Il socialismo: transizione dal capitalismo al comunismo
da I fatti e la testa Coproco, aprile 1983

Rapporti Sociali n. 0, settembre 1985  (versione Open Office / versione MSWord )

 

«Ancora oggi molti compagni traspongono nel futuro più o meno vaghe aspirazioni soggettive e le chiamano socialismo o comunismo (salvo poi, quando sopravvengono gli inevitabili rovesci e le aspirazioni diventano quindi un lusso eccessivo, ritrovarsi senza le «ragioni di lotta»).

È ora di tracciare una discriminante tra i sognatori di ogni genere, gli oppositori e gli insoddisfatti da una parte e i comunisti dall’altra.

La rivoluzione socialista apre la via a trasformazioni in tutti i campi della vita umana, cosi come la conservazione della proprietà capitalista e dell’iniziativa economica privata è il fulcro attorno a cui si saldano nella nostra epoca i conservatorismi di ogni genere. Ma in questo momento è essenziale separare quanto è prioritario da quanto è conseguente».

Questo articolo espone e illustra con una serie di esempi e considerazioni cosa intendiamo per «superamento dei rapporti di capitale e di valore», contribuendo a spingere la mente e l’attenzione dei compagni dal mondo della contemplazione sognante di un nebuloso e vago paradiso prossimo venturo (a dire il vero piuttosto melenso e dolciastro come ogni paradiso, senza sesso, sudore, sangue, desiderio e passione) verso la terra del pane, del companatico, del lavoro, degli uomini concreti.


1. Togliere la natura di merce ai prodotti e alla capacità lavorativa umana

La transizione dal capitalismo al comunismo comporta la estinzione della natura di merce sia per i prodotti del lavoro che per la capacità lavorativa degli uomini. La mobilitazione di massa per questo obiettivo è la condizione necessaria per la trasformazione di tutti gli altri rapporti sociali, senza della quale ogni movimento per la trasformazione di altri rapporti sociali, ogni tentativo di rivoluzione culturale e nei comportamenti o resta sterile di risultati o si trasforma in movimento per creare privilegi per una minoranza di uomini.

La capacità lavorativa è la merce venduta dalla stragrande maggioranza degli uomini. Togliere il carattere di merce alla capacità lavorativa è il compito più difficile e risolutivo della transizione dal capitalismo al comunismo, come si rileva anche dalle esperienze dei paesi dell’Est e in primo luogo dell’URSS.

Pensare di togliere la natura di merce ai prodotti del lavoro e non alla capacità lavorativa degli uomini è un’assurdità. Il presupposto perché degli individui vendano la loro capacità lavorativa è che altri individui la comperino: offerta e domanda di capacità lavorativa devono essere entrambe presenti. Ma ciò implica anche che il venditore cerchi di vendere al miglior acquirente e cerchi di vendere quella capacità lavorativa il cui prezzo è alto. Ciò implica che egli possa vendere all’uno o all’altro a sua scelta, quindi anche a nessuno; che possa vendere questa o quella capacità lavorativa di cui è portatore, quindi anche nessuna. Ci deve essere allora qualcosa che lo obbliga a venderne almeno una a qualcuno: occorre quindi che egli non possa ottenere i beni necessari alla sua esistenza se non con la «mediazione», tramite la vendita di una sua capacità lavorativa ad altri; oppure che uno stato applichi capillarmente leggi contro l’ozio, il vagabondaggio e il furto: cioè un sistema repressivo generalizzato che applichi arresto, fucilazione, fustigazione, lavoro coatto, impiccagione, reclusione in carceri, manicomi, riformatori, orfanotrofi o qualcosa del genere a chi non è in condizione di dimostrare di essere già vincolato a un contratto di vendita della sua capacità lavorativa. Un sistema che nella storia della nascita del capitalismo e del colonialismo (nella civile Inghilterra, nelle Indie Occidentali, in Africa, ecc.) è stato applicato ogniqualvolta la facilità di trovare in natura beni di consumo, o la disponibilità delle condizioni per produrli direttamente o un non ancora ben accettato e radicato sistema di possesso privato dei beni di consumo o delle condizioni per produrli, consentiva a masse di individui di vivere senza vendere capacità lavorativa. Un sistema che però presenta una lunga serie di inconvenienti. Esclusa questa soluzione straordinaria, d’emergenza e transitoria, occorre quindi che per una massa di individui l’entrata in possesso dei beni necessari al consumo sia mediata dallo scambio con la capacità lavorativa, cioè che i beni necessari al loro consumo siano anch’essi merci, ottenibili cioè in quantità e qualità corrispondenti alla quantità e qualità della capacità lavorativa venduta. Quindi questi beni devono essere prodotti per essere venduti, ossia come merci (1). Ciò comporta, attraverso una serie di passaggi storici e logici, che anche i mezzi di produzione e le condizioni della produzione siano prodotti come merci e scambiati.

Quindi togliere la natura di merci ai prodotti del lavoro senza togliere la natura di merce alla capacità lavorativa degli individui è imporre nella società un sistema di coercizione diretta, statale, che non può essere né stabile né efficace in termini di produttività del lavoro: il fucile puntato alle spalle o la minaccia della fucilazione possono anche indurre a lavorare; è ben difficile che inducano alla diligenza, all’affinamento dell’abilità, ecc. quanto un articolato e diffuso sistema di mercificazione della forza lavoro e dei prodotti del lavoro (2).

Togliere la natura di merci ai prodotti del lavoro significa una società in cui né individui né gruppi di individui decideranno più di produrre un qualche cosa per possibilità di guadagno; che la natura delle cose prodotte non sarà più influenzata dalla necessità di accaparrarsi compratori; che la decisione di produrre una cosa sarà il risultato della riconosciuta volontà di godere di essa; che un oggetto sarà prodotto o non prodotto, prodotto in un modo o in un altro non solo in base al tempo di lavoro a ciò necessario, ma anche in base alla sua riconosciuta utilità e alle conseguenze che la sua produzione ha su chi vi è addetto; che per gli individui l’accesso ai prodotti necessari alla loro esistenza sarà un attributo inalienabile e incondizionato derivante loro dal solo fatto di essere membri della società, di esistere (come l’accesso all’aria da respirare), con limiti derivanti solo da disponibilità, accordi, regolamenti e abitudini.

Togliere la natura di merce alla capacità lavorativa significa non solo che nessuno, individuo o gruppo di individui, comprerà o rifiuterà di comperare capacità lavorativa di un altro individuo, ma anche che nessuno la venderà (contrariamente a tutte le politiche socialdemocratiche, non si tratta del prezzo a cui la capacità lavorativa viene venduta o comperata: che sia pagata molto o pagata poco, nulla cambia al fatto che la capacità lavorativa resta una merce); quindi che la distribuzione delle capacità lavorative dei singoli individui tra le varie mansioni lavorative (e anche la formazione di queste stesse capacità lavorative - alcune delle quali resteranno per un tempo imprecisabile distinte tra loro, non intercambiabili, essendo impossibile, sulla base del nostro stato attuale, immaginare che si possa già materializzare nel macchinario e negli strumenti di lavoro tutta quella abilità necessaria ai singoli lavori che eccede il pur arricchito e crescente patrimonio conoscitivo e operativo universalmente acquisito dagli individui) sarà determinata da fattori diversi dalla ricerca di guadagno e da meccanismi diversi dalla ricerca di un posto di lavoro e dalla ricerca di dipendenti; che l’erogazione, l’esercizio delle proprie capacità lavorative sarà attuata da ogni individuo non come mezzo per entrare in possesso di beni di consumo o di altra parte del prodotto del lavoro, né come misura della quantità di beni di consumo di cui potrà entrare in possesso, ma come suo normale modo di esistere, come espressione normale della sua esistenza nella società, come suo dovere sociale.

Oggi sono chiare a noi e ad ampie masse di lavoratori la limitazione allo sviluppo dell’uomo, la miseria e la condanna che promanano dal carattere di merce assunta dai prodotti del lavoro. Oggi è chiarissimo ad ampie masse di lavoratori il marchio schiavistico che promana dal fatto che la grande maggioranza degli uomini possa essere assunta e licenziata dai padroni. Non è invece altrettanto diffusa la coscienza che la liberazione da questi due gioghi è indissolubilmente connessa con la nostra liberazione dalla disponibilità a vendere la nostra capacità lavorativa al miglior offerente; con la liberazione dalla nostra privata proprietà sulla nostra forza lavorativa, dall’uso individualmente arbitrario della propria capacità lavorativa. Questa nostra libertà ha come altra faccia indissolubilmente connessa la libertà del capitalista di comperare o rifiutare la nostra capacità lavorativa; questa nostra libertà è l’ornamento che questa società schiavista pone addosso a noi schiavi, il diritto che questa società schiavista assegna agli schiavi, il diritto della nostra schiavitù.


NOTE

(1) Anche recentemente, in barba a Keynes e a Galbraith, i nostri capitalisti si sono resi ben conto che era impossibile mantenere il sistema del lavoro salarialo (e quindi la società borghese) e nello stesso tempo i benefici dello "stato sociale» e "stato del benessere». E naturalmente hanno optato come la loro natura esigeva. La liquidazione dell’"egualitarismo salariale» e il "riconoscimento della professionalità» nella recente storia delle relazioni industriali nel nostro paese sono una riprova dell’inconsistenza di ogni tentativo di sopprimere, nell’ambito del modo di produzione capitalista, il legame quantitativo e qualitativo tra prestazioni lavorative e beni di consumo.

(2) La storia delle riforme «economiche» dei paesi dell’Est diventa chiara e comprensibile, in tutti i suoi svolgimenti, nei passi avanti e nei passi indietro, nelle svolte e nelle giravolte, se la si studia alla luce di queste considerazioni, e quindi la si studia come storia di lotta di classe anziché nella forma mistificata di storia economica o, peggio ancora, di storia della tecnologia.



Chi vuole mantenere i diritti connessi con il suo stato di schiavo salariato (essere disposto o no a lavorare a secondo del suo individuale stato di necessità e nella misura della sua individuale necessità; essere disposto ad esercitare quella e solo quella capacità lavorativa che a lui sia al momento di tornaconto), inevitabilmente deve rassegnarsi anche agli inconvenienti del suo stato di schiavo salariato. Cosi come lo schiavo del tempo passato che voleva godere della sicurezza del cibo passato dal padrone, doveva «godere» anche della sua frusta.

Nella società borghese, con il suo incessante, diffuso, universale contrattare, milioni di individui sono abituati a deprecare la «libertà» altrui di speculare, di comperare o non comperare di cui subiscono le conseguenze negative; ma sono altrettanto abituati e trovano del tutto ovvio, legittimo e naturale, ognuno per se stesso, di vendere o non vendere, di approfittare delle buone occasioni per speculare, per alzare il proprio prezzo. Quanti lamenti per l’alto prezzo delle merci che si comperano e invocazioni di fissazione d’imperio del prezzo delle merci altrui quando sale! Ma quanti strilli se viene minacciata la possibilità di vendere la propria merce e al prezzo più alto che si può spuntare! Quanti strilli quando i prezzi della propria merce calano e invocazioni di sostegno ai prezzi! Quanti strilli se viene minacciata la «libertà di iniziativa» e la «libertà di mercato» quando le cose vanno bene; quanti contro la «eccessiva» concorrenza quando le cose vanno male! E nell’ambito della società borghese non può che essere cosi. Chi si mette a fare l’uomo civile in una compagnia di birbanti finisce senza mutande. Le esortazioni alla moderazione si sono tradotte unicamente in danno degli operai che le hanno accettate: a esperienza di questi anni in cui milioni di lavoratori hanno accettato le esortazioni alla «moderazione» lanciate dai Lama e Benvenuto di turno e ne pagano le conseguenze. O aboliamo il «libero mercato» e la «libera iniziativa» per tutti, oppure è un minchione chi accetta di vendere la sua merce a un prezzo inferiore al massimo che può spuntare, per dover poi acquistare le condizioni necessarie a ripetere la produzione da uno che gliele venderà al prezzo più alto che gli sarà possibile spuntare.

Ovviamente la semplice soppressione di queste «libertà» individuali (che per la maggioranza degli uomini significano oppressione e miseria) può anche tradursi nel passaggio da un sistema di oppressione impersonale, indiretta, esercitata tramite strumenti «oggettivi» come le merci, i prezzi, il denaro, la «sacra legge» della domanda e dell’offerta, ecc. a un sistema di oppressione amministrativa, personale, diretta, esercitata dal poliziotto, dal magistrato, dal secondino, dal controllore. Ciò è tanto più facile quanto meno è vivo nella coscienza comune degli uomini il legame che ci unisce l’uno all’altro, quanto più limitata la ricchezza sociale e quanto più ancora schiavo della natura è l’uomo: cioè quanto più bassa è la produttività del lavoro umano.

Ma in definitiva, al livello di sviluppo della produttività del lavoro e delle forze produttive raggiunto mondialmente dagli uomini, oramai esiste la possibilità di evitare che un sistema di oppressione amministrativa sia il risultato immediato (e transitorio al ristabilimento dell’oppressione economica, tanto più efficace!) della soppressione della «libertà» mercantile: il comunismo è possibile e ai proletari e alle masse oppresse di tutto il mondo conviene puntare su questa possibilità, che è anche l’unica possibilità di rompere il succedersi di distruzione e ricostruzione che è l’inevitabile modo di essere della società imperialista (ricostruzione, boom, crisi, guerra, ricostruzione e cosi via) e di evitare le conseguenze della putrefazione del capitalismo. Il realizzarsi di questa possibilità, della transizione al comunismo, è nelle mani del movimento cosciente dei lavoratori, è affidato alla sua unità, alla sua capacità di dotarsi di strumenti e pratiche che rendano possibile sia l’esistenza di una volontà comune (che rispecchi l’interdipendenza materiale degli individui uno dall’altro), sia il godimento positivo della diversità, della ricchezza di cui la diversità, il cambiamento e il nuovo sono portatori, senza che quegli inevitabili rischi connessi alla sperimentazione e al procedere per tentativi con cui il nuovo viene al mondo, incidano negativamente sulle condizioni di esistenza degli individui.



2. Limitazioni alla natura di merce dei prodotti e della capacità lavorativa durante la transizione


Nella fase di transizione dal capitalismo al comunismo la natura di merce dei prodotti del lavoro e della capacità lavorativa degli individui viene progressivamente limitata, per fasi e per salti.


Nell’ambito del togliere la natura di merce ai prodotti del lavoro si inquadrano:

- L’assegnazione amministrativa dei mezzi di produzione e di materie prime alle unità produttive, che quindi né le comperano né le vendono.

- L’assegnazione di compiti produttivi definiti amministrativamente e per quantità e qualità dei prodotti, alle unità produttive, che quindi cessano di produrre per vendere, ma producono i beni ad esse commissionati con decisione sociale e nella quantità parimenti decisa.

- L’assegnazione di determinati beni di consumo a determinate persone (a cui quindi non vengono venduti e che quindi non li comprano); assegnazione che «fa i conti» con una serie di comportamenti concreti (l’assegnazione gratuita del latte o del pane deve per es. accompagnarsi con un impiego responsabile del latte e del pane o con forme di razionamento).

- La fissazione amministrativa dei prezzi dei prodotti di cui è mantenuta ancora la vendita e la compera. Ora questi prezzi quindi svolgono solo il ruolo di regolare, discriminare e limitare impersonalmente l’accesso degli individui al loro uso, rispecchiando sia una condizione di penuria non ancora superata, sia la natura ancora parzialmente mercantile della capacità lavorativa e quindi la sopravvivenza di disuguaglianze economiche e sociali tra individui e gruppi (in definitiva la non ancora realizzata estinzione della divisione della società in classi; la non ancora realizzata comunità reale e un determinato livello di sviluppo della contraddizione individuo-collettivo). Questi prezzi, il cui livello quantitativo non è già più connesso né con il valore dei prodotti (il tempo di lavoro socialmente necessario a produrli) né con il loro costo di produzione (che presuppone addirittura il capitale finanziario), non hanno già più il ruolo di consentire la riproduzione dei prodotti stessi, che infatti non sono già più prodotti come merci, come valori (3).

- La scelta amministrativa di che cosa e quanto produrre anche dei prodotti di cui è ancora mantenuta la vendita onde evitare che il regime salariale e di disuguaglianza ancora esistente spinga all’impiego preferenziale di risorse produttive per i gruppi ancora privilegiati, insomma che sia ancora il mercato a regolare l’impiego delle risorse produttive.


Nell’ambito del togliere la natura di merce alla capacità lavorativa degli individui si inquadrano:

- Le politiche di avviamento al lavoro, di impiego di tutte le capacità lavorative di tutti gli individui. Il contesto è lo svolgimento di tutte le attività lavorative direttamente o indirettamente necessarie alla produzione e alla riproduzione delle condizioni dell’esistenza, compito che se non viene assolto segna la decadenza dell’intera società e la sconfitta di ogni transizione dal capitalismo al comunismo: è un dato dell’esperienza del movimento rivoluzionario proletario che la borghesia trae forza dal mancato assolvimento (reale o presunto) di questo compito per rovesciare le forze rivoluzionarie. Con queste politiche si mira 1) a rompere l’asservimento degli individui alla divisione del lavoro, quella condizione per cui ora la stragrande maggioranza degli individui resta formata, deformata e oppressa (quando non soppressa) dalla condanna a dedicarsi tutta la vita ad una particolare attività: alcuni lavori nocivi, pesanti, che si svolgono in particolari condizioni, ecc. non possono essere svolti da una persona per più di tot tempo (anni o mesi) consecutivo, creazione di un «servizio del lavoro» per occupare questi posti di lavoro, ammesso che resti necessario svolgerli; 2) a realizzare la partecipazione al lavoro produttivo di tutti gli individui, nell’ambito delle loro forze e capacità: quindi qui si pone la questione che le donne, i bambini, gli anziani, gli invalidi partecipino al lavoro rompendo la condizione di emarginazione in cui li relega la società borghese, non solo e non tanto come loro «dovere sociale», ma soprattutto come tramite della loro vita sociale e della formazione ed esplicazione di capacità creative; 3) a dividere nettamente il lavoro produttivo, le attività produttive (che in questo contesto, a differenza che nella società borghese, sono definite come quelle attività direttamente o indirettamente necessarie alla produzione e alla riproduzione delle condizioni dell’esistenza degli uomini e che quindi devono essere necessariamente svolte) dalle altre attività (culturali, creative, ricreative, sportive, politiche, ecc.) che solo la condanna di una parte della popolazione al lavoro salariato fa si che nella società borghese siano poste come professioni esercitate a tempo pieno e a vita da alcuni individui. Questa divisione è il punto di partenza per realizzare una condizione in cui le prime siano suddivise fra tutti come obbligo e le seconde diventino regno della libera e illimitata esplicazione e sviluppo delle capacità umane, accessibile e acceduta da tutti; 4) alla massima liberazione possibile di tutti gli individui dal lavoro produttivo: riduzione della giornata lavorativa o comunque del tempo che durante la vita ogni individuo dedica necessariamente al lavoro produttivo e quindi interesse comune e diffuso alla crescita della produttività del lavoro umano.

In questo contesto vengono ovviamente rotte anche tutte quelle condizioni che il proletariato con la sua lotta ha eretto nel corso dei secoli come barriere contro l’illimitato sfruttamento e oppressione a cui tende la borghesia, ma che contemporaneamente comportano limiti alto sviluppo dell’individuo (esclusione dal lavoro di donne, bambini, anziani, invalidi; ruolo meramente esecutivo e deresponsabilizzato della maggioranza dei lavoratori che, nell’ambito del rapporto salariato, devono limitarsi a fare quello che gli viene detto di fare, ecc.) come ombrelli impugnati per avere un qualche riparo dalla pioggia, che diventano un impaccio al movimento e sono da gettare quando esce il sole.

- Le politiche di formazione delle capacità lavorative degli individui e di accesso del numero più ampio possibile di individui al godimento del patrimonio culturale, scientifico, artistico e spirituale in genere della società e alle condizioni necessarie per contribuire al suo arricchimento: quindi anzitutto le misure tese a rompere la condizione per cui l’istruzione è proprietà personale, merce, tramite, per l’individuo che la possiede, di privilegi materiali e sociali.

- La trasformazione delle relazioni tra gli individui all’interno delle unità produttive, tesa a superare l’attribuzione esclusiva ad alcuni individui delle attività direttive ed organizzative, ad altri delle attività esecutive; ad alcuni di attività intellettuali, ad altri di attività fisiche; ad alcuni di attività di progettazione e di ricerca, ad altri di attività esecutive; la negazione del licenziamento individuale e collettivo e dell’autolicenziamento.


NOTE

(3) L’agitazione svolta nei paesi del «socialismo reale» per l’introduzione della «verità dei prezzi» è rivendicazione dell’eliminazione dei residui delle misure di transizione dal capitalismo al comunismo. Mira a conferire ai prezzi di vendita dei prodotti il ruolo di regolatori della riproduzione. Ogni unità produttiva potrà continuare nella produzione se e solo se il ricavato della vendita dei suoi prodotti le consente di farlo, acquistando quanto le è necessario (ovviamente a prezzi anch’essi «veri»). Altrimenti chiuderà (non è qualcosa che i lavoratori italiani ben conoscono?). Ogni unità produttiva potrà riprodurre su scala allargata, quindi ingrandirsi nella misura del profitto realizzato con la vendita dei suoi prodotti. Da qui la spinta a vendere a prezzo più alto, a produrre ciò che si vende meglio e quindi a impiegare le risorse produttive al servizio dei settori privilegiati interni (che chiedono beni e possono pagarli) e internazionali. D’altra parte da qui la spinta allo sviluppo di un mercato creditizio (per allargarsi si prende a prestito) e, di passo in passo, del capitale finanziario.

L’illusione di alcuni sostenitori della «verità dei prezzi» e la truffa di altri consistono nel presentare la cosa come una semplice modifica dei prezzi, nascondendo le conseguenze implicite e le cose che, a riforma avvenuta, si presenteranno come il gradino successivo «senza del quale il precedente non serve a niente, anzi provoca solo danno». Se il ricavato della vendita di un prodotto diventa il regolatore della riproduzione, diventano necessari la «libera» contrattazione del prezzo della forza-lavoro, la «libera» determinazione di quante e quali capacità lavorative impiegarvi, la compravendita, l’affitto e il prestito dei mezzi di produzione, lo scioglimento del legame tra proprietà e impiego dei mezzi e delle condizioni della produzione (quindi capitale finanziario), l’introduzione della rendita fondiaria relativa come mezzo per equiparare condizioni naturali diversamente favorevoli in cui operano unità produttive diverse concorrenti tra loro (infatti l’accademico sovietico E. Liberman l’ha già proposta fin dal 1964 - Pravda, 20 settembre 1964) e tutto il resto del «paradiso» capitalista in cui viviamo.

L’introduzione della «verità dei prezzi» è quindi una misura essenziale per il compimento delle «riforme» in atto in questi paesi, come sostengono i riformatori d’avanguardia; contemporaneamente contribuisce a chiarire il carattere borghese delle «riforme» in corso.


- La gestione da parte dei lavoratori del loro lavoro immediato, la loro gestione sull’organizzazione del lavoro, le «relazioni industriali», la vita della singola unità produttiva, cioè in sostanza autogestione e cooperazione. Autogestione del processo lavorativo e cooperazione tra i lavoratori sono impossibili nel capitalismo (salvo che come fenomeni transitori o come margini che sopravvivono nelle pieghe della società capitalistica). L’altro lato della medaglia è che un contesto generale borghese della società è incompatibile con una diffusa reale autogestione del processo lavorativo da parte dei lavoratori.

Se autogestione vuol dire che la singola unità produttiva produce merci (cioè compera le condizioni di produzione e vende i prodotti), ma la direzione anziché essere acquistata, ereditata, ecc. è eletta o designata in altro modo dai lavoratori, ciò non costituisce ancora superamento definitivo del rapporto di capitale. I lavoratori restano ancora esclusi dal lavoro di direzione, progettazione, organizzazione, ecc. Essi restano venditori della loro capacità lavorativa, quali che siano i regolamenti e le leggi che regolano le condizioni della compra-vendita. Il successo di ogni unità produttiva resta legato alla massima realizzazione di pluslavoro dei lavoratori impiegati in essa, rispetto a quel che avviene nelle altre unità produttive.

Se autogestione vuol dire un sistema di relazioni nel lavoro che realizza e sviluppa la partecipazione di tutti i lavoratori a tutti gli aspetti della loro attività produttiva, allora è un aspetto della transizione dal capitalismo al comunismo, ed è ovviamente incompatibile con il permanere dell’emarginazione politica, culturale, ecc. dei lavoratori nella società.

Quindi le «relazioni industriali» vigenti in un paese, il ruolo dei lavoratori nell’organizzazione del loro lavoro e rispetto alla scienza e alla tecnologia del loro lavoro (non in casi eccezionali che sono isole nelle pieghe della società, ma come condizione prevalente e generale) forniscono una verifica dei rapporti di produzione vigenti nella società.

I lavoratori non possono essere liberi e padroni di se stessi nel processo lavorativo diretto e asserviti nei rapporti generali, come non possono essere liberi e padroni nei rapporti generali e asserviti nel processo lavorativo diretto. «II dominio politico dei produttori non può coesistere con la perpetuazione del loro asservimento sociale» (Marx, La guerra civile in Francia, Ed. Riuniti 1977, p. 85).

Quindi proporre l’autogestione e la cooperazione per le unità produttive in un contesto generale borghese è fare utopistiche chiacchiere diversive. Ma è anche impossibile un processo di transizione dal capitalismo al comunismo senza la trasformazione delle relazioni industriali, come aspetto del rovesciamento del rapporto tra lavoro vivo e lavoro morto creato dal capitalismo (4).

- Le misure e le pratiche attraverso le quali l’iniziativa economica (la decisione di iniziare o di sospendere un’attività e una impresa, di destinare a questo scopo o distogliere da questo scopo forze produttive) diventa realmente una decisione sociale, e quindi diventano veramente collettive anche le decisioni su cosa produrre, come produrlo, chi deve produrlo, come ripartire il prodotto, l’assegnazione ad ogni individuo di date mansioni, ecc. (5).


NOTE

(4) Negli anni settanta alcuni pubblicisti hanno ampiamente sviluppano la tesi che i rapporti capitalistici di produzione sono incorporati nell’apparato produttivo (impianti, macchine, ruolo dei lavoratori addetti e organizzazione del processo lavorativo immediato conseguenti). Si veda l’esposizione di questa tesi contenuta in La Grassa - Turchetto, Dal capitalismo alla società di transizione, Franco Angeli Editore.

Da questa tesi, elaborata nell’ambito della polemica contro la neutralità della scienza e della tecnologia, i suoi sostenitori deducono che la questione centrale della transizione dal capitalismo al comunismo è la trasformazione del processo lavorativo immediato. Anche noi, sostenendo che tra forma (il rapporto sociale di produzione) e contenuto (il processo lavorativo immediato) c'è un rapporto dialettico di unità e di lotta, abbiamo messo in chiaro il movimento di trasformazione del processo lavorativo immediato onde renderlo adeguato al rapporto sociale di produzione, il che equivale a sostenere che il primo incorpora il secondo. Ne segue che un nuovo rapporto sociale di produzione deve per forza tradursi anche in trasformazione del processo lavorativo immediato.

Ma i sostenitori di quella tesi affermano un elemento solo del rapporto dialettico forma-contenuto, l’unità (al che li porta «naturalmente e spontaneamente» la loro giusta polemica contro i sostenitori del «socialismo realizzato» dell’URSS e contro i sostenitori (PCI) del passaggio al socialismo come questione unicamente politica, limitata cioè unicamente al problema di chi esercita il potere statale e su quale linea politica).

Essi trascurano l’altro elemento, la lotta, cioè la contraddizione tra processo lavorativo immediato e rapporto sociale di produzione, e più in generale tra forze produttive e rapporti di produzione. Non solo, ma riducendo la transizione alla trasformazione del processo lavorativo immediato, la rendono nebulosa, identificandola con la creazione di un nuovo apparato produttivo che è tutto da inventare.

Noi sosteniamo che la transizione procede trasformando i rapporti tra gli uomini nella produzione (unità tra lavoro di direzione, organizzazione, progettazione e controllo e lavoro di esecuzione; unità tra lavoro intellettuale e lavoro manuale; ecc.); di conseguenza invertendo l’attuale rapporto uomo-macchina (dall’asservimento attuale del lavoratore alla macchina, all’uomo che adopera la macchina); di conseguenza dando un corso diverso alto stesso sviluppo della scienza e della tecnologia (l’apparato produttivo).

Esemplificando e semplificando: non è il fatto che un uomo debba sorvegliare il quadro di un terminale o alimentare una macchina confezionatrice che lo rende uno schiavo salariato; ma lo rendono tale un insieme di condizioni esterne e interne al processo lavorativo immediato: il fatto di essere assunto e licenziato, ad un dato prezzo, ecc. (rapporto salariale); il fatto di essere destinato tutta la vita a quel lavoro o ad altri analoghi lavori esecutivi; la sua esclusione di principio e di fatto dalla conoscenza, progettazione e gestione sia dell’apparato su cui esplica il suo lavoro, sia delle motivazioni, scopi e modalità del complesso delle attività lavorative e delle attività in generale che hanno luogo nella società; ecc.

Non è solo quello che un individuo fa, ma anche quello che non fa, da cui è escluso che caratterizza la sua condizione di schiavo salariato. È evidente a tutti la diversità in cui si trovano un individuo che nasce minatore, va a cercare un lavoro in miniera, lo trova se lo accettano e finché non lo licenziano, quando lavora deve obbedire e basta, e morirà minatore e un individuo che possiede il patrimonio culturale, sentimentale ed economico della società cui appartiene, partecipa alla decisione e gestione della vita di questa società, ha esercitato ed eserciterà in essa varie mansioni e ora si trova anch’esso a svolgere come sua mansione lavorativa del momento la stessa che svolgeva il primo individuo sopra nominato.

(5) Può sembrare che tutte queste cose 1) comportino un’enorme perdita di tempo e 2) intralcino il sorgere di ogni novità e diversità. Come fare una cosa se, avendone sempre fatta un’altra, la maggioranza non ha chiara l’utilità o la possibilità di successo della nuova e non intende correre il rischio insito nel provarla? Questione che nella società borghese, nell’ambito dei limiti miserabili posti dalla società borghese stessa alla novità e alla diversità limitandone l’esercizio a quella minoranza che dispone di comando sul lavoro cioè di denaro, è risolta per il piccolo capitalista in base alla morale dei detti «chi non risica non rosica» e «chi rompe paga», e per i grandi capitalisti con l’affermata prassi del disporre del capitale altrui impossessandosi dei profitti e scaricando le perdite su altri.

Ma, quanto alla prima preoccupazione, facendo si impara a fare meglio e la comunicazione tra individui, necessaria a realizzare l’accordo fra di loro, è già essa stessa la vita sociale di ognuno di questi individui. Quando il borghese malignamente ci addita le difficoltà del parto della nuova società, dobbiamo sempre ricordare gli enormi sprechi di tempo e di uomini che si hanno, non nella sua azienda dove certo solo lui può «perdere tempo» a riflettere sul da farsi e dove se un individuo non gli serve viene messo alla porta e anche il tempo per pisciare è misurato, controllato e limitato, ma nella società borghese: con la disoccupazione dei lavoratori, l’enorme sviluppo di attività parassitarie e speculative interamente tese non alla produzione ma all’appropriazione del prodotto, l’ozio della classe dominante e dello stuolo dei suoi lacché, le attività intellettuali e pratiche volte alla repressione e all’inganno, il sottobosco politico e clientelare dello stato e dei suoi organi. Insomma passeremo del tempo a trovare tra noi la soluzione migliore dei nostri problemi, ma non ne passeremo pia all’ufficio di collocamento e a difenderci dalle decisioni e dalle angherie della classe dominante!

Quanto alla seconda preoccupazione, a parte il grande risultato per noi proletari dell’accesso di tutti all’esercizio della novità e della diversità, è proprio dall’abbondanza delle condizioni materiali dell’esistenza (cioè dalla elevata produttività del lavoro umano e dalla partecipazione di tutti alla loro produzione) che nascono le basi perché sia possibile non solo tollerare, ma aprire le porte al tentare nuove strade, alto sperimentare: proprio perché il rischio di insuccesso e di errore che è insito in ogni cosa nuova non diventa questione di vita o di morte per nessuno e la probabilità di successo diventa possibilità di maggiore libertà per tutti. Cosi come è proprio nella "natura umana» resa possibile da questa abbondanza delle condizioni materiali dell’esistenza, che si sono create le condizioni perché la comunità umana che è nel nostro futuro:

1. da una parte investa tutti gli aspetti di ogni individuo sicché non ci sia nulla di privato. Già oggi vediamo quanto sia finzione giuridica (utile solo ai fini repressivi) che i sentimenti, i gusti, le abitudini, gli stati d’animo di un individuo sono «cazzi suoi». Oggi gli individui di tutto il mondo vivono gomito a gomito, condizionandosi reciprocamente in tutti gli aspetti della loro vita: anche dove le distanze fisiche restano grandi, il sistema di comunicazioni e trasporti le ha annullate economicamente e culturalmente. Quando gli individui vivono gomito a gomito non ci sono santi: o essi regolano collettivamente le loro azioni o essi, se restano reciprocamente indifferenti, saranno regolati da un sistema di dominio di alcuni uomini su altri (dominio diretto, amministrativo; o indiretto, economico, tramite il danaro, lo scambio, il mercato). O tutti «stanno bene» o il malessere di alcuni diventa malessere per tutti, che la società borghese tenta di limitare aumentando all’infinito e senza prospettive carceri, manicomi, orfanotrofi, ospizi, case di correzione, ghetti, zone residenziali protette, pattugliamenti, controlli, guardie, assistenti sociali, preti, misure di annientamento dei «devianti», lobotomizzazione, castrazioni, psicofarmaci, terapie psicologiche, misure di condizionamento di massa, sottoculture. Perché il «nostro» bambino abbia una vita felice, siccome della sua felicità e della sua vita fa parte la convivenza con altri bambini, bisogna che tutti gli altri bambini abbiano una vita felice; perché possa giocare, bisogna che altri bambini possano giocare, non serve coprire lui di giocattoli. Perché io abbia una vita sessuale felice, bisogna che chi mi è attorno abbia una vita sessuale felice.

2. dall’altra parte non abbia in comune con le comunità primitive nient’altro che il nome. Quelli che sognano il futuro con l’occhio al passato, che sognano di ritornare al «bel tempo antico», di ricreare le «comunità umane» come esistevano un tempo, che ripropongono le «comunità naturali», dimenticano di quanta oppressione fossero intrise e di quale dura necessità fossero il frutto. La comunità del nostro futuro è essenzialmente basata sulle capacità di comunicazione, di conoscenza, di libertà, di dominio sulla natura e su noi stessi, di comprensione, di tolleranza e di abitudine alla trasformazione e al nuovo che gli uomini sono venuti acquisendo e che i limiti della società borghese impediscono di consolidare, espandere ed esplicare.



3. Compiti di trasformazione nella transizione.


Tutte queste limitazioni che vengono via via poste alla natura di merce dei prodotti del lavoro e della capacità lavorativa degli uomini (aspetto della negazione) e i corrispondenti sviluppi di rapporti di solidarietà, collaborazione e interdipendenza consapevolmente regolata tra gli individui nella produzione e riproduzione delle condizioni materiali della loro esistenza (aspetto della costruzione-germi di comunismo) si collocano nel contesto del programma di transizione dal capitalismo al comunismo.

Di per se stessa la rivoluzione, la mobilitazione di masse di operai per l’annientamento della macchina statale borghese e la costruzione di una nuova macchina statale, produce già alcuni inevitabili mutamenti anche nei rapporti di produzione e nel processo lavorativo immediato. Gli operai vittoriosi non accettano più il vecchio sistema di obbedienza cieca, di sottomissione, di indifferenza rispetto al che cosa produrre e come produrlo, di rapporto unicamente salariale («quello che mi importa è solo quanto mi pagano»), di esclusione dalle decisioni sull’impiego del prodotto, di predominio assoluto della valorizzazione del capitale, che costituisce la manifestazione della condizione operaia nel vecchio regime. Non accettare questo è modificare i rapporti di produzione. Sviluppare questa non accettazione (estenderla a più operai, approfondirla ad altri aspetti, farla passare da atteggiamento prevalentemente negativo del vecchio ad atteggiamento costruttivo del nuovo), è combattere per la trasformazione dei rapporti di produzione. Ogni forma di relazione sociale si fissa in istituzioni storicamente determinate (e transitorie quindi): le nuove relazioni che si stabiliscono tra gli individui nella produzione devono trovare le istituzioni appropriate al loro esistere e consolidarsi e trasformarsi; ad ogni modificazione delle relazioni deve corrispondere la modificazione delle istituzioni.

La transizione dal capitalismo al comunismo riguarda e trasforma però tutti gli aspetti della vita individuale e sociale degli uomini.

Quindi le misure enunciate sopra come esempio e volte al superamento del carattere di merce dei prodotti del lavoro e della capacità lavorativa umana, non sono che un aspetto delle profonde mutazioni che porteranno alla luce la società comunista.

La transizione al comunismo infatti:


1. Comporta l’aggregazione delle forze motrici della transizione, la concentrazione di tutte le spinte alla trasformazione e quindi l’organizzazione degli individui che ne sono portatori: partito e le organizzazioni di massa che hanno, a livelli diversi, il ruolo di concentrare, rendere organiche e operanti quelle spinte contro le resistenze attive e passive alla trasformazione. Ogni organizzazione ha il ruolo positivo di consentire la realizzazione dei compiti per cui è costruita e di creare cosi le premesse per ulteriori trasformazioni. Ha l’aspetto negativo ineliminabile di cristallizzare in una certa misura il diverso grado di sviluppo delle coscienze e delle volontà e di tendere a perpetuarsi oltre l’adempimento dei suoi compiti e quindi di perpetuare ed accrescere la diseguaglianza su cui è sorta. Per questo il bisogno di distruggere le organizzazioni è irrinunciabilmente connesso per tutta una fase storica al bisogno di crearle.


2. Comporta la creazione di uno stato nuovo le cui caratteristiche nella tradizione del movimento operaio rivoluzionario sono sintetizzate nell’espressione «stato della dittatura del proletariato». Stato perché è un organo di repressione contro la vecchia borghesia, contro i nuovi campioni della conservazione di rapporti mercantili-capitalistici il cui superamento è all’ordine del giorno, contro i residui dei rapporti sociali borghesi, benché già qui si differenzi dallo stato borghese, perché tratta le «contraddizioni in seno al popolo» in modo e con scopi profondamente diversi da quelli dello stato borghese. Della dittatura del proletariato perché finché e nella misura in cui esisterà divisione in classi, esso attuerà misure dirette alla transizione dal capitalismo al comunismo e sarà emanazione del proletariato, avrà nel consenso e nella partecipazione del proletariato la base della propria legittimazione (così come lo stato attuale attua misure dirette a conservare il modo di produzione capitalista ed ha nella borghesia la base della propria legittimazione). Ma il parallelo finisce qui, perché la borghesia è una classe sfruttatrice che si perpetua perpetuando la divisione in classi e il connesso sistema di oppressione e dominio. II proletariato è una classe sfruttata che vuole smettere di essere sfruttata, che resta sfruttata pur essendo la base della legittimazione del nuovo stato e quindi vuole porre fine alla divisione della società in classi, quindi estinguersi. Quindi anche lo stato della dittatura del proletariato deve tendere ad estinguersi, a cessare di essere stato. Estinguersi dello stato che non significa lo scomparire di istituzioni generali, ma la scomparsa della repressione di classe e dell’organo a ciò preposto e la scomparsa dell’attività politica come professione di un gruppo distinto di individui.


3. Comporta che le condizioni della produzione e della riproduzione (fabbriche, terre, mezzi di trasporto, uffici, negozi, attrezzature, materie prime, semilavorati, prodotti finiti) siano socializzati, resi di possesso collettivo, in forme inevitabilmente varie e mutevoli. Quindi che non possano essere venduti, ceduti, lasciati in eredità, prestati dietro compenso tra individui, gruppi di individui o tra unità produttive. Che non possano essere creati, distrutti e usati che nell’ambito di disposizioni pubbliche che hanno la loro fonte nelle organizzazioni di massa e nello stesso stato, come passaggio alla loro socializzazione completa che procede quanto procede l’effettiva venuta all’esistenza della comunità reale degli uomini.


4. Comporta la graduale eliminazione di confini di nazione, di paese e di stato. Inizialmente è inevitabile rompere in una certa misura l’unità mondiale creata dal modo di produzione capitalista: volendo distruggere la forma in cui si e realizzata questa unità (lo scambio, il mercato, l’azione mondiale del capitale, l’oppressione fra stati, la dominazione nazionale, la discriminazione, la sopraffazione e il retaggio coloniale) è inevitabile che anche il contenuto in una certa misura sia scombussolato finché non trova via via la sua nuova forma di esistenza. Formazione di nuovi stati onde sgomberare il terreno dai residui dell’attuale sistema di oppressione nazionale, statalizzazione del commercio estero in ogni paese, trattati commerciali a lungo termine, cooperazione internazionale al di fuori di rapporti di scambio, ecc. fino alla creazione di un’unica comunità umana unita nella collaborazione e nella solidarietà della dipendenza reciproca.


5. Comporta la trasformazione dell’atteggiamento di ogni individuo nei confronti degli altri, l’eliminazione (inevitabilmente per tappe) dei rapporti di dipendenza di alcuni dati individui da altri singoli individui; non per passare ad una indipendenza e indifferenza reciproca di ogni individuo rispetto agli altri (che è un’illusione reazionaria) ma per passare alla dipendenza reciproca e consapevole di tutti da tutti. Quindi i rapporti donna-uomo, bambino-genitori, invalido-sano, allievo-insegnante, non lavoratore-lavoratore, arretrato-avanzato verranno trasformati.

Una società dove cessa la lotta per realizzare queste trasformazioni, cessa di essere una società in transizione dal capitalismo al comunismo; siccome tutto è collegato e la transizione è la lotta tra due mondi, regredisce verso il capitalismo (quali che siano le spoglie nuove in cui si presenta).


4. Problemi della transizione: alcuni esempi.


In questo contesto, per avere le dimensioni del problema della transizione dal capitalismo al comunismo, bisogna considerare altri due fatti.

1. Che scompariranno via via tutte quelle attività che hanno la loro ragion d’essere a) nel rapporto di capitale e di valore che caratterizzano la società borghese (come ispettori del lavoro, sindacalisti, rappresentanti di commercio, ecc.); b) nell’esistenza della divisione della società in classi e nell’oppressione di classe; c) nell’esistenza dello stato come monopolio della violenza e della coercizione; d) nell’assoggettamento degli individui alla divisione sociale del lavoro; e) nella divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale.


2. Che l’espletamento di una serie di attività individuali e collettive non potrà avvenire nella forma in cui si svolgono oggi e mantenere i limiti che ora le determinano non solo negativamente (esclusione di alcuni dalla funzione, impedimento al loro affermarsi: nella società borghese ogni individuo ha il diritto di far pubblicare un giornale, proprio solo perché ben pochi hanno i mezzi per esercitare effettivamente questo diritto), ma anche positivamente (ne consentono l’esistenza e lo sviluppo). Perché il carattere attuale è ineliminabilmente connesso con il rapporto di valore e di capitale che sono la regola di tutta la società. Tutto ciò che 1) è «diritto» della società del lavoro salariato che non pone limiti legali e amministrativi allo svolgimento di certe attività proprio solo perché di fatto il limite al loro effettivo espletamento è determinato impersonalmente dai rapporti economici (nella società borghese, salvo i casi di emergenza sopra ricordati, non esiste obbligo legale al lavoro proprio solo perché i rapporti di proprietà sono tali che la maggioranza degli individui è obbligata a lavorare per sopravvivere); 2) che è regolamentazione dei rapporti tra i vari capitalisti, ma che essendo impersonale (il diritto borghese non riconosce discriminazione di classe a differenza dei diritti delle società feudali e schiaviste: la legge e uguale per tutti, proprio solo perché i rapporti di produzione sono tali che la legge eguale per tutti tutela la più assoluta diseguaglianza reale) apre spazi anche all’azione di individui di altre classi che resta però limitata o impedita dai rapporti reali: tutto quanto rientra in questo novero non può ovviamente trasporsi nella società di transizione dal capitalismo al comunismo. Da ciò si vede il «buonsenso» di quei pubblicisti borghesi che «giudicano» le società in transizione sul metro della realizzazione più o meno piena dei «principi» della società borghese, della minore o maggiore estensione a tutti delle pratiche della borghesia.

Vediamo, solo ad esempio di ciò, la questione della libertà di stampa. L’esercizio di questa libertà da parte di un individuo comporta che egli possa comandare lavoro, disporre del lavoro di una serie di altri individui (produttori di carta, di macchinari, di inchiostri, di energia elettrica, ecc., stampatori, distributori, scrittori, ecc.) per se stesso, usarlo secondo i propri intendimenti.

Lasciamo da parte per un momento le limitazioni di tipo culturale e di tempo che nella società borghese escludono la maggioranza degli individui dalla fruizione di questa libertà, dall’esercizio di questa attività (giustamente, anche senza avere coscienza del marchio schiavista che la cosa comporta, i borghesi parlano a proposito della stampa di «quarto potere», evidentemente potere di alcuni individui su altri). Nella società borghese quel potere di comando sul lavoro di altri uomini al fine di stampare, esiste materializzato in un oggetto (il denaro) e si mostra come un potere del tutto impersonale: nel senso che non appartiene per diritto, consuetudine, tradizione, credenza, merito o capacità a un dato individuo piuttosto che ad un altro. Il danaro non è indissolubilmente associato ad un dato individuo né per nascita né per designazione, come lo era il titolo nobiliare nella società feudale che cessava di essere appannaggio di un individuo solo con la sua morte. II danaro è di chi ce l’ha e chi ce l’ha può comandare lavoro altrui (diretto o già materializzato nei prodotti) per gli,scopi che vuole. Tanto vero che chi ha danaro fa stampare una serie di minchiate, addirittura falsità e calunnie contro gli stessi stampatori, i lavoratori delle cartiere, ecc. (6).


NOTE

(6) Ovviamente la premessa per l’esistenza di questo «portatore materiale» del comando sul lavoro non è alcun potere magico insito nella natura del «portatore materiale»: le monete metalliche, i biglietti di banca, gli assegni bancari, le cambiali e le lettere di credito non sono talismani. La premessa è semplicemente che la capacità lavorativa esista come merce, cioè che esista almeno una quota rilevante di individui che vendono (sono costretti a vendere) la propria capacità lavorativa e che i prodotti del lavoro siano anch’essi merci, cioè prodotti per essere venduti.


Che uno abbia danaro perché è un capitalista, oppure perché trova credito, oppure perché lo rapina, o perché eredita, o perché fa un «buon matrimonio», o perché lo mette assieme tramite l’associazione del poco che ne posseggono più individui, la cosa non cambia: egli potrà comandare lavoro per il fine che vuole e nella quantità corrispondente al danaro di cui dispone, salvo i limiti extraeconomici, politici posti che impediscono espressamente ad alcuni individui di esercitare tale attività e consentono ad altri di esercitarla a spese d’altri (sussidi e contributi delle banche e delle pubbliche autorità agli editori «amici»). Ma tali limiti non possono essere posti universalmente e permanentemente, pena il negare l’esistenza stessa del rapporto di danaro e quindi provocare riflessi contraddittori in tutta di società: la società borghese ha bisogno e tende a porre tutto (tutti i prodotti, tutte le capacità lavorative e più in generale tutte prestazioni di un individuo) come merce quindi acquistabile da chiunque abbia danaro, cioè a porre il danaro come equivalente universale.

Se vogliamo superare il rapporto di merce, di valore, di danaro, di capitale, evidentemente distruggiamo, scombussoliamo le condizioni presupposte per un tale esercizio della libertà di stampa: la libertà di stampa non per una persona determinata o per un gruppo determinato di persone, ma per chiunque ha o riesce ad avere denaro.

Questa nostra azione ha un aspetto di negazione (misure dirette a negare il carattere preesistente, imposizione contro quello che è «sempre» stato, coercizione nei confronti del singolo individuo a cui è negata l’attività pur avendo egli denaro) e un aspetto di costruzione positivo (in una società in cui il denaro ha ancora il ruolo, sia pure limitato perché alcune cose non sono più in vendita, di equivalente universale, nonostante ciò stampano i loro scritti individui che non hanno denaro; creazione di nuovi atteggiamenti, nuove abitudini, nuove prassi e istituzioni; mobilitazione e creatività dei singoli individui). I due aspetti sono dialetticamente uniti. Quanto più tutti di fatto scrivono, quanto più sono tolti i limiti all’espletamento di queste attività posti dalla divisione in classi e dall’assoggettamento della maggioranza degli individui al lavoro, tanto più occorre vengano elaborate nuove pratiche e rapporti che regolano l’esercizio della libertà di stampa da parte di tutti.

In URSS e in generale quando il corso rivoluzionario si rovescia, quando la via al comunismo si rovescia in restaurazione del capitalismo, l’unità dialettica dei due aspetti si rompe. II secondo viene cancellato, il primo permane ancora e diventa via via intollerabile oppressione e camicia di forza anche per i capitalisti. Tanto più intollerabile perché proprio l’inversione del corso crea esso stesso le premesse per rompere gli «aspetti di negazione»: nuova generalizzazione del carattere di merce dei prodotti del lavoro e delle capacità lavorative; il denaro assume di nuovo in pieno il suo ruolo di cemento principale della società che tutto acquista e tutto equipara, ruolo che era stato più o meno ampiamente limitato (a che serve avere le tasche piene di rubli se non posso spenderli? si lamentava il superpagato specialista dell’«era staliniana» che si sentiva truffato dall’alto salario che gli veniva concesso mentre nello stesso tempo gli venivano negati la capacità lavorativa altrui e i prodotti del lavoro altrui su cui il suo collega dei paesi capitalisti poteva usare il suo reddito o farlo fruttare trasformandolo in capitale); quantità cospicue di denaro si accumulano nuovamente nelle tasche di alcuni individui creando un potere d’acquisto (cioè di comando sul lavoro altrui) che trova ancora limiti al suo esercizio in quelle misure; la contrapposizione degli interessi da una parte viene riproposta come motore positivo della vita sociale, dall’altra anziché uno strumento di mediazione «impersonale» come il danaro trova uno strumento di mediazione personalissimo come le misure amministrative.

E evidente come istituzioni, abitudini e misure create per superare il carattere di merce, possano facilmente trasformarsi in strumenti di oppressione di classe, in forma di ristabilimento dell’oppressione di classe sui lavoratori. Per restare all’esempio illustrato: la cancellazione del fatto che chiunque ha danaro può assumere giornalisti, stampatori, ecc. e comperare tipografie, carta, ecc. diventa proibizione ai lavoratori di riunire il loro danaro per esercitare libertà di stampa, se la cosa non è gradita a chi comanda; proibizione in generale della libertà di stampa per chi non è al comando.

Quanto detto per la libertà di stampa vale per vari altri diritti, attività e libertà borghesi: di associazione, di riunione, di spostamento, di non-lavoro, di «libera» scelta del lavoro, ecc.

Consideriamo come secondo esempio la libertà di lavoro. Nella società borghese non esiste l’obbligo legale di un individuo ad un determinato lavoro, fatto osservare dallo stato o da altre organizzazioni armate, salvo che in alcune situazioni «particolari» (mobilitazione militare; prigionieri e detenuti in carcere, manicomi, orfanotrofi, ecc.; alcuni ordinamenti coloniali; alcuni ordinamenti per lavoratori emigranti; ecc.). La regola della società borghese è che un lavoratore vende la propria capacità lavorativa liberamente (se vuole, a chi vuole, per il periodo che vuole, ecc.). Il corrispettivo naturalmente è che qualcun altro è libero di comperarla se vuole, da chi vuole e per il periodo che vuole.

Se la libertà del lavoratore di vendere la sua capacità lavorativa oltre che legale fosse anche reale, resterebbe incomprensibile come mai nella società borghese si trovano lavoratori disponibili per ogni lavoro retribuito, anche il più pesante, il più nocivo e il più infame. In realtà ogni lavoratore, chiunque non è proprietario di capitale o di rendite, deve vendere la propria capacità lavorativa se vuole mangiare; dove non basta questo sopravvengono le leggi contro il vagabondaggio e il parassitismo (dei non proprietari). La disoccupazione e la differenza salariale completano l’opera facendo si che, «miracolosamente», i lavoratori si distribuiscano «per libera scelta» tra i vari settori lavorativi secondo le esigenze della società borghese, occupando tutti i posti disponibili.

Togliamo questa costrizione economica, supponiamo che i beni necessari alla normale vita di un individuo siano riconosciuti ad ogni individuo come dovutogli per il fatto stesso di esistere e di far parte della società. Cosa farà si, in queste condizioni, che ogni individuo non solo presti una congrua quota di lavoro necessario alla produzione e alla riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza, ma anche che vengano dedicate ad ogni settore lavorativo le quantità di tempo di lavoro necessarie in quel settore?

Evidentemente non più la miseria, la fame dell’individuo o delle persone a suo carico, ma un ordinamento e una pratica concordati e imposti tra i membri della società stessa. A questo punto nessuno è più libero, neanche formalmente, di lavorare o non lavorare, di lavorare in un settore piuttosto che in un altro, più di quanto questa libertà possa essere riconosciuta ad ogni individuo. Quindi una libertà che potrà essere tanto più ampia quanto maggiore è la ricchezza della società, cioè la produttività del lavoro; cioè in altre parole, quanto minore è il tempo di lavoro necessario che complessivamente deve essere compiuto dalla società settore per settore; tuttavia una libertà che formalmente non sarà mai assoluta. Ma che in realtà sarà, per la stragrande maggioranza degli uomini, chiaramente più ampia di quanto sia per essi la libertà reale nella società borghese.

Vogliamo essere formalmente liberi, individuo per individuo, di lavorare se, quando e dove vogliamo? Dovremo accettare il corrispettivo: la reale schiavitù salariale per la maggioranza degli uomini e per la maggior parte della vita.


5. Dimensione mondiale della transizione.


Da ultimo, ad evitare compiacenze verso il particolarismo, le illusioni piccolo-borghesi di poter fare le cose «in casa propria» e il velleitarismo sognante, occorre dissipare ogni equivoco sul fatto che la transizione dal capitalismo al comunismo non può che essere un fenomeno mondiale.

Non nel senso che in tutti gli angoli della terra si debba o si possa marciare allo stesso passo, compiere contemporaneamente le stesse trasformazioni, raggiungere contemporaneamente gli stessi obiettivi: perché gli uomini sono oggi (e questo è il nostro punto obbligato di partenza) collocati in situazioni sovrastrutturali (statali, culturali, di sviluppo del movimento rivoluzionario) diverse e in condizioni strutturali in parte anch’esse diverse, sia per sviluppo delle forze produttive che per rapporti di produzione: in un arco che va da economie ancora quasi di sussistenza di piccoli gruppi umani semiisolati e semiautosufficienti in condizioni di grande dipendenza dalla natura, a società completamente sussunte nel capitale, dove il rapporto di capitale a già esso stesso un cadavere che appesta l’aria.

Non nel senso che le varie società nazionali debbano e possano procedere mantenendo l’ordine reciproco creatosi nello sviluppo del modo di produzione capitalistico, per cui in testa gli USA, l’Europa e il Giappone, poi via via gli altri fino alla Liberia: il che è da sempre lo schemino coltivato dagli opportunisti, parassiti del marxismo.

Ma nel senso che nell’epoca capitalista è stata creata, per la prima volta nella storia, l’unità reale degli uomini di tutto mondo. Per la prima volta l’umanità ha cessato di essere una astrazione (ciò che di comune i vari individui mostravano all’osservatore), per diventare un concetto concreto: individui connessi tra di loro da rapporti da cui nessuno di essi può prescindere per la produzione e la riproduzione delle condizioni della sua esistenza.

Nei secoli passati un osservatore poteva concludere che un abitante della Grecia e un abitante della Polinesia erano entrambi uomini o perché ambedue bipedi implumi o perché ambedue dotati di parola o per qualsiasi altro accidente egli rilevasse eguale in entrambi; oppure poteva concludere che tra i due non c’era niente in comune, uno era uomo, l’altro qualcosa d’altro. Ma per l’abitante della Grecia l’abitante della Polinesia non esisteva e poteva benissimo essere sommerso dal mare e scomparire dalla faccia della terra per sempre senza che ciò si riflettesse in alcuna misura sulla sua vita; e viceversa.

Il modo di produzione capitalista ha realizzato invece, per la prima volta, un sistema in cui l’abitante della Grecia e quello di qualsiasi altra parte del mondo dipendono l’uno dall’altro per la produzione e la riproduzione delle condizioni materiali della sua esistenza; li ha uniti in un’unica società; ha creato un rapporto tra i due necessario a ognuno dei due. Una moria di bestiame in Argentina attualmente produrrebbe effetti in tutto il mondo; alcuni sarebbero privati di carne per via dei prezzi più alti, alcuni venderebbero a prezzi più alti i loro prodotti, altri non li venderebbero affatto e altri a prezzo più basso; alcuni non vendendo non potrebbero ripetere la produzione; alcuni accumulerebbero fortune e altri miseria; speculazioni nelle borse-merci, ecc. Effetti più o meno devastanti e più o meno fortunati si avrebbero in tutto il mondo. Questo legame fa essere un uomo, uomo per l’altro e crea l’umanità concreta.

In queste condizioni acquisite nessun gruppo di individui, società, nazione o paese può «procedere per conto suo» oltre un certo e determinato limite. Le condizioni della sua esistenza dipendono in modo essenziale da quel che succede al di fuori di esso e dai suoi rapporti con l’esterno.

Attualmente gli individui di un paese A hanno con gli individui degli altri paesi B un rapporto mercantile e di oggetti: i cicli di produzione compiuti dagli individui del paese A non possono essere compiuti senza oggetti prodotti da individui di altri paesi B (e questo è un contenuto del processo di ricambio materiale della società del paese A, che in ogni momento è nel paese A un dato di partenza per ogni iniziativa e trasformazione, indipendentemente dai rapporti sociali vigenti in A) e questi oggetti non saranno disponibili se gli individui di A non li possono comperare scambiandoli o con un equivalente generale (danaro internazionale) o con un equivalente particolare (un’altra merce): questo dipende dai rapporti sociali, mercantili e capitalistici vigenti negli altri paesi B e tra gli individui dei diversi paesi A e B.

I cicli di produzione compiuti dagli individui del paese A non potranno essere ripetuti se certi prodotti di questi cicli non saranno venduti (in quantità e a prezzi adeguati) in altri paesi B (questo dipende dai rapporti mercantili e capitalistici esistenti tra gli individui nello stesso paese A).

I rapporti tra gli individui di un paese A sono condizionati dai rapporti tra individui negli altri paesi B: se questi sono mercantili e capitalistici, anche i rapporti tra gli individui di A e gli individui B saranno mercantili e capitalistici: per avere un oggetto dagli individui di B bisognerà scambiarlo (con moneta internazionale o altro oggetto determinato in quantità e prezzo); le condizioni in cui si potrà averlo dipenderanno dalle condizioni di mercato (andamento della produzione avvenuta, stato della domanda, speculazione), quello contro cui verrà scambiato sarà sottoposto a condizioni analoghe, per cui nel paese A si dovranno produrre dati oggetti e non altri, in date condizioni e non altre. Cioè appunto i rapporti tra individui nel paese A sono condizionati dai rapporti tra individui nel paese B.

Ogni paese esporta e importa non solo oggetti, ma anche rapporti sociali; cerca di adeguare i rapporti sociali vigenti negli altri paesi a quelli vigenti al suo interno oppure deve adeguare quelli interni agli esterni. Alcuni paesi esportano rapporti sociali, altri li importano e li subiscono.

Il capitalismo USA impone la «libera iniziativa individuale» in tutto il mondo. Il capitalismo di stato sovietico impone il capitalismo di stato in tutto il mondo: una maggiore concentrazione del capitale, una maggiore regolamentazione amministrativa dei volumi della produzione, delle correnti di scambio, dei termini di scambio. Il capitalismo USA è fatto in modo che alcuni capitalisti americani trarranno profitto da ogni repentino mutamento economico che avviene in un altro paese perché negli USA il capitale è meno concentrato (altri capitalisti americani potranno anche perderci). Il capitalismo sovietico è fatto in modo da reagire con difficoltà (perché ha un grado più elevato di unità tra le sue parti) ai repentini cambiamenti esterni. La forma tipica dei rapporti esteri dell’uno è la contrattazione di borsa, la speculazione e il colpo di mano. La forma tipica dei rapporti esteri del secondo è il trattato commerciale a lungo termine.

Non è per volontà diabolica di Andropov o di Reagan che vi è oggi una «politica imperialistica», cioè di dominio e servitù tra stati. Ma perché ogni volontà e azione di individui, diabolica o benefica, non può che esercitarsi nel contesto di una ormai raggiunta unità economica mondiale.

La forma, i rapporti entro cui questa unità economica mondiale si attua, esiste, possono essere o capitalisti (di sfruttamento economico tra individui e di assoggettamento politico tra stati) o comunisti (di collaborazione reciproca). Ogni stato oggi o lotta per mantenere i primi o lotta per instaurare i secondi. Ma fare una cosa o l’altra non è scelta libera, politica, transitoria, fatta caso per caso da uno stato, perché è inevitabilmente legata alla natura di classe dello stato stesso.

Se uno stato mantiene rapporti di sfruttamento economico nel paese che domina, quindi è espressione degli sfruttatori nel paese, è inevitabile espressione dei loro interessi di sfruttamento anche all’estero (gli appetiti non conoscono limiti di frontiera statale). Se uno stato lotta per rapporti comunisti nel paese, non può che lottare per tali rapporti anche all’estero, perché il progresso verso l’obiettivo all’interno è in definitiva condizionato dal progresso verso l’obiettivo nel resto del mondo (7).

Non vi possono essere relazioni internazionali basate sull’eguaglianza e la collaborazione, sul porre a priori l’unità mondiale come punto di partenza delle relazioni internazionali, quando protagonisti ed autori di queste relazioni internazionali sono i funzionari del capitale all’interno dei singoli paesi. Il capitale esprime all’interno del paese il suo bisogno vitale di accumulazione, di profitto, di crescita: esprime lo stesso bisogno anche nelle relazioni internazionali. Ogni volta che un borghese parla di unità mondiale e ordine mondiale, inevitabilmente intende sottomissione ordinata di tutto il mondo ai suoi affari.

In conclusione una politica interna di conservazione dei rapporti capitalistici non può non tradursi, nelle condizioni ora raggiunge dall’umanità, in rapporti di dominio e servitù tra stati. Una politica interna di rivoluzionamento dei rapporti di produzione non può non tradursi in una politica estera rivoluzionaria.

I rapporti che una nazione, un paese, uno stato ha con l’esterno sono determinati dai rapporti che vigono tra gli individui al suo interno. Se questi sono rapporti di scambio, di capitale, anche i suoi rapporti con l’esterno lo saranno. Un esempio: un capitalista americano che desse grano agli abitanti dell’Egitto senza esigere e ricevere una contropartita economica (un altro valore di scambio), non sarebbe più in grado di produrre nuovo grano perché egli deve a sua volta comperare le condizioni che gli consentono di rinnovare la produzione (oltre che rovinare il capitalista egiziano produttore di grano che troverà diminuiti i suoi acquirenti, quindi in pratica condannare all’indigenza e al pauperismo anche quei braccianti e contadini egiziani che fino allora erano vissuti grazie al fatto che il grano da essi prodotto aveva acquirenti).

Nell’unità mondiale creata dal modo di produzione capitalista vi è un contenuto (la dipendenza reciproca tra gli individui nella produzione e riproduzione delle condizioni materiali della loro esistenza) e una forma (i rapporti secondo i quali, nell’ambito dei quali questa dipendenza si attua). Anche in questo ambito contenuto e forma costituiscono un’unità contraddittoria.

Consideriamo ad es. la questione delle materie prime minerali o vegetali. Stante la forma mercantile e capitalista delle relazioni economiche internazionali, ogni gruppo di capitalisti cerca di assicurarsi il monopolio delle materie prime per ricavarne il massimo profitto diretto o indiretto. Stante il contenuto del processo produttivo, senza alcune materie prime che provengono dalle parti più svariate del mondo, allo stato attuale della tecnologia in nessun paese il processo di ricambio materiale della società può procedere regolarmente.

Allora controllare gli stati dei paesi da dove provengono le materie prime diviene un obiettivo «vitale» sia economico che politico. Ogni mutamento politico di un qualche rilievo in questi paesi, suscettibile di alterare il flusso esistente delle materie prime e il reciproco flusso di altre merci, ha ripercussioni politiche ed economiche che alterano i rapporti reciproci di forza sia tra le singole imprese capitalistiche che tra gli stati. E quindi ogni mutamento politico di uno di questi stati è combattuto da alcuni e favorito da altri, diviene oggetto di conflitto tra imprese capitalistiche e tra stati.

L’esigenza del ricambio materiale delle società (del contenuto del processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza) fa sì che si presentino come «oggettivamente» necessari, indipendentemente dalla forma del processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza (cioè indipendentemente dai rapporti di produzione nell’ambito dei quali il processo viene realizzato), misure di dominio e di sfruttamento atte a garantire la continuazione delle relazioni economiche mondiali rese precarie e rotte proprio dalla forma del processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza (dai rapporti di produzione). E questo retroterra di relazioni economiche antagoniste alimenta e si nutre di tutti gli antagonismi sovrastrutturali vecchi e nuovi (culturali, razziali, nazionali, politici, religiosi, ecc.).

La guerra è il sostitutivo di uno stato mondiale: con la guerra il borghese impone nel mondo l’ordine che all’interno delle frontiere di un paese impone con lo stato (8).

II modo di produzione capitalista (come già detto) ha creato una relazione ineliminabile e ineludibile tra miliardi di uomini, ma nello stesso tempo fa di questa reciproca dipendenza una fonte di miseria e di impotenza. Se un qualche accidente impedisce ad es. ai minatori cileni di produrre la normale quantità di rame, non si avrà solo una momentanea carenza di rame (a cui eventualmente si sopperisce attingendo a scorte opportunamente predisposte), ma i minatori (privi dei mezzi di pagamento derivanti dalla vendita di rame) resteranno privi anche di grano e di vestiti che invece sono stati prodotti in quantità normali; i produttori di grano e vestiti si troveranno anche loro incasinati perché i loro prodotti resteranno invenduti; a loro volta anch’essi non potranno fare gli acquisti che normalmente fanno e anche i loro fornitori resteranno incasinati e cosi via. L’accidentale e momentanea interruzione della produzione in un punto diventa cosi, a causa del rapporto di valore e di capitale, impossibilità della riproduzione, in una cerchia teoricamente estendentesi a tutto il mondo (in realtà nella società borghese stessa sono state sviluppate istituzioni e pratiche - il credito, l’intervento statale, la politica delle scorte, le associazioni capitalistiche: altrettante forme antitetiche dell’unità sociale - che in una certa misura attenuano e contengono le ripercussioni del fatto).

Trasformare questa dipendenza da cieca sottomissione in consapevole cooperazione è una necessità; d’altra parte richiede uno sconvolgimento tale di abitudini, modi di fare, idee, costumi, relazioni consolidate, interessi e privilegi costituiti, ecc. che non può essere effettuato se non attraverso un periodo storico di rinnovati sconvolgimenti rivoluzionari, un periodo di lotte e imposizioni con metodi rivoluzionari (dittatura del proletariato).

Da tutto ciò risulta chiaro che la trasformazione dei rapporti di produzione tra gli individui membri di una particolare società non può che procedere in relazione con la trasformazione dei rapporti tra essi (considerati come un tutto unico) e il resto del mondo e quindi con la trasformazione dei rapporti di produzione tra gli individui che compongono il resto del mondo.


NOTE

(7) È ovvio, per chiunque non sia un sognatore ma si impegni in un’attività politica concreta, che ciò non riassume tutta l’azione internazionale di un concreto stato socialista. Mentre l’avanzamento verso il comunismo in un paese è legato al suo verificarsi anche in altri, il concreto processo di ricambio materiale in un paese è legato a rapporti con il resto del mondo quale concretamente è; la sorte di uno stato socialista è legata anche a rapporti con gli altri stati quali concretamente sono. I compromessi sono all’ordine del giorno per chi lotta veramente per il comunismo. Onde si spiegano molte «anomalie» dei rapporti interstatali: una ditta capitalista che fa affari con uno stato socialista che accetta e ricerca questo rapporto perché gli è necessario; uno stato borghese che stabilisce accordi con uno stato socialista che li accetta e ricerca come mezzo per guadagnare tempo e impedire la coalizione (temporanea) degli stati borghesi contro di esso. Anche se ovviamente tutti questi compromessi hanno risvolti negativi (temporaneamente rafforzano anche la ditta capitalistica e lo stato borghese contraenti non solo nei confronti delle altre ditte capitaliste e degli altri stati borghesi, ma anche nei confronti dei proletari che essi sfruttano e dominano). Combinare sostegno al movimento rivoluzionario in tutto il mondo con lo sfruttamento delle contraddizioni tra borghesi è un’arte dei partiti e degli stati rivoluzionari.


(8) Qui non ci interessa una teoria delle cause delle guerre in generale. Gli uomini facevano la guerra assai prima della comparsa del capitalismo, verissimo. È altrettanto vero che in ogni contesto sociale concreto, gli uomini facevano la guerra per specifici motivi legati a quel contesto sociale. Una teoria delle cause della guerra che pretenda di trovarle indipendentemente dalle condizioni concrete e specifiche della società in esame, non può essere che una sciocca e arbitraria immaginazione; infatti ve ne sono per tutti i gusti: dal peccato originate alle macchie solari. Pretendere di capire le cause di una cosa senza considerare le cause della cosa, porta al massimo alla descrizione superficiale della cosa. Quello che noi affermiamo è che le cause di guerra nel mondo capitalista sono diverse dalle cause di guerra nel mondo primitive o nel mondo feudale; che queste cause di guerra proprie del mondo capitalista scompariranno con esso; che non sopravvivranno ad esse altre cause di guerra, come non sopravvivranno altre forme di sfruttamento e di oppressione.