Indice degli scritti di Lenin

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Presentazione della redazione di La Voce (agosto 2017)

Questo è il maggiore dei tre scritti dell’autunno 1916 (oltre a questo, Sulla tendenza nascente dell’“economicismo imperialistico” e Risposta a P. Kievski), pubblicati all’inizio di Lenin OC vol. 23. In essi Lenin mostra la mancanza di “analisi concreta della situazione concreta” e di dialettica nella concezione del mondo di alcuni esponenti socialdemocratici di sinistra (Bukharin, Piatakov, Radek e altri russi ma anche il fior fiore degli esponenti di sinistra della socialdemocrazia europea). Una concezione che li portava a non comprendere il ruolo e l’importanza della lotta per le riforme e della lotta per la democrazia anche nell’epoca dell’imperialismo e nel corso della guerra imperialista e quindi a non combinare in modo giusto queste lotte con la rivoluzione socialista. La maggior parte dei personaggi di cui Lenin parla, furono più tardi tra i fondatori della prima Internazionale Comunista e dei suoi partiti comunisti, alla testa della prima ondata della rivoluzione proletaria nei rispettivi paesi.

Lo studio di questo scritto di Lenin oggi è particolarmente importante per imparare a contrastare l’influenza tra le masse popolari delle tesi (disfattiste) degli esponenti della sinistra borghese che sostengono che con la globalizzazione (mondializzazione) si è formato un sistema produttivo “completamente nuovo” rispetto al capitalismo del secolo scorso e sulla base di questa tesi errata (la globalizzazione è solo una sovrastruttura del vecchio capitalismo - vedasi in proposito il Comunicato CC 9/2017 - 30 luglio 2017) negano che occorre instaurare il socialismo di cui il capitalismo stesso ha creato i presupposti. Di conseguenza negano tutta la sostanza politica della concezione comunista: la divisione della società attuale in classi sociali, la lotta di classe come motore dello sviluppo della società, il ruolo speciale della classe operaia, il compito del partito comunista, la dittatura del proletariato come sbocco inevitabile della lotta di classe attraverso il quale verrà eliminata la divisione dell’umanità in classi e quindi anche il dominio di una parte dell’umanità sulle altre.

Lo scritto di Lenin educa all’analisi concreta di ogni situazione concreta, un aspetto indispensabile del metodo materialista dialettico.

In questo come in altri scritti di Lenin dell’epoca, il termine socialdemocrazia indica quello che oggi chiamiamo movimento comunista.

Le note inserite nel testo tra parentesi quadre e in corpo minore sono della redazione di La Voce.

 

Intorno a una caricatura del marxismo e all’“economicismo imperialistico” 

Lenin scrisse questo testo fra agosto e ottobre del 1916 e intendeva pubblicarlo nell’inverno nel n. 3 dello Sbornik Sotsialdemokrata (Raccolta del Sotsialdemokrat) assieme all’articolo di P. Kievski. Ma il fascicolo non poté uscire per mancanza di fondi. Tuttavia Intorno a una caricatura del marxismo e all’“economicismo imperialistico” circolò ampiamente tra i bolscevichi che vivevano fuori dalla Russia e tra alcuni socialdemocratici di sinistra. Il testo fu pubblicato per la prima volta in Zviezdà, 1924, nn. 1 e 2 con la firma di V. Lenin. P. Kievski è pseudonimo di J.L. Piatakov (1890-1937).

 

“Nessuno può compromettere la socialdemocrazia rivoluzionaria, se essa non si compromette da sé”: questo motto bisogna sempre rammentare e tener presente, quando l’una o l’altra tesi teorica o tattica fondamentale del marxismo riporta la vittoria o si pone soltanto all’ordine del giorno, quando contro di essa, oltre ai nemici dichiarati e seri, “si avventano” anche certi amici che la compromettono (in russo diciamo la mortificano) irrimediabilmente, tramutandola in una caricatura. Così è accaduto più d’una volta nella storia della socialdemocrazia russa. La vittoria del marxismo nel movimento operaio, all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, fu accompagnata dalla comparsa di una caricatura del marxismo sotto specie di “economicismo” o “scioperismo”: e, se gli “iskristi” non avessero lottato per tanti anni contro di essa, non si sarebbero potuti difendere i principi della teoria e della politica proletaria né contro il populismo piccolo-borghese né contro il liberalismo borghese. Così è accaduto al bolscevismo, che ha riportato la vittoria nel movimento operaio di massa, nel 1905, fra l’altro perché ha giustamente applicato la parola d’ordine del “boicottaggio della Duma zarista”[1] nel periodo delle più aspre battaglie della rivoluzione russa, nell’autunno del 1905 e che ha dovuto conoscere - e sgominare con la lotta - una sua caricatura, nel periodo dal 1908 al 1910, quando Alexinski e altri fecero gran baccano contro la partecipazione alla III Duma.[2]

 

1. Il 6 (19) agosto furono pubblicati il manifesto dello zar, il progetto di legge sull’istituzione della Duma di Stato e il regolamento per le elezioni (i due ultimi documenti furono elaborati da una commissione presieduta dal ministro degli interni Bulyghin). I bolscevichi incitarono gli operai e i contadini a boicottare attivamente la Duma di Bulyghin e lanciarono le seguenti parole d’ordine: insurrezione armata, esercito rivoluzionario, governo rivoluzionario provvisorio. Le elezioni per la Duma non si tennero e il governo non riuscì a convocarla, perché sopraggiunse Ia rivoluzione.

 

2. Riferimento agli “otzovisti” e agli “ultimatisti”. I primi furono un gruppo opportunistico costituitosi nelle file bolsceviche nel 1908 (ne fecero parte: A.A. Bogdanov, G.A. Alexinski, A.T. Lunaciarski, M.N. Liadov, ecc.). Gli “otzovisti” esigevano iI “richiamo” (dal verbo “otozvat” = richiamare) dei deputati socialdemocratici dalla III Duma (1907-1912) e la rinuncia a svolgere qualsiasi azione  nella Duma, nei sindacati, nelle cooperative e nelle altre orga­nizzazioni di massa legali e semilegali. Gli “ultimatisti” si distinsero dagli “otzovisti” solo per la forma: essi pretendevano che il partito ponesse ultimativamente al gruppo socialdemocratico della Duma la richiesta di subordinarsi incondizionatamente alle decisioni del Comitato Centrale. La politica dei due gruppi recò grave danno al POSDR, perché tese a isolarlo dalle masse e a farne un’organizzazione settaria, chiusa in sé stessa, incapace di raccogliere le forze per l’azione rivoluzionaria.

 

Così stanno le cose oggi. Il riconoscimento della guerra in corso come guerra imperialista e la precisazione del suo nesso profondo con la fase imperialista del capitalismo, oltre che seri avversari, trovano anche amici poco seri, per i quali la parola imperialismo è diventata “una moda” e che, imparata questa paroletta, seminano tra gli operai la più irrimediabile confusione teorica, risuscitando tutta una sequela di vecchi errori del vecchio “economicismo”. Il capitalismo ha vinto, quindi non bisogna più pensare alle questioni politiche, argomentavano i vecchi “economicisti” negli anni dal 1894 al 1901, giungendo a negare la lotta politica in Russia. L’imperialismo ha vinto, quindi non bisogna più pensare alle questioni della democrazia politica, argomentano gli “economicisti imperialistici” del nostro tempo. Modello di una simile disposizione di spirito, di una simile caricatura del marxismo è l’articolo di P. Kievski, pubblicato sopra, che offre il primo tentativo di esposizione letteraria in qualche modo organica delle esitazioni di pensiero manifestatesi in alcuni circoli del nostro partito sin dall’inizio del 1915.

La diffusione dell’“economicismo imperialistico” tra i marxisti, che si sono schierati con energia contro il socialsciovinismo e per l’internazionalismo proletario nell’odierna grave crisi del socialismo, sarebbe un gravissimo colpo vibrato alla nostra tendenza (e al nostro partito), perché la comprometterebbe dall’interno, nel suo stesso seno, tramutandola nell’espressione di un marxismo caricaturale. Ed è quindi indispensabile soffermarsi con un’analisi circostanziata anche solo sui principali tra i numerosi errori contenuti nell’articolo di P. Kievski, pur se la cosa di per sé “non è affatto interessante”, pur se porta difilato ad una ripetizione oltremodo elementare di verità assolutamente elementari, che il lettore attento e riflessivo ha già da un pezzo imparato e capito, seguendo la nostra pubblicistica del 1914 e del 1915.

Cominciamo dal punto “centrale” del ragionamento di P. Kievski, per immettere di colpo il lettore nella “sostanza” della nuova tendenza dell’“economicismo imperialistico”.

 

1. La posizione del marxismo nei confronti delle guerre e della “difesa della patria”

P. Kievski è persuaso e vuole persuadere i lettori che il suo “dissenso” riguarda soltanto l’autodecisione delle nazioni, il paragrafo 9 del nostro programma di partito. E con molta stizza tenta di rigettare l’accusa di un radicale distacco dal marxismo in generale nella questione della democrazia, di un “tradimento” (le velenose virgolette sono di P. Kievski) del marxismo su qualche punto essenziale. Ma la sostanza è che, non appena il nostro autore si accinge a ragionare di un suo personale e singolo dissenso, adducendo argomenti, considerazioni, ecc., di colpo balza agli occhi che egli si allontana dal marxismo su tutta la linea. Si prenda il paragrafo b (parte seconda) dell’articolo di P. Kievski. “Questa rivendicazione [ossia l’autodecisione delle nazioni] conduce direttamente [!!] al socialpatriottismo”, dichiara il nostro autore e spiega che la parola d’ordine “proditoria” della difesa della patria è una conclusione “ricavata con pienissima [!] legittimità logica [!] dal diritto di autodecisione delle nazioni...”. L’autodecisione è, a suo giudizio, “la sanzione del tradimento dei socialpatrioti francesi e belgi, che difendono quest’indipendenza [l’indipendenza nazionale della Francia e del Belgio] con le armi in pugno; essi fanno quel che gli assertori dell’"autodecisione” si limitano a dichiarare...”, “La difesa della patria fa parte dell’arsenale dei nostri peggiori nemici...” “Noi ci rifiutiamo assolutamente di capire come si possa essere contemporaneamente contro la difesa della patria e per l’autodecisione, contro la patria e in suo favore.”

 Così scrive P. Kievski. Egli non ha capito affatto le nostre risoluzioni contro la parola d’ordine della difesa della patria nella guerra in corso. Bisogna prendere quello che, nero su bianco, è scritto in queste risoluzioni e spiegare ancora una volta il significato di un discorso russo molto chiaro.

La risoluzione del nostro partito, approvata alla conferenza di Berna nel marzo del 1915 e intitolata: Sulla parola d’ordine della “difesa della patria”, esordisce con le parole: “La sostanza reale della guerra in corso consiste” in questo e in quest’altro.

Il discorso verte sulla guerra in corso. Non ci si potrebbe esprimere più chiaramente in russo. Le parole “sostanza reale” mostrano che bisogna distinguere l’apparenza dalla realtà, l’esteriorità dall’essenza, la parola dalla cosa. Le frasi sulla difesa della patria nella guerra in corso spacciano ipocritamente per guerra nazionale la guerra imperialista degli anni 1911-1916, guerra combattuta per spartirsi le colonie, per impadronirsi di territori stranieri, ecc. Per non dare adito al minimo fraintendimento delle nostre posizioni, la risoluzione aggiunge un apposito capoverso sulle “guerre effettivamente nazionali” che “si svolsero specialmente [si badi, specialmente non significa esclusivamente!] tra il 1789 e il 1871”.

La risoluzione spiega che “a fondamento” di queste guerre “effettivamente” nazionali “vi fu una lunga successione di movimenti nazionali di massa, di lotte contro l’assolutismo e il feudalesimo, per l’abbattimento del giogo nazionale...”.[3]

Non è forse chiaro? Nell’attuale guerra imperialista, che è stata generata da tutte le condizioni dell’epoca imperialista, che non è nata cioè casualmente, come un’eccezione, come una deroga alla norma generale e tipica, le frasi sulla difesa della patria sono un inganno perpetrato ai danni del popolo, perché questa guerra non è nazionale. In una guerra effettivamente nazionale le parole “difesa della patria” non sono affatto un inganno, e noi non siamo contrari a questa guerra. Le guerre effettivamente nazionali si sono combattute “specialmente” nel periodo dal 1789 al 1871; la risoluzione poi, senza negarne minimamente la possibilità nel nostro tempo, chiarisce come distinguere una guerra effettivamente nazionale da una guerra imperialista travestita con parole d’ordine ingannevolmente nazionali. Ora, per distinguere, bisogna appunto esaminare se a loro “fondamento” vi è “una lunga successione di movimenti nazionali di massa”, per l’“abbattimento del giogo nazionale”. A proposito del “pacifismo” la risoluzione dichiara apertamente: “I socialdemocratici non possono negare l’importanza positiva delle guerre rivoluzionarie, vale a dire delle guerre non imperialiste, come, per esempio, [si badi: “per esempio”], le guerre condotte dal 1789 al 1871per abolire l’oppressione nazionale”.[4] Avrebbe potuto una risoluzione del nostro partito parlare nel 1915 di guerre nazionali, i cui esempi risalivano al periodo 1789-1871, e precisare che noi non neghiamo il valore positivo di queste guerre, se non le considerassimo possibili anche oggi? No di certo.

Il commento alle risoluzioni del nostro partito, ossia la loro spiegazione popolare, è fornito nell’opuscolo di Lenin e Zinoviev Il socialismo e la guerra. In quest’opuscolo, a pag. 5, è scritto, nero su bianco, che “i socialisti hanno riconosciuto e riconoscono oggi la legittimità, il carattere progressivo e giusto della “difesa della patria” o della guerra “difensiva”” solo nel senso della “liberazione dal giogo nazionale straniero”. Si cita un esempio: la Persia contro la Russia, “ecc.”, e si dice: “Queste guerre sarebbero “giuste” e “difensive” senza considerare chi abbia sparato per primo, e ogni socialista simpatizzerebbe per la vittoria degli Stati oppressi, dipendenti e privi di diritti, contro le “grandi” potenze schiaviste, che opprimono e depredano”.[5]

 

3. Cfr. La conferenza delle sezioni estere del POSDR, risoluzione La parola d’ordine della “difesa della patria”, in Lenin, Opere Complete vol. 21, ER 1966 pagg. 142-143.

4. Ibidem, pag. 145, Il pacifismo e la parola d’ordine della pace. 

5. Cfr. Il socialismo e la guerra, cap. I, Differenze tra guerra di aggressione guerra di difesa in Lenin, OC vol. 21, ER 1966 pagg. 274-275

 

L’opuscolo è uscito nell’agosto del 1915 ed è stato pubblicate in tedesco e in francese. P. Kievski lo conosce bene. Ma né Kievski né alcun altro ha mai avuto niente da obiettare contro la risoluzione sulla difesa della patria, contro la risoluzione sul pacifismo o contro l’interpretazione fornitane nell’opuscolo! E allora, ci si domanda, stiamo forse calunniando P. Kievski col dirgli che non ha capito affatto il marxismo, se quest’autore, che dal marzo del 1915 non ha obiettato mai niente contro la posizione del nostro partito a proposito della guerra, oggi, nell’agosto del 1916, in uno scritto sull’autodecisione, ossia su una questione particolare, rivela una strabiliante incomprensione del problema generale?

P. Kievski definisce “proditoria” la parola d’ordine della difesa della patria. Possiamo serenamente dichiarargli che ogni parola d’ordine è e sarà sempre “proditoria” per chi la ripeterà meccanicamente, senza meditare sulla sua essenza, limitandosi a citare le parole senza analizzarne il significato.

Che cos’è, in termini generali, la “difesa della patria”? È forse un concetto in qualche modo scientifico dell’economia, della politica, ecc.? No. È soltanto l’espressione più corrente, più usuale, talvolta più filistea [filisteo è termine di gergo, per indicare persone dalla mentalità gretta, meschina, retriva], per giustificare la guerra. Niente, assolutamente niente di più! Di “proditorio” può esservi qui solo il fatto che i filistei sono disposti a giustificare ogni guerra, dicendo “noi difendiamo la patria”, mentre invece il marxismo, che non si degrada nel filisteismo, impone sempre l’analisi storica di ogni singolo conflitto, per accertare se questa guerra è da ritenere progressiva, vantaggiosa per la democrazia o per il proletariato, e, in questo senso, legittima, giusta, ecc.

La parola d’ordine della difesa della patria, che è la giustificazione piattamente filistea e inconsapevole della guerra, rivela l’incapacità di determinare storicamente la portata e il significato di ogni singola guerra.

Il marxismo fornisce quest’analisi e dichiara: se la “sostanza reale” di una guerra consiste, per esempio, nell’abolizione del giogo straniero (il che è tipico specialmente per l’Europa del periodo 1789-1871), la guerra è progressiva per lo Stato o la nazione oppressa. Se la “sostanza reale” della guerra è la spartizione delle colonie, la divisione del bottino, il saccheggio delle terre straniere (come la guerra del 1914-1916), allora la parola d’ordine della difesa della patria è “un puro e semplice inganno del popolo”.

Come scoprire, come determinare la “sostanza reale” di una guerra? La guerra è la continuazione della politica. Bisogna studiare la politica che precede la guerra, la politica che porta e che ha portato alla guerra. Se la politica è stata imperialista, ha difeso cioè gli interessi del capitale finanziario, ha depredato e oppresso le colonie e gli altri paesi, la guerra che scaturisce da una simile politica è imperialista. Se la politica è stata una politica di liberazione nazionale, ha espresso cioè il movimento delle masse contro l’oppressione straniera, la guerra che ne deriva è una guerra di liberazione nazionale.

Il filisteo non capisce che la guerra è “la continuazione della politica” e quindi si limita a dire “il nemico attacca”, “il nemico invade il mio paese”, senza domandarsi per quale motivo si combatte la guerra, con quali classi, per quale fine politico. P. Kievski rimane sullo stesso piano del filisteo, quando dice che i tedeschi hanno invaso il Belgio e che  quindi, nel senso dell’autodecisione, “i socialpatrioti belgi hanno ragione”, oppure quando dice che i tedeschi hanno conquistato una parte della Francia e che quindi “Guesde può esser contento”, perché “si tratta di un territorio abitato dalla nazionalità interessata” (e non da una nazionalità straniera).

Per il filisteo l’importante è di sapere dove stanno gli eserciti, chi adesso ha la meglio. Per il marxista è invece essenziale il motivo per cui si combatte una guerra concreta, durante la quale possono risultare vittoriosi questi o quegli eserciti.

Per quale motivo si combatte la guerra in corso? È indicato nella nostra risoluzione (che si fonda sull’analisi della politica delle potenze belligeranti, politica da esse svolta per decenni prima della guerra). L’Inghilterra, la Francia e la Russia combattono per conservare le colonie già rapinate e per saccheggiare la Turchia, ecc.; la Germania combatte per toglier loro le colonie e depredare la Turchia, ecc. Ammettiamo che i tedeschi conquistino Parigi e Pietroburgo. Muterà per questo il carattere della guerra in corso? Nient’affatto. Il fine dei tedeschi - e, quel che più conta, la politica realizzata dai tedeschi dopo la vittoria - sarà la conquista delle colonie, il predominio in Turchia, l’annessione di territori stranieri, per esempio della Polonia, ecc., ma non certo l’imposizione di un giogo straniero sui francesi o sui russi. La sostanza reale di questa guerra non è nazionale, ma imperialista. In altri termini, la guerra non viene combattuta perché una parte rovescia il giogo straniero e l’altra lo difende. La guerra si svolge tra due gruppi di oppressori, tra due briganti, che bisticciano sul modo di spartirsi il bottino, per decidere chi dovrà saccheggiare la Turchia e le colonie.

In breve: la guerra tra le grandi potenze imperialiste (che opprimono cioè tutta una serie di popoli stranieri, che li avviluppano con le reti della soggezione al capitale finanziario, ecc.) o in alleanza con loro è una guerra imperialista. Di tal natura è la guerra del 1914-1916. La “difesa della patria” è in questa guerra un inganno, una sua giustificazione.

La guerra contro le potenze imperialiste, ossia contro i paesi oppressori, da parte dei paesi oppressi (per esempio, i popoli coloniali) è una guerra effettivamente nazionale. Una simile guerra è possibile anche oggi. La “difesa della patria” da parte della nazione oppressa contro la nazione che l’opprime non è un inganno e i socialisti non sono affatto contrari alla “difesa della patria” in questa guerra.

L’autodecisione delle nazioni non è altro che la lotta per la completa liberazione nazionale, per la completa indipendenza, contro le annessioni e i socialisti non possono, senza rinunciare a essere socialisti, sottrarsi a questa lotta, in tutte le sue forme, compresa l’insurrezione o la guerra.

P. Kievski crede di polemizzare con Plekhanov: ma proprio Plekhanov ha indicato il nesso tra l’autodecisione delle nazioni e la difesa della patria! P. Kievski ha prestato fede a Plekhanov e ritiene che questo nesso sia realmente quale egli lo ha delineato. Ma, dopo aver creduto a Plekhanov, Kievski si è spaventato e ha deciso che bisogna negare l’autodecisione per sottrarsi alle conclusioni di Plekhanov... La sua fiducia in Plekhanov è grande, e anche lo spavento è grande, ma di riflessioni intorno alla natura dell’errore di Plekhanov non si rinviene in lui la minima traccia!

Per spacciare la presente guerra come una guerra nazionale i socialsciovinisti si richiamano all’autodecisione delle nazioni. Contro di loro vi è un’unica lotta giusta: bisogna dimostrare che la guerra in corso non si combatte per emancipare le nazioni, ma per stabilire quale dei grandi briganti debba opprimere più nazioni. Giungere a negare la guerra, condotta realmente per liberare le nazioni, significa fornire la peggiore caricatura del marxismo. Plekhanov e i socialsciovinisti di Francia si richiamano alla repubblica francese per giustificarne la “difesa” contro la monarchia tedesca. Se ragionassimo come P. Kievski, dovremmo essere contro la repubblica oppure contro una guerra realmente  condotta per difendere la repubblica! I socialsciovinisti tedeschi si richiamano al suffragio universale e all’istruzione generale obbligatoria in Germania per giustificare la “difesa” del loro paese contro lo zarismo. Se ragionassimo come Kievski, dovremmo essere contro il suffragio universale e l’istruzione generale obbligatoria oppure contro una guerra realmente condotta per proteggere da ogni attentato la libertà politica!

Prima della guerra 1914-1916 K. Kautsky era una marxista e a lui si deve tutta una serie di testi e dichiarazioni molto importanti, che saranno sempre un modello di marxismo. Il 26 agosto 1910 Kautsky così scriveva, nella Neue Zeit, a proposito della guerra imminente:

“In una guerra tra la Germania e l’Inghilterra non è in causa la democrazia, ma la supremazia mondiale, cioè lo sfruttamento del mondo. Non è questa una questione per la quale i socialdemocratici dovrebbero schierarsi con gli sfruttatori della propria nazione” (Neue Zeit, anno 28, n. 2, pag. 776).

Ecco un’ottima formulazione marxista, che coincide appieno con le nostre, che smaschera l’odierno Kautsky passato dal marxismo alla difesa del socialsciovinismo, che illustra con assoluta chiarezza i fondamenti della posizione marxista verso le guerre (ritorneremo ancora, nella stampa, su questa formulazione). Le guerre sono la continuazione della politica; e quindi, se si sviluppa la lotta per la democrazia, è possibile anche una guerra per la democrazia; l’autodecisione delle nazioni è solo una delle rivendicazioni democratiche e, in linea di principio, non si distingue affatto dalle altre. La “supremazia mondiale” è, in sintesi, il contenuto della politica imperialista, che viene continuata dalla guerra imperialista. Negare la “difesa della patria”, cioè la partecipazione a una guerra democratica, è un’assurdità che non ha niente da spartire con il marxismo. Abbellire la guerra imperialista, applicandole la nozione di “difesa della patria”, spacciandola cioè per una guerra democratica, significa ingannare gli operai e passare dalla parte della borghesia reazionaria.

 

 2. La nostra interpretazione della nuova epoca”

 P. Kievski, a cui spetta la paternità dell’espressione messa tra virgolette nel sottotitolo, parla continuamente di “nuova epoca”. Purtroppo, anche in questo caso i suoi ragionamenti sono sbagliati.

Le risoluzioni del nostro partito si riferiscono alla guerra presente, prodotta dalle condizioni generali dell’epoca imperialista. La correlazione tra l’“epoca” e la “guerra in corso” è da noi individuata correttamente dal punto di vista del marxismo: per essere marxisti, bisogna valutare ogni singola guerra in concreto. Per capire perché mai tra le grandi potenze, molte delle quali furono tra il 1789 e il 1871 alla testa della lotta per la democrazia, è potuta e dovuta scoppiare una guerra imperialista, cioè assolutamente reazionaria e antidemocratica per il suo contenuto politico, bisogna anzitutto intendere le condizioni generali dell’epoca imperialista, cioè la trasformazione del capitalismo dei paesi più progrediti in imperialismo.

P. Kievski ha travisato completamente la correlazione tra l’“epoca” e la “guerra in corso”. Dal suo testo risulta che parlare in concreto vuol dire parlare di “epoca”! Ma questo è profondamente sbagliato!

L’epoca che va dal 1789 al 1871 è un’epoca particolare per l’Europa. È questo un dato innegabile. Non si riesce a capire neanche una delle guerre di liberazione nazionale, che sono state tipiche di questo periodo, se non si intendono le condizioni generali dell’epoca. Ma si vuole con ciò significare che tutte le guerre di quest’epoca sono state guerre di liberazione nazionale? No di certo. Dir questo significherebbe cadere nell’assurdo e sostituire all’analisi concreta di ogni singola guerra un ridicolo schema. Nel periodo dal 1789 al 1871 vi sono state anche guerre coloniali e guerre tra imperi reazionari, che opprimevano numerose nazioni straniere.

 Ci si domanda: dal fatto che il capitalismo evoluto d’Europa (e d’America) è entrato nella nuova epoca dell’imperialismo deriva forse che le sole guerre possibili oggi sono le guerre imperialiste? Si tratterebbe di un’affermazione assurda, che rivelerebbe l’incapacità di discernere un dato fenomeno concreto nell’insieme dei fenomeni più disparati di quest’epoca. Un’epoca è tale appunto perché abbraccia un complesso di guerre e fenomeni molto eterogenei, tipici e non tipici, piccoli e grandi, propri dei paesi progrediti e caratteristici dei paesi arretrati. Eludere queste questioni concrete mediante alcune frasi generiche sull’“epoca”, come fa P. Kievski, significa abusare del concetto di “epoca”. Riportiamo un solo esempio, tra i molti, per non formulare asserzioni gratuite. Ma bisogna anzitutto rammentare che un solo gruppo di sinistra, il gruppo tedesco “International”,[6] ha enunciato nel paragrafo 5 delle sue tesi, pubblicate nel n. 3 del Bollettino della commissione esecutiva di Berna (29 febbraio 1916), un’affermazione palesemente sbagliata: “In quest’epoca di imperialismo sfrenato non possono più esservi guerre nazionali”. Abbiamo già analizzato quest’affermazione nello Sbornik Sotsialdemokrata.[7] Qui ci limitiamo a osservare che questa tesi teorica (contro cui ci siamo già battuti nella sessione allargata della commissione esecutiva di Berna nella primavera del 1916), benché sia nota da un pezzo a chi si interessa al movimento internazionalista, non è stata ancora ripetuta o accolta da nessun gruppo. E P. Kievski, quando ha scritto il suo articolo, nell’agosto dei 1916, non ha detto niente che richiamasse questa o una analoga asserzione.

È necessario formulare tale rilievo perché, se questa tesi teorica o una affine fosse stata enunciata, allora si sarebbe potuto parlare di un dissenso teorico. Ma, poiché nessuno l’ha mai esposta, siamo costretti a dichiarare che non siamo in presenza di una diversa interpretazione dell’“epoca”, di un dissenso teorico, ma solo di una frase gettata lì a casaccio, di un abuso del termine “epoca”.

 

6. Il gruppo “International” fu costituito all’inizio della prima guerra mondiale dai socialdemocratici tedeschi di sinistra K. Liebnecht, Rosa Luxemburg, F. Mehring, C. Zetkin e altri. Nell’aprile del 1915 la Luxemburg e Mehring fondarono la rivista Die Internationale, attorno a cui si riunì il nucleo dei socialdemocratici tedeschi di sinistra. Come piattaforma il gruppo accettò nel 1916 le tesi redatte da R. Luxemburg con la collaborazione di K. Liebnecht, F. Mehring e C. Zetkin. Dal 1916 il gruppo pubblicò 1e Lettere politiche (che uscirono regolarmente fino all’ottobre 1918) a firma Spartaco (da qui la sua denominazione come gruppo “Spartaco”). Gli “spartachisti” svolsero propaganda rivoluzionaria contro la guerra e organizzarono azioni di massa, scioperi, manifestazioni, denunciando il carattere imperialista della guerra e il tradimento dei capi opportunisti della socialdemocrazia. Come ebbe a scrivere Lenin, che polemizzò con il gruppo “International” su alcune questioni (guerre di liberazione nazionale nell’epoca dell’imperialismo, trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, funzione del partito come avanguardia della classe operaia, ecc.), questo gruppo, conducendo una “propaganda rivoluzionaria sistematica nelle condizioni più difficili, ha salvato l’onore del socialismo e del proletariato tedesco”.

Nell’aprile 1917 gli spartachisti entrarono nel partito socialdemocratico indipendente di Germania, di tendenza centrista, ma se ne separarono nel novembre 1918 e il 10 gennaio 1919 fondarono il Partito comunista di Germania.

 

7. Nell’articolo A proposito dell’opuscolo di Junius in Lenin, OC vol. 22, ER 1966 pagg. 304-318.

 

Esempio: “Non somiglia essa [l’autodecisione] - scrive P. Kievski all’inizio del suo articolo - al diritto di ottenere gratuitamente diecimila ettari di terra su Marte? Per rispondere a questa domanda bisogna essere assolutamente concreti, tener conto cioè di tutta l’epoca attuale: una cosa è il diritto di autodecisione delle nazioni nell’epoca della formazione degli Stati nazionali, come migliore forma di espansione delle forze produttive in quel periodo; un’altra cosa è il diritto di autodecisione quando queste forme, le forme dello Stato nazionale, sono divenute un intralcio all’espansione delle forze produttive. Tra l’epoca dell’affermazione del capitalismo e dello Stato nazionale e l’epoca che vede deperire lo Stato nazionale e prelude al tramonto dello stesso capitalismo la distanza è davvero enorme. Parlare “in generale”, fuori del tempo e dello spazio, non è compito del marxista”.

 Questo ragionamento è un modello di abuso caricaturale del concetto di “epoca imperialista”. Appunto perché questo concetto è nuovo e importante, bisogna lottare contro la sua caricatura! A quali paesi si pensa quando si dice che le forme dello Stato nazionale sono divenute un intralcio, ecc.? Si pensa anzitutto ai paesi capitalisti evoluti, alla Germania, alla Francia, all’Inghilterra, la cui partecipazione alla guerra in corso ha caratterizzato la guerra come imperialista. In questi paesi, che hanno sinora fatto progredire l’umanità, soprattutto nel periodo dal 1789 al 1871, il processo di formazione dello Stato nazionale si è concluso; in questi paesi il movimento nazionale è l’irrevocabile passato, che sarebbe un’assurda utopia reazionaria richiamare in vita. Il movimento nazionale dei francesi, degli inglesi, dei tedeschi è già finito da un pezzo: il momento storico si presenta qui diverso: le nazioni emancipatesi si sono trasformate in paesi oppressori, in nazioni che praticano la rapina imperialista e vivono alla vigilia del “tramonto del capitalismo”.

E le altre nazioni?

P. Kievski ripete, come una regola mandata a memoria, che i marxisti devono ragionare “concretamente”, ma non applica mai tale criterio. Noi abbiamo fornito di proposito nelle nostre tesi un modello di risposta concreta e P. Kievski non avrebbe esitato a segnalarci il nostro errore, se ne avesse scoperto uno.

Nelle nostre tesi (paragrafo 6) si dice che, per esser concreti, bisogna distinguere almeno tre diversi tipi di paesi in rapporto alla questione dell’autodecisione. (È chiaro che sarebbe stato impossibile, in tesi di ordine generale, parlare di ogni singolo paese.) Il primo tipo sono i paesi progrediti dell’Europa occidentale (e dell’America), dove il movimento nazionale rappresenta il passato. Il secondo tipo è l’Europa orientale, dove esso è il presente. Il terzo tipo sono le colonie e le semicolonie, dove esso è in larga misura l’avvenire”.[8]

 

8. La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione, in Lenin, OC vol. 22, ER 1966 pagg. 147-160.

 

È corretta o sbagliata questa tesi? P. Kievski avrebbe dovuto concentrare qui la sua critica. Ma l’autore neppure s’avvede dove stanno le questioni teoriche! Non capisce che, fino a quando non avrà confutato quest’affermazione (paragrafo 6) delle nostre tesi, - ed è impossibile confutarla perché è giusta, - i suoi ragionamenti sull’“epoca” ricordano un duellante che “brandisce” la spada senza mandare a segno un sol colpo.

“In antitesi all’opinione di V. Ilin - egli scrive a conclusione del suo articolo - noi pensiamo che per la maggior parte [!] dei paesi occidentali [!] la questione nazionale non è ancora risolta...”

Ma allora non è vero che il movimento nazionale dei francesi, degli spagnoli, degli inglesi, degli olandesi, dei tedeschi, degli italiani si è concluso nei secoli XVII, XVIII e XIX, se non prima? All’inizio dell’articolo, il concetto di “epoca dell’imperialismo” è travisato nel senso che il movimento nazionale si sarebbe concluso dappertutto e non solo nei paesi progrediti dell’Occidente. Nella chiusa dello scritto la “questione nazionale” viene dichiarata “non risolta” proprio nei paesi occidentali!! Non è questa una gran confusione?

Nei paesi occidentali il movimento nazionale è ormai il passato remoto. In Inghilterra, in Francia, in Germania, ecc. la “patria” ha ormai cantato il canto del cigno, ha ormai assolto la sua funzione storica, come dire che il movimento nazionale non può più recare qui niente di progressista, che elevi a una nuova vita economica e politica nuove masse di uomini. Qui, all’ordine del giorno della storia, non si pone il trapasso dal feudalesimo o dalla barbarie patriarcale al progresso nazionale, alla patria civile e politicamente libera, ma il passaggio dalla “patria” capitalisticamente stramatura al socialismo. In Europa orientale le cose stanno altrimenti. Per gli ucraini e i bielorussi, per esempio, solo chi vive con  la testa su Marte potrebbe negare che il movimento nazionale è ancora incompiuto, che il risveglio delle masse per la conquista di una propria lingua e letteratura (che è l’indispensabile premessa e il portato del completo sviluppo del capitalismo, della completa penetrazione dello scambio sino all’ultima famiglia contadina) è ancora in via di compimento. Qui, la “patria” non ha cantato ancora il suo storico canto del cigno. Qui, la “difesa della patria” può essere ancora la difesa della democrazia, della propria lingua, della libertà politica, contro i paesi oppressori, contro il medioevo, mentre gli inglesi, i francesi, i tedeschi e gli italiani mentono oggi quando dicono che nella guerra in corso difendono la loro patria, poiché di fatto essi non difendono la loro lingua, la libertà del loro sviluppo nazionale, ma solo i propri diritti schiavisti, le proprie colonie, le “sfere d’influenza” del proprio capitale finanziario in terra straniera, ecc.

Nelle semicolonie e nelle colonie il movimento nazionale è storicamente ancora più giovane che nell’Oriente europeo.

P. Kievski non ha capito affatto a che cosa si riferiscono le parole sui “paesi molto evoluti” e sull’epoca imperialista; in che cosa consiste la “singolare” posizione della Russia (titolo del paragrafo e nel secondo capitolo dello scritto di P. Kievski) e non della sola Russia; dove il movimento di liberazione nazionale è soltanto una formula ipocrita e dove invece è una realtà viva e progressiva.

 

 3. Che cos’è l’analisi economica?

Il nodo dei ragionamenti degli avversari dell’autodecisione è il richiamo alla sua “irrealizzabilità” nel mondo capitalista in genere o in regime di imperialismo. Il termine di “irrealizzabilità” viene spesso usato in accezioni varie e inesattamente definite. Quindi nelle nostre tesi abbiamo rivendicato quel che è indispensabile in ogni discussione teorica: che si specificasse cioè che cosa si intende per “irrealizzabilità”. E, senza limitarci a porre l’interrogativo, abbiamo abbozzato una risposta. Nel senso della difficoltà o impossibilità di realizzazione sul piano politico, senza una serie di rivoluzioni, tutte le rivendicazioni della democrazia sono “irrealizzabili” nell’epoca dell’imperialismo.

Ma è radicalmente sbagliato parlare di irrealizzabilità dell’autodecisione nel senso dell’impossibilità economica.

È questa la nostra posizione. Sta qui il nodo del dissenso teorico e in una discussione in qualche misura seria i nostri avversari dovrebbero concentrare il loro interesse su questo problema. Si consideri come ragiona in proposito P. Kievski.

Egli respinge nettamente l’interpretazione dell’irrealizzabilità nel senso della “difficoltà di realizzazione” per motivi politici. E risponde all’interrogativo richiamandosi direttamente all’impossibilità economica.

“Vuol dire - egli si domanda - che l’autodecisione è nell’epoca dell’imperialismo altrettanto irrealizzabile quanto il denaro-lavoro nell’epoca della produzione di merci?” E risponde: “Sì, proprio così! Noi infatti parliamo di contraddizione logica tra due categorie sociali: l’"imperialismo” e l’“autodecisione delle nazioni”, della stessa contraddizione logica che corre tra due altre categorie: il denaro-lavoro e la produzione di merci. L’imperialismo è la negazione dell’autodecisione, e nessun prestigiatore riuscirà a conciliare l’autodecisione con l’imperialismo”.

Per quanto sia terribile lo stizzoso termine di “prestigiatori” che P. Kievski ci elargisce, dobbiamo tuttavia far rilevare al nostro autore che egli non capisce affatto che cosa significhi analisi economica. La “contraddizione logica” - a patto, beninteso, che si tratti di un pensiero logico corretto - non deve prodursi nell’analisi economica in quella politica. E quindi a nulla approda il rimando alla “contraddizione logica” in generale, quando si tratta di fornire un’analisi economica e non politica. Nelle “categorie sociali” rientra sia l’economia che la politica. E quindi P. Kievski, rispondendo subito con energia e nettezza: “Sì, proprio così” (ossia l’autodecisione è altrettanto irrealizzabile quanto il  denaro-lavoro con la produzione di merci), non fa in realtà che girare intorno alla questione, senza fornire un’analisi economica.

In che modo si dimostra che il denaro-lavoro è irrealizzabile con la produzione di merci? Mediante l’analisi economica. Questa analisi, che, come ogni analisi, non tollera “contraddizioni logiche”, si avvale di categorie economiche e soltanto economiche (non “sociali” in generale), e da esse deriva che il denaro-lavoro è irrealizzabile. Nel primo capitolo di Il capitale non si fa questione né di politica né di forme politiche né di “categorie sociali”: l’analisi riguarda solo l’economia, lo scambio delle merci, lo sviluppo dello scambio delle merci. L’analisi economica dimostra (beninteso, per mezzo di ragionamenti “logici”) che il denaro-lavoro è irrealizzabile con la produzione di merci [incompatibile con la produzione di merci].[9]

 

9. Le due categorie (“produzione di merci” e “denaro-lavoro”), come definite nell’analisi marxista, sono incompatibili, si escludono a vicenda. Produzione di merci è produzione compiuta da produttori reciprocamente indipendenti e indifferenti l’uno verso l’altro. Ognuno di loro scambia il suo prodotto con quello (di qualità diversa) di un altro produttore e le quantità scambiate sono tali che ognuno dei due trova conveniente scambiare: su questa base avviene lo scambio. Nella sua analisi della produzione mercantile Marx conclude che mediamente (cioè considerando un gran numero di atti di scambio) le quantità scambiate corrispondono a un eguale tempo di lavoro socialmente (quindi prescindendo dalle caratteristiche particolari dei singoli produttori di quel tipo particolare di prodotto) necessario per produrle. Marx chiama valore questa quantità di tempo di lavoro. I sostenitori della teoria del valore-lavoro (il più celebre fu Pierre-Joseph Proudhon 1809-1865: Marx polemizzò direttamente molto con Proudhon, lo scritto più noto è Miseria della filosofia. Ma la critica della teoria del valore-lavoro è svolta in dettaglio da Marx nel cap. II dei Grundrisse in Mrax-Engels, OC vol. 29, ER 1986 pagg. 47-169, in particolare pagg. 85-105) proponevano e credevano possibile introdurre la vendita di merci contro biglietti orari: biglietti di banca ognuno rappresentativo di un dato tempo, es. un biglietto di un’ora. Quindi il tempo di lavoro era anche direttamente denaro, donde l’espressione denaro-lavoro. Ogni produttore avrebbe ceduto una data quantità del suo prodotto contro biglietti di un ammontare d’ore eguale a quello che lui aveva impiegato. Marx ha buon gioco a mostrare che un simile sistema implicava e presupponeva un comportamento e una organizzazione dei produttori che erano l’esatto contrario della indipendenza e indifferenza reciproca implicita nella produzione mercantile.

 

P. Kievski non fa nemmeno il tentativo di accostarsi a un’analisi economica! Egli confonde l’essenza economica dell’imperialismo con le sue tendenze politiche, come balza evidente dal primo capoverso del primo paragrafo del suo articolo. Eccolo:

“Il capitale industriale è stato la sintesi della produzione precapitalistica e del capitale commerciale-usurario. Il capitale usurario si è posto al servizio di quello industriale. Attualmente, il capitalismo supera le varie forme di capitale; nasce così un tipo superiore, unificato di capitale, il capitale finanziario; e quindi tutta l’epoca può chiamarsi epoca del capitale finanziario, di cui l’imperialismo è il sistema corrispondente in politica estera”.

Sul piano economico questa definizione non vale un bel niente: alle categorie economiche rigorose sono qui sostituite semplici frasi. Ma non possiamo per il momento indugiare su questo punto. L’essenziale è che P. Kievski ravvisa nell’imperialismo un “sistema di politica estera”.

Si tratta, anzitutto, della ripetizione sostanzialmente sbagliata di un’idea sbagliata di Kautsky.

Si tratta, inoltre, di una definizione puramente ed esclusivamente politica dell’imperialismo. Definendo l’imperialismo come un “sistema di politica estera”, P. Kievski cerca di eludere l’analisi economica, che egli ha promesso dicendo che l’autodecisione è altrettanto” irrealizzabile, ossia economicamente irrealizzabile, nell’epoca dell’imperialismo, quanto il denaro-lavoro con la produzione di merci!

Kautsky, in polemica con la sinistra, ha sostenuto che l’imperialismo è “soltanto un sistema di politica estera” (e, più esattamente, di annessioni) e che è impossibile definirlo una fase economica determinata, un grado di sviluppo, del capitalismo.

Kautsky ha torto. È evidentemente sciocco discutere sulle “parole”. Non si può vietare che si usi il “termine” di imperialismo in questa o quella accezione. Ma bisogna chiarirne puntualmente il concetto, se si vuole intavolare una discussione.

 Sul piano economico, l’imperialismo (o “epoca” del capitale finanziario, non è questione di parole) è la suprema fase di sviluppo del capitalismo, quella fase in cui la produzione ha assunto proporzioni tali che il monopolio sostituisce la libera concorrenza. È questa la sostanza economica dell’imperialismo. Il monopolio si manifesta nei trusts, nei cartelli, ecc., nell’onnipotenza di banche gigantesche, nell’accaparramento delle fonti di materie prime, ecc., nella concentrazione del capitale bancario, ecc. Tutto consiste nel monopolio economico.

La sovrastruttura politica di questa nuova economia, del capitalismo monopolistico (l’imperialismo è capitalismo monopolistico), consiste nel trapasso dalla democrazia alla reazione politica. Alla libera concorrenza corrisponde la democrazia. Al monopolio corrisponde la reazione politica. “Il capitale finanziario aspira alla supremazia e non alla libertà”, dice giustamente R. Hilferding nel suo Capitale finanziario.

Isolare la “politica estera” dalla politica in generale o, peggio, contrapporre la politica estera a quella interna significa enunciare una idea radicalmente sbagliata, non marxista, non scientifica. Tanto nella politica estera quanto in quella interna l’imperialismo tende a violare la democrazia, tende alla reazione. In questo senso, è incontestabile che l’imperialismo è “negazione” della democrazia in generale, di tutta la democrazia, e non già solo di una sua rivendicazione: l’autodecisione delle nazioni.

Essendo “negazione” della democrazia, l’imperialismo “nega” allo stesso modo la democrazia nella questione nazionale (ossia l’auto-decisione delle nazioni): “allo stesso modo”, tende cioè a violarla. L’autodecisione è più difficile da realizzare nell’epoca dell’imperialismo, esattamente nella stessa misura e nello stesso senso in cui sono difficili da realizzare in quest’epoca (rispetto a quella del capitalismo premonopolistico) la repubblica, la milizia, l’elezione dei funzionari da parte del popolo, ecc. Non si può quindi parlare di irrealizzabilità “economica”.

P. Kievski (a parte la sua generale incomprensione delle esigenze dell’analisi economica) è stato forse tratto in errore anche dalla circostanza che, per i filistei, l’annessione (ossia l’incorporamento di un territorio straniero, nonostante la volontà dei suoi abitanti, ossia la violazione dell’autodecisione delle nazioni) è l’equivalente dell’“allargamento” (espansione) del capitale finanziario su un territorio economico più esteso.

Ma non si possono affrontare le questioni teoriche con i criteri del filisteismo.

L’imperialismo è, sul piano economico, il capitalismo monopolistico. Perché il monopolio sia completo, bisogna espellere i concorrenti non solo dal mercato interno (dal mercato di un dato paese), ma anche da quello estero, da tutto il mondo. Esiste, “nell’epoca del capitale finanziario”, la possibilità economica di soppiantare la concorrenza anche in uno Stato straniero? Non v’è dubbio che tale mezzo esiste: è la soggezione finanziaria e l’accaparramento delle fonti di materie prime, nonché in seguito di tutte le aziende, del concorrente.

I trusts americani sono l’espressione suprema dell’economia imperialista o del capitalismo monopolistico. Per eliminare i concorrenti, i trusts non si accontentano dei soli mezzi economici, ma ricorrono di continuo a mezzi politici e persino a quelli criminali. Ma sarebbe un gravissimo errore ritenere economicamente irrealizzabile il monopolio dei trusts con mezzi di lotta puramente economici. Viceversa, la realtà mostra ad ogni passo che la cosa è del tutto “realizzabile”:[10] i trusts minano il credito dei concorrenti attraverso la mediazione delle banche (i padroni dei trusts sono padroni delle banche: se ne accaparrano le azioni); i trusts sabotano i trasporti delle materie prime destinate ai concorrenti (i padroni dei trusts sono padroni delle ferrovie: ne accaparrano le azioni); i trusts riducono temporaneamente i prezzi al di sotto del costo di produzione, sacrificando milioni, per sgominare i concorrenti e accaparrarne le aziende, le fonti di materie prime (miniere, terra, ecc.).

 

10. Nella versione degli Editori Riuniti 1965 al termine della frase vi è “irrealizzabile” invece di “realizzabile”, ma è evidentemente un refuso. Infatti nella traduzione inglese questo passaggio del testo di Lenin è: It would be the greatest mistake, however, to believe  that the trusts cannot establish their monopoly by purely economic methods. Reality provides ample proof that this is “achievable”: the trusts undermine their rivals’ credit through the banks (the owners of the trusts become the owners of the banks: buying up shares); their supply of materials (the owners of the trusts become the owners of the railways: buying up shares); for a certain time the trusts sell below cost, spending millions on this in order to ruin a competitor and then buy up his enterprises, his sources of raw materials (mines, land, etc.).

 

Ecco un’analisi puramente economica del potere dei trusts e della loro espansione. Ecco una strada puramente economica per l’espansione: l’accaparramento delle aziende, degli stabilimenti, delle fonti di materie prime.

Il grande capitale finanziario di un paese può sempre soppiantare i suoi concorrenti, persino se appartengono ad un paese straniero politicamente indipendente, e in realtà li soppianta sempre. Si tratta di un mezzo economico pienamente applicabile. L’“annessione” economica è pienamente “realizzabile” senza annessione politica, e si verifica di continuo. Nella letteratura sull’imperialismo si trovano a ogni passo indicazioni come: l’Argentina è di fatto una “colonia commerciale” dell’Inghilterra; il Portogallo è di fatto un “vassallo” dell’Inghilterra, ecc. È vero: la soggezione economica alle banche inglesi, l’indebitamento nei confronti dell’Inghilterra, l’accaparramento da parte inglese delle ferrovie, delle terre, delle miniere, ecc. trasformano questi paesi in “annessioni” economiche dell’Inghilterra, senza che risulti violata la loro indipendenza politica.

Si chiama autodecisione delle nazioni la loro indipendenza politica. L’imperialismo aspira a distruggerla, perché con l’annessione politica quella economica è spesso più agevole, meno costosa (è più facile corrompere i funzionari, ottenere concessioni, far promulgare una legge vantaggiosa, ecc.), meno complicata e più tranquilla; allo stesso modo l’imperialismo tende a sostituire la democrazia in genere con l’oligarchia. Ma parlare di “irrealizzabilità” economica dell’autodecisione nell’epoca dell’imperialismo è semplicemente assurdo!

P. Kievski elude le difficoltà teoriche ricorrendo a un metodo oltremodo semplice e superficiale, che in tedesco si chiama linguaggio “da Bursche”, ossia studentescamente semplicistico, grossolano, usuale (e naturale) nell’ambiente della gozzoviglia studentesca. Eccone un esempio: “Il suffragio universale, - egli scrive, - la giornata lavorativa di otto ore, persino la repubblica sono logicamente compatibili con l’imperialismo, benché non gli sorridano [!] e sia quindi molto difficile realizzarli”.

Non avremmo assolutamente niente contro questa espressione da Bursche: la repubblica non “sorride” all’imperialismo (una locuzione allegra può rendere talora più attraenti le discipline scientifiche!), se oltre ad essa, in un ragionamento su una questione seria, vi fosse anche l’analisi economica e politica. In P. Kievski la locuzione studentesca sostituisce l’analisi, ne maschera l’assenza.

Che vuol dire: “La repubblica non sorride all’imperialismo”? E perché questo accade?

La repubblica è una delle forme possibili di sovrastruttura politica della società capitalista e, per giunta, è la forma più democratica nelle presenti condizioni. Dire che la repubblica “non sorride” all’imperialismo significa affermare che esiste una contraddizione tra l’imperialismo e la democrazia. È assai probabile che la nostra conclusione “non sorrida”, e anzi “non sorrida affatto”, a P. Kievski, e tuttavia è incontestabile.

Ancora. Di che natura è la contraddizione tra l’imperialismo e la democrazia? È di natura logica o non logica? P. Kievski usa senza riflettere l’avverbio “logicamente” e non s’avvede quindi che tale parola gli serve, in concreto, per occultare (agli occhi e alla mente del lettore, nonché a quelli dell’autore) proprio la questione intorno a cui si è accinto a dissertare. È la questione dei rapporti tra economia e politica, la questione dei rapporti tra le condizioni economiche e il contenuto economico dell’imperialismo, da un lato, e una determinata forma politica, dall’altro. Ogni “contraddizione” che venga accertata nei ragionamenti umani è una contraddizione logica: questa è una pura tautologia. E con questa tautologia P. Kievski elude la sostanza del problema: si tratta di una contraddizione “logica” 1) tra due  fenomeni o tesi economiche? 2) tra due fenomeni o tesi politiche? 3) tra due termini, uno dei quali è economico e l’altro politico?

Ecco dove sta il nocciolo del problema, una volta che si è posta la questione dell’irrealizzabilità economica di una determinata forma politica.

Se P. Kievski non avesse eluso questa sostanza, avrebbe probabilmente notato che la contraddizione tra l’imperialismo e la repubblica è una contraddizione tra l’economia del capitalismo contemporaneo (ossia del capitalismo monopolistico) e la democrazia politica in generale. Egli infatti non potrà mai dimostrare che una grande e radicale istanza democratica (elezione dei funzionari o degli ufficiali da parte del popolo, completa libertà di associazione e di riunione, ecc.) contraddica all’imperialismo meno (o, se si vuole, gli “sorrida” di più) della repubblica.

Si ricava così la formulazione, sulla quale abbiamo insistito nelle nostre tesi: l’imperialismo contraddice, contraddice “logicamente”, a tutto il complesso della democrazia politica. A P. Kievski questa nostra tesi “non sorride”, perché demolisce la sua illogica costruzione, ma che farci? Si può forse tollerare che qualcuno, facendo mostra di respingere determinate tesi, cerchi di spacciarle di soppiatto con la frase: “La repubblica non sorride all’imperialismo”?

Ancora. Perché mai la repubblica non sorride all’Imperialismo?

E come può l’imperialismo “conciliare” la sua economia con la repubblica?

P. Kievski non ha meditato su questo punto. Gli rammentiamo le seguenti parole di Engels. Il discorso verte sulla repubblica democratica. E la questione si pone a questo modo: può la ricchezza predominare sotto tale forma di governo? È qui in causa il problema delle “contraddizioni” tra economia e politica.

Engels risponde: “...la repubblica democratica non conosce più affatto ufficialmente le differenze di possesso” (tra i cittadini). “In essa la ricchezza esercita il suo potere indirettamente, ma in maniera tanto più sicura. Da una parte nella forma della corruzione diretta dei funzionari, della quale l’America è il modello classico, dall’altra nella forma dell’alleanza tra governo e Borsa...”.[11]

Ecco un modello di analisi economica sul problema della “realizzabilità” della democrazia in regime capitalistico, problema di cui quello della “realizzabilità” dell’autodecisione nell’epoca dell’imperialismo è solo un aspetto particolare.

La repubblica democratica contraddice “logicamente” al capitalismo, perché “ufficialmente” eguaglia il ricco e il povero. È questa una contraddizione tra la struttura economica e la sovrastruttura politica. Nel mondo imperialista si ha la stessa contraddizione, approfondita o aggravata dal fatto che la sostituzione della libera concorrenza con il monopolio rende ancor più “difficile” la realizzazione di tutte le libertà politiche.

 

11. Friedrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884).

 

Come si concilia il capitalismo con la democrazia? Mediante la realizzazione pratica indiretta dell’onnipotenza del capitale! I mezzi economici sono due: 1. la corruzione diretta; 2. l’alleanza del governo con la Borsa. (Nelle nostre tesi questo concetto è espresso dove si dice che in regime borghese il capitale finanziario “comprerà e corromperà “liberamente” il più libero dei governi democratici e repubblicani e i funzionari elettivi di qualsiasi paese”.)

Là dove dominano la produzione mercantile, la borghesia e il potere del denaro, la corruzione (diretta o attraverso la Borsa) è “realizzabile” sotto ogni forma di governo, in ogni democrazia.

Ci si domanda che cosa cambia, sotto questo riguardo, allorché il capitalismo viene sostituito dall’imperialismo cioè quando al capitalismo premonopolistico subentri il capitalismo monopolistico.

L’unico cambiamento è che il potere della Borsa si espande! Il capitale finanziario è infatti il capitale industriale  ingigantito, che ha assunto le dimensioni del monopolio, che si è fuso con il capitale bancario. Le grandi banche si fondono con la Borsa, assorbendola. (Nella letteratura sull’imperialismo si parla di decadenza della funzione della Borsa, ma solo nel senso che ogni grande banca è essa stessa una Borsa.)

Ancora. Se per la “ricchezza” in generale risulta pienamente realizzabile il suo predominio in ogni repubblica democratica mediante la corruzione e la Borsa, in qual modo può P. Kievski sostenere, senza cadere in una spassosa “contraddizione logica”, che la maggiore ricchezza dei trusts e delle banche, che maneggiano miliardi, non può “realizzare” il potere del capitale finanziario su una repubblica straniera, ossia politicamente indipendente?

La corruzione dei funzionari è forse “irrealizzabile” in uno Stato straniero? Oppure 1’“alleanza del governo con la Borsa” riguarda soltanto il proprio governo?

Il lettore può già vedere come, per districare e chiarire, siano occorse dieci pagine contro dieci righe di confusione. Non possiamo quindi analizzare in modo altrettanto minuzioso ogni singolo ragionamento di P. Kievski (non ce n’è uno, letteralmente uno, che non sia confuso!), e del resto non è nemmeno necessario, dal momento che si è chiarito l’essenziale. Su tutto il resto basterà un breve commento.

 

4. L’esempio della Norvegia

 La Norvegia ha “realizzato” nel 1905, nell’era del più sfrenato imperialismo, il preteso irrealizzabile diritto di autodecisione. Parlare di “irrealizzabilità” è quindi non solo teoricamente assurdo, mal persino ridicolo.

P. Kievski vuole confutare questo dato, trattandoci irosamente da “razionalisti” (ma che c’entra? il razionalista si limita ai ragionamenti, per giunta astratti, mentre noi abbiamo indicato un fatto concretissimo! Non usa forse P. Kievski la voce straniera di “razionalista” con la stessa... come dire nel modo più eufemistico?... con la stessa “proprietà” con cui ha usato all’inizio del suo scritto il termine “estrattivo”, proponendo le sue considerazioni “in forma estrattiva”?).

P. Kievski ci rimprovera di considerare “importante l’esteriorità e non l’essenza autentica dei fenomeni”. Esaminiamo questa essenza autentica.

La confutazione prende l’avvio da un esempio: l’emanazione della legge contro i trusts non dimostra che il divieto dei trusts è irrealizzabile. Vero. Ma l’esempio è scelto male, perché parla contro Kievski. Una legge è un provvedimento politico, è politica. Ma l’economia non si può in alcun modo vietare con un provvedimento politico. Con la sola forma politica della Polonia, cioè sia essa una parte della Russia zarista o della Germania, una regione autonoma o uno Stato politicamente indipendente, non si può né vietare né abolire la sua soggezione al capitale finanziario delle potenze imperialiste, l’accaparramento delle azioni delle sue aziende da parte di questo capitale.

L’indipendenza della Norvegia, “realizzata” nel 1905, è puramente politica. Essa non ha scosso e non poteva scuotere la sua dipendenza economica. Questo sostengono appunto le nostre tesi. Noi abbiamo indicato che l’autodecisione riguarda solo la politica e che è quindi sbagliato porre il problema dell’irrealizzabilità economica. Ma P. Kievski ci “confuta”, adducendo un esempio d’impotenza dei divieti politici nei confronti dell’economia! Bella “confutazione”!

Ancora. “Uno o persino molti esempi di vittoria delle piccole sulle grandi imprese non bastano per confutare la giusta tesi di Marx che l’evoluzione generale del capitalismo è accompagnata dalla concentrazione della produzione.”

Quest’affermazione si fonda, anch’essa, su un esempio mal scelto, che viene citato per distogliere l’attenzione (del lettore e dell’autore) dalla reale sostanza della questione.

 La nostra tesi asserisce che è sbagliato parlare di irrealizzabilità dell’autodecisione nel senso in cui è irrealizzabile il denaro-lavoro nel capitalismo. Non può darsi un solo “esempio” di una simile realizzabilità. P. Kievski ammette con il suo silenzio che abbiamo ragione su questo punto, perché passa a una diversa interpretazione dell’“irrealizzabilità”.

Perché non compie questo passaggio apertamente? Perché non formula in modo chiaro e preciso la sua tesi: “L’autodecisione, pur essendo realizzabile nel senso della sua possibilità economica in regime capitalista, contraddice al progresso ed è quindi reazionaria o è soltanto un’eccezione”?

Perché l’enunciazione aperta di questa controtesi smaschererebbe di colpo l’autore, che ha invece bisogno di nascondersi.

La legge della concentrazione economica, la vittoria della grande produzione sulla piccola è riconosciuta sia dal nostro programma che da quello di Erfurt. P. Kievski nasconde il fatto che la legge della concentrazione politica o statale non è stata riconosciuta in nessun luogo. Ma, se questa legge esiste, perché mai P. Kievski non la espone, invitandoci a integrare il nostro programma? È corretto da parte sua lasciarci con un programma sbagliato e incompleto, dal momento che ha scoperto questa nuova legge della concentrazione statale, una legge che assume un’importanza pratica, se è vero che può emendare il nostro programma di alcune conclusioni sbagliate?

P. Kievski non fornisce alcuna formulazione della legge, non ci propone di integrare il nostro programma, perché sente confusamente che si potrebbe coprire di ridicolo. Tutti sghignazzerebbero davanti a questo curioso “economicista imperialista”, se questo punto di vista affiorasse alla superficie, se parallelamente alla legge della soppressione della piccola produzione da parte della grande produzione fosse enunciata (in rapporto o accanto ad essa) la “legge” della soppressione dei piccoli Stati da parte dei grandi Stati!

Per spiegarci, ci limitiamo a porre una sola domanda a P. Kievski: per quale motivo gli economisti senza virgolette non parlano di “disgregazione” dei trusts o delle grandi banche odierne? Della possibilità di questa disgregazione e della sua realizzabilità? Perché lo stesso “economicista imperialista” tra virgolette è costretto ad ammettere l’eventualità e la realizzabilità della disgregazione dei grandi Stati e non solo della disgregazione in genere, ma della separazione, per esempio, delle “piccole nazionalità” (si badi!) dalla Russia (paragrafo e del capitolo 2 dell’articolo di P. Kievski)?

Infine, per mostrare più chiaramente fino a che punto sia reticente il nostro autore e premonirlo, rileviamo quanto segue: noi abbiamo sempre enunciato con chiarezza la legge della soppressione della piccola produzione ad opera della grande produzione e nessuno teme di definire reazionari i singoli “casi” di “vittoria delle piccole sulle grandi imprese”. Ma nessun avversario dell’autodecisione si è ancora risolto a chiamare reazionaria la separazione della Norvegia dalla Svezia, anche se noi abbiamo posto questo problema sulla stampa fin dal 1914.[12]

 

12. Cfr. Sul diritto di autodecisione delle nazioni, in Lenin, OC vol. 20 cap. 6, ER 1966 pagg. 405-410.

La grande produzione è irrealizzabile, se si conservano, per esempio, i torni a mano; è affatto assurda l’idea della “disgregazione” di una fabbrica meccanica in laboratori dove si lavori a mano. La tendenza imperialista ai grandi imperi è assolutamente realizzabile e viene in pratica realizzata spesso sotto forma di alleanza imperialista tra Stati autonomi in senso politico. Quest’alleanza è possibile e si configura non solo sotto la forma di una fusione economica dei capitali finanziari dei due paesi, ma anche sotto la forma di una “cooperazione” militare nella guerra imperialista. La lotta nazionale, l’insurrezione nazionale, la separazione nazionale sono assolutamente “realizzabili” e si manifestano di fatto nell’epoca dell’imperialismo, anzi s’intensificano, perché l’imperialismo non frena lo sviluppo del capitalismo e il rafforzamento delle tendenze democratiche tra le masse della popolazione, ma acuisce l’antagonismo tra queste  aspirazioni democratiche e le tendenze antidemocratiche dei trusts.

Solo dalle posizioni dell’“economicismo imperialistico”, ossia di un marxismo caricaturale, si può ignorare, per esempio, il seguente originale fenomeno della politica imperialista: da una parte, l’attuale guerra imperialista ci fornisce vari esempi di come, con la forza dei legami finanziari e degli interessi economici, si può coinvolgere un piccolo Stato, politicamente indipendente, nella lotta tra le grandi potenze (Inghilterra e Portogallo). Dall’altra parte, la violazione della democrazia nei rapporti con i piccoli paesi, assai più deboli (sul piano economico e politico) rispetto ai loro “tutori” imperialisti, provoca o l’insurrezione (Irlanda) o il passaggio di interi reggimenti al nemico (cechi). In questa situazione non è solo “realizzabile” per il capitale finanziario, ma talvolta addirittura vantaggioso per i trusts, per la loro politica imperialista, per la loro guerra imperialista, concedere un massimo di libertà democratica, compresa l’indipendenza nazionale, a certe piccole nazioni, al fine di non rischiare avarie nelle “proprie a operazioni belliche. Non è affatto marxista dimenticare l’originalità dei rapporti strategici e politici e ripetere, a proposito e a sproposito, una sola paroletta mandata a memoria: “imperialismo”.

Della Norvegia P. Kievski ci dice, anzitutto, che “è sempre stata indipendente”. Il ché è falso; e tale falsità non si può spiegare altrimenti che con la noncuranza da Bursche dell’autore e con il suo scarso interesse per i problemi politici. Prima del 1905 la Norvegia non era uno Stato indipendente, ma godeva soltanto di un’autonomia molto ampia. La Svezia ha riconosciuto la sovranità nazionale della Norvegia solo dopo che quest’ultima se ne è separata. Se la Norvegia “fosse sempre stata indipendente”, il governo svedese non avrebbe potuto comunicare alle altre potenze, in data 26 ottobre 1905, che riconosceva l’indipendenza della Norvegia.

Inoltre, P. Kievski riporta varie citazioni per dimostrare che la Norvegia guardava a Occidente e la Svezia a Oriente, che nella prima “operava” in prevalenza il capitale finanziario inglese, nella seconda quello tedesco, ecc. Egli trae perciò la trionfale conclusione: “Questo esempio [della Norvegia] rientra appieno nei nostri schemi”.

Ecco un modello di logica dell’“economicismo imperialistico”! Nelle nostre tesi si afferma che il capitale finanziario può dominare in “ogni paese, sia pure indipendente”, e che quindi tutti i ragionamenti relativi all’“irrealizzabilità” dell’autodecisione, dal punto di vista del capitale finanziario, sono pura e semplice confusione mentale. Ebbene, per confutarci, ci esibiscono alcuni dati che convalidano invece la nostra tesi sulla funzione del capitale finanziario straniero in Norvegia sia prima che dopo la separazione!!

Parlare del capitale finanziario e dimenticare per questo i problemi politici significa forse ragionare di politica?

No, i problemi politici non scompaiono in virtù degli errori logici dell’“economicismo”. In Norvegia il capitale finanziario inglese “ha operato” prima e dopo la separazione. In Polonia il capitale finanziario tedesco “ha operato” fino alla separazione di quel paese dalla Russia e continuerà a “operare”, qualunque sia la situazione politica della Polonia. È questa una verità talmente elementare che è imbarazzante ripeterla, ma che fare, quando si dimentica l’abbiccì?

Scompare per questo il problema politico relativo alla situazione della Norvegia? alla sua appartenenza alla Svezia? all’atteggiamento degli operai nel momento in cui si è posta la questione della separazione?

P. Kievski ha eluso questi problemi, perché essi battono in breccia gli “economicisti”. Ma la vita li ha posti e continua a porli. Nella vita si è dovuto decidere se potesse dirsi socialdemocratico l’operaio svedese che non riconosceva il diritto della Norvegia alla separazione. E la vita ha negato questa possibilità.

Gli aristocratici svedesi e i preti erano favorevoli alla guerra contro la Norvegia. È un fatto che non scompare solo  perché P. Kievski “ha dimenticato” di informarsene nei manuali di storia del popolo norvegese. L’operaio svedese poteva, continuando a essere socialdemocratico, invitare i norvegesi a votare contro la separazione (la votazione sulla separazione si è tenuta in Norvegia il 13 agosto 1905 e ha dato 368.200 voti a favore e 184 contrari; inoltre, alla votazione ha preso parte circa 1’80 per cento di chi ne aveva diritto). Ma quell’operaio svedese che avesse negato, insieme con l’aristocrazia e la borghesia svedese, il diritto dei norvegesi di risolvere questo problema da sé, senza gli svedesi, non tenendo conto della loro volontà, sarebbe stato un socialsciovinista e un mascalzone indegno di militare nel partito socialdemocratico.

Ecco in che cosa consiste l’applicazione del paragrafo 9 del nostro programma di partito, che l’“economicista imperialistico” ha tentato di saltare a piè pari. Non si salta, signori, senza cadere in braccio allo sciovinismo!

E l’operaio norvegese? Era forse tenuto, dal punto di vista dell’internazionalismo, a votare per la separazione? Nient’affatto. Pur continuando a essere un socialdemocratico, egli poteva votare contro. Avrebbe trasgredito il suo dovere di membro della socialdemocrazia solo se avesse teso fraternamente la mano all’operaio svedese centonero [abbrutito e reazionario] che si fosse pronunciato contro la libertà di separazione della Norvegia.

Di quest’elementare differenza tra la posizione dell’operaio norvegese e quella dell’operaio svedese alcuni non vogliono tener conto. Ma essi si tradiscono da sé quando eludono questo concretissimo problema politico, che noi solleviamo con ostinazione. Non parlano, cercano sotterfugi e così capitolano su tutta la linea.

Per dimostrare che il problema “norvegese” può porsi anche in Russia, abbiamo di proposito formulato la seguente tesi: uno Stato polacco indipendente è pienamente realizzabile anche oggi per ragioni di carattere puramente militare e strategico. P. Kievski vuole “discutere” e quindi tace!!

Aggiungiamo: anche la Finlandia, per considerazioni puramente militari e strategiche e nell’ipotesi di un determinato esito della guerra imperialista in corso (per esempio, unione della Svezia alla Germania e semivittoria di quest’ultima), può diventare uno Stato indipendente, senza compromettere per questo la “realizzabilità” di una qualsiasi operazione del capitale finanziario, senza impedire l’accaparramento delle azioni delle ferrovie e delle altre aziende finlandesi. *

 

* Se uno dei possibili esiti della guerra attuale rende pienamente “realizzabile” la costituzione in Europa di nuovi Stati, in Polonia, in Finlandia, ecc., senza che le condizioni di. sviluppo dell’imperialismo e la sua potenza ne abbiano a risentire, - ché anzi l’influenza, i legami e la pressione del capitale finanziario risulteranno consolidati, - l’esito opposto rende altrettanto “realizzabile” la costituzione di un nuovo Stato ungherese, ceco, ecc. Gli imperialisti pensano sin da ora a questa seconda soluzione, qualora riportino la vittoria. L’epoca dell’imperialismo non distrugge né l’aspirazione delle nazioni all’indipendenza politica né la “realizzabilità” di tale aspirazione nel quadro dei rapporti imperialisti mondiali. Sennonché, fuori di questo quadro, la repubblica in Russia o in genere una qualsiasi trasformazione democratica sostanziale è “irrealizzabile” senza una serie di rivoluzioni e non può essere mantenuta senza il socialismo. P. Kievski non ha capito proprio niente dei rapporti tra l’imperialismo e la democrazia.

P. Kievski si sbarazza delle questioni politiche per lui sgradevoli trincerandosi dietro una bella frase, che caratterizza alla perfezione tutto il suo “ragionamento”: “Ad ogni istante” (letteralmente così è detto alla fine del paragrafo c del primo capitolo), “la spada di Damocle può cadere e spezzare l’esistenza di ogni “autonoma” bottega artigiana” (“allusione” alle piccole Svezia e Norvegia).

Ecco, a quanto pare, il marxismo genuino! Lo Stato indipendente della Norvegia, la cui separazione dalla Svezia è stata definita dal governo svedese un “provvedimento rivoluzionario”, esiste ormai da una decina d’anni. Ma a che vale analizzare i problemi politici che ne scaturiscono, se abbiamo letto Il capitale finanziario di Hilferding e lo abbiamo “interpretato” nel senso che “ad ogni istante” - ma che giudizi avventati! - il piccolo Stato può scomparire? A che vale richiamare l’attenzione sul fatto che abbiamo degradato il marxismo a “economicismo” e ridotto la nostra politica a un’eco dei discorsi degli sciovinisti russi?

 Che errore avrebbero commesso gli operai russi nel 1905, se avessero ottenuto la repubblica! Il capitale finanziario si sarebbe mobilitato contro di essa, in Francia, in Inghilterra, ecc., e la “spada di Damocle” avrebbe potuto decapitarla “ad ogni istante”, se fosse sorta!

 “La rivendicazione dell’autodecisione nazionale non è [...] utopistica nel programma minimo: non contrasta con lo sviluppo sociale, perché la sua attuazione non frenerebbe questo sviluppo.” P. Kievski contesta questa citazione di Martov nello stesso paragrafo del suo scritto in cui riporta sulla Norvegia “citazioni” che dimostrano per l’ennesima volta un fatto universalmente noto: cioè che l’“autodecisione” e la separazione della Norvegia non hanno arrestato né lo sviluppo in generale l’incremento delle operazioni del capitale finanziario in particolare l’accaparramento della Norvegia da parte degli inglesi!

Più di una volta si sono trovati in Russia dei bolscevichi, per esempio, Alexinski negli anni 1908-1910, che hanno polemizzato con Martov proprio quando Martov aveva ragione! Ci salvi iddio da simili “alleati”!

 

5. Monismo e dualismo”

 P. Kievski, rimproverandoci di “interpretare dualisticamente la rivendicazione”, scrive:

L’azione monistica dell’Internazionale è sostituita dalla propaganda dualistica”.

Queste parole hanno l’apparenza di essere marxiste, materialiste: l’azione, che è unica, viene opposta alla propaganda, che è “dualistica”. Purtroppo, se osserviamo la cosa più da vicino, dobbiamo dire che si tratta di un “monismo” verbale come quello di Dühring. “Se si sussume una spazzola da scarpe sotto l’unità mammifero, - ha scritto Engels contro il “monismo” di Dühring, - ci vuol altro perché le crescano le mammelle.”[13]

 

13. Friedrich Engels, Antidühring, in Marx-Engels, OC vol. 25, ER 1974.

 

Questo significa che si possono dichiarare “identiche” soltanto quelle cose, proprietà, fenomeni, azioni che sono identiche nella realtà oggettiva. E il nostro autore ha dimenticato proprio questa “inezia”.

Egli vede il nostro “dualismo” anzitutto nel fatto che ciò che noi esigiamo dagli operai dei paesi oppressori non è ciò - si tratta soltanto della questione nazionale - che pretendiamo dagli operai delle nazioni oppresse.

Per controllare se il “monismo” di P. Kievski non è in questo caso simile al “monismo” di Dühring, bisogna vedere come stiano le cose nella realtà oggettiva.

La situazione reale degli operai, riguardo alla questione nazionale, è forse identica nelle nazioni dominanti e in quelle oppresse? No di certo.

1. Economicamente la differenza è che una parte della classe operaia dei paesi oppressori fruisce delle briciole dei sovrapprofitti che i borghesi di queste nazioni ricavano sfruttando sempre fino all’osso gli operai delle nazioni oppresse. I dati economici attestano inoltre che tra gli operai dei paesi oppressori la percentuale di quelli “molto qualificati” è maggiore che nelle nazioni oppresse; è inoltre maggiore la percentuale di quelli che entrano a far parte dell’aristocrazia della classe operaia.* È un fatto. Gli operai del paese oppressore cooperano, entro certi limiti, con la propria borghesia a depredare gli operai (e le masse della popolazione) della nazione oppressa.

 2. Politicamente la differenza è che gli operai dei paesi oppressori assumono una posizione privilegiata, rispetto agli operai della nazione oppressa, in vari campi della vita politica.

3. Idealmente o spiritualmente la differenza è che gli operai dei paesi oppressori sono sempre educati, dalla scuola e dalla vita, al disprezzo o al disdegno per gli operai delle nazioni oppresse. Per esempio, ogni non grande-russo, che sia stato educato o che sia vissuto tra i grandi-russi, ne ha fatto esperienza.

Così, nella realtà oggettiva esiste una differenza su tutta la linea; esiste cioè, nel mondo oggettivo, un “dualismo” che non dipende dalla volontà e dalla coscienza dei singoli.

 

* Si veda, ad esempio, il libro inglese di Hourwich sull’immigrazione e sulla situazione della classe operaia in America (Immigration and labor).

 

Come considerare, dopo di ciò, le parole di P. Kievski sulla “azione monistica dell’Internazionale”?

Questa è solo una frase vuota e sonora, niente di più.

Perché l’azione dell’Internazionale, composta nella realtà da operai scissi in appartenenti alle nazioni dominanti e in appartenenti a quelle oppresse, sia unitaria, è necessario svolgere la propaganda in modo diverso nei due casi: ecco come bisogna ragionare dalle posizioni del “monismo” autentico (non dühringhiano), dalle posizioni del materialismo di Marx!

Un esempio? Abbiamo già riferito (oltre due anni or sono nella stampa legale!) l’esempio della Norvegia e nessuno ha tentato di confutarci. L’azione degli operai norvegesi e svedesi, in questo caso concreto desunto dalla vita, è stata “monistica”, unica, internazionalista solo perché e in quanto gli operai svedesi hanno incondizionatamente sostenuto la libertà di separazione della Norvegia e gli operai norvegesi hanno posto condizionatamente il problema di questa separazione. Se gli operai svedesi non si fossero schierati senza condizioni per la libertà di separazione dei norvegesi, sarebbero stati degli sciovinisti, dei complici dei grandi proprietari terrieri svedesi, che volevano “trattenere” la Norvegia con la violenza e con la guerra. Se gli operai norvegesi non avessero posto il problema della separazione a certe condizioni, a patto cioè che anche gli iscritti al partito socialdemocratico potessero votare e far propaganda contro la separazione, avrebbero trasgredito il loro dovere di internazionalisti e sarebbero caduti nell’angusto nazionalismo borghese della Norvegia. Perché? Perché la separazione veniva compiuta dalla borghesia e non dal proletariato! Perché la borghesia norvegese (come ogni altra borghesia) tende sempre a dividere gli operai del suo paese da quelli di un paese “straniero”! Perché ogni rivendicazione democratica (compresa l’autodecisione) è subordinata per gli operai coscienti agli interessi superiori del socialismo. Se, per esempio, la separazione della Norvegia dalla Svezia avesse significato una guerra, sicura o probabile, dell’Inghilterra contro la Germania, gli operai norvegesi avrebbero dovuto per questa ragione schierarsi contro la separazione. E gli operai svedesi, senza cessare di essere socialisti, avrebbero avuto il diritto e la possibilità di far propaganda contro la separazione solo nel caso in cui si fossero battuti in modo sistematico, coerente e costante contro il governo svedese per la libertà di separazione della Norvegia. In caso contrario, gli operai e il popolo della Norvegia non avrebbero creduto e non avrebbero potuto credere, alla sincerità del consiglio degli operai svedesi.

Il guaio degli avversari dell’autodecisione è che essi si limitano ad astrazioni morte, per timore di esaminare a fondo anche un solo esempio concreto preso dalla vita reale. L’indicazione concreta delle nostre tesi che il nuovo Stato polacco è pienamente “realizzabile” già oggi, con un determinato concorso di condizioni esclusivamente militari e  strategiche [14] è rimasta senza obiezioni da parte dei polacchi e da parte di P. Kievski. Ma nessuno ha voluto riflettere sulle conseguenze di questa tacita accettazione della nostra tesi. Da essa scaturisce con chiarezza che la propaganda degli internazionalisti non può essere identica tra i russi e tra i polacchi, se vuole educare gli uni e gli altri all’“azione unica”. L’operaio grande-russo (e tedesco) è tenuto a schierarsi incondizionatamente per la libertà di separazione della Polonia, perché altrimenti diventa oggi, di fatto, un servo di Nicola II o di Hindenburg. L’operaio polacco potrebbe schierarsi per la separazione solo a certe condizioni, perché si diventa di fatto servi dell’una o dell’altra borghesia imperialista quando si specula (come i fraki [15]) sulle sue vittorie. Non afferrare questa differenza, che è la premessa dell’“azione monistica” dell’Internazionale, è come non capire perché i soldati rivoluzionari, per svolgere un’“azione monistica” contro l’esercito zarista, poniamo nei dintorni di Mosca, dovrebbero marciare verso occidente, se partissero da Nizni-Novgorod e verso oriente, se partissero da Smolensk.

 

14. Cfr. La rivoluzione socialista e il diritto di autodecisione delle nazioni, in Lenin, OC vol. 22 cap. 2 vol. 22.

15. “Fraki” (frazione rivoluzionaria), ala destra del Partito socialista polacco, fondato nel 1892. Questo partito, capeggiato da Pilsudski, svolse una intensa propaganda separatista tra gli operai polacchi. Durante la prima Guerra Mondiale e dopo di essa i “fraki”, che si erano costituiti in organizzazione indipendente nel 1906, dopo la scissione del Partito socialista polacco, assunsero una posizione sciovinista.

 

Il nostro nuovo assertore del monismo dühringhiano ci accusa inoltre di non preoccuparci dell’“intima coesione organizzativa tra le diverse sezioni nazionali dell’Internazionale” durante il rivolgimento socialista.

Con il socialismo l’autodecisione cade, scrive P. Kievski, perché deperisce lo Stato. E con una simile affermazione vorrebbe confutarci! Ma noi, in tre righe - nelle ultime tre righe del primo paragrafo delle nostre tesi - diciamo chiaro e tondo che “anche la democrazia è una forma di Stato che dovrà estinguersi con l’estinzione dello Stato”.[16] Questa verità P. Kievski la ripete - naturalmente per “confutarci”! - in parecchie pagine del paragrafo c (cap. 1) e per giunta la ripete travisandola. “Noi concepiamo - egli scrive - e abbiamo sempre concepito il sistema socialista come un sistema economico democraticamente [!?] accentrato, nel quale lo Stato, in quanto apparato di dominio di una parte della popolazione sull’altra, scompare.” Questa è confusione mentale, perché la democrazia è anche dominio “di una parte della popolazione sull’altra”, è anche Stato. In che cosa consiste l’estinzione dello Stato dopo la vittoria del socialismo e quali sono le condizioni di questo processo è evidentemente sfuggito all’autore.

 16. Cfr. La rivoluzione socialista e il diritto di autodecisione delle nazioni, in Lenin, OC vol. 22, cap. 1.

 Ma l’essenziale riguarda la sua “obiezione” in merito all’epoca della rivoluzione sociale. Dopo averci apostrofati con il terribile appellativo di “talmudisti dell’autodecisione”, l’autore dichiara: “Noi concepiamo questo processo [la rivoluzione sociale] come l’azione unitaria dei proletari di tutti [!!] i paesi, che distruggono le frontiere dello Stato borghese [!!], che abbattono i pali di confine [indipendentemente dalla “distruzione delle frontiere”?], che spezzano [!!] le comunità nazionali e instaurano una comunità di classe”.

Sia detto senza offesa per il severo giudice dei “talmudisti”, qui ci sono molte parole, ma non si vede affatto il “pensiero”.

Il rivolgimento sociale non può essere un’azione unitaria dei proletari di tutti i paesi per la semplice ragione che la stragrande maggioranza dei paesi e la maggior parte della popolazione terrestre non si trovano ancora nello stadio capitalista o si trovano nella fase iniziale dello sviluppo capitalista. L’abbiamo affermato nel paragrafo 6 delle nostre tesi,[17] e P. Kievski, solo per disattenzione o per incapacità di riflettere, “non ha notato” che il paragrafo è stato da noi  inserito non per caso, ma appunto per confutare le deformazioni caricaturali del marxismo. Soltanto i paesi progrediti dell’Occidente e dell’America del nord sono maturi per il socialismo e nella lettera di Engels a Kautsky (Sbornik Sotsialdemokrata)[18] P. Kievski può reperire l’illustrazione concreta del “pensiero” - reale e non soltanto promesso - che sognare “l’azione unitaria dei proletari di tutti i paesi” significa rinviare il socialismo alle calende greche, cioè a dire al “mai”.

 

17. Cfr. La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione, Lenin, OC vol. 22.

18. Si tratta della lettera inviata da Engels a Kautsky il 12 settembre 1882, citata da Lenin in Bilancio di una discussione sull’autodecisione (cfr, Lenin, OC vol. 22). L’articolo di Lenin apparve nel n. 1 dello Sbornik Sotsialdemokrata.

 

Il socialismo sarà realizzato dall’azione unitaria dei proletari, non di tutti i paesi, ma di una minoranza di paesi giunti allo stadio del capitalismo evoluto. Da questa incomprensione scaturisce l’errore di P. Kievski. Nei paesi progrediti (Inghilterra, Francia, Germania, ecc.) la questione nazionale è ormai risolta da un pezzo, l’unità nazionale ha ormai fatto il suo tempo; oggettivamente i “compiti nazionali” non esistono più. E quindi solo in questi paesi è possibile fin da oggi “spezzare” le comunità nazionali e instaurare la comunità di classe.

Diversamente si pone il problema nei paesi non progrediti, nei paesi che abbiamo classificato ai punti 2 e 3 (nel paragrafo 6 delle nostre tesi) e cioè in tutto l’Oriente europeo e in tutte le colonie e semicolonie. Qui esistono ancora, in linea generale, nazioni oppresse e non evolute sul piano capitalista. In queste nazioni esistono ancora oggettivamente i compiti nazionali, ossia i compiti democratici, la necessità di abbattere l’oppressione straniera.

Fra queste nazioni Engels cita l’esempio dell’India, dicendo che essa può fare la rivoluzione contro il socialismo vittorioso, perché Engels era ben lontano da quel ridicolo “economicismo imperialistico” secondo cui il proletariato vittorioso nei paesi progrediti distruggerà “automaticamente” e dappertutto, senza determinate riforme democratiche, l’oppressione nazionale. Il proletariato vittorioso riorganizzerà i paesi nei quali avrà vinto. Ma non potrà farlo di colpo, come non è possibile “vincere” di colpo la borghesia. L’abbiamo sottolineato di proposito nelle nostre tesi, ma nemmeno questa volta P. Kievski si è domandato perché abbiamo insistito su questo punto in rapporto alla questione nazionale.

Mentre il proletariato dei paesi progrediti abbatte la borghesia ne respinge i conati controrivoluzionari, le nazioni arretrate e oppresse non aspettano, non cessano di vivere, non scompaiono. Se per insorgere (colonie, Irlanda) già si valgono di una crisi piccolissima, rispetto alla rivoluzione sociale, di una crisi della borghesia imperialista come la guerra del 1915-1916, non v’è dubbio che per insorgere approfitteranno ancor più della grande crisi della guerra civile nei paesi progrediti.

La rivoluzione sociale può compiersi soltanto come un’epoca che associa la guerra civile del proletariato contro la borghesia nei paesi più progrediti a tutta una serie di movimenti democratici e rivoluzionari, compresi i movimenti di liberazione nazionale, nei paesi non evoluti, arretrati e nelle nazioni oppresse.

Perché? Perché il capitalismo si sviluppa in modo ineguale e la realtà oggettiva ci mostra, accanto alle nazioni capitaliste molto evolute, tutta una serie di nazioni economicamente molto deboli e non sviluppate. P. Kievski non ha meditato affatto sulle premesse oggettive della rivoluzione sociale, in rapporto alla maturità economica dei diversi paesi, e quindi l’accusa che noi “faremmo congetture” su dove applicare l’autodecisione si ritorce davvero contro di lui.

Con zelo degno di miglior causa P. Kievski cita più volte Marx ed Engels per dimostrare che non si devono “inventare  di testa propria, ma scoprire con la propria testa, nelle condizioni materiali esistenti”, i mezzi per liberare l’umanità dalle diverse calamità sociali. Nel leggere queste reiterate citazioni, non posso non ricordare quegli “economicisti” di triste memoria che rimasticavano, quanto noiosamente!, la loro “nuova scoperta” della vittoria del capitalismo in Russia. P. Kievski tenta di “colpirci” con queste citazioni, dal momento che noi escogitiamo di testa nostra le condizioni per applicare l’autodecisione nell’epoca imperialista! Ma nell’articolo dello stesso Kievski leggiamo la seguente “incauta ammissione”:

“Il solo fatto che siamo contrari [il corsivo è dell’autore] a difendere la patria dice con la massima chiarezza che resisteremo attivamente a ogni tentativo di schiacciare l’insurrezione nazionale, perché in tal modo combatteremo contro il nostro nemico mortale, l’imperialismo” (capitolo 2, paragrafo c dell’articolo di P. Kievski).

Non si può criticare un autore, non si può rispondergli, senza citare per intero almeno le tesi principali del suo scritto. Ma, non appena si cita per esteso una sola tesi di P. Kievski, risulta che in ogni sua frase vi sono due o tre errori o malintesi che snaturano il marxismo.

1. P. Kievski non ha notato che l’insurrezione nazionale è anche “difesa della patria”! Eppure, un briciolo di riflessione convince chiunque che le cose stanno così, perché ogni “nazione insorta” si “difende” contro la nazione che la opprime e quindi difende la sua lingua, la sua terra, la sua patria.

Ogni oppressione nazionale suscita una resistenza nelle grandi masse del popolo e la tendenza di ogni resistenza della popolazione oppressa è appunto l’insurrezione nazionale. Se osserviamo non di rado (soprattutto in Austria e in Russia) che la borghesia delle nazioni oppresse si limita soltanto a parlare di insurrezione nazionale, mentre di fatto, alle spalle del suo popolo e contro di esso, scende a compromessi reazionari con la borghesia del paese oppressore, in simili casi la critica dei marxisti rivoluzionari deve rivolgersi non contro il movimento nazionale, ma contro ciò che lo infirma, lo avvilisce, lo snatura riducendolo a un meschino litigio. In proposito, moltissimi socialdemocratici austriaci e russi dimenticano questo fatto e tramutano il loro legittimo odio contro le piccole, volgari, misere beghe nazionali (come le liti e le discussioni per stabilire quale lingua debba stare sopra e quale sotto nelle targhe che indicano il nome delle strade), tramutano il loro legittimo odio contro queste cose nel rifiuto di sostenere la lotta nazionale. Noi non “sosterremo” la farsa della repubblica in un qualche principato di Monaco o le avventure “repubblicane” dei “generali” nei piccoli Stati dell’America del sud o in qualche isola del Pacifico; ma da ciò non consegue che è lecito dimenticare la parola d’ordine della repubblica nei movimenti democratici e socialisti seri. Noi deridiamo e dobbiamo deridere le meschine beghe nazionali e i mercanteggiamenti tra le nazioni in Russia e in Austria, ma da ciò non consegue che è lecito rifiutare l’appoggio all’insurrezione nazionale o a qualsiasi grande lotta popolare contro l’oppressione nazionale.

2. Se le insurrezioni nazionali sono impossibili nell’“epoca imperialista”, P. Kievski ha torto di parlarne. Se invece sono possibili, tutte le sue interminabili frasi sul “monismo”, sulle nostre “congetture” intorno a esempi di autodecisione sotto l’imperialismo, ecc., tutto questo va a pezzi. P. Kievski non fa che colpire se stesso.

Se “noi” “resistiamo attivamente alla repressione” dell’insurrezione nazionale, - caso che lo “Stesso” P. Kievski ritiene possibile, - che cosa ciò significa?

Significa che l’azione è duplice, “dualistica”, se si vuole usare a sproposito, come fa il nostro autore, questo termine filosofico. Perché l’azione consiste: a) nell’“azione” del proletariato e dei contadini nazionalmente oppressi insieme con la borghesia nazionalmente oppressa contro il paese oppressore; b) nell’“azione” del proletariato - o della parte cosciente del proletariato - della nazione dominante contro la borghesia della nazione dominante e contro tutti gli  elementi che la seguono.

Le interminabili proposizioni di P. Kievski contro il “blocco nazionale”, contro le “illusioni” nazionali, contro il “veleno” del nazionalismo, contro l’“esasperazione dell’odio nazionale” e via dicendo sono risultate vuote chiacchiere, perché l’autore, consigliando al proletariato dei paesi oppressori (non si dimentichi che egli considera questo proletariato come una forza importante) di “resistere attivamente al tentativo di reprimere l’insurrezione nazionale”, esaspera in tal modo l’odio nazionale e appoggia il “blocco” degli operai delle nazioni oppresse con la “borghesia”.

3. Se nell’epoca dell’imperialismo sono possibili le insurrezioni nazionali, sono altresì possibili anche le guerre nazionali. Sul piano politico non corre alcuna differenza profonda tra le une e le altre. Gli storici militari sono nel giusto quando annoverano le insurrezioni tra le guerre. P. Kievski ha colpito, senza avvedersene, non solo se stesso, ma anche Junius e il gruppo “International”, che negano la possibilità di guerre nazionali nell’epoca imperialista. Questa negazione è l’unico fondamento teorico concepibile della posizione che nega l’autodecisione delle nazioni nell’epoca dell’imperialismo.

4. Che cos’è, in ultima istanza, un’“insurrezione” nazionale? È un’insurrezione che tende a dare l’indipendenza politica alla nazione oppressa, che tende cioè a costituire uno Stato nazionale autonomo.

Se il proletariato della nazione dominante è una forza importante (come l’autore suppone e deve supporre per l’epoca dell’imperialismo), la sua decisione di “resistere attivamente al tentativo di reprimere l’insurrezione nazionale” non è forse un contributo alla costituzione di uno Stato nazionale autonomo? Senza dubbio.

Il nostro intrepido negatore della “realizzabilità” dell’autodecisione è giunto a dichiarare che il proletariato cosciente dei paesi più progrediti deve sostenere l’attuazione di questo “irrealizzabile” provvedimento!

5. Perché mai dobbiamo “resistere attivamente al tentativo di reprimere l’insurrezione nazionale”? P. Kievski adduce un unico argomento: “Perché in questo modo combatteremo contro il nostro nemico mortale, l’imperialismo”. Tutta la forza di quest’argomentazione si riduce alla parola forte: “mortale”; e in generale, l’autore sostituisce sempre alla forza delle argomentazioni parole forti e roboanti, il proposito di “impalare il corpo palpitante della borghesia” e altre simili perle alla guisa di Alexinski.

Ma l’argomentazione di Kievski è sbagliata. L’imperialismo è nostro nemico “mortale” quanto il capitalismo. Proprio così. Nessun marxista dimenticherà che il capitalismo è progressivsta rispetto al feudalesimo e l’imperialismo è progressista rispetto al capitalismo premonopolista. Dunque noi non dobbiamo appoggiare ogni lotta contro l’imperialismo. Non sosterremo là lotta delle classi reazionarie contro l’imperialismo; non sosterremo l’insurrezione delle classi reazionarie contro l’imperialismo e il capitalismo.

Se quindi l’autore ammette la necessità di appoggiare l’insurrezione delle nazioni oppresse (“resistere attivamente al tentativo di reprimere” significa sostenere l’insurrezione), con questo riconosce il carattere progressista dell’insurrezione nazionale, il carattere progressista della nascita, nel caso del buon esito dell’insurrezione, di un nuovo Stato autonomo e della creazione di nuovi confini, ecc.

L’autore non riesce a sviluppare con coerenza nemmeno uno dei suoi ragionamenti politici!

L’insurrezione irlandese del 1916, avvenuta dopo la pubblicazione delle nostre tesi nel n. 2 del Vorbote, ha dimostrato, è il caso di dirlo, che non avevamo parlato a vanvera della possibilità di insurrezioni nazionali persino in Europa!

  

6. Le altre questioni politiche affrontate e travisate da P. Kievski

Abbiamo dichiarato nelle nostre tesi che la liberazione delle colonie non è altro che autodecisione delle nazioni. Gli europei dimenticano spesso che anche i popoli coloniali sono nazioni, ma tollerare una simile “dimenticanza” significa tollerare lo sciovinismo.

P. Kievski “obietta”.

Nelle colonie di tipo puro “non esiste il proletariato nell’accezione propria del termine” (fine del paragrafo c del cap. 2). “Per chi allora rivendicare 1’“autodecisione”? Per la borghesia coloniale?

Per i fellah? Per i contadini? No di certo. Nei confronti delle colonie è assurdo che i socialisti [il corsivo è di P. Kievski] formulino la parola d’ordine dell’autodecisione, perché è in generale assurdo enunciare le parole d’ordine del partito operaio nei paesi in cui non ci sono operai.”

Per quanto sia terribile la collera di Kievski, che dichiara “assurda” la nostra posizione, osiamo tuttavia fargli rispettosamente rilevare che le sue conclusioni sono sbagliate. Solo gli “economicisti” di triste memoria potevano credere che le “parole d’ordine di un partito operaio” vengono formulate esclusivamente per gli operai.* No, queste parole d’ordine riguardano tutta la popolazione lavoratrice, tutto il popolo. Con la parte democratica del nostro programma - sul cui significato “in generale” P. Kievski non ha meditato - ci rivolgiamo specificamente a tutto il popolo e quindi, in questa parte, parliamo del “popolo”.**

 

* Consigliamo a P. Kievski di rileggersi gli scritti di Martynov e soci del periodo 1899-1901. Vi troverà molte delle “sue” argomentazioni.

 ** Certi curiosi avversari dell’“autodecisione delle nazioni” Ci obiettano che le “nazioni” sono divise in classi! A questi marxisti da caricatura facciamo per solito rilevare che nella parte democratica del nostro programma si parla di “autocrazia del popolo”.

 

Tra i popoli coloniali e semicoloniali abbiamo compreso mille milioni di uomini e P. Kievski non si è dato la pena di smentire questa nostra indicazione concreta. Su mille milioni più di settecento (Cina, India, Persia, Egitto) vivono in paesi in cui gli operai esistono. Ma anche per le colonie in cui non vi sono operai, in cui vi sono soltanto gli schiavi e i proprietari di schiavi, ecc., ogni marxista non solo può, ma deve parlare di “autodecisione”. Se avesse riflettuto un po’, P. Kievski se ne sarebbe forse reso conto, così come si rende conto che l’“autodecisione” viene sempre enunciata “per” due nazioni: quella oppressa e quella che opprime.

Seconda “obiezione” di P. Kievski:

“Nei confronti delle colonie ci limitiamo pertanto a una parola d’ordine negativa, cioè alla rivendicazione posta dai socialisti ai loro governi: “Fuori dalle colonie!”. Questa rivendicazione, che non è realizzabile nell’ambito del capitalismo, acuisce la lotta contro l’imperialismo, ma non contraddice al progresso, poiché la società socialista non possiederà colonie”.

L’incapacità o il rifiuto dell’autore di riflettere sul contenuto teorico delle parole d’ordine politiche sono qui lampanti! Cambiano forse le cose perché in luogo di un termine politico teoricamente esatto usiamo una frase agitatoria? Dire “fuori dalle colonie” significa appunto trovar riparo dall’analisi teorica trincerandosi dietro una frase agitatoria! Ogni  propagandista del nostro partito, parlando dell’Ucraina, della Polonia, della Finlandia, ecc., ha diritto di dire allo zarismo (al “proprio. governo”): “Fuori dalla Finlandia, ecc.!”, ma il propagandista intelligente capisce che non si possono lanciare parole d’ordine, né positive né negative, solo per “esacerbare”. Soltanto uomini del genere di Alexinski hanno potuto sostenere che la parola d’ordine “negativa”: “Abbasso la Duma nera!” si giustificava con l’aspirazione a “esacerbare” la lotta contro quel male.

L’inasprirsi della lotta è una frase vuota da soggettivisti, dimentichi del fatto che il marxismo impone per ogni parola d’ordine l’analisi puntuale della realtà economica, della situazione politica e del significato politico di questa parola d’ordine. È assurdo rimasticare queste cose, ma che potete fare, quando vi ci costringono?

Interrompere una discussione teorica su un problema teorico con strepiti agitatori è un metodo alla Alexinski, a cui siamo abituati, ma è un metodo pessimo. Il contenuto economico e politico della parola d’ordine: “Fuori dalle colonie” è uno solo: libertà di separazione per le nazioni coloniali, libertà di costituire uno Stato indipendente! Se le leggi generali dell’imperialismo ostacolano, come ritiene P. Kievski, l’autodecisione delle nazioni, tramutandola in utopia, illusione, ecc., ecc., come si può concepire, senza aver meditato, un’eccezione per la maggior parte delle nazioni di tutto il mondo? È evidente che la “teoria” di P. Kievski è solo una caricatura della teoria.

La produzione mercantile e il capitalismo, i mille fili del capitale finanziario esistono nella stragrande maggioranza dei paesi coloniali. Come si possono invitare gli Stati, i governi dei paesi imperialisti ad “andarsene dalle colonie”, se, sotto il profilo della produzione mercantile, del capitalismo e dell’imperialismo, questa è una rivendicazione “non scientifica”, “utopistica”, “confutata” dallo stesso Lensch, da Cunow, ecc.?

Nei ragionamenti del nostro autore non v’è nemmeno l’ombra di un pensiero!

L’autore non ha pensato che la liberazione delle colonie è “irrealizzabile” unicamente nel senso che è “irrealizzabile senza una serie di rivoluzioni”. Non ha pensato che essa è realizzabile in rapporto alla rivoluzione socialista in Europa. Non ha pensato che “la società socialista non possiederà” non soltanto colonie, ma nemmeno nazioni oppresse in generale. Non ha pensato che nella questione da noi considerata non esiste alcuna differenza economica o politica tra il “possesso” della Polonia o quello del Turkestan da parte della Russia. Non ha pensato che la “società socialista” vuole “ritirarsi dalle colonie” unicamente nel senso di garantire loro il diritto di separarsi liberamente, ma non già nel senso di consigliar loro di separarsi.

Per questa discriminazione tra il diritto di separazione e l’invito a separarsi, P. Kievski ci ha tacciato di “prestigiatori” e per dare una “motivazione scientifica” del suo giudizio dinanzi agli operai, ha scritto:

“Che cosa dovrà pensare l’operaio che interroghi il propagandista su come dovrà comportarsi il proletario nella questione del particolarismo [cioè dell’autonomia politica dell’Ucraina], quando si sentirà rispondere: i socialisti lottano per il diritto di separazione e svolgono l’agitazione contro la separazione?”.

Credo di poter dare una risposta abbastanza precisa su questo problema. Suppongo infatti che ogni operaio intelligente penserà che P. Kievski non sa pensare.

Ogni operaio intelligente “penserà”: lo stesso P. Kievski ci insegna a strillare: “Fuori dalle colonie!”. E quindi noi, operai grandi-russi, dobbiamo rivendicare dal nostro governo che se ne vada dalla Mongolia, dal Turkestan, dalla Persia; gli operai inglesi devono esigere che il loro governo si ritiri dall’Egitto, dall’India, dalla Persia, ecc. Ma significa questo che noi proletari vogliamo separarci dagli operai e dai fellah egiziani, dagli operai e dai contadini mongoli,  turkestani o indiani? Significa questo che noi consigliamo alle masse lavoratrici delle colonie di “separarsi” dal proletariato cosciente europeo? Tutt’altro. Noi abbiamo sempre sostenuto, sosteniamo e sosterremo la più profonda unità e la fusione degli operai coscienti dei paesi progrediti con gli operai, con i contadini, con gli schiavi di tutti i paesi oppressi. Noi abbiamo sempre consigliato e consiglieremo sempre a tutte 1e classi lavoratrici di tutte le nazioni oppresse, comprese le colonie, di non separarsi da noi, ma anzi di unirsi più strettamente e di fondersi con noi.

Se dai nostri governi rivendichiamo che se ne vadano dalle colonie, ossia, per usare non un grido agitatorio, ma una precisa locuzione politica, che garantiscano alle colonie la piena libertà di separazione, il reale diritto di autodecisione, se noi stessi attueremo obbligatoriamente questo diritto e assicureremo questa libertà una volta conquistato il potere, noi avanziamo questa rivendicazione nei confronti del governo attuale e la tradurremo in atto quando saremo divenuti governo, non già per “consigliare” la separazione, ma, viceversa, per agevolare e accelerare l’unità e la fusione democratica delle nazioni. Noi faremo tutti gli sforzi per unirci e fonderci con i mongoli, i persiani, gli indiani, gli egiziani e questo, oltre che un dovere, è secondo noi nel nostro interesse, perché altrimenti il socialismo sarà instabile in Europa. Noi ci adopereremo per dare a questi popoli più arretrati e oppressi di noi un “disinteressato aiuto culturale”, secondo la bella espressione dei socialdemocratici polacchi, li aiuteremo cioè a usare le macchine, ad agevolare il proprio lavoro, a realizzare la democrazia e il socialismo.

Se rivendichiamo la libertà di separazione per i mongoli, per i persiani, per gli egiziani e per tutte le nazioni oppresse e dipendenti senza eccezione, non lo facciamo affatto perché siamo favorevoli alla loro separazione, ma solamente perché sosteniamo una unità e fusione libera, volontaria, non coattiva. E solamente per questo!

In tal senso, l’unica differenza tra il contadino e operaio mongolo o egiziano e il contadino e operaio polacco o finlandese è che questi ultimi sono molto evoluti, più esperti politicamente dei grandi-russi, più preparati economicamente, ecc., e quindi essi convinceranno molto presto i loro popoli - che detestano oggi con piena ragione i grandi-russi per la loro funzione di boia - che è irragionevole estendere quest’odio agli operai socialisti e alla Russia socialista, che il calcolo economico e, insieme, l’istinto e la coscienza dell’internazionalismo e della democrazia impongono la più rapida unità e fusione di tutte le nazioni nella società socialista. E poiché i polacchi e i finlandesi sono molto evoluti, è assai probabile che essi si convinceranno presto che questo ragionamento è giusto e la separazione della Polonia e della Finlandia potrà protrarsi solo per poco tempo dopo la vittoria del socialismo. I fellah, i mongoli, i persiani, che sono molto meno evoluti, potranno separarsi per un più lungo periodo di tempo, ma noi, come si è detto, cercheremo di abbreviarlo con il nostro disinteressato aiuto culturale.

In tal senso, non c’è e non può esserci altra differenza riguardo ai polacchi e ai mongoli. Non c’è e non può esserci alcuna “contraddizione” tra la propaganda della libertà di separazione e il fermo convincimento di attuare questa libertà, una volta divenuti governo, da un lato e la propaganda dell’unità e fusione delle nazioni, dall’altro lato.

Ecco che cosa “penserà”, a nostro giudizio, ogni operaio intelligente, ogni vero socialista, ogni vero internazionalista della nostra polemica con P. Kievski.*

 

 * F. Kievski si è evidentemente contentato di ripetere, sulle orme di alcuni marxisti tedeschi e olandesi, la parola d’ordine: “Fuori dalle colonie!”, senza riflettere non solo sul significato e sul contenuto teorico di questa parola d’ordine, ma nemmeno sulle concrete particolarità della Russia. È scusabile - almeno fino ad un certo punto - che un marxista olandese o tedesco si limiti alla parola d’ordine “fuori dalle colonie”, anzitutto, perché per la maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale il caso tipico dell’oppressione nazionale è appunto l’oppressione delle colonie, e, inoltre, perché nei paesi europei occidentali il concetto di “colonia” è particolarmente chiaro, lampante, concreto.

Ma in Russia? La Russia presenta proprio questo di particolare che tra le “nostre” “colonie” e le “nostre” nazioni oppresse la differenza è astratta. confusa, inerte.

 Ora, se in un marxista che scrive, poniamo, in tedesco si può scusare che egli tralasci questa particolarità della Russia, la stessa cosa non si può perdonare a P. Kievski. Un socialista russo che non voglia solo ripetere, ma anche pensare, deve capire che sarebbe assurdo, nel caso della Russia, stabilire una differenza seria tra nazioni oppresse e colonie.

 

Tutto lo scritto del Kievski è percorso come da un filo rosso da un fondamentale malinteso: perché predicare e - una volta al potere - realizzare la libertà di separazione delle nazioni, se tutto lo sviluppo tende verso la loro fusione? E allora perché predichiamo e, quando saremo al potere, realizzeremo la dittatura del proletariato, se tutto lo sviluppo tende verso la soppressione di ogni dominio coercitivo di una parte della società sull’altra? La dittatura è il dominio di una parte della società su tutta la società e, per giunta, un dominio fondato direttamente sulla violenza. La dittatura del proletariato, quale unica classe coerentemente rivoluzionaria, è indispensabile per rovesciare la borghesia e far fallire i suoi tentativi controrivoluzionari. Il problema della dittatura del proletariato assume tale importanza che non può esserci alcun iscritto al partito socialdemocratico che la neghi o l’accetti soltanto a parole. Ma non si può negare che in singoli casi, come eccezione, per esempio in un piccolo Stato dopo che il suo grande vicino ha compiuto la rivoluzione sociale, la borghesia possa cedere pacificamente il potere, quando si convinca che la sua resistenza è senza prospettive e preferisca salvare la pelle. È assai più probabile, naturalmente, che anche nei piccoli Stati il socialismo non si realizzerà senza guerra civile e quindi l’unico programma della socialdemocrazia internazionale deve essere il riconoscimento di questa guerra civile, anche se nei nostri ideali non c’è posto per la violenza contro gli uomini. Lo stesso, mutatis mutandis (con le relative modifiche), si dica delle nazioni. Noi siamo per la loro fusione, ma oggi non può realizzarsi il trapasso dalla fusione coercitiva, dall’annessione, alla fusione libera e volontaria, senza libertà di separazione. Noi riconosciamo - e del tutto giustamente - il primato del fattore economico, ma interpretare questo primato alla P. Kievski significa fare una caricatura del marxismo. Persino i trusts, persino le banche, pur essendo ugualmente inevitabili in un capitalismo evoluto, assumono nell’epoca dell’imperialismo moderno forme concrete diverse nei diversi paesi. Tanto più risultano dissimili, nonostante la loro sostanziale omogeneità, le forme politiche dei paesi imperialisti progrediti, d’America, d’Inghilterra, di Francia e di Germania. Un’analoga varietà si avrà riguardo al cammino che l’umanità compirà dall’odierno imperialismo alla rivoluzione socialista di domani. Tutte le nazioni giungeranno al socialismo, è inevitabile, ma non vi giungeranno tutte allo stesso modo, ognuna darà la sua impronta originale a questa o quella forma di democrazia, a questa o quella variante di dittatura del proletariato, a questo o quel ritmo di trasformazione socialista dei vari aspetti della vita sociale. Niente è più meschino teoricamente e ridicolo praticamente che dipingere, “in nome del materialismo storico”, questo aspetto dell’avvenire con una tinta grigia e uniforme: sarebbe un imbratto di Suzdal, niente di più. E se anche la realtà mostrasse che prima della prima vittoria del proletariato socialista si emancipa e si separa solo la cinquecentesima parte delle nazioni oggi oppresse, che prima dell’ultima vittoria del proletariato socialista sulla terra (ossia durante le vicende della già iniziata rivoluzione socialista) si separa solo la cinquecentesima parte delle nazioni oppresse e per pochissimo tempo, anche in questo caso sul piano teorico e sul piano pratico-politico avremmo ragione di consigliare agli operai di non aprire le porte dei loro partiti socialdemocratici a quei socialisti dei paesi oppressori che non accettano e non propagandano la libertà di separazione di tutte le nazioni oppresse. Poiché in pratica non sappiamo e non possiamo sapere quante nazioni oppresse avranno necessità della separazione per recare il proprio apporto alla varietà di forme della democrazia e delle forme di transizione al socialismo. Ma sappiamo bene, vediamo e tocchiamo con mano quotidianamente, che la negazione della libertà di separazione è oggi un colossale errore teorico e un servigio pratico reso agli sciovinisti dei paesi oppressori.

“Sottolineiamo - scrive P. Kievski in una nota al brano da noi riportato - che sosteniamo in pieno la rivendicazione:  ‘Contro tutte le annessioni coercitive’.”

Ma l’autore non risponde affatto alla nostra concreta e precisa dichiarazione che questa “rivendicazione” consiste nell’accettazione dell’autodecisione, che non si può formulare una definizione corretta del concetto di “annessione”, se non lo si riduce all’autodecisione! Egli pensa, forse, che per discutere basti enunciare tesi e rivendicazioni, senza dimostrarle!

“… In generale noi accettiamo in pieno, - egli prosegue, - nella loro formulazione negativa, una serie di rivendicazioni, che acuiscono la coscienza del proletariato contro l’imperialismo; del resto, non vi è alcuna possibilità di accogliere le relative formulazioni positive, rimanendo sul terreno dell’ordine vigente. Contro la guerra, ma non a favore di una pace democratica...”

Tutto sbagliato, dalla prima all’ultima parola. L’autore ha letto la nostra risoluzione Il pacifismo e la parola d’ordine della pace (pp. 44-45 dell’opuscolo Il socialismo e la guerra)[19] e, a quanto sembra, l’ha persino approvata, ma non l’ha capita affatto. Noi siamo per la pace democratica, ma mettiamo in guardia gli operai contro l’illusione che essa sia possibile con gli attuali governi borghesi, senza “una serie di rivoluzioni”, com’è detto nel nostro testo. Noi abbiamo dichiarato che predicare una pace “astratta”, che non tiene conto cioè della reale natura di classe, o meglio della natura imperialista, degli attuali governi dei paesi belligeranti, significa ingannare gli operai. Abbiamo detto chiaramente nelle tesi del Sotsialdemokrat (n. 47) che il nostro partito, se la rivoluzione lo conducesse al potere durante la guerra in corso, proporrebbe immediatamente la pace democratica a tutti i paesi belligeranti.[20]

 

19. Cfr. Conferenza delle sezioni estere del POSDR, Lenin, OC vol. 21.

20. Cfr. Alcune tesi, Lenin, OC vol. 21.

 

Ma P. Kievski, persuadendo se stesso e gli altri che egli è sfavorevole “solo” all’autodecisione e non già alla democrazia in genere, è giunto ad affermare che “non siamo favorevoli ad una pace democratica”. Non è forse curioso?

Non occorre soffermarsi su ognuno degli esempi di Kievski, perché non mette conto sprecare spazio per confutare errori logici tanto ingenui, che suscitano nel lettore solo un sorriso. La socialdemocrazia non ha né può avere una sola parola d’ordine “negativa”, che serva soltanto ad “acuire la coscienza del proletariato contro l’imperialismo”, senza fornire in pari tempo una risposta positiva sul modo come la socialdemocrazia risolverà il problema in causa, una volta che sarà andata al potere. Una parola d’ordine “negativa”, non legata a una precisa soluzione positiva, non “acuisce”, ma ottunde la coscienza, perché è una parola vuota, un puro grido, una declamazione senza contenuto.

La differenza tra le parole d’ordine “che negano” o condannano le calamità politiche e quelle economiche non è stata avvertita da P. Kievski. Questa differenza consiste nel fatto che determinate tare economiche sono proprie del capitalismo in generale, qualunque sia la sovrastruttura politica, che è economicamente impossibile sopprimere queste tare, senza sopprimere il capitalismo e che non si può citare un solo caso in cui questo sia avvenuto. Viceversa, le tare politiche consistono in deviazioni dalla democrazia, che sul piano economico è assolutamente possibile nell’ambito dell’“ordine vigente”, ossia del capitalismo, e che sotto forma di eccezione viene realizzata nei singoli Stati in modi diversi. Di nuovo l’autore non ha capito affatto le condizioni generali per l’attuazione della democrazia in generale!

Lo stesso si dica per la questione del divorzio. Rammentiamo al lettore che la prima a sollevare questo problema, nel  dibattito sulla questione nazionale, è stata Rosa Luxemburg. L’autrice ha enunciato la giusta opinione che noi, difendendo l’autonomia all’interno dello Stato (della regione o del territorio, ecc.), dobbiamo sostenere, in quanto socialdemocratici centralisti, la soluzione dei principali problemi politici, compresi quelli relativi alla legislazione del divorzio, da parte del potere statale, da parte del parlamento centrale. L’esempio del divorzio mostra all’evidenza che non si può essere democratici e socialisti, se non si rivendica subito la piena libertà di divorzio, poiché l’assenza di questa libertà è una forma di superoppressione della donna, del sesso oppresso, anche se non è difficile capire che riconoscere la libertà di lasciare il marito non significa invitare tutte le donne a farlo!

P. Kievski “obietta”:

“Come si presenterebbe questo diritto [di divorziare] se in questi casi [quando cioè la moglie vuole lasciare il marito] la moglie non potesse realizzarlo? O se la sua attuazione dipendesse dalla volontà di terzi o, peggio, dalla volontà di chi pretende alla sua “mano”? Cercheremmo di proclamare questo diritto? No di certo!”.

Quest’obiezione rivela la più radicale incomprensione del rapporto esistente tra la democrazia in generale e il capitalismo. In regime capitalista si danno per solito, non come casi isolati ma come fenomeni tipici, condizioni tali che le classi oppresse non possono “esercitare” i propri diritti democratici. Il diritto al divorzio rimane, nella stragrande maggioranza dei casi, inattuato sotto il capitalismo, perché il sesso oppresso è schiacciato economicamente, perché la donna continua a essere in ogni democrazia capitalista una “schiava domestica”, confinata nella stanza da letto, nella camera dei bambini, in cucina. Anche il diritto di eleggere “propri” giudici popolari, funzionari, insegnanti, giurati, ecc. è, nella stragrande maggioranza dei casi, irrealizzabile in regime capitalista, a causa dell’oppressione economica degli operai e dei contadini. Lo stesso si dica per la repubblica democratica: il nostro programma la “proclama”, come “governo del popolo”, benché tutti i socialdemocratici sappiano molto bene che, sotto il capitalismo, la repubblica più democratica conduce soltanto alla corruzione dei funzionari da parte della borghesia e all’alleanza tra la Borsa e il governo.

Solo chi è assolutamente incapace di riflettere o chi ignora del tutto il marxismo può trarre da questo la conclusione che la repubblica, la libertà di divorziare, la democrazia e l’autodecisione delle nazioni non giovano a niente! I marxisti sanno invece che la democrazia non distrugge l’oppressione di classe, ma rende solo più pura, più ampia, più aperta e più energica la lotta di classe: ed è quanto ci occorre. Quanto più completa è la libertà di divorziare, tanto più chiaro risulta per la donna che la fonte della sua “schiavitù domestica” va ricercata nel capitalismo e non già nella mancanza di diritti. Quanto più democratica è la struttura statale, tanto più risulta chiaro per l’operaio che la radice del male è il capitalismo, non la mancanza di diritti. Quanto più integrale è la parità giuridica delle nazioni (ed essa è incompleta senza libertà di separazione), tanto più risulta chiaro per gli operai della nazione oppressa che il male è nel capitalismo, non nella mancanza di diritti. E così via.

Lo ripetiamo, è sciocco rimasticare l’abbiccì del marxismo, ma che fare, se P. Kievski lo ignora?

Kievski ragiona intorno al divorzio allo stesso modo in cui ne ragionava (se ben ricordo, nel Golos di Parigi) uno dei segretari esteri del Comitato di organizzazione,[21] Semkovski. È vero, argomentava Semkovski, la libertà di divorziare non equivale all’invito a lasciare il proprio marito, ma, signori, se si dimostra a una moglie che tutti i mariti sono migliori del suo, il risultato è la stesso!!

 

21. Comitato di organizzazione, centro dirigente dei menscevichi, costituito nel 1912 alla Conferenza d’Agosto dei liquidatori. Durante 1a prima guerra mondiale il Comitato di organizzazione si schierò sulle posizioni del socialsciovinismo. Oltre al Comitato di organizzazione (che funzionò sino alle elezioni del Comitato Centrale del partito menscevico nell’agosto 1917), operava fuori della  Russia un segretariato estero del Comitato di organizzazione (P.B. Axelrod, I.S. Astrov-Poves. Iu.O. Martov, A.S. Martynov, S.Iu. Semkovski), che pubblicò dal febbraio 1915 al marzo 1917 un proprio organo di stampa, assumendo posizioni affini al “centro”.

L’articolo di Semkovski a cui fa riferimento Lenin, Lo sfacelo della Russia?, apparve il 21 marzo 1915 nel giornale Nasce slovo (n. 45).

 

Così argomentando, Semkovski dimenticava che la stravaganza non è una trasgressione dei propri doveri di socialista e di democratico. Se Semkovski si accingesse a persuadere una donna che tutti i mariti sono migliori del suo, nessuno l’accuserebbe di esser venuto meno ai suoi doveri di democratico; forse gli direbbero: non esiste un grande partito che manchi di grandi stravaganti! Ma, se Semkovski pensasse di sostenere e considerare democratico chi negasse la libertà di divorziare, ricorrendo, per esempio, al tribunale, alla polizia o alla Chiesa contro la moglie che si è separata dal marito, siamo persuasi che persino la maggior parte dei colleghi del segretariato estero di Semkovski, pur essendo pessimi socialisti, gli rifiuterebbero ogni solidarietà.

Sia Semkovski che Kievski “hanno ciarlato” sul divorzio, hanno dato prova di non capire la questione e ne hanno eluso la sostanza: il diritto al divorzio, come tutti i diritti democratici senza eccezione, può essere attuato in regime capitalista difficilmente, in modo convenzionale, limitato, angusto e formale e tuttavia nessun socialdemocratico onesto potrà considerare non solo socialista, ma neppure democratico, chi neghi questo diritto. Sta qui l’essenza del problema. Tutta la “democrazia” consiste nella proclamazione e nell’attuazione di “diritti” realizzati assai poco e assai convenzionalmente sotto il capitalismo, ma il socialismo è inconcepibile senza questa proclamazione, senza la lotta per realizzare questi diritti immediatamente, senza l’educazione delle masse nello spirito di questa lotta.

Non essendosi reso conto di ciò, P. Kievski ha eluso nel suo scritto la questione principale concernente il suo tema specifico, la questione cioè del modo come noi socialdemocratici aboliremo l’oppressione nazionale. P. Kievski si è trastullato con frasi generiche sul mondo “bagnato di sangue”, ecc. (che non hanno niente a che vedere con il problema). Ed, in sostanza, è rimasta una sola affermazione: la rivoluzione socialista risolverà tutto! O, come dicono talvolta i sostenitori della posizione di P. Kievski, l’autodecisione è impossibile in regime capitalista, superflua in regime socialista.

Si tratta di una concezione teoricamente assurda e sciovinista sul piano pratico politico. Essa equivale all’incomprensione del significato della democrazia. Il socialismo è inconcepibile senza democrazia in due sensi: 1. il proletariato non può realizzare la rivoluzione socialista, se non si prepara ad essa con la lotta per la democrazia; 2. il socialismo vittorioso non potrà consolidare la sua vittoria e condurre l’umanità verso l’estinzione dello Stato, se non avrà realizzato integralmente la democrazia. E pertanto quando si dice che l’autodecisione è superflua in regime socialista si cade nella stessa assurda e impotente confusione di chi sostiene che la democrazia è superflua in regime socialista.

L’autodecisione non è più inconcepibile, in regime capitalista, della democrazia in generale ed è altrettanto superflua nel socialismo quanto la democrazia.

La rivoluzione economica crea le premesse indispensabili per abolire tutte le forme di oppressione politica. Appunto per questo è illogico e sbagliato invocare la rivoluzione economica, quando si pone il problema del modo di distruggere l’oppressione nazionale. È impossibile abolire tale oppressione senza la rivoluzione economica. Questo è incontestabile. Ma limitarsi a questa affermazione significa cadere nel ridicolo e miserevole “economicismo” imperialistico.

Bisogna attuare l’uguaglianza giuridica delle nazioni; bisogna proclamare, formulare e realizzare gli uguali “diritti” di  tutte le nazioni. Su questo concordano tutti, tranne forse il solo P. Kievski. Ma qui si pone un interrogativo che viene invece eluso: la negazione del diritto a costituire un proprio Stato nazionale non è forse negazione dell’uguaglianza giuridica?

È naturale che lo sia. E la democrazia conseguente, vale a dire socialista, proclama, formula e realizza questo diritto, senza il quale non si può progredire verso la completa e libera unità e fusione delle nazioni.

 

 7. Conclusione. I metodi di Alexinski

Abbiamo sin qui analizzato solo alcuni dei ragionamenti di P. Kievski. Esaminarli tutti avrebbe significato scrivere un articolo cinque volte più lungo, perché nel nostro autore non c’è un solo ragionamento corretto. Corretta in lui - se non vi sono errori nelle cifre - è solamente la nota che riferisce i dati sulle banche. Tutto il resto è una sorta di impossibile groviglio di idee confuse, condite con proposizioni come “impalare il corpo palpitante”, “gli eroi vittoriosi non solo li giudicheremo, ma li condanneremo a morire e a scomparire”, “tra atroci convulsioni nascerà un mondo nuovo”, “non si parlerà di principi e di diritti, né di proclamare la libertà dei popoli, ma di istituire rapporti realmente liberi, di annientare la secolare schiavitù, di distruggere l’oppressione sociale in generale e l’oppressione nazionale in particolare”, ecc.

Queste proposizioni nascondono e rivelano due “cose”: la prima è che sono fondate sull’“idea” dell’economicismo imperialistico, ossia su una caricatura altrettanto mostruosa del marxismo e su un’incomprensione altrettanto totale dei rapporti tra socialismo e democrazia quanto l’“economicismo” di triste memoria del periodo 1894-1902.

La seconda è che in tali proposizioni ravvisiamo a occhio nudo una ripetizione dei metodi di Alexinski; e su questo è bene soffermarsi, perché Kievski ha scritto un intero paragrafo del suo articolo (capitolo 2, paragrafo e: La situazione particolare degli ebrei) esclusivamente con questi criteri.

Già al congresso di Londra del 1907 i bolscevichi si allontanavano da Alexinski, quand’egli, in risposta a determinate tesi teoriche, assumeva la posa dell’agitatore e cominciava a urlare, del tutto a sproposito, frasi altisonanti contro ogni forma di sfruttamento e di oppressione. “Ecco, cominciano gli strepiti!”, dicevano allora i nostri delegati. Ma gli “strepiti” non portarono fortuna ad Alexinski.

Gli stessi “strepiti” si possono ritrovare in P. Kievski. Non sapendo che rispondere a una serie di questioni e considerazioni teoriche formulate nelle nostre tesi, egli assume la posa dell’agitatore e comincia a urlare frasi contro l’oppressione degli ebrei, sebbene ogni individuo capace di pensare veda bene che la questione degli ebrei in generale e tutti gli “urli” di P. Kievski non hanno il minimo rapporto con il tema.

I metodi di Alexinski non gli porteranno fortuna.