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Prefazione all'edizione tedesca del 1872

 

La Lega dei Comunisti[1] associazione internazionale degli operai, che nelle condizioni d'allora non poteva naturalmente essere che segreta, nel Congresso tenutosi a Londra nel novembre 1847 incaricò i sottoscritti di redigere un programma pratico e teorico circostanziato del partito, destinato alla pubblicità. Così nacque il seguente Manifesto il cui manoscritto fu inviato a Londra per la stampa poche settimane prima della rivoluzione di febbraio[2]. Pubblicato dapprima in tedesco, esso ebbe in questa lingua almeno dodici diverse ristampe, in Germania, in Inghilterra e in America. In inglese vide la luce, per la prima volta, nel 1850 a Londra nel Red Republican, tradotto da Miss Helen Macfarlane, nel 1871 in almeno tre diverse traduzioni in America. In francese uscì dapprima a Parigi, poco prima dell'insurrezione del giugno del 1848, e recentemente in Le Socialiste di New York. Una nuova versione è ora in preparazione. In polacco, a Londra poco dopo la prima edizione tedesca. In russo, a Ginevra tra il 1860 e il 1870. La versione danese vide la luce essa pure immediatamente dopo la prima pubblicazione del Manifesto.

Per quanto sia mutata la situazione negli ultimi venticinque anni, i principi generali svolti in questo Manifesto sono ancora oggi, in complesso, del tutto giusti. Qualche cosa sarebbe qua e là da ritoccare. L'applicazione pratica di questi principi, come spiega lo stesso Manifesto, dipenderà in ogni luogo e in ogni tempo dalle circostanze storiche del momento, e perciò non si dà nessuna particolare importanza alle misure rivoluzionarie proposte alla fine del capitolo II. Oggi questo passo sarebbe, sotto molti rapporti, altrimenti redatto. Di fronte all'immenso sviluppo della grande industria negli ultimi venticinque anni e al progrediente sviluppo della organizzazione di partito della classe operaia, che l'accompagna; di fronte alle esperienze pratiche, prima della rivoluzione di febbraio e poi, a maggior ragione della Comune di Parigi[3], nella quale, per la prima volta, il proletariato tenne per due mesi il potere politico, questo programma è oggi qua e là invecchiato. La Comune, specialmente, ha fornito la prova che la classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi propri fini. (Si veda La guerra civile in Francia. Indirizzo del Consiglio generale dell'Associazione Internazionale degli Operai, edizione tedesca, p. 19, dove questo concetto è svolto più diffusamente). È poi naturale che la critica della letteratura socialista sia, pei nostri giorni, incompleta, giungendo essa soltanto fino al 1847; lo stesso dicasi delle osservazioni circa la posizione dei comunisti rispetto ai diversi partiti di opposizione (capitolo IV), le quali, se pur sono giuste ancor oggi nei principi generali, sono tuttavia invecchiate nei particolari, perché la situazione politica si è completamente trasformata e l'evoluzione storica ha fatto sparire la maggior parte dei partiti ivi enumerati. Il Manifesto, però, è un documento storico, al quale non ci sentiamo più in diritto di fare modificazioni. Forse in una successiva edizione si potrà aggiungere un'introduzione che getti un ponte fra il 1847 e oggi; ma oggi questa ristampa ci è giunta troppo inaspettata per lasciarcene il tempo.

 

Karl Marx, Friedrich Engels

 

Londra, 24 giugno 1872.

 

 

 

Prefazione all'edizione russa del 1882

 

La prima edizione russa del Manifesto del Partito comunista, tradotto da Bakunin,[4] uscì dopo il 1860 dalla tipografia del Kolokol.[5] In quell'epoca un'edizione russa del Manifesto aveva per l'Occidente tutt'al più l'importanza di una curiosità letteraria. Oggi non più. Quanto fosse angusta in quel tempo (dicembre 1847) la cerchia di diffusione del movimento proletario, lo mostra nel modo più chiaro l'ultimo capitolo del Manifesto: Posizione dei comunisti rispetto ai diversi partiti di opposizione nei diversi paesi. La Russia e gli Stati Uniti non vi sono nemmeno menzionati. Erano i tempi in cui la Russia costituiva l'ultima grande riserva di tutta la reazione europea e l'emigrazione negli Stati Uniti assorbiva le forze esuberanti del proletariato europeo. Entrambi quei paesi rifornivano l'Europa di materie prime e le servivano al tempo stesso di mercato per i suoi prodotti industriali. Così entrambi, in un modo o nell'altro, erano dei bastioni dell'ordine sociale esistente in Europa.

Come tutto ciò è oggi mutato! Precisamente l'immigrazione europea ha reso possibile il colossale sviluppo dell'agricoltura nord-americana, che con la sua concorrenza scuote le basi della grande come della piccola proprietà terriera in Europa. Essa ha dato inoltre agli Stati Uniti la possibilità di intraprendere lo sfruttamento delle sue ricche risorse industriali, e con tale energia e in così vasta misura che in breve tempo porrà fine al monopolio industriale dell'Europa occidentale e particolarmente dell'Inghilterra. Queste due circostanze agiscono poi a loro volta sull'America stessa in senso rivoluzionario. La piccola e media proprietà fondiaria dei proprietari di fattorie, che è la base di tutto l'ordinamento politico americano, soccombe sempre più alla concorrenza delle fattorie gigantesche, mentre nei distretti industriali si forma, per la prima volta, un proletariato numeroso accanto a una favolosa concentrazione dei capitali.

Passiamo alla Russia. All'epoca della rivoluzione del 1848-49, non solo i monarchi, ma anche i borghesi europei vedevano nell'intervento russo l'unica salvezza contro il proletariato, che proprio allora incominciava a risvegliarsi. Essi proclamarono lo zar capo della reazione europea. Oggi egli se ne sta nella sua Gatcina,[6] prigioniero di guerra della rivoluzione, e la Russia forma l'avanguardia del movimento rivoluzionario in Europa.[7]

Il compito del Manifesto del Partito comunista fu la proclamazione dell'inevitabile e imminente crollo dell'odierna proprietà borghese. Ma in Russia accanto all'ordinamento capitalistico, che febbrilmente si va sviluppando, e accanto alla proprietà fondiaria borghese, che si sta formando solo ora, noi troviamo oltre la metà del suolo in proprietà comune dei contadini.[8] Si affaccia quindi il problema: la comunità rurale russa, questa forma in gran parte già dissolta, è vero, della originaria proprietà comune della terra, potrà passare direttamente a una più alta forma comunistica di proprietà terriera, o dovrà attraversare prima lo stesso processo di dissoluzione che costituisce lo sviluppo storico dell'Occidente?

La sola risposta oggi possibile è questa: se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che entrambe si completino, allora l'odierna proprietà comune rurale russa potrà servire di punto di partenza per una evoluzione comunista.

 

Karl Marx, Friedrich Engels

 

Londra, 21 gennaio 1882.

 

Prefazione all'edizione tedesca del 1883

 

Purtroppo la prefazione alla presente edizione debbo firmarla io solo. Marx, l'uomo a cui tutta la classe operaia d'Europa e d'America deve più che ad alcun altro, riposa nel cimitero di Highgate, e sulla sua tomba già cresce la prima erba. Dopo la sua morte meno che mai si può parlare di una rielaborazione o di un completamento del Manifesto. Tanto più credo necessario riaffermare qui ancora una volta esplicitamente quanto segue.

Il pensiero fondamentale, cui si informa il Manifesto - che la produzione economica e la struttura sociale che necessariamente ne consegue formano, in qualunque epoca storica, la base della storia politica e intellettuale dell'epoca stessa; che, conforme a ciò, dopo il dissolversi della primitiva proprietà comune del suolo, tutta la storia è stata una storia di lotte di classi, di lotte tra classi sfruttate e classi sfruttatrici, tra classi dominate e classi dominanti, in diversi gradi dello sviluppo sociale; che questa lotta ha ora raggiunto un grado in cui la classe sfruttata e oppressa (il proletariato) non può più liberarsi dalla classe che la sfrutta e la opprime (la borghesia), senza liberare anche a un tempo, e per sempre, tutta la società dallo sfruttamento, dall'oppressione e dalle lotte fra le classi - questo pensiero fondamentale appartiene a Marx unicamente ed esclusivamente.[9]

Tutto ciò dissi già molte volte; ma proprio ora è necessario premetterlo al Manifesto  stesso.

Friedrich Engels

 

 

Londra, 28 giugno 1883.

 

Dalla prefazione all'edizione tedesca del 1890

 

Il Manifesto ha avuto un suo proprio destino. Salutato con entusiasmo al suo primo apparire dall'avanguardia, allora poco numerosa, del socialismo scientifico (come lo provano le traduzioni citate nella prima prefazione), venne bentosto respinto nell'ombra dalla reazione iniziatasi con la sconfitta degli operai parigini nel giugno del 1848, e infine scomunicato e messo al bando "in nome della legge" con la condanna dei comunisti di Colonia nel novembre 1852.[10] Con la scomparsa dalla pubblica scena di quel movimento operaio, che datava dalla rivoluzione di febbraio, scomparve dalla scena anche il Manifesto.

 Quando la classe operaia europea si fu di nuovo sufficientemente rafforzata per poter dare un nuovo assalto al potere delle classi dominanti, sorse la Associazione Internazionale degli operai.

Essa aveva per scopo di fondere in un solo grande esercito tutta la classe operaia combattiva d'Europa e d'America. Essa non poteva quindi prendere le mosse dai principi esposti nel Manifesto. Doveva avere un programma che non chiudesse la porta alle Trade-Unions[11] inglesi, ai proudhoniani francesi, belgi, italiani e spagnuoli e ai lassalliani tedeschi.[12] Questo programma - che fa da premessa agli Statuti dell'Internazionale - fu abbozzato da Marx con una maestria riconosciuta persino da Bakunin e dagli anarchici. Per la vittoria finale delle tesi enunciate nel Manifesto, Marx confidava unicamente ed esclusivamente in quello sviluppo intellettuale della classe operaia, che doveva necessariamente scaturire dall'azione comune e dalla discussione. Gli eventi e le vicende della lotta contro il capitale, le sconfitte ancor più che i successi, non potevano fare a meno di dimostrare ai combattenti l'insufficienza delle panacee in uso fino allora, e rendere più accessibili alle loro menti le vere condizioni dell'emancipazione operaia. E Marx aveva ragione. La classe operaia del 1874, quando si sciolse l'Internazionale, era tutt'altra da quella del 1864, quando la si era fondata. Il proudhonismo nei paesi latini, il lassallianismo specifico in Germania erano in agonia, e persino le Trade-Unions inglesi, prima arciconservatrici, si avvicinavano, a poco a poco, a quel punto in cui, nel 1887, il presidente del loro Congresso a Swansea, poté dire in loro nome: Il socialismo continentale ha cessato d'essere per noi uno spauracchio. Ma questo socialismo continentale già nel 1887 era quasi esclusivamente la teoria proclamata nel Manifesto. E così la storia del Manifesto rispecchia fino a un certo punto la storia del moderno movimento operaio dopo il 1848. Attualmente esso è, senza dubbio, il prodotto più diffuso e più internazionale di tutta la letteratura socialista, il programma comune di molti milioni di operai di tutti i paesi, dalla Siberia alla California.

Eppure quando vide la luce non avremmo potuto intitolarlo manifesto socialista. Sotto il nome di socialista si intendevano nel 1847 due specie di persone. Da un lato i seguaci dei vari sistemi utopistici, specialmente gli owenisti in Inghilterra e i fourieristi in Francia, gli uni e gli altri già ridotti a semplici sètte che andavano a poco a poco estinguendosi. Dall'altro lato i molteplici dulcamara sociali, che con le loro varie panacee e con ogni sorta di rattoppi volevano guarire le miserie sociali, senza fare alcun male al capitale e al profitto. In entrambi i casi, gente che stava al di fuori del movimento operaio e cercava piuttosto un appoggio tra le classi "colte". Al contrario, quella parte di operai che, convinta dell'insufficienza di semplici rivolgimenti politici, esigeva una trasformazione radicale della società, quella parte si chiamava allora comunista. Era un comunismo appena abbozzato, di puro istinto, talora un po' greggio, ma era abbastanza forte per produrre due sistemi di comunismo utopistico, in Francia quello "icarico" di Cabet, in Germania quello di Weitling. Nel 1847 socialismo significava un movimento borghese, comunismo un movimento operaio. Il socialismo, almeno sul Continente, era una dottrina ammissibile nei salotti, il comunismo era giusto il contrario. E poiché fin da allora noi eravamo decisamente d'avviso che l'emancipazione degli operai deve essere opera della classe operaia stessa è chiaro che non potevamo rimanere un istante in dubbio su quale dei due nomi dovessimo scegliere. Né mai dopo d'allora ci passò per il capo di mutarlo.

Proletari di tutti i paesi, unitevi!

Solo poche voci risposero, quando, sono ormai quarantadue anni, lanciammo pel mondo quel grido, alla vigilia della prima rivoluzione parigina in cui il proletariato si fece avanti con rivendicazioni proprie. Ma il 28 settembre 1864 proletari della maggior parte dei paesi dell'Europa occidentale si unirono nell'Associazione Internazionale degli Operai di gloriosa memoria. L'Internazionale, è vero, non visse che nove anni. Ma la prova migliore che l'eterna unione da essa fondata fra i proletari di tutti i paesi è ancora viva e più forte che mai, e la giornata d'oggi. Oggi infatti, mentre scrivo queste righe, il proletariato europeo e americano passa in rassegna le sue forze, per la prima volta mobilitate come un solo esercito, sotto una sola bandiera e per un solo scopo  immediato: la introduzione per legge della giornata normale di lavoro di ottobre, già proclamata dal Congresso di Ginevra dell'Internazionale nel 1866 e poi, per la seconda volta, dal Congresso operaio di Parigi nel 1889. E lo spettacolo di questa giornata mostrerà chiaramente ai capitalisti e ai proprietari terrieri di tutti i paesi che oggi i proletari di tutti i paesi si sono di fatto uniti.

Almeno fosse Marx accanto a me per veder questo spettacolo coi propri occhi!

Friedrich Engels

Londra, 1° maggio 1890.

 

Prefazione all'edizione polacca del 1892

 

Il fatto che si sia resa necessaria una nuova edizione polacca del Manifesto comunista dà luogo a diverse considerazioni.

È da notare anzitutto che il Manifesto è ridivenuto in certo modo l'indice dello sviluppo della grande industria in tutto il continente europeo. Nella misura in cui si estende in un paese la grande industria, cresce anche fra gli operai dello stesso paese il desiderio di chiarezza sulla loro posizione, in quanto classe operaia di fronte alle classi possidenti, si estende fra di loro il movimento socialista e aumenta la richiesta del Manifesto. Pertanto, non soltanto le condizioni del movimento operaio, ma anche il grado di sviluppo della grande industria si possono misurare in ogni paese con una certa precisione secondo il numero degli esemplari del Manifesto diffuso nella lingua nazionale. La nuova edizione polacca denota di conseguenza un deciso progresso dell'industria polacca. Che questo progresso, a partire dall'ultima edizione apparsa dieci anni fa, si sia realmente verificato, è assolutamente fuori dubbio. La Polonia russa, la Polonia del Congresso è divenuta il distretto industriale dell'impero russo. Mentre la grande industria russa è sporadica e sparsa - una parte sul golfo finnico, una parte nel centro (Mosca e Vladimir), una terza sul Mar Nero e sul Mare d'Azof, e il resto qua e là in altri luoghi - quella polacca è addensata in uno spazio relativamente, piccolo e gode dei vantaggi e degli svantaggi derivanti da tale concentrazione. I vantaggi li riconobbero gli industriali russi concorrenti, allorché chiesero dazi protettivi contro la Polonia malgrado il loro ardente desiderio di trasformare i polacchi in russi. Gli svantaggi - per gli industriali polacchi e per il governo russo - si manifestano nella rapida diffusione delle idee socialiste tra i lavoratori polacchi, nella crescente richiesta del Manifesto.

Ma il rapido sviluppo dell'industria polacca, che ha superato quella russa, è a sua volta una nuova prova del l'indistruttibile forza vitale del popolo polacco, ed una nuova garanzia della sua imminente ricostituzione nazionale. La ricostituzione di una Polonia forte e indipendente è, però, cosa che non riguarda solo i polacchi ma noi tutti. Una sincera collaborazione internazionale delle nazioni europee è possibile solo quando ogni singola nazione è del tutto autonoma nel suo proprio territorio nazionale. La rivoluzione del 1848 che, sotto la bandiera proletaria, fece fare infine ai combattenti proletari solo il lavoro della borghesia, impose anche, per mezzo dei suoi esecutori testamentari, Luigi Bonaparte e Bismarck, l'indipendenza dell'Italia, Germania e Ungheria; ma la Polonia, che dal 1792 in poi ha fatto per la rivoluzione più che non questi tre paesi insieme, la Polonia è stata abbandonata a se stessa, quando nel 1863 soccombette alla potenza russa a lei dieci volte superiore. La nobiltà non ha saputo né conservare né riconquistare l'indipendenza polacca; la borghesia è oggi, a dir poco, indifferente di fronte a questa indipendenza. E nondimeno questa è una necessità per l'armonica collaborazione fra le nazioni europee. Essa può essere conquistata solo dal giovane proletariato polacco, e nelle sue mani è ben affidata. Poiché i lavoratori di tutto il resto d'Europa abbisognano dell'indipendenza polacca come lo stesso proletariato polacco.

 

Friedrich Engels

 

Londra, 10 febbraio 1892.

 

 

Prefazione all'edizione italiana del 1893

Al lettore italiano[13]

 

 

La pubblicazione del Manifesto del Partito comunista coincidette, quasi giorno per giorno, con le rivoluzioni di Milano e di Berlino del 18 marzo 1848, che furono la levata di scudi delle due nazioni situate nel centro l'una del Continente, l'altra del Mediterraneo; due nazioni fino allora indebolite dalla divisione e dalla discordia all'interno e passate, per conseguenza, sotto il dominio straniero. Se l'Italia era soggetta all'imperatore d'Austria, la Germania subiva il giogo non meno effettivo, benché indiretto, dello zar di tutte le Russie. Le conseguenze del 18 marzo 1848 liberarono l'Italia e la Germania da codesta vergogna. Se dal 1848 al 1871 queste due grandi nazioni sono state ricostituite, e, in qualche modo, rese a se stesse, ciò avvenne, come diceva Carlo Marx, perché gli uomini che avevano abbattuto la rivoluzione del 1848 ne divennero tuttavia, loro malgrado, gli esecutori testamentari.

Dappertutto, quella rivoluzione fu l'opera della classe operaia; fu questa che fece le barricate e pagò di persona. Solo gli operai di Parigi, rovesciando il governo, avevano l'intenzione ben determinata di rovesciare il regime della borghesia. Ma, per quanto essi avessero coscienza dell'antagonismo fatale che esisteva fra la loro propria classe e la borghesia, né il progresso economico del paese, né lo sviluppo intellettuale delle masse operaie francesi erano giunti al grado che avrebbe reso possibile una ricostruzione sociale. I frutti della rivoluzione furono dunque raccolti, in ultima analisi, dalla classe capitalista. Negli altri paesi, in Italia, in Germania, in Austria, in Ungheria, gli operai non fecero, dapprincipio, che portare al potere la borghesia. Ma in nessun paese il regno della borghesia è possibile senza l'indipendenza nazionale. La rivoluzione del 1848 doveva dunque trarsi dietro l'unità e l'autonomia delle nazioni che fino allora ne erano state prive: l'Italia, l'Ungheria, la Germania. La Polonia seguirà a sua volta.

Se, dunque, la rivoluzione del 1848 non fu una rivoluzione socialista, essa spianò la via, preparò il terreno a quest'ultima. Collo slancio dato, in ogni paese, alla grande industria, il regime borghese degli ultimi quarantacinque anni ha creato dappertutto un proletariato numeroso, concentrato e forte; ha allevato dunque, per usare l'espressione del Manifesto, i suoi propri seppellitori. Senza l'autonomia e l'unità restituite a ciascuna nazione europea, né l'unione internazionale del proletariato, né la tranquilla e intelligente cooperazione di queste nazioni verso fini comuni potrebbero compiersi. Immaginate, se vi riesce, un'azione internazionale e comune degli operai italiani, ungheresi, tedeschi, polacchi, russi, nelle condizioni politiche precedenti il 1848!

Così le battaglie del 1848 non furono date invano; i quarantacinque anni che ci separano da quella tappa rivoluzionaria del pari non sono passati invano. I frutti vengono a maturazione, e tutto ciò che io desidero è che la pubblicazione di questa traduzione italiana del Manifesto sia di altrettanto buon augurio per la vittoria del proletariato italiano, quanto la pubblicazione dell'originale lo fu per la rivoluzione internazionale.

Il Manifesto del Partito comunista rende piena giustizia all'azione rivoluzionaria del capitalismo nel passato. La prima nazione capitalista fu l'Italia. Il chiudersi del Medioevo feudale, l'aprirsi dell'era capitalista moderna sono contrassegnati da una figura gigantesca: quella di un italiano, Dante, al tempo stesso l'ultimo poeta del Medioevo e il primo poeta moderno. Oggi come nel 1300, una nuova era storica si affaccia. L'Italia ci darà essa il nuovo Dante, che segni l'ora della nascita di questa era proletaria?

 

Friedrich Engels

Londra, 1893.

 

Manifesto del Partito comunista

 

Uno spettro si aggira per l'Europa - lo spettro del comunismo.[14] Tutte le potenze della vecchia Europa, il papa e lo zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi, si sono alleati in una santa caccia spietata contro questo spettro.[15]

Quale è il partito d'opposizione, che non sia stato tacciato di comunista dai suoi avversari che si trovano al potere? E quale è il partito d'opposizione, che, alla sua volta, non abbia ritorto l'infamante accusa di comunista contro gli elementi più avanzati dell'opposizione o contro i suoi avversari reazionari?

Da questo fatto si ricavano due conclusioni.

Il comunismo è ormai riconosciuto come potenza da tutte le potenze europee.

È ormai tempo che i comunisti espongano apertamente a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro scopi, le loro tendenze, e che alla fiaba dello spettro del comunismo contrapongano un manifesto del partito.

A tal fine, comunisti delle più varie nazionalità si sono riuniti a Londra e hanno redatto il seguente manifesto, che viene pubblicato in lingua inglese, francese, tedesca, italiana[16], fiamminga e danese.

 

 

 

 

Borghesi e proletari[17]

 

 

La storia di ogni società sinora esistita[18] è storia di lotte di classi.[19] Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta.

Nelle prime epoche della storia troviamo quasi dappertutto una completa divisione della società in varie caste, una multiforme gradazione delle posizioni sociali. Nell'antica Roma abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel Medioevo signori feudali, vassalli, maestri d'arte, garzoni, servi della gleba, e per di più in quasi ciascuna di queste classi altre speciali gradazioni.

La moderna società borghese, sorta dalla rovina della società feudale, non ha eliminato i contrasti fra le classi. Essa ha soltanto posto nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta in luogo delle antiche.

L'epoca nostra, l'epoca della borghesia, si distingue tuttavia perché ha semplificato i contrasti fra le classi. La società intiera si va sempre più scindendo in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente opposte l'una all'altra: borghesia e proletariato.

Dai servi della gleba del Medioevo uscirono i borghigiani delle prime città; da questi borghigiani ebbero sviluppo i primi elementi della borghesia.

La scoperta dell'America e la Circumnavigazione dell'Africa offrirono un nuovo terreno alla nascente borghesia. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell'America, lo scambio con le colonie, l'aumento dei mezzi di scambio e delle merci in generale, diedero un impulso prima d'allora sconosciuto al commercio, alla navigazione, all'industria, e in pari tempo favorirono il rapido sviluppo dell'elemento rivoluzionario in seno alla società feudale che s'andava sfasciando.

L'organizzazione feudale o corporativa dell'industria da quel momento non bastò più ai bisogni, che andavano crescendo col crescere dei nuovi mercati. Subentrò la manifattura. I maestri di bottega vennero soppiantati dal medio ceto industriale; la divisione del lavoro tra le diverse corporazioni scomparve davanti alla divisione del lavoro nelle singole officine stesse.[20]

Ma i mercati continuavano a crescere, e continuavano a crescere i bisogni. Anche la manifattura non bastava più. Ed ecco il vapore e le macchine rivoluzionare la produzione industriale. Alla manifattura subentrò la grande industria moderna; al medio ceto industriale succedettero gli industriali milionari, i capi di intieri eserciti industriali, i moderni borghesi.

La grande industria ha creato quel mercato mondiale che la scoperta dell'America aveva preparato. Il mercato mondiale ha dato un immenso sviluppo al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per terra. Quello sviluppo, alla sua volta, ha reagito sull'espansione dell'industria; e in quella stessa misura in cui si sono andate estendendo l'industria, il commercio, la navigazione, le ferrovie, anche la borghesia si è sviluppata, ha aumentato i suoi capitali e sospinto nel retroscena tutte le classi che erano una eredità del Medioevo.

Vediamo dunque come la stessa borghesia moderna sia il prodotto di un lungo processo di sviluppo, di una serie di sconvolgimenti nei modi della produzione e del traffico.

Ognuno di questi stadi nello sviluppo della borghesia fu accompagnato da un corrispondente progresso politico.[21] Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, associazione armata e autonoma del Comune[22], qui repubblica municipale indipendente,[23] là terzo stato tributario della monarchia,[24] poi, al tempo della manifattura, contrappeso alla nobiltà nella monarchia a poteri limitati[25] o in quella assoluta, principale fondamento, in generale, delle grandi monarchie, col costituirsi della grande industria e del mercato mondiale, la borghesia si è impadronita finalmente della potestà politica esclusiva nel moderno Stato rappresentativo. Il potere politico dello Stato moderno non è che un comitato, il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la classe borghese.[26]

La borghesia ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria.

Dove è giunta al potere, essa ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache. Essa ha lacerato senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l'uomo ai suoi superiori naturali, e non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato "pagamento in contanti". Essa ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti dell'esaltazione religiosa, dell'entusiasmo cavalleresco, della sentimentalità piccolo-borghese. Ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio; e in luogo delle innumerevoli franchigie faticosamente acquisite e patentate, ha posto la sola libertà di commercio senza scrupoli. In una parola, al posto dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche, ha messo lo sfruttamento aperto, senza pudori, diretto e arido.

La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte quelle attività che per l'innanzi erano considerate degne di venerazione e di rispetto. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, lo scienziato in suoi operai salariati.

La borghesia ha strappato il velo di tenero sentimentalismo che avvolgeva i rapporti di famiglia, e li ha ridotti a un semplice rapporto di denari.[27]

La borghesia ha messo in chiaro come la brutale manifestazione di forza, che i reazionari tanto ammirano nel Medioevo, avesse il suo appropriato completamento nella più infingarda poltroneria. Essa per prima ha mostrato che cosa possa l'attività umana. Essa ha creato ben altre meraviglie che le piramidi d'Egitto, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; essa ha fatto ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli[28] e le Crociate.

La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l'insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutata conservazione dell'antico modo di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca borghese da tutte le altre. Tutte le stabili e irrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall'età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci.

Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per tutto il globo terrestre. Dappertutto essa deve ficcarsi, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni.

Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. Con gran dispiacere dei reazionari, ha tolto all'industria la base nazionale. Le antichissime industrie nazionali sono state e vengono, di giorno in giorno, annichilite. Esse vengono soppiantate da nuove industrie, la cui introduzione è questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili - industrie che non lavorano più materie prime indigene, bensì materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti non si consumano soltanto nel paese, ma in tutte le parti del mondo. Al posto dei vecchi bisogni, a soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. In luogo dell'antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava a se stesso, subentra un traffico universale, una universale dipendenza delle nazioni l'una dall'altra. E come nella produzione materiale, così anche nella spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni diventano patrimonio comune. La unilateralità e la ristrettezza nazionale diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali esce una letteratura mondiale.

Col rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà anche le nazioni più barbare. I tenui prezzi delle sue merci sono l'artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie cinesi, e con cui costringe a capitolare il più testardo odio dei barbari per lo straniero. Essa costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese se non vogliono perire; le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a farsi borghesi. In una parola, essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza.

La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città.[29] Ha creato città enormi, ha grandemente accresciuto la popolazione urbana in confronto con quella rurale, e così ha strappato una parte notevole della popolazione all'idiotismo della vita rustica. Come ha assoggettato la campagna alla città, così ha reso dipendenti dai popoli civili quelli barbari e semibarbari, i popoli contadini dai popoli borghesi, l'Oriente dall'Occidente.

La borghesia sopprime sempre più il frazionamento dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione. Essa ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione e concentrato la proprietà in poche mani. Ne è risultata come conseguenza necessaria la centralizzazione politica. Province indipendenti, quasi appena collegate tra loro da vincoli federali, province con interessi, leggi, governi e dogane diversi, sono state strette in una sola nazione, con un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, un solo confine doganale.

Nel suo dominio di classe, che dura appena da un secolo, la borghesia ha creato delle forze produttive il cui numero e la cui importanza superano quanto mai avessero fatto tutte insieme le generazioni passate. Soggiogamento delle forze naturali, macchine, applicazione della chimica all'industria e all'agricoltura, navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, dissodamento di intieri continenti, fiumi resi navigabili, intiere popolazioni sorte quasi per incanto dal suolo - quale dei secoli passati avrebbe mai presentito che tali forze produttive stessero sopite in grembo al lavoro sociale?

Abbiamo però veduto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si eresse la borghesia, furono generati in seno alla società feudale. A un certo grado dello sviluppo di questi mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, vale a dire l'organizzazione feudale dell'agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali di proprietà, non corrisposero più alle forze produttive già sviluppate. Quelle condizioni, invece di favorire la produzione, la inceppavano. Esse si trasformavano in altrettante catene. Dovevano essere spezzate, e furono spezzate.

Subentrò ad esse la libera concorrenza con la costituzione politica e sociale ad essa adatta, col dominio economico e politico della classe borghese.

Sotto i nostri occhi si sta compiendo un processo analogo. Le condizioni borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la moderna società borghese, che ha evocato come per incanto così potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate.[30] Da qualche decina d'anni la storia dell'industria e del commercio non è che la storia della ribellione delle moderne forze produttive contro i moderni rapporti di produzione, contro i rapporti di proprietà che sono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali, che nei loro ritorni periodici sempre più minacciosamente mettono in forse l'esistenza di tutta la società borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta una gran parte non solo dei prodotti già ottenuti, ma anche delle forze produttive che erano già state create. Nelle crisi scoppia una epidemia sociale e in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l'epidemia della sovrapproduzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generale di sterminio sembrano averle tolto tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano annientati, e perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui essa dispone non giovano più a favorire lo sviluppo della civiltà borghese e dei rapporti della proprietà borghese; al contrario, esse sono divenute troppo potenti per tali rapporti, sicché ne vengono inceppate; e non appena superano questo impedimento gettano nel disordine tutta quanta la società borghese, minacciano l'esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per contenere le ricchezze da essi prodotte. Con quale mezzo riesce la borghesia a superare le crisi? Per un verso, distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive; per un altro verso, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati già esistenti Con quale mezzo dunque? Preparando crisi più estese e più violente e riducendo i mezzi per prevenire le crisi.

Le armi con cui la borghesia ha abbattuto il feudalesimo si rivolgono ora contro la borghesia stessa.

Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le recano la morte; essa ha anche creato gli uomini che useranno quelle armi - i moderni operai, i proletari.

Nella stessa misura in cui si sviluppa la borghesia, vale a dire il capitale, si sviluppa anche il proletariato, la classe degli operai moderni, i quali vivono solo fino a tanto che trovano lavoro, e trovano lavoro soltanto fino a che il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai, che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo di commercio, e perciò sono egualmente esposti a tutte le vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato.

Il lavoro dei proletari, con l'estendersi dell'uso delle macchine e con la divisione del lavoro ha perduto ogni carattere d'indipendenza e quindi ogni attrattiva per l'operaio. Questi diventa un semplice accessorio della macchina, un accessorio a cui non si chiede che un'operazione estremamente semplice, monotona, facilissima ad imparare. Le spese che l'operaio procura si limitano perciò quasi esclusivamente ai mezzi di sussistenza necessari pel suo mantenimento e per la propagazione della sua specie. Ma il prezzo di una merce, e quindi anche il prezzo del lavoro,[31] è eguale al suo costo di produzione. Così, a misura che il lavoro si fa più ripugnante, più discende il salario. Più ancora: a misura che crescono l'uso delle macchine e la divisione del lavoro cresce anche la quantità del lavoro, sia per l'aumento delle ore di lavoro, sia per l'aumento del lavoro richiesto in una data unità di tempo, per l'accresciuta celerità delle macchine, ecc.

L'industria moderna ha trasformato la piccola officina dell'artigiano patriarcale nella grande fabbrica del capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono organizzate militarmente. Come soldati semplici dell'industria essi vengono sottoposti alla sorveglianza di tutta una gerarchia di sottufficiali e di ufficiali. Essi non sono soltanto servi della classe borghese, dello Stato borghese, ma vengono, ogni giorno e ogni ora, asserviti dalla macchina, dal sorvegliante, e soprattutto dal singolo borghese padrone di fabbrica. Siffatto dispotismo è tanto più meschino, odioso, esasperante, quanto più apertamente esso proclama di non avere altro scopo che il guadagno.

 Quanto meno il lavoro manuale esige abilità e forza, vale a dire quanto più l'industria moderna si sviluppa tanto più il lavoro degli uomini viene soppiantato da quello delle donne e dei fanciulli. Le differenze di sesso e di età non hanno più nessun valore sociale per la classe operaia. Non ci sono più che strumenti di lavoro, il cui costo varia secondo l'età e il sesso.

Non appena l'operaio ha finito di essere sfruttato dal fabbricante e ne ha ricevuto il salario in contanti, ecco piombar su di lui gli altri membri della borghesia, il padrone di casa, il bottegaio, il prestatore a pegno, e così via.

Quelli che furono sinora i piccoli ceti medi, i piccoli industriali, i negozianti e la gente che vive di piccola rendita, gli artigiani e gli agricoltori, tutte queste classi sprofondano nel proletariato, in parte perché il loro esiguo capitale non basta all'esercizio della grande industria e soccombe quindi nella concorrenza coi capitalisti più grandi, in parte perché le loro attitudini perdono il loro valore in confronto coi nuovi modi di produzione. Così il proletariato si recluta in tutte le classi della popolazione.

Il proletariato attraversa diversi gradi di evoluzione. La sua lotta contro la borghesia incomincia colla sua esistenza.

Dapprima lottano i singoli operai ad uno ad uno, poi gli operai di una fabbrica, indi quelli di una data categoria in un dato luogo contro il singolo borghese che li sfrutta direttamente. Essi non rivolgono soltanto i loro attacchi contro i rapporti borghesi di produzione, ma li rivolgono contro gli stessi strumenti della produzione; essi distruggono le merci straniere che fanno loro concorrenza, fanno a pezzi le macchine, incendiano le fabbriche, tentano di riacquistare la tramontata posizione dell'operaio del Medioevo.[32]

In questo stadio gli operai formano una massa dispersa per tutto il paese e sparpagliata dalla concorrenza. Il loro raggrupparsi in masse non è ancora la conseguenza della loro propria unione, ma è dovuto alla unione della borghesia, che per raggiungere i suoi propri fini politici deve mettere in moto tutto il proletariato ed è ancora in grado di farlo. In tale stadio i proletari non combattono dunque i loro nemici, ma i nemici dei loro nemici, gli avanzi della monarchia assoluta, i proprietari fondiari, i borghesi non industriali, i piccoli borghesi. Tutto il movimento storico è così concentrato nelle mani della borghesia; ogni vittoria così ottenuta è una vittoria della borghesia.

Ma con lo sviluppo dell'industria il proletariato non cresce soltanto di numero; esso si addensa in grandi masse, la sua forza va crescendo, e con la forza la coscienza di essa. Gli interessi, le condizioni di esistenza all'interno del proletariato si livellano sempre più, perché la macchina cancella sempre più le differenze del lavoro e quasi dappertutto riduce il salario a un eguale basso livello. La crescente concorrenza dei borghesi fra di loro e le crisi commerciali che ne derivano rendono sempre più oscillante il salario degli operai; l'incessante e sempre più rapido perfezionamento delle macchine rende sempre più precarie le loro condizioni di esistenza; i conflitti fra singoli operai e borghesi singoli vanno sempre più assumendo il carattere di conflitti fra due classi. È così che gli operai incominciano a formare coalizioni contro i borghesi, riunendosi per difendere il loro salario. Essi fondano persino associazioni permanenti per approvvigionarsi per le sollevazioni eventuali. Qua e là la lotta diventa sommossa [33]

Di quando in quando gli operai vincono, ma solo in modo effimero. Il vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma la unione sempre più estesa degli operai. Essa è agevolata dai crescenti mezzi di comunicazione che sono creati dalla grande industria e che collegano tra di loro operai di località diverse. Basta questo semplice collegamento per concentrare le molte lotte locali, aventi dappertutto egual carattere, in una lotta nazionale, in una lotta di classe. Ma ogni lotta di classe è lotta politica. E l'unione per raggiungere la quale ai borghigiani del Medioevo, con le loro strade vicinali, occorsero dei secoli, oggi, con le ferrovie, viene realizzata dai proletari in pochi anni.

Questa organizzazione dei proletari in classe, e quindi in partito politico, viene ad ogni istante nuovamente spezzata dalla concorrenza che gli operai si fanno fra loro stessi. Ma essa risorge sempre di nuovo, più forte, più salda, più potente. Approfittando delle scissioni della borghesia, la costringe al riconoscimento legale di singoli interessi degli operai. Così fu per la legge delle dieci ore di lavoro in Inghilterra.[34]

I conflitti in seno alla vecchia società in generale favoriscono in più modi il processo di sviluppo del proletariato. La borghesia è di continuo in lotta: dapprima contro l'aristocrazia, poi contro quelle parti della borghesia stessa i cui interessi sono in contrasto col progresso dell'industria; sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri. In tutte queste lotte essa si vede costretta a fare appello al proletariato, a chiederne l'aiuto, trascinandolo così nel moto politico.[35] Essa stessa, dunque, dà al proletariato gli elementi della propria educazione,[36] gli dà cioè le armi contro se stessa.

Accade inoltre, come abbiamo già visto, che per il progresso dell'industria intiere parti costitutive della classe dominante vengono precipitate nella condizione del proletariato o sono per lo meno minacciate nelle loro condizioni di esistenza. Anch'esse recano al proletariato una massa di elementi della loro educazione.[37]

Infine, nei periodi in cui la lotta di classe si avvicina al momento decisivo, il processo di dissolvimento in seno alla classe dominante, in seno a tutta la vecchia società, assume un carattere così violento, così aspro, che una piccola parte della classe dominante si stacca da essa per unirsi alla classe rivoluzionaria, a quella classe che ha l'avvenire nelle sue mani. Perciò, come già un tempo una parte della nobiltà passò alla borghesia, così ora una parte della borghesia passa al proletariato, e segnatamente una parte degli ideologi borghesi che sono giunti a comprendere teoricamente il movimento storico nel suo insieme.

Di tutte le classi che oggi stanno di fronte alla borghesia, solo il proletariato è una classe veramente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e periscono con la grande industria, mentre il proletariato ne è il prodotto più genuino.

I ceti medi,[38] il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l'artigiano, il contadino, tutti costoro combattono la borghesia per salvare dalla rovina l'esistenza loro di ceti medi. Non sono dunque rivoluzionari, ma conservatori. Ancora più, essi sono reazionari, essi tentano di far girare all'indietro la ruota della storia. Se sono rivoluzionari, lo sono in vista del loro imminente passaggio al proletariato; cioè non difendono i loro interessi presenti, ma i loro interessi futuri, abbandonano il proprio modo di vedere per adottare quello del proletariato.

Quanto al sottoproletariato, che rappresenta la putrefazione passiva degli strati più bassi della vecchia società, esso viene qua e là gettato nel movimento da una rivoluzione proletaria; ma per le sue stesse condizioni di vita esso sarà piuttosto disposto a farsi comprare e mettere al servizio di mene reazionarie.

 Le condizioni di esistenza della vecchia società sono già distrutte dalle condizioni di esistenza del proletariato. Il proletario è senza proprietà; le sue relazioni con la moglie e coi figli non hanno più nulla di comune con i rapporti familiari borghesi; il moderno lavoro industriale, il moderno soggiogamento al capitale, eguale in Inghilterra come in Francia, in America come in Germania, lo ha spogliato di ogni carattere nazionale. Le leggi, la morale, la religione, sono per lui altrettanti pregiudizi borghesi, dietro ai quali si nascondono altrettanti interessi borghesi.

Tutte le classi che finora s'impossessarono del potere cercarono di assicurarsi la posizione raggiunta assoggettando tutta la società alle condizioni del loro guadagno. I proletari, invece, possono impossessarsi delle forze produttive sociali soltanto abolendo il loro modo di appropriazione attuale e con esso l'intiero attuale modo di appropriazione. I proletari non hanno nulla di proprio da salvaguardare; essi hanno soltanto da distruggere tutte le sicurezze private e le guarentigie private finora esistite.

Tutti i movimenti avvenuti sinora furono movimenti di minoranza o nell'interesse di minoranze.

Il movimento proletario è il movimento indipendente dell'enorme maggioranza nell'interesse dell'enorme maggioranza. Il proletariato che è lo strato più basso della società attuale, non può sollevarsi, non può innalzarsi, senza che tutta la sovrastruttura degli strati che costituiscono la società ufficiale vada in frantumi.

Sebbene non sia tale per il contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è però all'inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima con la sua propria borghesia.

Tratteggiando le fasi più generali dello sviluppo del proletariato, abbiamo seguito la guerra civile più o meno occulta entro la società attuale fino al momento in cui essa esplode in una rivoluzione aperta, e col rovesciamento violento della borghesia il proletariato stabilisce il suo dominio.

Ogni società finora esistita ha poggiato, come abbiamo già visto, sul contrasto tra le classi degli oppressori e degli oppressi. Ma per poter opprimere una classe, bisogna che le siano assicurate condizioni entro le quali essa possa almeno vivere la sua misera vita di schiavo. Il servo della gleba ha potuto, continuando a esser tale, elevarsi a membro del Comune, così come il borghigiano, pur sotto il giogo dell'assolutismo feudale, ha potuto diventare un borghese. L'operaio moderno, al contrario, invece di elevarsi col progresso dell'industria, cade sempre più in basso, al di sotto delle condizioni della sua propria classe. L'operaio diventa il povero, e il pauperismo si sviluppa ancora più rapidamente della popolazione e della ricchezza. Appare da tutto ciò manifesto che la borghesia è incapace di rimanere ancora più a lungo la classe dominante della società e di imporre alla società, come legge regolatrice, le condizioni di esistenza della sua classe. Essa è incapace di dominare perché è incapace di assicurare al suo schiavo l'esistenza persino nei limiti della sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo cadere in condizioni tali, da doverlo poi nutrire anziché esserne nutrita. La società non può più vivere sotto il suo dominio, cioè l'esistenza della borghesia non è più compatibile con la società.

Condizione essenziale dell'esistenza e del dominio della classe borghese è l'accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e l'aumento del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato si fonda esclusivamente sulla concorrenza degli operai fra di loro. Il progresso dell'industria, del quale la borghesia è l'agente involontario e passivo, sostituisce all'isolamento degli operai, risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria mediante la associazione. Lo sviluppo della grande industria toglie dunque di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce innanzi tutto i suoi propri seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono ugualmente inevitabili.


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