sistemi di regolamentazione degli interventi pubblici nell’economia creavano un terreno favorevole al dispiegarsi di questa spinta perché, anche se non lo impedivano del tutto, ostacolavano però l’ingresso in campo di nuovi concorrenti che puntassero sulla vendita a prezzi stracciati.

Perché questa spinta potesse effettivamente e pienamente dispiegarsi occorreva però che la creazione di mezzi di pagamento fosse abbondante e a buon mercato.

A questo provvedevano appunto i rapporti monetari instaurati dagli accordi di Bretton Woods. Essi, infatti, conferivano un significato puramente nominale al contenuto aureo delle monete diverse dal dollaro e quindi alla loro convertibilità diretta in una merce con un valore proprio: le rispettive Banche Centrali erano tenute solo a mantenere stabile il cambio con il dollaro, non a convertirle in oro o altra merce; inoltre limitavano il significato economico del contenuto aureo del dollaro: le autorità monetarie USA erano tenute a cambiare i dollari-carta in oro solo su richiesta delle Banche Centrali dei paesi contraenti, ossia in pratica dei governi la cui “amicizia e fedeltà agli USA e alla civiltà cristiana” si misuravano anche dal fatto che si astenevano da tale sconveniente richiesta.

Già alla fine degli anni ‘50 gli USA (governo federale, enti e imprese) avevano inondato e inondavano il mondo di dollari. Ciò era legato alla peculiarità dell’imperialismo americano. Ciò che gli imperialisti inglesi, francesi, tedeschi, olandesi, belgi, italiani (europei in generale) avevano preso nel mondo rapinando e sequestrando, gli imperialisti americani, fin che era possibile, lo comperavano. I sistemi politici amici e dipendenti che i capitalisti europei avevano imposto con le armi, la repressione e l’amministrazione diretta, ora gli imperialisti USA fin che era possibile, li installavano e mantenevano comperandone gli esponenti politici e creando e finanziando in ogni angolo del mondo organizzazioni amiche. A garanzia di ultima risorsa di questo, ma anche a protezione dei loro amici del posto, mantenevano a spese del governo federale USA una rete di basi militari ufficiali e di organismi di spionaggio e per operazioni segrete.

Una volta spazzati via, con la guerra aperta o con l’eliminazione segreta dei capi o con la destabilizzazione, i gruppi politici che impedivano la loro penetrazione ed azione, gli imperialisti USA comperavano e pagavano “onestamente” tutto ciò che aveva un prezzo, anziché sequestrarlo, rapinarlo o soffocarlo.

Il mondo così “libero” venne quindi inondato di dollari, acquistando industrie e concessioni, affittando basi e mantenendo all’estero forze militari e agenzie varie, finanziando uomini e organizzazioni amiche, facendo investimenti diretti, comperando merci, immobili, servizi e facilitazioni di ogni genere. D’altra parte i dollari non solo erano illimitatamente convertiti dalle Banche Centrali in moneta nazionale, ma, fino a metà degli anni ‘50 circa, erano richiesti per il saldo di debiti, il pagamento di interessi e l’acquisto di merci e servizi negli USA.


Ma già nella prima metà degli anni ‘50 i dollari richiesti per pagamenti dall’estero verso gli USA cominciavano ad essere meno di quanti dagli USA affluivano all’estero.(9) La massa di dollari che si accumulava in mano di individui ed enti operanti fuori dagli USA costituiva direttamente, per le merci oggetto del mercato internazionale e quotate in dollari, quei mezzi di pagamento abbondanti e a buon mercato dianzi postulati. Non solo. Proprio grazie agli impegni cui le autorità degli altri Stati erano vincolati in base agli accordi di Bretton Woods, essa determinava indirettamente una abbondante creazione di mezzi di pagamento anche nelle monete degli altri paesi. Ciò avveniva in misura inversamente proporzionale alla fiducia che i detentori di dollari nutrivano nella stabilità del dollaro; minore la fiducia, maggiore era la massa di dollari che essi convertivano in altre monete e che le Banche Centrali erano tenute a convertire illimitatamente ai tassi fissati a Bretton Woods.

Ora, la fiducia nella stabilità del dollaro diventava tanto minore quanto maggiore era la quantità di dollari in circolazione, quanto maggiore diventava la resistenza delle autorità USA a cambiare dollari con oro anche alle Banche Centrali (nonostante gli accordi di Bretton Woods), quanto meno stabile era la situazione politica ed economica interna USA e meno irresistibile il predominio USA nel mondo.


9. Fra il 1945 e il 1949, nonostante l’amministrazione Truman trasferisca all’estero 26 miliardi di dollari nella forma di aiuti e prestiti a governi nell’ambito dell’European Recovery Program (meglio noto come Piano Marshall), si ha complessivamente un movimento di denaro verso gli USA. Questo avviene perché la domanda estera di merci e servizi statunitensi è in questi primi anni del dopoguerra così forte da superare gli acquisti americani all’estero; la bilancia corrente degli Stati Uniti, nel periodo 1946-49, è in surplus per circa 17 miliardi di dollari. I movimenti di capitali fanno invece segnare un deficit di circa 11 miliardi. In tal modo, fra il ‘46 e il ‘49 la bilancia dei pagamenti statunitense è in attivo e la Federal Reserve accumula riserve in oro e sterline per circa 6 miliardi di dollari. Questa situazione (all’epoca definita come “dollar shortage”, ossia carenza di dollari) ha termine nel 1950. Nel 1949 il governo USA, preoccupato della stabilità del predominio americano in Europa, oltre a costituire la NATO acconsente a che vari governi europei, tra cui quelli della Gran Bretagna e della Francia, svalutino le loro monete rispetto al dollaro per migliorare la situazione economica nei rispettivi paesi rendendo più competitive le esportazioni e più costose le importazioni.

Inoltre, il procedere della ricostruzione rende ora disponibili sui mercati nazionali merci che prima dovevano essere importate dagli USA. L’effetto sulle esportazioni americane è di ridurre il loro valore da 12 a 10 miliardi di dollari fra il ‘49 e il ‘50. I capitalisti statunitensi proseguono invece ad acquistare massicciamente merci straniere (da 6,9 miliardi ad oltre 9 miliardi). Sempre nel 1950 inizia la guerra di Corea, e con essa la spesa militare statunitense all’estero cresce rapidamente. Complessivamente, la bilancia dei pagamenti USA è in deficit per la prima volta nel dopoguerra per circa 1.800 milioni di dollari.


Proprio questo legame fra creazione di mezzi di pagamento in dollari da parte degli USA e creazione di mezzi di pagamento in altre monete impediva, fino alla rottura degli accordi di Bretton Woods nel 1971 - 1973, che l’aumento dei prezzi in dollari fosse maggiore dell’aumento dei prezzi nelle altre monete benché proprio le autorità monetarie americane fossero all’origine del processo di creazione abbondante e a buon mercato di mezzi di pagamento e quindi i capitalisti USA usassero più ampiamente ed autonomamente dei capitalisti degli altri paesi della possibilità di mantenere ed aumentare i profitti delle singole frazioni di capitale aumentando i prezzi di vendita.

Il deprezzamento del dollaro rispetto alle monete degli altri grandi paesi imperialisti poté diventare palese solo quando finalmente nel 1971 - 1973 furono buttati all’aria, per decisione unilaterale del governo USA, gli accordi di Bretton Woods, stampella, ma ormai anche laccio del movimento economico delle società borghesi.

In questo processo, un ruolo determinante fu appunto svolto dalla formazione negli anni ‘60 del mercato dell’eurodollaro. Questa rendeva gli averi in dollari più remunerativi di quanto lo fossero depositandoli nelle banche USA o acquistando titoli finanziari USA. Nella misura in cui chi possedeva dollari poteva ora impiegarli con maggior profitto depositandoli su questo mercato, le Banche Centrali venivano ad essere meno pressate da richieste di conversione di dollari in moneta nazionale. Ciò rallentò cioè per qualche tempo la fuga dal dollaro. A questo obiettivo concorsero anche i molteplici accordi bilaterali e multilaterali negoziati negli anni ‘60 dal governo USA con gli altri governi imperialisti.

Ma il processo, benché rallentato, proseguì il suo corso. I grandi possessori di capitale monetario tornarono a fuggire sempre più dal dollaro, cercando di accrescere il loro capitale convertendolo progressivamente in altre valute e speculando sulla prossima svalutazione del dollaro. A questo punto l’esistenza del mercato dell’eurodollaro finì per accelerare il processo, visto che la totale assenza di regolamentazioni e controlli favoriva gli spostamenti di denaro da una valuta all’altra a scopi speculativi. L’effetto fu quello di rendere insostenibile anche in linea di diritto (giacché di fatto era stata sospesa da tempo) la convertibilità del dollaro in oro (1971) e il mantenimento di rapporti di cambio stabili tra le valute (1973), nonché di rendere inevitabile la doppia svalutazione del dollaro (1971 e 1973).

Fu il primo grande atto ufficiale di deregulation, prima ancora che il termine entrasse nell’uso.


3. La valorizzazione del capitale negli anni ‘70


Proprio le vicende dei primi anni ‘70, con le condizioni di grave instabilità che la rottura del sistema monetario internazionale fino allora vigente aveva permesso si manifestassero sui mercati finanziari, spingevano i possessori di denaro a garantirsi contro possibili perdite attraverso l’acquisto di materie prime non deperibili (agricole e minerarie), il cui commercio internazionale avveniva contro dollari e il cui prezzo quindi era spinto in alto sia dall’inflazione sia, ancora di più, dalla svalutazione del dollaro rispetto alle altre maggiori monete.

Così, il capitale monetario trovò sfogo, tra il 1972 e il 1974, nella corsa all’accaparramento delle materie prime, con l’esempio più macroscopico rappresentato dal petrolio. La domanda di materie prime veniva inoltre accresciuta dalla breve ripresa ciclica manifestata dalle economie capitaliste fra il 1972 e il 1973 che spingeva nello stesso senso. A sua volta, l’aumento di prezzo causato dal massiccio investimento in stocks di materie prime innescava un processo speculativo in cui acquisti e vendite si susseguivano con ritmo frenetico sulle Borse merci, lucrando sulla differenza tra prezzo di acquisto e prezzo di vendita anche su periodi molto brevi.

Naturalmente l’aumento del prezzo delle materie prime si ripercosse sui conti delle aziende e degli altri acquirenti sconvolgendoli e determinando una grande richiesta di prestiti e contribuzioni. Ciò aprì nuove vie alla valorizzazione del capitale monetario.

Nei successivi anni ‘70 il capitale monetario trovò sfogo (ossia mezzo per valorizzarsi):


- nella massiccia erogazione di prestiti agli Stati dei paesi dipendenti e ad enti di questi paesi garantiti dagli Stati (da qui è originato l’attuale enorme indebitamento di questi) nonché ad alcuni Stati di paesi socialisti(URSS,Europa Orientale) nei quali viene a costituire una componente del processo in corso di reinserimento nel mercato capitalistico mondiale (Tab. 5);

- nella sottoscrizione di titoli del Debito Pubblico degli Stati dei paesi imperialisti (Tab. 6).

Questi sbocchi, uniti all’inflazione che contribuiva ad abbassare i costi di produzione (riducendo i salari reali tra un contratto e il successivo e le altre spese monetarie fisse in valore nominale affitti, interessi, debiti, ecc.) e ad alzare il margine di profitto (tramite l’innalzamento del prezzo di vendita) per il capitale impegnato nella produzione, contennero le manifestazioni della crisi negli anni ‘70.


Tutto ciò ha funzionato fino a quando:


- l’inflazione per essere efficace arrivò a livelli che perturbavano le correnti operazioni finanziarie e commerciali, rendendo sempre più difficile una previsione dei futuri costi e profitti da parte dei singoli capitalisti;

- il debito estero degli Stati del Terzo Mondo giunse a livelli tali che il solo servizio del debito, non coperto dall’avanzo della bilancia delle partite correnti, richiedeva un flusso di prestiti tale da compromettere la liquidità del sistema (in concreto diventava sempre più difficile per quei prestatori che volevano il rimborso del capitale alla scadenza, ottenerlo). Il primo Stato del Terzo Mondo a dichiarare la propria impossibilità di far fronte agli obblighi assunti verso le banche creditrici straniere fu quello messicano (agosto 1982). Nel giro di due anni, la quasi totalità degli Stati latino-americani, numerosi Stati africani e alcuni dell’Estremo Oriente hanno seguito l’esempio del Messico. Perle banche che hanno prestato denaro a questi Stati, la “crisi del debito” si traduce tuttora in un enorme immobilizzo di capitali, il cui rimborso si fa sempre più aleatorio e su cui spesso non vengono più nemmeno corrisposti gli interessi dovuti;(10)

- il Debito Pubblico nei paesi imperialisti arrivò a livelli tali da rendere via via più difficile ai governi e alle autorità monetarie ogni manovra congiunturale di politica economica e da essere incompatibile con un permanente disavanzo del bilancio statale.(11)

Solo il governo federale USA poté continuare ad indebitarsi e anzi aumentò il ritmo di indebitamento: dal 1981 ad oggi, gli anni di Reagan sono stati anzi caratterizzati da un massiccio accrescimento del debito federale. E ciò sfruttando, finché fu economicamente possibile, le opportunità offerte dal ruolo di moneta mondiale tuttora rivestito dal dollaro e pagando alti tassi d interesse che attiravano negli USA denaro dall’estero.(12)


10. Volutamente tralasciamo i paesi socialisti, alcuni dei quali - Polonia e Romania al primo posto - pure condividono con i paesi del Terzo Mondo il problema di un forte indebitamento verso banche e governi dei paesi imperialisti. Anzi in realtà è stata proprio la Polonia ad “aprire” la crisi del debito nel 1981, dichiarando di non poter ripagare i debiti in scadenza. I governi di alcuni di questi paesi stanno dissanguando i lavoratori e la popolazione in genere per esportare (in condizione di generale sovrapproduzione di merci), incassare dollari o altra valuta convertibile e mantenere i loro impegni con le banche. Contiamo di potere presto presentare ai nostri lettori un bilancio dell’esperienza di questi paesi e del loro ruolo nel movimento economico complessivo del mondo attuale.


11. Stante l’alto livello del Debito Pubblico e dato che gran parte di esso è a breve scadenza, ogni governo deve ottenere periodicamente che i possessori e manovratori di denaro sottoscrivano cifre ragguardevoli (ad es. per il governo italiano si tratta di circa 80.000 miliardi di lire ogni tre mesi) e quindi deve offrire tassi di interesse “interessanti” ai possessori e manovratori di denaro per convincerli a “votare” per lui. Data la mole delle cifre, ciò ha un’influenza determinante sui tassi di interesse dell’intera economia. Quindi impedisce che le autorità monetarie possano liberamente manovrare il tasso d’interesse conformemente a obiettivi congiunturali. Quando lo alzano, cresce l’interesse pagato su tutto il Debito Pubblico e con esso cresce a spirale il fabbisogno di nuovi prestiti da parte dello Stato. Quando lo riducono, rischiano di non ottenere la massa di prestiti di cui hanno bisogno.


12. Si veda in proposito La realtà della “ripresa” americana, G. Maj Editore 1985, parzialmente riprodotto in IL BOLLETTINO n.17-18 (Atti del Convegno Repressione e crisi economica,Milano 24-25 marzo 1985).


4. Ristrutturazione produttiva e finanziaria delle imprese e boom delle Borse dei titoli azionari


Parallelamente, il procedere della crisi determinava trasformazioni profonde anche nel cuore del Modo di Produzione Capitalista, ossia nel sistema delle imprese. A causa dell’accentuarsi della concorrenza tra le aziende, sopravvivevano quelle che si impegnavano più a fondo nella riduzione dei costi di produzione, ossia in una radicale ristrutturazione (contrabbandata come “soluzione” e “superamento” della crisi).


La ristrutturazione avveniva su due linee:


1. ristrutturazione produttiva, ristrutturazione finanziaria.

Essa ha avuto aspetti simili in tutti i paesi imperialisti. Gli Stati:

- hanno rimosso le norme legislative e spezzato i vincoli contrattuali stabiliti nel periodo precedente a sostegno dello sviluppo del capitale nelle condizioni di allora (“Stato sociale”);

- hanno aiutato massicciamente sul piano fiscale, della prassi amministrativa doganale, del credito, ecc. le imprese capitaliste destinate a sopravvivere.


Il liberismo è stato strettamente a senso unico: ossia tutte le aziende erano liberate da obblighi, vincoli e regolamenti, ma lo Stato continuava ad assistere, sovvenzionare e sostenere quelle “vitali” e “sane”, lasciando al loro destino i “rami secchi”. Di conseguenza in ogni paese e in ogni settore produttivo sono sopravvissuti pochi gruppi e questi si sono rafforzati e sono diventati forti a livello mondiale.


2. La ristrutturazione produttiva è sotto gli occhi di tutti, dati i costi che ha comportato per il proletariato in termini di disoccupazione, perdita della sicurezza del posto di lavoro (lavoro “nero”, part-time, Cassa Integrazione Guadagni, ecc.), aumento dei carichi di lavoro, flessibilità, erosione dei salari reali, eliminazione di fatto della scala mobile, riduzione delle misure di sicurezza e di igiene sul lavoro, riduzione delle misure di salvaguardia dell’ambiente, ecc. Insomma, meno occupazione, meno salario, più sfruttamento dei lavoratori e più distruzione delle condizioni ambientali di vita. Con il suo risvolto in termini di maggiore repressione a livello politico.

Questo tipo di ristrutturazione si è avvalso di un ampio processo di riconversione dell’apparato produttivo (sostituzione di tecnologie tradizionali con tecnologie innovative, sofisticate, “laboursaving”, centrate sulla micro-elettronica) che ha alzato la composizione organica del capitale e mutato il rapporto tra lavoro necessario e pluslavoro a vantaggio del secondo. Una ristrutturazione che non amplia la capacità produttiva, ma che - accrescendo l’intensità del lavoro fornito dagli operai - agisce da controtendenza, per la frazione di capitale che ne è protagonista, alla caduta del saggio di profitto nel breve periodo. Alla lunga essa aggrava la crisi, in quanto determina una sempre più accanita concorrenza fra capitalisti per spartirsi la torta di una massa di plusvalore via via più piccola in rapporto alle dimensioni del capitale accumulato. D’altra parte la ristrutturazione produttiva richiedeva che si concentrassero rapidamente grandi masse di denaro nelle imprese che dovevano sopravvivere: per cambiare gli impianti, per mettere a punto nuovi procedimenti, per penetrare in nuovi settori e mercati, per incorporare altre imprese.


Il necessario supporto alla ristrutturazione produttiva è stata la ristrutturazione finanziaria, che ha marciato su due binari paralleli:


2.1. riduzione dell’indebitamento delle imprese nei confronti delle banche, con conseguente riduzione del ruolo delle banche come intermediari e riduzione del pluralismo dei centri di potere economico;

2.2. ricapitalizzazione, cioè possibilità di accrescere il capitale proprio senza ricorrere al credito.

Il tutto nell’urgenza derivante dal dover operare in un contesto sempre più internazionale - dato che la crisi spinge i capitalisti a competere gli uni sui mercati degli altri - e quindi dal doversi attrezzare al livello adeguato alla concorrenza imposta dai gruppi monopolistici più forti, pena la perdita di quote di mercato.

La ristrutturazione finanziaria delle imprese trovò la sua possibilità di attuazione nel boom delle Borse dei titoli azionari e nello stesso tempo lo alimentò. Esso consentiva al capitale impiegato nelle aziende produttrici di conseguire entrambi gli obiettivi della ristrutturazione finanziaria. In un contesto di crescente domanda di titoli azionari (sapientemente avviata, propagandata e guidata dai centri dirigenti dei gruppi monopolistici, cui si sono a mano a mano accodate società di piccole e medie dimensioni, “capitalisti” improvvisati, redditieri, strati di piccola borghesia ed aristocrazia proletaria, ecc. attratti dal miraggio dei “capital gains” alla portata di tutti), le operazioni di aumento di capitale da parte delle imprese maggiori sono andate in porto senza difficoltà, consentendo alle aziende di finanziare a costi minimi la ristrutturazione produttiva e di eliminare quote consistenti dei loro debiti verso le banche. Parallelamente, l’attività di frenetica compravendita di titoli consentiva grosse operazioni di acquisizione di pacchetti azionari di maggioranza, “scalate”, partecipazioni, fusioni societarie, che avvantaggiavano e rafforzavano i capitali di maggiori dimensioni attraverso la centralizzazione di enormi patrimoni finanziari.(13)


13. Alcuni pubblicisti hanno calcolato che fra il 1984 e il dicembre 1987 negli USA siano avvenute circa 10.800 acquisizioni e fusioni societarie, che hanno coinvolto un patrimonio di quasi 700 miliardi di dollari.


Il movimento fu alimentato anche dalla privatizzazione delle aziende statali. In vari paesi imperialisti i governi hanno proceduto a smantellare il settore pubblico dell’economia e a trasformare in imprese capitalistiche anche attività da tempo gestite direttamente dalla amministrazione pubblica (assistenza sanitaria, carceri, servizi postali, ecc.). In questo modo nuovi campi di diretta attività si aprivano al capitale, diminuivano i vincoli politici della vita economica e in alcuni casi veniva diminuito il Debito Pubblico, in altri veniva almeno ridotto il ritmo della sua crescita. Nello stesso tempo nuove imprese e nuovi titoli finanziari venivano offerti all’investimento finanziario e alla Borsa dei titoli azionari, alimentandone l’attività.

Fu così che il boom delle Borse dei titoli azionari divenne, dal 1982 a oggi, uno dei due principali campi di valorizzazione del capitale monetario eccedente, assieme alla sottoscrizione di titoli del Debito Pubblico USA.

Il governo federale USA, mentre proseguiva la deregulation come riduzione della regolamentazione dei movimenti delle singole frazioni di capitale, si lanciava infatti in un massiccio ampliamento della spesa pubblica e contemporaneamente riduceva le entrate fiscali, soprattutto sui profitti d’impresa e sui redditi medio-alti. Ciò faceva rapidamente salire il debito federale e il disavanzo annuo dello Stato. Quest’ultimo veniva (e viene tuttora) finanziato con la vendita di titoli ad alto saggio di interesse, il che rendeva l’investimento in dollari remunerativo e quindi alzava anche il tasso di cambio del dollaro rispetto alle monete degli altri maggiori paesi imperialisti. Il tutto era sostenuto da una generosa creazione di moneta. Ovviamente, facendo alzare il cambio del dollaro, il governo federale provocò la riduzione dell’apparato produttivo di merci (industria, agricoltura, ecc.) operante su suolo americano e compromise ulteriormente la posizione degli USA come potenza commerciale. Le conseguenze in termini di occupazione furono momentaneamente contenute grazie alla pioggia di dollari fatta piovere sul paese (la tanto celebrata creazione di milioni di posti di lavoro nei “servizi”), ma vennero poste le premesse per un successivo declino interno e internazionale che, per essere frenato, richiederà nel futuro misure radicali.(14)


14. Ancora una volta il rinvio è a La realtà della “ripresa” americana, op. cit.

Notiamo per inciso che questa politica di alti saggi di interesse ha fatto sì che, sia da parte degli apologeti della “reaganomics”, sia da parte di molti dei suoi cosiddetti critici di “sinistra”, sia stato diffuso il luogo comune secondo cui il “successo” dell’amministrazione USA in campo economico fra il 1982 e il 1985 sarebbe dovuto ad una felice combinazione di politica fiscale espansiva (riduzione delle tasse) e politica monetaria

restrittiva (scarsa creazione di nuova moneta). In realtà, nonostante gli alti tassi di interesse necessari per attirare capitali dall’estero e finanziare il deficit federale, gli anni di Reagan sono stati caratterizzati da una espansione della massa di denaro senza precedenti nella storia americana del secondo dopoguerra. Nel 1983 la quantità di moneta (contante e depositi a vista) negli USA è cresciuta ad una tasso del 16%, cosa mai avvenuta neppure negli anni ‘70 quando il ritmo di aumento dei prezzi era ben maggiore. Come politica monetaria restrittiva non c’è male davvero!


In conclusione, il movimento economico delle società borghesi dalla fine degli anni ‘60 ad oggi mostra che la massa di capitale eccedente quello impiegato nel processo produttivo, man mano che è cresciuta, ha finora trovato sbocchi in cui riversarsi e valorizzarsi. Ognuno di essi è durato per un certo tempo, perché oltre un certo limite produceva effetti che ne determinavano la fine.

Alcuni di questi sbocchi hanno funzionato anche come rimedio alla sovrapproduzione di merci, perché essi creavano una domanda pagante per merci che altrimenti non avrebbero potuto essere vendute e quindi hanno evitato che il rallentamento della crescita del volume della produzione in alcuni settori e la diminuzione del volume della produzione in altri fossero maggiori di quelli che effettivamente sono stati.

Contemporaneamente ognuno di essi creava alcune delle condizioni necessarie alla maturazione delle contraddizioni che renderanno prima o poi inevitabile il manifestarsi della crisi in forme violente ed eliminava alcuni degli ostacoli al suo violento prorompere.


5. boom della Borsa dei titoli azionari in Italia


Il caso italiano è significativo come esempio del ruolo svolto dal boom del mercato azionario contemporaneamente come sbocco all’eccesso di capitale monetario e come sostegno alla ristrutturazione finanziaria delle imprese.

Le caratteristiche strutturali del capitalismo in Italia (dove lo Stato e le grandi banche hanno assolto il compito di promuovere e sostenere l’accumulazione capitalistica e la stessa concentrazione del capitale industriale è avvenuta sotto l’egida del capitale bancario) si sono sempre riflesse in una scarsa importanza relativa del mercato azionario nel finanziamento delle società. Sommata all’ingente ricorso al credito da parte dello Stato, questa caratteristica ha fatto sì che il “risparmio del settore privato” (ossia la somma di denaro e di capitale che, rispettivamente, le classi non capitalistiche e le imprese mantengono in forma monetaria) si dirigesse soprattutto verso il sistema bancario (depositi di conto corrente, ecc.) e verso il settore pubblico (acquisto di titoli di Stato). A loro volta, le società necessitavano di credito bancario (oltre che di finanziamenti statali) per rastrellare denaro.

Il boom della Borsa ha parzialmente modificato questo quadro. La quota del “risparmio del settore privato” investita in azioni (incluse quelle non quotate in Borsa) è cresciuta dal 8,5% nel 1974 al 28% nel 1985. Soltanto fra il 1980 e il 1986 la quota del risparmio delle “famiglie” (ossia di tutti coloro che non percepiscono redditi di impresa: proletari, artigiani, liberi professionisti, redditieri, istituti ed associazioni senza finalità di lucro, ecc.) investita in azioni è aumentata dal 7% al 13,5%. Se a questa si sommano i risparmi investiti nei Fondi Comuni di Investimento la quota sale al 19,3%.

Il controvalore delle azioni quotate in Borsa rimane però tuttora una piccola parte del capitale azionario italiano. A fine 1986 il valore delle azioni quotate e non quotate era di 1.049.000 miliardi di lire, mentre il valore delle azioni quotate in Borsa era di circa 193.000 miliardi. Di questi si stima che soltanto un 25-30% siano azioni effettivamente circolanti sul mercato e quindi oggetto di compravendita; il resto rappresenta invece pacchetti di controllo societario e non viene posto in circolazione.

La Borsa di titoli azionari è dunque ancora ben lontana dal rappresentare per il capitale italiano quello che rappresenta per il capitale statunitense, giapponese o britannico. Tuttavia gli anni ‘80 sono stati testimoni di un consistente spostamento nella destinazione del patrimonio finanziario italiano e questo spostamento è andato a vantaggio di alcune grandi imprese multisettoriali e multinazionali. Fra il 1975 e il 1985 la quota di finanziamento delle società attraverso cessione di titoli azionari è cresciuta dal 9% al 26% del totale. Solo nel periodo 1980-86 il denaro rastrellato dalle società tramite nuove emissioni azionarie ha superato i 32700 miliardi di lire (da circa 3.000 miliardi nel 1980 a 13.600miliardi nel 1986)(Tab. 7). In questo modo, le società italiane sono riuscite a liberarsi in notevole misura dal fardello dell’indebitamento verso il sistema bancario: ad esempio, le imprese industriali hanno ridotto il rapporto fra debito verso le banche e fatturato dal 21,1% al 9,2% nell’arco di dieci anni (1976-85)(Tab. 8).

Un’indagine di Mediobanca, condotta sulla base di un campione di 1.603 imprese industriali italiane, mostra come queste siano riuscite a ridurre anche in termini assoluti il debito verso le banche (da 41.927 miliardi di lire a fine 1984 a 39.161 miliardi a fine 1986), stabilizzando i debiti a medio termine e riducendo quelli a breve termine. Prende così corpo un mutamento dei rapporti di forza all’interno della classe dominante e una maggiore concentrazione del capitale. La classe dominante si raffigura ora come un insieme di pochi grandi gruppi multisettoriali (industriali, minerari, agricoli, dei servizi, ecc.) che sviluppa o assorbe dall’esterno le attività collegate (produzioni di materie prime e semilavorati, commercializzazione, marketing, società finanziarie, ecc.). Perde invece peso il settore bancario e finanziario (banche commerciali, società di assicurazioni, ecc.) legato allo Stato. Il potere economico si è concentrato in un numero minore di mani; si è realizzata una maggiore compenetrazione, in ogni singolo gruppo, di capitale industriale, commerciale e finanziario; si è ridotto per lo Stato il ruolo di mediatore di contraddizioni economiche ed è aumentato quello di esecutore e promotore degli interessi dei grandi gruppi “nazionali”.

Si tratta di un fenomeno tanto più significativo in quanto si inquadra nella generale trasformazione dei rapporti di forza in seno al blocco sociale dominante, dopo che l’assetto precedente, confermato dalla restaurazione borghese successiva alla 2° Guerra Mondiale, era entrato in crisi negli anni ‘70. Rafforzatasi grazie alle sconfitte inflitte al movimento rivendicativo dei lavoratori e tratto profitto dalla crisi del movimento rivoluzionario del proletariato, la borghesia monopolistica italiana negli anni ‘80 va modificando i suoi rapporti con il ceto politico statale e con gli altri settori del blocco dominante, aspirando a consolidare la propria posizione fra le maggiori borghesie imperialiste.

Anche in Italia il boom borsistico ha consentito vaste acquisizioni di pacchetti azionari di maggioranza. Nel 1986 le acquisizioni sono state 287, mentre solo nella prima metà del 1987 ne sono avvenute 172.

Una serie di misure legislative e di innovazioni tecniche hanno specificamente aperto la via e favorito il boom della Borsa. Fra le prime, ricordiamo:


- la legge Pandolfi del 16 dicembre 1977, n.904, che aboliva la doppia tassazione dei dividendi;(15)


- le leggi del 22 dicembre 1980, n.891 e del 27 novembre 1981, n.676, che grazie a specifiche agevolazioni fiscali hanno permesso alle società di far ricorso massiccio all’emissione di obbligazioni convertibili in azioni;


- la legge del 23 marzo 1983 n.77, istitutiva dei Fondi Comuni di Investimento.


15. Prima dell’introduzione di questa legge, i dividendi venivano tassati due volte: una prima volta alla fonte, ossia all’atto del loro pagamento all’azionista da parte della società che aveva emesso le azioni, ed una seconda volta in quanto parte del reddito complessivo dell’azionista. Con la legge Pandolfi la doppia tassazione restava formalmente in vigore, ma chi intascava il dividendo poteva dedurre dalla dichiarazione dei redditi l’imposta già pagata, che diventava così un semplice acconto e di entità non certo pesante (il 10%, quando oggi gli interessi sui conti correnti bancari sono tassati nella misura del 30%).


Questi ultimi sono istituti di intermediazione finanziaria che investono in azioni e/o obbligazioni il denaro raccolto presso i risparmiatori. Si tratta di uno strumento appositamente ritagliato sulle esigenze dei piccoli risparmiatori (piccola borghesia, strati proletari in grado di accantonare risparmi, ecc.). Chi investe in un Fondo Comune è liberato dalla scelta del proprio “portafoglio” di azioni, e può anche optare per Fondi in cui la componente azionaria, a rischio più elevato, è minima in rapporto ai titoli a reddito fisso. Il miraggio del guadagno facile a rischio minimo - nella fase del boom di Borsa - ha garantito un notevole successo ai Fondi Comuni italiani: avendo iniziato ad operare a partire dal giugno 1984, hanno visto rapidamente aumentare il loro patrimonio da 1.100 miliardi di lire a fine 1983 a 65.000 miliardi a fine 1986.

Fra le innovazioni tecniche va citata l’introduzione del Monte titoli, organizzazione istituita dalla Banca d’Italia, dalle banche e dagli agenti di Borsa per consentire il regolamento delle operazioni attraverso trasmissione elettronica dei dati.

Analoghe misure di deregolamentazione dell’accesso in Borsa, delle operazioni, ecc, e innovazioni tecniche sono state introdotte del resto in quasi tutte le maggiori Borse mondiali.


6. Dimensioni e cause del crollo delle Borse dei titoli azionari


La valutazione delle dimensioni del crack borsistico dell’ottobre ‘87 non può che essere approssimativa. Di sicuro è stato un crollo imponente della capitalizzazione di Borsa in termini assoluti, anche se in realtà il prezzo medio delle azioni, anche nel giorno più nero, non è sceso al di sotto del livello raggiunto circa a metà ‘85, cioè dopo tre anni di rialzo. Quindi una situazione ancora ben lontana da quella successiva al crack del ‘29 quando la quotazione di numerosi titoli si ridusse a zero. Questo e gli avvenimenti dei mesi successivi fanno ritenere che l’ottobre sia solo stato l’inizio di un periodo di incertezze e grandi scosse la cui conclusione deve ancora arrivare.

Iniziato il lunedì 19 ottobre 1987 a Wall Street e proseguito il giorno successivo sulle Borse europee ed asiatiche, il crollo delle quotazioni continua tuttora, in una tendenza calante costellata di brusche oscillazioni, con riprese e ricadute.

Le dimensioni della caduta nei giorni immediatamente successivi al 19 ottobre sono mostrate nella Tab. 4. Per avere un’idea delle dimensioni assolute del crollo, basterà pensare che solo nel “lunedì nero” l’indice Dow Jones di Wall Street è sceso del 22,6%. Ciò equivale ad una diminuzione nella capitalizzazione della Borsa di New York di ben 650 miliardi di dollari.(16) In occasione del famoso “giovedì nero” del 1929 la caduta dei corsi azionari a New York era stata “solo” del 12,8%.


16. La somma di 650 miliardi di dollari equivale al 15% circa del prodotto nazionale lordo annuale USA. La somma sembra enorme; in realtà buona parte di questa perdita (quella relativa ai pacchetti azionari di controllo e alle azioni detenute a scopo di risparmio) avrà effetti economici solo indiretti. Anche molti di coloro che hanno comperato azioni in vista dell’aumento del loro prezzo, sono ancora lungi dall’averci perso. Se io compro un’azione al prezzo di 100 e questa dopo sei mesi vale 200, il mio guadagno è tale soltanto se a questo punto io decido di venderla. Se decido invece di attendere che il prezzo salga ancora, il mio guadagno resta virtuale; allo stesso modo, se nel giro di una settimana il valore crolla a 110, non solo io non ho sofferto alcuna perdita, ma se anche decido di vendere a quel prezzo avrò realizzato un guadagno di 10. Avrò una perdita solo nel caso in cui, avendo comprato a 100, debba vendere ad un prezzo inferiore.


Fra il 20 e il 28 ottobre scorso la caduta dei corsi è variata fra il 15% (Tokyo) e il 35% (Hong Kong, dove in un solo giorno la capitalizzazione di Borsa è diminuita di 25 miliardi di dollari). Per le maggiori Borse mondiali, la contrazione è stata in media del 20-25% nei primi dieci giorni.

Comprendere le cause del crollo significa comprendere le cause del boom. Abbiamo indicato l’elemento oggettivo alla base del boom di Borsa: la presenza di una massa di capitale monetario eccedente che cerca impiego. Perché il boom si verificasse, fu però necessario un secondo elemento: il concorrere dal 1982 in avanti di una serie di interessi, per altro disparati e in parte anche divergenti, a spingere al rialzo, generando la diffusa convinzioni tra la maggioranza degli investitori, che l’ascesa delle quotazioni era destinata a protrarsi. Questa combinazione probabilistica di elementi mette in luce il carattere casuale, contingente e necessariamente caduco del boom di Borsa. Per di più, a boom innestato, giunge prima o poi il momento i cui la disponibilità di capitale monetario cessa di essere un limite all’espansione del mercato: i profitti (guadagni in conto capitali) ottenuti nella Borsa stessa vengono sistematicamente reinvestiti alimentano il rialzo dei corsi azionari. Il prezzo delle azioni, questo punto, non è già più in alcun rapporto diretto con i dividendo che si presume la società distribuirà a chiusura de bilancio (alcuni hanno calcolato che a fine 1986 i dividendi risultarono essere mediamente, nel mondo, dell’ordine del 3% de prezzo raggiunto a quella data in Borsa dalle azioni: inferiori cioè a qualsiasi tasso di interesse corrente sul mercato dei titoli). Del resto mentre il boom è in corso e si autoalimenta, i gruppi che controllano le società non hanno alcuna necessità di distribuire dividendi alti per attirare compratori di azioni.

La Borsa a questo punto si è già trasformata da luogo per investimenti finanziari determinati più o meno strettamente da valutazioni più o meno esatte dell’andamento futuro degli affari delle società quotate, in luogo di gioco d’azzardo di ogni investitore sul comportamento futuro degli altri investitori. Ognuno di essi sa che prima o poi la bolla scoppierà, ma sa anche che finché dura si possono fare guadagni rapidi e massicci. L’abilità sta nel capire in tempo in che direzione tirerà il vento e ognuno spera di farcela. L’inizio del ribasso è solo questione di tempo.

Quando, per una combinazione casuale di fattori, il boom si inverte, è la tendenza opposta ad agire: come prima gli investitori fiduciosi nel rialzo delle quotazioni comperavano (e così facendo spingevano verso l’alto le quotazioni), così ora il panico generato dalla caduta delle quotazioni si traduce in vendite massicce per salvare il salvabile e ciò fa precipitare i prezzi delle azioni; ancor una volta, senza alcun rapporto diretto con l’andamento degli affari delle società quotate e i loro profitti. In questo modo, una vendita o anche soltanto una cessazione degli acquisti da parte di pochi grossi investitori istituzionali statunitensi o stranieri a Wall Street, è stata sufficiente a far scendere in misura vistosa alcune quotazioni generando la convinzione diffusa che fosse arrivato l’atteso calo e quindi determinando la corsa generale alla vendita dei titoli e trovando un’immediata ripercussione, il giorno seguente, sulle altre piazze. Le oscillazioni che si sono susseguite - e che tuttora si susseguono - derivano da reazioni di investitori ancora invischiati in investimenti azionari a scopo speculativo, a sollecitazioni contrastanti: la volontà di alcuni di uscire a tutti i costi, la speranza di altri di recuperare, le ipotesi sul comportamento degli altri. I tentativi di collegare l’andamento delle quotazioni di Borsa all’andamento degli affari (del tipo: bilancia commerciale USA, deficit del governo federale USA, ecc.) nelle condizioni attuali sono inconsistenti, salvo che per l’effetto limitato generato dal tentativo stesso, proprio perché il prezzo delle azioni non ha attualmente ancora alcun legame diretto con l’andamento reale degli affari delle società quotate.

Non esiste quindi alcuna causa intrinseca al fenomeno in corso del fatto che il crack si sia verificato proprio il 19 ottobre anziché due mesi prima o quindici giorni dopo.(17) Se le attività dei magnati della finanza e dello Stato non fossero avvolte da una fitta cortina di “doveroso riserbo”, sarebbe sicuramente possibile attraverso la cronaca dei giorni precedenti il crack del 19 ottobre ricostruire la sequenza delle operazioni che hanno condotto all’esito. Tale storia sarebbe altamente istruttiva, nel senso che metterebbe in luce chi comanda realmente nelle democratiche società borghesi. Ma non aggiungerebbe molto alla comprensione dell’evento. Così come la storia dell’attentato di Sarajevo e delle iniziative dei governi europei nel luglio 1914 non spiega alcunché circa le cause, la natura e gli esiti della 1° Guerra Mondiale.


17. Alcuni hanno sostenuto che il crack delle Borse è stato determinato dall’allargarsi del divario fra il rendimento delle azioni e quello delle obbligazioni a favore delle ultime. Questa argomentazione in realtà non regge alla prova dei fatti, visto che:

- il livello del rendimento (cioè del dividendo) ha rappresentato la de terminante dell’investimento borsistico solo per una piccola minoranza di acquirenti (per lo più singoli risparmiatori);

- il divario tra rendimenti azionari e obbligazionari era ampio ben prima dell’ottobre 1987, senza che questo avesse in alcun modo frenato il boom.

Altrettanto campata in aria è la tesi di quelli che affermano che il crac] fu dovuto al divario tra il prezzo delle azioni e il loro “valore vero” (con questo termine intendono un prezzo delle azioni tale che il dividendo costituisca un «giusto» tasso di interesse). A parte l’opinabilità del giusto, a parte il fatto che sul dividendo a fine ‘87 poco si sapeva il 19 ottobre stante anche il grado di discrezionalità dei consigli di amministrazione nella determinazione della sua entità, a parte il grande divario tra dividendi distribuiti da una società e dall’altra, a parte tutto ciò, se non bastasse, resta da considerare che questo ipotetico divario esisteva da alcuni anni senza impedire il proseguire del boom .


Al di là degli elementi contingenti, arbitrari e casuali (tempi modalità, estensione), il fatto che ad un boom delle Borse di titoli azionari debba necessariamente seguire un crollo è la conseguenza dell’agire delle leggi del Modo di Produzione Capitalista, la cui oggettiva necessità non è aggirabile per volontà umana: la valorizzazione del capitale all’esterno del ciclo produttivo si imbatte prima o poi in limiti invalicabili, e il gonfiamento artificiale della massa del profitto deve presto o tardi manifestare la propria natura fittizia.(18)


18. Usiamo il termine “fittizia” per descrivere la valorizzazione de capitale al di fuori del ciclo produttivo non perché questo tipo di valorizzazione (accrescimento del capitale produttivo di interesse) sia illusoria. L’accrescimento di una somma di denaro al di fuori del processo produttivo è qualcosa di ben reale, come sperimenta facilmente chiunque dia del denaro a prestito o semplicemente depositi dei risparmi in banca. Per secoli il capitalismo si è manifestato nella forma del capitale produttivo di interesse (prestito, usura), ben prima di presentarsi come capitale produttivo di merci.

La valorizzazione di cui qui si tratta è in realtà “fittizia” perché essa è possibile solo sulla base di una crescita della massa di mezzi d pagamento che avviene allo scopo di garantire le condizioni di realizzazione di un capitale produttivo che complessivamente si è svalorizzato, perché opera al di sotto della sua capacità produttiva, perché si regge soltanto sulla base di finanziamenti agevolati, commesse statali, credito ai consumatori, ecc. In altre parole: la valorizzazione del capitale al di fuori del ciclo produttivo è “fittizia” perché nasconde la svalorizzazione del capitale all’interno del ciclo produttivo.


7. Le conseguenze del crack


La fine del boom delle Borse dei titoli azionari ha avuto e avrà conseguenze:


- sulle singole categorie di investitori e sui loro rapporti reciproci,


- sull’andamento complessivo della vita economica delle società borghesi.


Si tratta di conseguenze in alcuni casi già concretizzatesi, in altri casi sin d’ora evidenti ma per il momento di scarso peso ed in altri casi ancora non avvertibili. Il peso di queste conseguenze sarà pienamente avvertito quando e se (come riteniamo e come i recenti avvenimenti confermano) la tendenza al crollo procederà.

Le conseguenze del crollo delle Borse variano enormemente a seconda delle diverse categorie di investitori e dei diversi soggetti sociali.


1. Per chi (è certamente una infima minoranza) durante il boom aveva acquistato le azioni solo in vista del loro rendimento, cioè del dividendo, la caduta delle quotazioni non avrà rilevanza diretta. Salvo poche eccezioni, la capacità di un’impresa di realizzare profitti non è direttamente collegata alla sua quotazione in Borsa. Anzi questo tipo di investitori può oggi comperare meglio di quanto comperasse ieri, salva la preoccupazione diffusa sull’andamento futuro degli affari.


2. Per i piccoli risparmiatori, per i capitalisti improvvisati, per tutti quegli strati di aristocrazia proletaria e piccola borghesia che avevano visto nella Borsa il miraggio di un guadagno facile e magari la possibilità di migliorare la propria situazione sociale o comunque di assicurarsi un futuro meno soggetto alle restrizioni e alla insicurezza che la crisi capitalistica genera, il crack della Borsa rappresenterà, nella stragrande maggioranza dei casi, una. perdita secca. Estranei ai ristretti circoli dove i giochi vengono fatti, fra gli ultimi ad essersi inseriti nel meccanismo dei guadagni in conto capitale - e quindi avendo pagato ad un prezzo già abbastanza alto i loro titoli - vedranno decurtato il loro gruzzolo. Anche in questo caso le dimensioni della perdita sono difficilmente valutabili, dato che le statistiche borghesi accomunano nella categoria famiglie soggetti sociali tra loro eterogenei come il proletario che riesce a risparmiare una parte del salario e il ricco redditiere.


In termini assoluti, non si tratta verosimilmente ancora di una perdita di entità drammatica,(19) ma essa potrà assumere proporzioni rilevanti se si considera

- la rapidità con cui questo patrimonio è stato bruciato,

- il processo di crescente impoverimento che nella crisi attuale colpisce strati della piccola borghesia, dell’aristocrazia proletaria e in generale dei percettori di redditi non da capitale (salari, redditi da impresa familiare, piccole rendite).


19. I fondi comuni di investimento in Italia hanno raccolto circa 40.000 miliardi di lire da circa 3 milioni di sottoscrittori negli anni tra il 1984 e il 1986: ossia 13 milioni in media da ogni sottoscrittore. Grosso modo, tenuto conto della percentuale di azioni che vi era nel loro patrimonio e della caduta che ha avuto l’indice generale del prezzo delle azioni, essi nell’ottobre ‘87 hanno perso circa 6.600 miliardi di lire, ossia, in media, 2,2 milioni di lire per sottoscrittore, senza però tener conto delle pingui provvigioni pagate ai “maghi dei Fondi”.


E’ ancora presto perché i malcontento di questi strati di fronte alla volatilizzazione dei loro risparmi trovi un’espressione politica. Ma questo è il ceto medio su cui i regimi dei paesi imperialisti si basano per mantenere le forme della democrazia borghese e quindi le conseguenze del crack della Borsa (se questo procederà) avranno anche risvolti politici.


3. Per i capitalisti di dimensioni maggiori, le perdite dipenderanno da fattori casuali (la composizione dei titoli azionari in portafoglio, il loro prezzo di acquisto - nonostante la caduta, i corsi sono tuttora superiori a quanto non fossero tre anni fa; dunque, per chi ha comprato prima di allora, la Borsa è ancora un buon affare!). Alcuni capitalisti, quelli più “accorti”, possono addirittura assicurarsi un guadagno dal crack: è i caso di quanti, avendo previsto per tempo il crollo, avevano concluso contratti a termine, grazie ai quali hanno potuto vendere a prezzi ancora alti azioni non ancora in loro possesso, acquistandole successivamente al prezzo ribassato.


4. Per alcuni grandi gruppi monopolisti (i gruppi di controllo delle società per azioni) è un’ulteriore occasione per accaparrarsi partecipazioni azionarie a basso prezzo e acquisire il controllo di altre società, dunque una spinta ulteriore alla concentrazione capitalistica. Lo prova il fatto che alla Borsa di Milano, nei primi sei mesi del 1987 e quindi già in un contesto di corsi calanti, sono avvenute ben 172 acquisizioni di pacchetti azionari di maggioranza. Non solo: la caduta dei corsi azionari - per i gruppi monopolistici dominanti - è il coronamento del processo di riduzione della propria dipendenza nei confronti del credito bancario. Le operazioni di ricapitalizzazione avevano consentito di procurarsi denaro fresco con cui rimborsare i debiti; a fronte del rastrellamento di denaro, erano state emesse azioni; ora il prezzo di queste crolla, spesso al di sotto del prezzo a cui erano state emesse, ma la perdita ricade sulla massa degli acquirenti. “Privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite” è ancora una volta la parola d’ordine del grande capitale, anche all’interno della stessa classe dominante.


5. D’altro canto,la situazione finanziaria di moltissime imprese risulterà indebolita: il rapporto fra capitale sottoscritto e totale delle passività si riduce; una fonte di finanziamenti, a buon mercato rispetto ai prestiti bancari, diventa temporaneamente indisponibile; viene meno la possibilità di rimborsare debiti in scadenza ricorrendo all’emissione di nuovo capitale azionario in offerta o alla vendita di azioni proprie o altrui in portafoglio; ecc. Pertanto vengono rinviati o cancellati progetti di investimento, l’impiego effettivo della capacità produttiva e la quantità di forza-lavoro occupata subiscono riduzioni e così via.


6. Le difficoltà in cui vengono a trovarsi le imprese (fino ai fallimenti veri e propri) si ripercuotono sui loro creditori: banche, società finanziarie, ecc. A queste vanno aggiunte le conseguenze dirette della liquidazione massiccia di titoli in Borsa sulle società e sulle banche di investimento, che operano sul mercato azionario per conto di capitalisti e risparmiatori. Le riduzioni di organico talora massicce effettuate sui dall’indomani del 19 ottobre da banche, società finanziarie, agenzie di Borsa, ecc. ne sono una manifestazione, al pan del frenetico ricorso al credito presso istituzioni creditizie maggiori (Banca Centrale, grandi banche commerciali). Il tramonto del mito degli “yuppies” decretato dai mass media è una registrazione di questo fenomeno. Ne risulta dunque uno stato di tensione che finisce per interessare in misura maggiore o minore tutti i comparti del mercato del credito.


Le conseguenze della fine del boom di Borsa sulla vita economica delle società borghesi sono a loro volta un riflesso delle conseguenze, fin qui descritte, sulle varie categorie di investitori; i due aspetti formano un intreccio inscindibile e possono essere separati solo a fini di chiarezza analitica.

Nel complesso, l’effetto del crack di Borsa sarà quello di inasprire le difficoltà in cui si dibatte l’economia capitalista mondiale, ostacolando in vario modo le manovre economiche e finanziarie che i principali Stati borghesi realizzano o tentano di realizzare allo scopo di rilanciare l’accumulazione a livello nazionale ed internazionale.

Alcuni ostacoli derivano in via immediata dalla crisi dei mercati borsistici. E’ il caso dello scacco che in Francia e in Gran Bretagna subiscono i programmi di privatizzazione di alcune aziende pubbliche, alla cui concretizzazione doveva concorrere in misura decisiva anche la ricapitalizzazione di queste imprese tramite il ricorso a forme di “azionariato popolare” (emissione di azioni in piccoli tagli, a prezzo di favore, rispetto al prezzo che si presume avranno sul “libero” mercato, per date categorie di persone, allo scopo di rastrellarne il risparmio e interessarle all’esito degli affari delle imprese in cui lavorano).

Altri ostacoli alla manovra economica degli Stati borghesi presentano un legame più mediato con il crack di Borsa, pur essendone in ultima istanza una conseguenza. Si è visto in precedenza come il crollo mondiale delle Borse (oltre a provocare un innalzamento della concentrazione del capitale e assicurare sovrapprofitti da rapina a pochi gruppi finanziari) sia stato la causa de:

- di un impoverimento di settori del ceto medio,

- di un indebolimento finanziario per molte imprese,

- di un conseguente scossone alla stabilità dei circuiti creditizi.

Se la tendenza al crack persiste, tutto questo si rifletterà prima o poi in un rallentamento della domanda di mezzi di consumo e di mezzi di produzione (cioè di nuovi investimenti) e in un’accentuazione dell’instabilità che già oggi caratterizza i mercati finanziari nazionali ed internazionali. Vale a dire, si rifletterà in un accrescersi delle difficoltà di realizzazione delle merci - e quindi in ulteriori ostacoli alla valorizzazione del capitale - in seguito a minor domanda di merci (mezzi di consumo e mezzi di produzione), incertezza sulle condizioni future dei mercati, sull’evoluzione dei tassi di interesse, dei cambi, ecc. Le caratteristiche e l’intensità di questi fenomeni non saranno uguali ovunque. Per esempio, è certo che l’effetto di rallentamento della domanda di consumi sarà profondo soprattutto negli USA, dove maggiori sono le perdite in Borsa per i piccoli risparmiatori.

Le crescenti difficoltà in cui è destinata a procedere l’accumulazione capitalista mondiale hanno suscitato, da parte di alcuni, invocazioni affinché i maggiori Stati borghesi prendano misure di natura espansiva (riduzione della disoccupazione, ulteriori aumenti della spesa pubblica a sostegno della domanda di merci, riduzione della tassazione sui consumatori, contenimento del costo del denaro e così via). Il punto di vista di costoro (per lo più “critici” del capitalismo allo scopo di migliorarlo) è quello secondo cui colpevoli dell’attuale situazione di crisi sarebbero le politiche restrittive (tagli dell’occupazione, tagli alla spesa pubblica, alto costo del denaro, ecc.) praticate negli ultimi anni dalle oligarchie dominanti dei paesi imperialisti.

Abbiamo già detto quale sia stato il significato delle “scelte” in materia di politica economica operate dagli Stati borghesi dal dopoguerra sino agli anni ‘70 e quale il significato del loro parziale (e contraddittorio) abbandono. Resta da sottolineare come, a conti fatti, consigliare oggi alle classi dominanti di perseguire politiche espansive significa in realtà sfondare porte aperte. Non solo la liberalizzazione e la deregulation sono state a senso unico, ma anche le “restrizioni” economiche lo sono state e continuano ad esserlo. Certamente la spesa pubblica è stata ridotta nei settori della sanità, della sicurezza sociale, dell’istruzione, ecc. coerentemente con l’obiettivo di rendere i lavoratori disponibili a vendersi con minori “pretese”. Ma è aumentata la spesa statale per gli apparati militari e di sicurezza, per le sovvenzioni alle imprese da rafforzare, per le clientele. E la spesa pubblica complessiva ha continuato a crescere quasi ovunque. Certamente il costo del denaro è rimasto alto mentre l’inflazione scendeva, ma mai come negli anni ‘80 la massa di denaro, mezzi di pagamento, capitale da prestito è cresciuta così rapidamente. E così via.(20)


20. L’unico genere di politica economica espansiva che gli Stati borghesi non applicano è quello fondato sulla classica “ricetta” che l’economista borghese J. M. Keynes (1883-1946) non si stancò di raccomandare alle pubbliche autorità fra il 1929 e la fine della 2° Guerra Mondiale: l’aumento dell’occupazione e dei salari, accoppiato ad una moderata inflazione.

E’ questo il genere di politica economica che insistentemente quanto inutilmente chiedono i partiti borghesi “popolari” quando sono all’opposizione, salvo lasciarla cadere anche loro quando sono al governo Plateale fu il caso del presidente francese Mitterrand che nel 1981 andò al potere con l’appoggio delle sinistre unite - PSF e PCF - su un programma del genere e nel giro di due anni adottò una politica economica di segno completamente opposto. Stendendo un velo di pietoso silenzio sul fatto i suoi omologhi, anche “nostrani”, continuano però a proclamare tale programma.

Ma non è per ignoranza o cattiveria che nessun governo applica queste genere di politica economica. In una lettera del 1939 al quotidiane britannico The Times Keynes espresse la sua ricetta pressappoco nel modo seguente: la creazione di moneta permette di occupare più operai e di aumentare i salari e far lavorare più a lungo quelli già occupati, i costi maggiori vengono recuperati dalle imprese attraverso prezzi più alti e lo Stato può infine rastrellare il denaro anticipato attraverso imposte più alte.

Questa sorta di “gioco delle tre tavolette” potrebbe funzionare solo in un caso: se la società borghese non fosse la società borghese reale, che procede proprio grazie ai movimenti contraddittori delle sue parti costituenti, in cui la conferma sociale del valore oggettivato nelle merci viene fatta solo a posteriori nella compravendita, che ha la molla del suo sviluppo nella valorizzazione illimitata di ogni frazione di capitale con il conseguente ampliamento illimitato della produzione e che ha altre caratteristiche del genere.

La ricetta di Keynes e dei suoi seguaci (per “sinistri” che essi siano) postula invece una società ordinata a priori, amministrata, che si muove secondo un piano prestabilito, ma che, conservando della società attuale la divisione in classi, non può che:

- o restare una bizzarra utopia di fiduciosi conciliatori di cose inconciliabili che per eliminare nelle loro teorie le contraddizioni della produzione capitalista astraggono proprio dalla base e sostanza della medesima (al modo dei proudhoniani sognatori del “biglietto orario” di cui tratta esaurientemente Marx nei Grundrisse in Il capitolo del denaro);

- o realizzarsi per brevi periodi in modelli quali l’economia di guerra nazista, per una riedizione della quale non si sono ancora create le condizioni necessarie in nessun paese imperialista.


Del resto, le politiche economiche dei singoli Stati dipendono sempre più direttamente dagli interessi di pochi grandi gruppi monopolistici “nazionali” con la cui fortuna nel mondo si identifica la fortuna della “economia nazionale”. Per questa frazione del capitale l’espansione del mercato interno (sul quale essa esercita già la sua supremazia) risulta meno urgente oggi, nella crisi, a paragone della conquista di mercati stranieri e quindi il contenimento dei costi per migliorare la concorrenzialità è più importante dell’ampliamento del mercato interno. Lo scontro e la lotta per l’accaparramento dei mercati esteri divengono un’esigenza sempre più impellente, ragione per cui è sempre più irrinunciabile che i rispettivi Stati perseguano politiche tendenti ad accrescere al massimo la competitività. E’ questo il senso dell’attuale “guerra dei tassi di cambio” in atto fra USA, Giappone e Germania, una guerra il cui oggetto è il dominio in campo commerciale e finanziario. La tranquillità con cui le autorità monetarie USA lasciano svalutare il dollaro rispetto alle altre monete rende chiaro che si tratta di una di quelle svalutazioni competitive per decenni messe al bando e indicate come comportamento sleale. Le tensioni sui mercati esteri e sui mercati transnazionali, come quello dell’eurodollaro, prodotte dall’imprevedibilità e dalla volatilità dei tassi di cambio, tendono a trasmettersi ai mercati nazionali del credito a causa dell’avanzata integrazione del capitale mondiali sul terreno finanziario. Si registra così un’accentuazione della tendenza a scaricare su altri Stati la responsabilità dei malesseri delle rispettive economie nazionali, mentre l’auspicata “concertazione delle politiche economiche nazionali” da parte dei maggiori Stati imperialisti segna vistosi arretramenti.


8. Conclusioni


Alcuni postulano un parallelismo tra i crack delle Borse dei titoli azionari dell’ottobre 1987 e i crack dell’ottobre 1929 e pro- pronosticano una paralisi a breve termine delle attività economiche nei paesi imperialisti, come è accaduto nel periodo successivo al crack del 1929.

Questi non tengono conto dello sviluppo che da allora a oggi hanno avuto quelle che Marx chiamò forme antitetiche dell’unità sociale.(21) Il loro sviluppo rende da una parte più laborioso l’inizio di una paralisi generalizzata delle attività economiche, così come renderà più drastico il suo decorso una volta iniziata. In conseguenza di esse non è da escludere che siano ancora vari i passi che dovranno essere compiuti prima che la crisi del Modo di Produzione Capitalista giunga al fine al suo sbocco catastrofico e distruttivo.


21. Nella società borghese sono state create un gran numero di istituzioni (Fondo Monetario Internazionale, accordi di Bretton Woods, Banche Centrali, banche sovranazionali, sistemi di mutua garanzia finanziaria, accordi commerciali, accordi di monopolio, politiche economiche statali, istituti previdenziali, ecc.) tese a frenare, ridurre, contenere le tendenze distruttive insite nel Modo di Produzione Capitalista, le manifestazioni estreme del contrasto insanabile che sorge ad un certo punto tra produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza da un lato e rapporti di produzione capitalistici dall’altro; questo non significa però che questo contrasto possa essere eliminato. Osservare l’azione di queste istituzioni è fondamentale per capire le forme e i tempi con cui si manifestano quelle tendenze distruttive. Per una trattazione più approfondita del significato delle forme antitetiche dell’unità sociale nel Modo di Produzione Capitalista e del loro rapporto con il superamento di questo nel socialismo, si veda il n. 0 della rivista Rapporti Sociali, alle pagg.4-6. Il concetto di forme antitetiche dell’unità sociale è introdotto da Marx nei Grundrisse, Vol. I, sez .11 (Il denaro come rapporto sociale).

Per quanto concerne il crack del 1929, ricordiamo che la crisi finanziaria esplosa negli USA a partire dal crollo di Wall Street indusse il governo ad intervenire nel 1933 con due provvedimenti legislativi tesi a prevenire il ripetersi della diffusione a macchia d’olio di insolvenze, fallimenti, illiquidità, ecc.: il “Banking Act” e il “Federal Securities Act”.

Il “Banking Act” era inteso a porre ordine nella caotica condizione del sistema bancario statunitense dell’epoca. Esso istituiva un ‘assicurazione governativa sui depositi; trasferiva al Federal Reserve Board (ente pubblico con sede a Washington, che coordina l’attività delle banche del Federal Reserve System, ossia la Banca Centrale americana) la facoltà di effettuare operazioni sul mercato monetario, facoltà prima attribuita alla Federal Reserve Bank di New York, ente privato; separava istituzionalmente le banche di investimento o banche di affari (che potevano acquistare partecipazioni azionarie) dalle banche commerciali (che operavano in base a depositi e prestiti).

Il “Federal Securities Act” tramite la creazione della “Securities Commission” istituiva forme di controllo pubblico sulle emissioni di titoli.

Dopo la 2° Guerra Mondiale, le regolamentazioni dei mercati nazionali dei capitali si sono moltiplicate (ruolo sempre maggiore delle Banche Centrali, istituti che controllano l’attività di alcuni particolari mercati, come quello di Borsa, istituti che garantiscono il finanziamento dei crediti all’esportazione, organismi che tengono sotto controllo i crediti erogati dalle banche residenti sul territorio nazionale a favore di stranieri, ecc.)e nuove istituzioni e forme di intervento sono state create allo scopo di sorvegliare l’andamento delle relazioni monetarie e finanziarie internazionali (accordi di Bretton Woods, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, OCSE, Banche di Sviluppo, GA1T, linee di credito reciproche tra Banche Centrali, Sistema Monetario Europeo, ecc.).

Questa complessa “rete di protezione” ha funzionato fino a quando essa non ha finito inevitabilmente col trasformarsi in una gabbia che Limitava la libertà di movimento del capitale. Ma quando questa gabbia infine saltata (come nel caso sopra ricordato degli accordi di Bretton Woods), le contraddizioni del movimento economico delle società borghesi hanno potuto nuovamente manifestarsi con forza, originando pressioni per un ritorno alla regolamentazione (ad esempio, nuovi accordi sul controllo dei tassi di cambio da parte delle Banche Centrali, come quelli conclusi fra USA, Germania Federale e Giappone nel 1985 a New York e nel 1987 a Parigi) oppure una specie di “sostituzione” di strumenti dimostratisi inefficaci con altri nuovi. Ad esempio, la provata incapacità del Fondo Monetario Internazionale di garantire una soluzione della “crisi debitoria” del Terzo Mondo favorevole all’oligarchia finanziaria internazionale ha fatto sì che questa prendesse nelle proprie mani l’iniziativa. Così, nel 1983 trentacinque grosse banche internazionali fondavano l’Institute of International Finance, cui spetta il compito di raccogliere informazioni sui paesi del Terzo Mondo, influire sulle scelte del FMI, dei governi, ecc., facendosi portavoce diretto degli interessi dell’alta finanza internazionale e in questo ambito cercando - con scarso successo! - di definire una linea comune. Tutte queste vicende costituiscono un movimento dialettico che ad ogni passaggio non fa che aggravare i contrasti e avvicina la resa dei conti con i limiti storici del Modo Produzione Capitalista.


La caduta dei corsi dei titoli azionari è anzitutto un’ulteriore verifica nella realtà del fallimento del sogno, accarezzato dalla borghesia in tutte le situazioni di crisi del meccanismo di accumulazione, di poter aggirare le contraddizioni che sorgono dal cuore del modo di produzione capitalistico (dal processo di produzione immediato, unica fonte di creazione del plusvalore) ed evitare la resa dei conti con le leggi stesse di questo modo di produzione.

La caduta dei titoli azionari può anche segnare l’inizio di una fase di maggiore depressione dell’economia capitalista, aggravando le difficoltà esistenti e facendo crollare come un castello di carte la maggior parte dei piani, progetti, programmi, leggi e leggine indirizzate a mantenere sotto controllo gli aspetti più dirompenti dell’attuale crisi per sovrapproduzione di capitale. In sostanza si tratta di vedere se il capitale eccedente troverà qualche altro sbocco in grado di procrastinare gli effetti della sovrapproduzione di capitale sulle attività economiche reali.

Alla luce di questi fatti, appaiono in tutta la loro inconsistenza le dotte chiacchiere sulla riduzione del deficit della bilancia commerciale USA, sulla riduzione del deficit del governo federale USA, sul disarmo come chiave di volta, alcuno di essi o tutti assieme, per l’uscita dalla crisi.

In realtà, nell’ambito del Modo di Produzione Capitalista, come è vero che l’indebitamento del governo USA, l’indebitamento dei vari stati imperialisti, le oscillazioni del cambio del dollaro non possono procedere all’infinito, è altrettanto vero che proprio le cause di questi fenomeni sono puntelli delle attivi economiche e che, stando le cose come stanno oggi, la loro eliminazione (del tipo previsto dal progetto Gramm-Rudma-Hollings (22)), equivarrebbe al taglio del ramo su cui si è seduti.


22. Il “Balanced Budget and Emergency Deficit Act” - meglio noto come legge Gramm-Rudman-Hollings, dai nomi degli estensori - è stato approvato dal Congresso USA nel dicembre 1985. Scopo del provvedimento era l’eliminazione del disavanzo annuo del bilancio federale (allora pari a 212 miliardi di dollari)entro il 1991, fissando anno per anno un come obiettivo, deficit decrescenti.

Il Balanced Budget and Emergency Deficit Act- meglio noto come legge Gramm-Rudman-Hollings, dai nomi degli estensori- è stato approvato al Congresso USA nel dicembre 1985. Scopo del provvedimento era l’eliminazione del disavanzo annuo del bilancio federale( allora pari a 212 miliardi di dollari) entro il 1991, fissando anno per anno, come obiettivo, deficit decrescenti.

La procedura stabilita dalla legge in sostanza dava l’ultima parola al Congresso nel caso in cui il governo avesse presentato un bilancio il deficit eccedesse quello stabilito dal “Balanced Budget Act”. Essa modificata con un atto di forza dall’amministrazione Reagan – a riprova del fatto che oggi, nella fase imperialista del Modo di Produzione Capitalista, il rispetto delle garanzie formali della “democrazia” borghese non può più essere assicurato nemmeno nel “paese più libero del mondo” - la quale fu così libera di spingere l’espansione del disavanzo federale oltre i limiti originariamente stabiliti dalla legge Gramm-Rudman-Hollings.


Il crack delle Borse dell’ottobre 1987 chiude una fase (apertasi grosso modo con gli anni ‘80) della crisi generale del Modo Produzione Capitalista, a sua volta iniziata nel decennio scorso una fase che le fanfare della borghesia avevano salutato come superamento della crisi e la riprova dell’eterna vitalità del capitalismo. Una volta di più, il corso degli eventi si è fatto beffe degli apologeti del capitale. La nuova fase che si apre vede nuovamente rimessi in gioco i rapporti di forza all’interno della borghesia internazionale, con tutto il portato di conflitti e contraddizioni che questo comporta. Di fatto la borghesia mondiale si trova nuovamente di fronte, una volta chiuso il boom delle Borse dei titoli azionari, il problema di come valorizzare una massa enorme di capitale monetario eccedente, di come garantire un’adeguata accumulazione di profitti a fronte di una massa di plusvalore stagnante.




Appendice


LA BORSA DEI TITOLI AZIONARI


In ogni Borsa di titoli azionari (distinta dalle Borse merci,dalle Borse valute, dalle Borse o mercati di titoli di credito, obbligazioni, titoli del Debito Pubblico, ecc ) vengono vendute e comperate le azioni delle società per azioni a cui la direzione di quella Borsa, in base alle norme e alle leggi vigenti nel paese, ha concesso di essere quotate nella Borsa stessa.

In ogni Borsa le operazioni (trattative, acquisti, vendite e le attività derivate) sono compiute solo da persone (agenti di Borsa) che hanno ottenuto l’iscrizione tra gli operatori di quella Borsa, come di solito avviene in tutti i mercati all’ingrosso. In generale però nelle Borse di titoli azionari gli operatori, anche se comprano vendono a proprio nome (e quindi assumono impegni contrattuali di cui rispondono personalmente), operano su ordine di clienti, effettivi proprietari dei titoli, da cui percepiscono una provvigione.

In ogni Borsa vengono vendute e comperate azioni già esistenti (mercato secondario)e vengono vendute nuove azioni da società che hanno ottenuto l’autorizzazione ad aumentare il proprio capitale azionario,cioè ad emettere nuove azioni (mercato primario).

I venditori effettivi di azioni sono quindi in prima istanza le stesse società per azioni (mercato primario), in seconda istanza individui e società che posseggono azioni per averle a loro volta comperate (mercato secondario) e individui e società che pur non possedendole si impegnano a procurarsele entro il giorno stabilito per la consegna (mercato a termine).

I compratori effettivi di azioni sono individui e società che impegnano il proprio denaro nell’acquisto -per il dividendo che riceveranno a chiusura del bilancio annuale in base alle azioni possedute (acquisto di risparmio)

- contando su un aumento del prezzo delle azioni stesse e quindi sul maggiore ricavo che ne avranno rivendendo al momento opportuno (acquisto di speculazione),

- per avere voce in capitolo nella conduzione della società o impossessarsene (acquisto di controllo).


La società per azioni (spa) è la forma più impersonale e liquida di capitale, quella in cui è massima la separazione tra l’individuo possessore di capitale e la funzione effettiva di capitalista (di funzionario del capitale) E’ quindi anche la forma in cui più facile è l’esproprio; in cui il possesso del capitale meno dipende da abilità, capacità e qualità personali nell’esplicazione della funzione della società; in cui è possibile concentrare in un tutto unico capitali più svariati e frazionata

E’ insomma la forma tipica, più pura di organizzazione del capitale Il livello del carattere capitalistico (o grado di capitalizzazione) dell’economia di un paese è adeguatamente indicato dalla quota delle attività economiche organizzate nella forma di società per azioni. .


Le azioni di spa non quotate in Borsa sono proprietà di persone o enti tra di loro in rapporto personale e sono oggetto di trasferimento a seguito di trattativa personale. Le azioni di spa quotate in Borsa invece sono trasferite, almeno in una certa misura, a seguito di un’operazione di vendita del tipo dell’asta pubblica.

Le azioni diventano in questo caso acquistabili come le merci, da chiunque possieda denaro, senza alcuna mediazione di relazioni personali con gli altri possessori di azioni e di altra

Qualità della persona acquirente: quindi la spa quotata in Borsa incarna, al pari della merce e dello scambio, la libertà e l’uguaglianza esistenti nella società borghese (ossia la libertà e l’uguaglianza dei possessori di denaro).

Questa democrazia del denaro, questa democrazia all’interno della classe dominante è tanto più effettiva (e quindi tanto minore è il grado di mistificazione che essa comporta) quanto più è acquistabile anche il controllo (il pacchetto da controllo) delle spa e quindi quanto minori sono i limiti extra-economici posti a tale acquisto. E’ qui che risiede la causa del fatto che il ruolo della Borsa dei titoli azionarie massimo nelle società borghesi che sono nate e si sono sviluppate già sulla base del Modo di Produzione Capitalista stesso con minori commistioni con la precedente realtà (USA, Canada, Australia, ecc. ) ed è minimo nei paesi dove la società borghese si è sviluppata sulla base di un compromesso con le classi dominanti feudali (l’aristocrazia, il clero, i mercanti feudali e i signori delle corporazioni). In questi ultimi in Borsa si possono generalmente comperare azioni, ma non il pacchetto di controllo delle imprese. L’ingresso nella oligarchia dominante è qui mediato o dalla nascita o dalla cooptazione, ossia da relazioni del tutto personali. Esempi chiari di società del genere sono la RFT e l'Italia.


La Borsa di titoli azionari organizza il collocamento e il commercio di azioni di spa quotate in Borsa e quindi svolge nella società borghese un ruolo tipico, essenziale e, come visto sopra, altamente democratico (nell’ambito della classe dominante). E’ quindi un atteggiamento moralistico e inconcludente deprecare l’esistenza della Borsa, del gioco di Borsa e della speculazione di Borsa come fonte del malandare della società borghese Nell’ambito del Modo di Produzione Capitalista tutto ciò svolge una funzione essenziale per la vita del capitale

La prima Borsa di titoli azionari fu costituita ad Amsterdam nel 1608; nel secolo successivo fu istituita la Borsa di Parigi (1724), mentre nel secolo XIX sorsero le Borse di Londra (1802), Milano (1808), New York (1817) e Tokyo (1878).


La Borsa di titoli azionari è venuta al mondo dapprima come luogo in cui vari capitalisti-imprenditori concertavano il loro coordinamento in un’impresa comune; quindi, sempre più, come luogo in cui capitalisti-imprenditori si procuravano il denaro necessario alle loro imprese vendendo quote di partecipazione agli utili (azioni)a generici proprietari di denaro, e infine come luogo in cui possessori di titoli azionari trasformano in denaro liquido i titoli e in cui possessori di denaro liquido cercano di far fruttare il loro denaro senza immergerlo, incarnarlo in attività produttive (acquisto di mezzi di produzione e di forza-lavoro, conduzione del processo lavorativo, vendita delle merci prodotte), compiono cioè quello che viene detto un investimento finanziario.

Collocare il denaro in Borsa è sostanzialmente diverso dal collocarlo in banca, sottoscrivere titoli del Debito Pubblico (BOT,CCT, ecc,), acquistare obbligazioni. In tutti questi ultimi casi l’interesse e l’ammontare del rimborso (se il possessore aspetta la scadenza prevista) è grosso modo definito all’inizio del contratto. Nel collocamento in Borsa sia l’uno che l’altro sono aleatori: in questo senso l’investimento finanziario in Borsa è analogo all’investimento produttivo, ma più di questo, non realizzando il suo obiettivo tramite la incarnazione negli elementi materiali del processo lavorativo, presenta la possibilità di fortune e crolli fulminei di spoliazioni truffaldine.

Il collocamento in Borsa è una forma di impiego finanziario di denaro alternativa al deposito in banca, all’acquisto di titoli del Debito Pubblico, all’acquisto di obbligazioni, all’acquisto di oro e alla conservazione pura e semplice di denaro e quindi è in un rapporto contraddittorio con questi altri impieghi.


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