Lenin, Opere complete - Editori Riuniti Vol 8
Sulla fusione di
politica e pedagogia
Testo
scritto nel giugno 1905 e rimasto incompleto. Pubblicato per la prima volta
in Miscellanea di Lenin, 1926,
volume 5.
[Lenin scrisse questo testo in un periodo in cui in Russia con alterne
vicende divampava la lotta rivoluzionaria delle masse popolari contro lo zarismo.
Lo scrisse contro quelli che dopo una sconfitta, in un momento difficile, si
sottraevano ai compiti immediati della lotta in corso contrapponendo ad essi che
prima di scendere in lotta bisognava elevare la coscienza delle masse e dei loro
esponenti d’avanguardia. Lenin indica che elevare la coscienza delle masse è un
compito permanente dei comunisti. Ed è proprio questa indicazione, che elevare
la coscienza è un compito permanente e irrinunciabile, l’aspetto più importante
di questo scritto, per noi che lottiamo per consolidare e rafforzare il Partito
comunista in un periodo in cui il disprezzo per la teoria rivoluzionaria e più
in generale la negligenza dello studio sono senso comune che la borghesia e il
clero a ragion veduta alimentano con ogni mezzo, perché la comprensione della
realtà va contro il loro dominio: non bisogna insegnare a pensare, ma insegnare
un mestiere è il principio pedagogico che la borghesia e il clero impongono
persino nell’istruzione pubblica. ndr]
Abbiamo tra noi non pochi socialdemocratici [comunisti si direbbe oggi, ndr]
che, sotto l’influenza di ogni sconfitta degli operai in singoli scontri con i
capitalisti o con il governo, cadono in preda al pessimismo e respingono con
disprezzo tutti i discorsi sulle più alte e grandi mete del movimento operaio,
richiamandosi alla nostra insufficiente influenza sulle masse.
Che
possiamo fare?! a che punto siamo!? - dicono costoro. È inutile parlare della
funzione della socialdemocrazia, come forza d’avanguardia della rivoluzione,
quando non conosciamo con chiarezza nemmeno l’orientamento delle masse, quando
siamo incapaci di fonderci con gli operai e di mobilitarli nella lotta!
Gli scacchi subiti dai socialdemocratici il primo maggio di quest’anno hanno
aggravato di molto un simile stato d’animo. Naturalmente, i menscevichi o
neoiskristi [l’Iskra, il giornale
fondato da Lenin, dopo il II congresso del Partito (1902) era caduta nelle mani
dell’ala destra dei comunisti russi, ndr] si sono affrettati a farsene
interpreti per lanciare ancora una volta, come parola d’ordine particolare, lo
slogan: “Andiamo alle masse!”, quasi per far dispetto a qualcuno, quasi per
rispondere alle idee e ai discorsi sul governo rivoluzionario provvisorio, sulla
dittatura democratica rivoluzionaria, ecc. [erano le parole d’ordine con cui
Lenin e i bolscevichi conducevano la lotta, ndr].
Non si può fare a meno di riconoscere che in questo pessimismo e nelle relative
conclusioni tratte dai frettolosi pubblicisti neoiskristi c’è un tratto molto
pericoloso, che può causare gravi danni al movimento socialdemocratico.
Non c’è che dire: l’autocritica è assolutamente necessaria per ogni partito vivo
e vitale. Niente e più triviale dell’ottimismo soddisfatto di sé.
Niente
è
più legittimo dell’indicazione della permanente e assoluta necessità di
approfondire ed estendere, di estendere e approfondire la nostra influenza sulle
masse, la nostra propaganda e agitazione rigorosamente marxiste, il nostro
legame con la lotta economica
della
classe operaia, ecc. Ma proprio perché
quest’indicazione è legittima sempre,
in
qualsiasi circostanza
e
situazione, non deve essere trasformata in una parola d’ordine
d’un momento particolare, non può giustificare il tentativo di fondare
su di
essa una tendenza particolare della socialdemocrazia. Qui
c’è
un limite oltre il quale la vostra indicazione legittima si trasforma in una
restrizione dei compiti e dell’ampiezza del movimento,
nell’oblio
dottrinario degli essenziali compiti politici d’avanguardia
del
movimento.
Bisogna sempre approfondire ed estendere il lavoro e l’influenza
fra le masse. Senza
di
ciò il socialdemocratico non è più
socialdemocratico. Nessuna organizzazione, nessun gruppo o circolo può
considerarsi socialdemocratico, se non svolge
in
modo permanente e sistematico questo lavoro. Tutto il significato della nostra
precisa costituzione in partito autonomo del proletariato sta, in gran parte,
nel fatto che noi abbiamo svolto sempre e
con energia questo lavoro marxista, portando nei limiti del possibile al
livello della socialdemocrazia consapevole tutta la classe operaia, senza
consentire a nessuna, decisamente a nessuna, bufera politica -
e
tanto meno ai cambiamenti di scena - di distoglierci da questo lavoro
essenziale. Senza di esso, l’attività politica degenererebbe di necessità,
diventando un puro
e
semplice gioco [oggi diremmo politicismo, ndr],
perché l’azione politica acquista un significato effettivo per il proletariato
solo
quando
e
nella misura in cui mobilita la parte fondamentale di una classe, l’interessa,
la spinge a partecipare alla lotta in modo attivo, su scala crescente. Come
abbiamo già detto, questo lavoro è necessario sempre: e dopo
ogni
sconfitta lo si può e lo si deve ricordare, sottolineare, perché la sua
debolezza
è sempre
una delle cause della disfatta del proletariato. Anche dopo ogni vittoria
bisogna
sempre
ricordare
e
sottolineare l’importanza di questo lavoro, perché
altrimenti la vittoria sarà apparente, i suoi frutti non saranno concreti, il
suo significato non sarà reale, sotto il profilo della nostra grande lotta per
la meta finale sarà irrisorio e potrà persino diventare negativo (appunto nel
caso in cui una vittoria parziale addormenti la nostra vigilanza, attenui la
diffidenza verso gli alleati malsicuri, permetta di lasciarsi sfuggire
l’occasione per un nuovo e più efficace assalto contro il nemico).
Ma proprio perché questo lavoro di approfondimento e allargamento dell’influenza
sulle masse è sempre ugualmente necessario sia dopo una vittoria come dopo una
sconfitta, sia in un’epoca di ristagno politico come nel periodo rivoluzionario
più tempestoso, è impossibile tramutare l’indicazione della sua necessità in una
parola d’ordine particolare, fondare su di essa una tendenza particolare, senza
cadere nella demagogia e nella sottovalutazione dei compiti della classe
d’avanguardia, unica classe effettivamente rivoluzionaria.
Nell’azione politica del partito socialdemocratico c’è, e ci sarà sempre,
un
elemento pedagogico; bisogna educare l’intera classe degli operai salariati
a
combattere
per la liberazione di tutta l’umanità da ogni oppressione. Bisogna addestrare
tenacemente sempre nuovi strati di questa classe. Bisogna saper avvicinare i
componenti meno coscienti ed evoluti della classe, gli elementi meno toccati
dalla nostra scienza e dalla scienza della vita, per parlare
con
loro. Bisogna saperli avvicinare, saperli elevare con coerenza,
con
pazienza fino alla coscienza socialdemocratica, senza trasformare
la
nostra dottrina in
un
arido dogma, non insegnandola solo con i libri,
ma
anche con la partecipazione alla lotta quotidiana degli strati più umili e
arretrati del proletariato. Quest’azione quotidiana contiene
in sé -
lo ripetiamo - un certo elemento pedagogico. Il socialdemocratico che dimentichi
tale attività cessa di essere socialdemocratico.
È
così. Ma tra noi si dimentica spesso che anche il socialdemocratico che comincia
a ridurre alla pedagogia i compiti politici cessa - sia pure per un altro motivo
- di essere socialdemocratico. Chi pensasse di trasformare la “pedagogia”
in
una parola d’ordine di un momento particolare, di
opporla
alla “politica”, di fondare su questa
opposizione una tendenza particolare, di far
appello
alla massa in nome di questa parola d’ordine contro i “politici” della
socialdemocrazia, diventerebbe di colpo e inevitabilmente un demagogo.
Ogni paragone zoppica, come tutti sanno da un pezzo. Ogni paragone coglie solo
un lato e solo alcuni aspetti degli oggetti o dei concetti confrontati,
astraendo in via provvisoria e convenzionale dagli altri lati. Ricordata al
lettore questa verità universalmente nota, ma così spesso dimenticata,
paragoniamo il partito socialdemocratico a
una
grande scuola, che è elementare, media e
superiore al tempo stesso. In nessun caso, la grande scuola potrà dimenticarsi
di insegnare
l’alfabeto,
di impartire i rudimenti del sapere e di un pensiero autonomo. Ma se qualcuno
pensasse di risolvere i problemi dell’istruzione superiore richiamandosi
all’alfabeto, se qualcuno cominciasse a opporre i risultati instabili, dubbi,
“angusti” dell’insegnamento superiore (perché accessibile a
una
cerchia di persone molto ristretta rispetto
a quella di coloro che studiano l’alfabeto) ai risultati durevoli, approfonditi,
ampi
e solidi
della scuola elementare, rivelerebbe una
straordinaria miopia. Costui potrebbe persino contribuire a snaturare del tutto
il significato della grande scuola, perché l’ignoranza dei problemi della
cultura superiore non farebbe che agevolare ai ciarlatani, ai demagoghi e ai
reazionari il compito di fuorviare chi ha studiato soltanto l’alfabeto. O,
ancora, paragoniamo il partito all’esercito. Né in tempo di pace, né in tempo di
guerra si può mai trascurare l’addestramento delle reclute, la scienza del tiro,
la diffusione ampia e profonda dei principi elementari dell’arte militare fra le
masse. Ma se coloro che dirigono le manovre o le effettive battaglie...