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del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XXV - novembre 2023

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Organizzazione comunista e partito comunista

Critica della tesi di Fosco Giannini su Pietro Secchia

“Non c’è Partito Comunista senza organizzazione comunista”. Così Fosco Giannini conclude l’articolo Pietro Secchia e la concezione leninista e gramsciana del Partito Comunista pubblicato su Cumpanis il 7 luglio 2022, in occasione del 50° anniversario della morte di Pietro Secchia, e riproposto il 27 settembre 2023 per il convegno su Secchia che il Centro Studi Nazionale D. Losurdo, Interstampa e Cumpanis hanno tenuto il 30 settembre presso il Circolo Culturale “Concetto Marchesi” di Milano.

Il (nuovo)PCI si è già occupato di questo articolo nell’Avviso ai Naviganti n. 130 del 6 ottobre, rivolgendo due domande all’autore:

1. nel 1946 la questione decisiva ai fini della lotta per instaurare il socialismo in Italia era la struttura organizzativa del PCI o era la linea per far avanzare in Italia la rivoluzione socialista rafforzando ed estendendo nel paese le posizioni di potere raggiunte con la vittoria della Resistenza?

2. dopo che il PCI aveva promosso e diretto la Resistenza ed era entrato nel governo con gli altri partiti del CLN, la battaglia centrale era quella per moltiplicare le cellule di azienda o quella per prendere le misure politiche, finanziarie, economiche e sociali adeguate alla trasformazione generale del paese?

Nell’AaN citato il (n)PCI ha chiaramente esposto che la nostra risposta alle due domande è in entrambi i casi la seconda e perché. Siamo dunque in totale opposizione

- con l’esaltazione del ruolo di Secchia come artefice della strutturazione del PCI per cellule di produzione e della funzione decisiva del rafforzamento di questa linea organizzativa nel contesto della lotta di classe che infiammava il paese dopo la vittoriosa Resistenza contro il nazifascismo,

- con la tesi che questa linea organizzativa è il segreto dei successi del movimento comunista del secolo scorso e il rimedio dei mali e delle derive che lo hanno colpito.

Giannini analizza la storia del primo PCI facendo coincidere l’inizio del suo declino con l’abbandono del sistema organizzativo basato sulle cellule di produzione (di cui Pietro Secchia, nel suo ruolo di Responsabile dell’organizzazione, fu l’ideatore e l’artefice principale) in favore del sistema organizzativo per sezioni territoriali: questa sarebbe la causa e non uno degli effetti dell’abbandono di una concezione e di una linea rivoluzionaria da parte del primo PCI.

Da questa convinzione discende un bilancio della storia del primo PCI che porta Giannini a nobilitare il “partito nuovo” di Palmiro Togliatti e a esaltare come grande dirigente comunista perfino Giorgio Amendola, ovvero i due più importanti responsabili dell’emarginazione di Secchia all’interno del PCI: Togliatti che è stato il capofila in Italia e in Europa della corrente dei revisionisti moderni impostasi in URSS dopo la morte di Stalin; Amendola che subentrò a Secchia nella direzione del settore organizzazione del PCI, dunque a capo del processo di emarginazione degli esponenti di sinistra del PCI che si raccoglievano attorno a Secchia. Giannini è partigiano di Secchia, del suo affossatore Togliatti e tesse le lodi di Amendola che è stato tra i promotori dell’ala più di destra del PCI, i cosiddetti “miglioristi”. Esponenti di rilievo di essa furono Giorgio Napolitano e altre “serpi in seno” che hanno popolato la dirigenza del vecchio PCI dall’inizio della sua deriva nel revisionismo moderno (l’abbandono del marxismo-leninismo). L’emarginazione nel 1954 di Secchia e degli ex dirigenti partigiani che lo seguivano fu un passo importante del percorso che sfociò nella liquidazione del primo PCI con Occhetto: l’operazione della Bolognina del 1989-1991. Che Giannini consideri alla stregua di una unica grande famiglia la sinistra del vecchio PCI (di cui Secchia era espressione), la sua destra (Togliatti) e la sua estrema destra (Amendola) conferma il suo disinteresse per le questioni di concezione del mondo e linea. Egli non si rende neanche conto che il rivendicazionismo (limitarsi alle rivendicazioni politiche e sindacali) e l’elettoralismo (limitarsi alla partecipazione alle elezioni e all’attività degli organismi elettivi dello Stato borghese) furono le due tare del primo PCI (e degli altri partiti comunisti d’Europa e dell’America del Nord). Giannini non valuta la storia del primo PCI e dei suoi esponenti sulla base del contributo dato alla mobilitazione della classe operaia e delle masse popolari per instaurare il socialismo. Invece proprio questo è il metro di valutazione che devono adottare i comunisti all’opera oggi per ricostruire un partito comunista rivoluzionario e per appropriarsi del patrimonio di insegnamenti che l’esperienza del primo PCI porta in dote.

Se Giannini adottasse tale metro di valutazione dovrebbe fare i conti coi limiti che hanno impedito a Secchia, nonostante fosse a capo di un’organizzazione dalla forza formidabile quale era il PCI del dopoguerra, di condurla ad instaurare il socialismo valorizzando le posizioni conquistate con la vittoriosa Resistenza. Adottando tale metro di misura Giannini non potrebbe essere tanto accomodante con Togliatti e il cosiddetto “partito nuovo” ovvero con l’avvio dell’erosione dei caratteri rivoluzionari del PCI uscito vittorioso dalla Resistenza, a favore della sua trasformazione in un partito integrato nel regime della Repubblica Pontificia sia pur nella posizione di sponda politica delle rivendicazioni delle masse popolari. Non scambierebbe per “grandi dirigenti comunisti” personaggi come Amendola.

Infine, se adottasse questo metro di valutazione Giannini dovrebbe mettere in discussione la propria concezione e il significato che attribuisce al carattere leninista del pc, una qualità che con grande facilità conferisce al “partito nuovo” di Togliatti e al Partito Comunista Portoghese (PCP) di Álvaro Cunhal, alla concezione del partito comunista del Gramsci dell’Ordine Nuovo (dunque prima del periodo di studio e istruzione trascorso da Gramsci in URSS tra il 1921 e il 1923) e a quella del Gramsci che di ritorno dall’URSS prese la guida del PCdI ed effettivamente tentò di trasformarlo in un partito leninista. Ma è questa una qualità che è rimasta estranea ai pc operanti in Europa, nonostante gli sforzi compiuti dall’Internazionale Comunista e da alcuni grandi dirigenti come Antonio Gramsci e anche Pietro Secchia per l’Italia, come Ernst Thälmann in Germania, come Nikos Zachariadis in Grecia e altri, per imprimere una trasformazione in senso rivoluzionario a pc quali quelli europei in definitiva mai emancipatisi dalla condizione di partiti di “tipo vecchio, parlamentari, riformisti di fatto e appena sfumati di colore rivoluzionario” (vedasi Lenin, Note di un pubblicista, vol. 33 di Opere complete) che era anche la condizione dei partiti socialisti e operai della II Internazionale, da cui i primi partiti comunisti originarono per scissione.

È questo un ordine di considerazioni a cui Giannini non giunge perché non è alla costruzione di un pc rivoluzionario che mira, bensì alla costruzione di un’organizzazione ispirata e in continuità con quei pc grandi e forti quanto impotenti dal punto di vista rivoluzionario che hanno operato in Europa nel secolo scorso, dopo la vittoria contro il nazismo e il fascismo. Esperienza che oggi sopravvive nell’esperienza del PCP di cui Giannini e Cumpanis sono grandi estimatori (hanno tra l’altro curato la traduzione in italiano di Il partito dalle pareti di vetro di A. Cunhal).

Quanto alle esperienze del PCP e del PCI delle cellule di produzione di Secchia ritengo che oggi, nella condizione di debolezza e rinascita del movimento comunista cosciente e organizzato (MCCO) è utile studiarle ai fini della costruzione di organizzazioni comuniste di quadri e di massa. Tuttavia il loro insegnamento principale è che la più forte, radicata e capace delle organizzazioni in assenza di una concezione del mondo abbastanza avanzata e di una linea rivoluzionaria (dunque di una strategia e di una tattica per dirigere e organizzare la mobilitazione rivoluzionaria delle masse popolari fino all’instaurazione del socialismo) è destinata all’inconcludenza e quindi a rifluire nelle tare storiche del movimento comunista dei paesi imperialisti.

La “social-democratizzazione” del primo PCI che Fosco Giannini depreca è indubbio che si alimentò anche dell’indebolimento e poi della liquidazione del tessuto delle cellule di produzione del Partito, ma il fattore scatenante di questo processo era nella linea promossa da Togliatti, fautore dell’integrazione del PCI nel regime instaurato dalla Chiesa in combinazione con gli USA, la Mafia e la Confindustria una volta caduto il fascismo. A questa linea la sinistra del PCI capeggiata da Secchia non seppe opporre, al di là della contestazione, una strategia alternativa con le sue articolazioni tattiche per la conquista del potere politico, finché la destra non è anche intervenuta per promuoverne l’emarginazione e l’isolamento.(1)


1. In proposito vedasi Pietro Secchia e due importanti lezioni, in VO 26 - luglio 2007.


La “social-democratizzazione” del primo PCI è il risultato storico di questo contrasto antagonista tra linee non trattato nel partito: nessuno tra i contendenti della lotta tra linee in seno al partito seppe utilizzare secondo una linea rivoluzionaria l’enorme forza raccolta dal partito che nel 1954, come Giannini ricorda, aveva 2.145.285 milioni di iscritti, 56.934 cellule di produzione, 11.146 mila sezioni territoriali. Questa forza ha permesso al PCI di capeggiare le lotte avvenute tra il 1945 e il 1975 e di insidiare elettoralmente la Democrazia Cristiana. Ma era la struttura del “partito nuovo” togliattiano (alla cui costruzione Secchia, nei fatti, collaborò dai vertici del settore organizzazione) concepito per valorizzare le posizioni raggiunte con la Resistenza al fine di fare del PCI un forte partito elettorale portavoce delle istanze delle masse popolari nelle assemblee elettive borghesi, oppositore del regime DC ma integrato nel nuovo sistema politico borghese. Non a caso questa forza è risultata superflua ai fini rivoluzionari come dimostrato in ognuno degli eventi di cui il PCI avrebbe potuto approfittare per conquistare posizioni ulteriori e avanzare nella lotta per l’instaurazione del socialismo. Parlo di eventi come la ripresa in mano della FIAT da parte degli Agnelli tramite Valletta collaboratore del fascismo, dell’estromissione del PCI dal governo De Gasperi nel 1947, dell’attentato a Togliatti nel 1948, dell’adesione dell’Italia alla NATO nel 1949, del terrore anti-comunista scatenato in Sicilia dalla Mafia (Portella della Ginestra, 1946). Benché la sua base fremesse e la sua forza enorme gli consentisse anche un’enorme capacità di manovra,(2) la direzione del PCI ha sistematicamente risposto rimettendosi alla legalità borghese e soggiacendo alle iniziative del nemico. Una condotta opposta a quella seguita dal PCI quando nelle ultime fasi del regime fascista, pur potendo contare su rapporti di forza molto inferiori e dovendo fare i conti con le restrizioni all’agibilità politica proprie del fascismo, capeggiò la Resistenza antifascista del 1943-1945, a cominciare dagli scioperi del marzo-aprile ’43 e poi con l’organizzazione armata partigiana in cui sollevò le ampie masse popolari nella lotta per abbattere il regime fascista.


2. Sono esempi del potenziale rivoluzionario di cui disponeva il PCI nel dopoguerra anche le giornate di mobilitazione operaia e popolare del luglio ’60 contro l’installazione del governo Tambroni che avrebbe incluso i fascisti del MSI tra le forze di governo, tentativo che la classe operaia e le masse popolari fecero fallire con la forza della mobilitazione spontanea del corpo militante del PCI che la direzione del PCI fu costretta a rincorrere.


Certamente il radicamento del PCI nella classe operaia e le cellule delle grandi aziende capitaliste furono un elemento cardine del ruolo svolto dal partito nel promuovere la Resistenza antifascista, e lo fu assieme ad altri due aspetti parimenti rilevanti: l’organizzazione di tipo cospirativo e dunque clandestina del partito e la sua composizione da partito di quadri, dunque da corpo scelto di uomini e donne dediti alla causa del partito. Questo sistema organizzativo del PCI, questo sì autenticamente leninista, fu il risultato degli sforzi compiuti negli anni ‘30 dall’Internazionale Comunista per elevare il livello e trasformare in senso rivoluzionario il partito uscito malconcio dall’arresto di Gramsci nel 1926 e dalla sua impreparazione di fronte al consolidamento del regime fascista. Fu adottando un sistema organizzativo conseguente al genere di partito leninista che l’IC cercò di modellare in Italia che una forza numericamente piccola quale era il PCI all’inizio degli anni ’40 fu capace di sollevare forze molte più grandi.

Emerge dunque che l’organizzazione del pc è il risultato della concezione del mondo e della linea che presiede al partito. L’organizzazione, ben insegnava Stalin, è il fattore decisivo, ma solo una volta definita la linea e se la linea del partito non è rivoluzionaria, come nel caso del PCI dopo la Resistenza, non lo è neanche il suo sistema organizzativo. È quanto dimostra proprio la parabola del PCI del dopoguerra: la grande macchina organizzativa e il grande concentramento di cellule nel tessuto produttivo del paese diventarono trampolino di lancio di Togliatti per promuovere l’integrazione del PCI nel sistema politico borghese della neonata Repubblica Pontificia.

Giannini inverte sistematicamente i termini della questione: l’organizzazione decide la linea. Dunque una linea organizzativa giusta (l’insediamento del PCI nel tessuto produttivo tramite proprie cellule) avrebbe determinato o sarebbe bastata a determinare una linea politica giusta. È con queste lenti che legge l’impulso positivo dato da Gramsci alla costruzione del PCI poiché già ai tempi dell’Ordine Nuovo fautore, ad avviso di Giannini, della linea delle cellule di produzione. Giannini però distorce Gramsci che in verità nel periodo dell’Ordine Nuovo e nel biennio rosso del 1919-20 sosteneva sì il primato delle cellule di produzione ma secondo una linea di tendenza consigliarista e di subordinazione degli organismi di partito al movimento dei Consigli di Fabbrica. Gramsci è passato alla storia come il più grande dirigente comunista espresso dal nostro paese non per “l’intuizione” delle cellule di produzione, ma per essere stato all’avanguardia in Italia (una volta ritornatovi dopo due anni di studio e istruzione in URSS) nella traduzione del marxismo-leninismo in conformità alle condizioni del nostro paese, nell’opera per emancipare il PCI dalle influenze dei partiti della II Internazionale da cui, per scissione, si era costituito nel 1921.

L’insegnamento della storia del movimento comunista, incompreso a Giannini come a molti pur fautori della rinascita del MCCO, è che per la ricostruzione del PCI non esistono scorciatoie organizzativiste. La storia del vecchio MCCO del nostro paese è ricca di esperienze di forti organizzazioni dirette da comunisti e la debolezza attuale dei comunisti induce molti ad ambire alla ricostruzione di un’organizzazione dei comunisti numerosa, forte, duttile e dotata di capacità di manovra nella lotta di classe.(3) Giannini lo fa esemplarmente ispirandosi e chiamando ad ispirarsi ai sistemi organizzativi del PCI degli anni successivi alla Resistenza. Il dibattito, la sperimentazione, il confronto delle esperienze dei comunisti in tema di metodi organizzativi fanno bene al MCCO e alla sua rinascita, ma alla condizione che non diventino un tentativo di percorrere una scorciatoia per evitare i nodi ideologici e politici della ricostruzione del partito comunista. Chi lo fa, nel migliore dei casi costruisce organismi capaci di esprimere forza in questo o quel campo ma che in definitiva non sanno dove andare e che passi fare per dirigere, da comunisti, l’intervento nella lotta di classe e dunque la costruzione della rivoluzione socialista. Oggi come è sempre stato nel movimento comunista, chi sa dove vuole arrivare (il socialismo), come arrivarci (la strategia da seguire) e ha la determinazione per arrivarci, può costruire organismi di qualunque tipo con cui sviluppare il lavoro ai fini rivoluzionari. Il partito comunista come corpo scelto degli uomini e delle donne che assimilano la concezione comunista del mondo per dirigere la costruzione della rivoluzione socialista è il fondamentale di questi organismi.

È invece destinato ad agitare le acque dello spontaneismo, anche se animato dalle migliori intenzioni, chi pensa di costruire organismi senza fare i conti o rimandando ad un futuro indeterminato la definizione degli obiettivi, della strategia per conseguirli e della concezione del mondo su cui cementare l’unità di partito.

Armando R.


3. Il gruppo dirigente di Rete dei Comunisti fa della parola d’ordine “l’organizzazione è la nostra forza” il motto proprio e delle organizzazioni che dirige, con ciò indicando quello che è un effettivo punto di forza di questa area politica, ma anche un limite ideologico che ostacola e devia verso il campo del pensiero debole da sinistra borghese il contributo che pure RdC, nei fatti, fornisce alla rinascita del MCCO. Dell’argomento abbiamo trattato nell’articolo Dove va la Rete dei Comunisti?, in VO 74 - luglio 2023.