La Voce 75 (ritorna all'indice)

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XXV - novembre 2023

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Epoca imperialista e movimento comunista cosciente e organizzato

Tolti alcuni intellettuali che al modo di Oliviero Diliberto sostengono che nel nostro paese o addirittura nel mondo non esistono ancora le condizioni oggettive necessarie per instaurare il socialismo (ma forse hanno anche idee loro proprie su cosa è il socialismo di cui ci occupiamo noi comunisti), nel movimento comunista cosciente e organizzato (MCCO) italiano “tutti” da alcuni mesi (alcuni da vari anni, ad es. Francesco Piccioni) sostengono che per porre fine al catastrofico corso delle cose che, pur con crescente difficoltà, la borghesia imperialista, capeggiata dai gruppi imperialisti USA, impone ancora nel nostro paese e in gran parte del mondo, è indispensabile che alla testa delle masse popolari vi sia un partito comunista all’altezza del suo compito: promuovere e dirigere la rivoluzione socialista. Molti sostengono non solo che è necessario costruire nuovamente un partito comunista, ma anche che per costruirlo bisogna fare il bilancio del primo PCI, ma nessuno lo fa. Alcuni (Fosco Giannini è uno) eludono questo compito con lodi alla concezione e all’operato di Pietro Secchia (che dopo la Resistenza non ha fatto fronte a Palmiro Togliatti per la direzione del PCI) nell’organizzazione del PCI e con l’esaltazione di Alvaro Cunhal (che non ha guidato il Partito comunista portoghese che egli dirigeva a instaurare il socialismo) per la sua concezione del partito di compagni che anziché concorrere tra loro influenzati dalla borghesia sono solidali e “fanno comunità”. Altri come Fausto Sorini invocano il bilancio dell’operato del PCI e le lezioni che ne conseguirebbero, ma non lo fanno (e Sorini ha più di 70 anni e nel MCCO italiano “è in campo da sempre”). Il risultato è che oggi la maggior parte degli intellettuali del MCCO hanno come tema principale se non unico dei loro discorsi e scritti le malefatte della borghesia anziché la strategia e le tattiche del partito comunista per arrivare a instaurare il socialismo.

La storia dell’epoca imperialista ha mostrato che proprio questo, un partito comunista all’altezza del suo compito, nei paesi imperialisti è, tra le condizioni soggettive necessarie per instaurare il socialismo, quella più difficile da creare. È quindi importante che comprendiamo e facciamo conoscere i motivi per cui il PCI fondato nel 1921 non ha instaurato in Italia il socialismo, nonostante le grandi forze che aveva accumulato a seguito della Resistenza 1943-1945 e l’eroismo di tanti suoi membri e dirigenti. Dato che i motivi per cui il PCI non ha adempiuto in Italia al suo compito dichiarato sono fondamentalmente gli stessi per cui nessuno dei partiti comunisti degli attuali paesi imperialisti d’Europa e dell’America del Nord ha adempiuto al proprio, le argomentazioni che svolgo qui di seguito sono in larga misura utili agli aspiranti comunisti di ognuno di questi paesi. Infatti tutti i partiti comunisti degli attuali paesi imperialisti d’Europa e dell’America del Nord hanno avuto nel secolo scorso una storia analoga per questo aspetto a quella del PCI: un periodo di espansione e di grandi conquiste seguito alla vittoria nel 1917 della Rivoluzione d’Ottobre e al trionfo dell’Unione Sovietica contro le tre successive aggressioni promosse da tutti i gruppi imperialisti (“soffocare il bambino finché è ancora nella culla” predicava esplicitamente Churchill) e poi un periodo di decadenza da cui non si sono ancora ripresi.

Posto che nell’epoca imperialista le condizioni oggettive per instaurare e costruire il socialismo c’erano e ci sono, il motivo per cui il PCI non ha adempiuto al suo compito sta fondamentalmente nei suoi errori e limiti nella comprensione delle condizioni, della forma e dei risultati della lotta di classe che hanno minato la sua attività.

Il principale è stato l’incomprensione

1. del salto qualitativo tra l’epoca imperialista, che è iniziata negli ultimi decenni del secolo XIX, e la società basata sulla valorizzazione del capitale tramite la produzione di merci sviluppatasi in Europa nei secoli precedenti, il cui funzionamento è esposto da Marx in Il capitale,(1)

2. della forma che i comunisti devono dare alla rivoluzione socialista nei paesi imperialisti perché sia vittoriosa.


1. La società capitalista si forma in Europa nei primi secoli del secondo millennio dopo Cristo e da qui viene esportata e radicata nell’America del Nord. Essa era basata sulla produzione di merci per iniziativa dei capitalisti che allo scopo ingaggiavano lavoratori in cambio di un salario. “La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalista si presenta come una immane raccolta di merci e la singola merce si presenta come sua forma elementare” (K. Marx, Il capitale, libro primo, cap. 1). “La società capitalista comincia realmente (...) solo quando il medesimo individuo capitalista impiega allo stesso tempo un numero piuttosto considerevole di operai e, quindi, il processo lavorativo si estende, si ingrandisce e fornisce prodotti su scala quantitativa piuttosto considerevole. L’operare di un numero piuttosto considerevole di operai allo stesso tempo, nello stesso luogo (o, se si vuole, nello stesso campo di lavoro), per la produzione dello stesso genere di merci, sotto il comando dello stesso capitalista, costituisce storicamente e concettualmente il punto di partenza della produzione capitalista” (ibidem, cap. 11). Essa passa attraverso fasi successive la distinzione tra le quali è illustrata da Marx nei capitoli 11 (passaggio dalla produzione artigianale alla manifattura), 12 (manifattura) e 13 (macchine e grande industria) di Il capitale, libro primo. Questa società raggiunge il suo massimo sviluppo in Inghilterra nei primi decenni dell’Ottocento. Proprio nei paesi più avanzati in questo sviluppo, tra il 1825 e il 1867 la produzione di merci presenta un fenomeno mai osservato prima: cicli decennali di stagnazione, prosperità, sovrapproduzione di merci e crisi (crisi cicliche) la cui successione si arresta alla fine degli anni ’70, ma per lasciare il posto a una depressione permanente e cronica: la prima crisi generale del capitalismo. Ad essa si riferisce Federico Engels nella Prefazione dell’edizione in inglese del libro primo di Il capitale che porta la data del 5 novembre 1886.



1. Quanto al salto qualitativo tra l’epoca imperialista e la società borghese (capitalista) dei secoli precedenti, nei capitoli 13, 14 e 15 del libro terzo di Il capitale (scritti prima di dare alle stampe nel 1867 la prima edizione del libro primo anche se essi furono dati alle stampe solo nel 1894 da Engels), Marx aveva trattato della sovrapproduzione assoluta di capitale a cui prima o poi la caduta tendenziale del saggio del profitto insita nel modo di produzione capitalista avrebbe inevitabilmente dato luogo e delle operazioni a cui la borghesia sarebbe ricorsa per farvi fronte. Nella rivista Rapporti Sociali numero 0 (1985) e nell’Avviso ai Naviganti 8 (2012) il (n)PCI ha ripreso e illustrato alla luce della storia successiva quello che Marx aveva scritto negli anni ’60 dell’Ottocento alla luce della scienza comunista, come previsione di eventi a venire. Di fatto negli ultimi decenni dell’Ottocento nei paesi capitalisti più avanzati la sovrapproduzione assoluta di capitale determinò il salto dalla vecchia società borghese (nella quale la merce è la forma elementare della ricchezza) alla nuova epoca (nella quale la forma elementare della ricchezza è il denaro). A questa nuova epoca J.A. Hobson, un economista borghese, mosso dalla caratteristica della nuova società che più lo colpiva, diede il nome di “imperialismo” nel suo libro intitolato appunto Imperialism, pubblicato a Londra e a New York nel 1902. Lenin nel 1916 fece uno studio accurato delle trasformazioni sopravvenute nei paesi capitalisti più avanzati tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Nel suo opuscolo L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (vol. 22 delle Opere complete) che doveva essere pubblicato nello stesso 1916 nella Russia ancora dominata dallo Zar, allo scopo di evitare la censura zarista egli espose chiaramente solo quelle trasformazioni che riguardavano l’economia. Ma nelle prefazioni dell’opuscolo pubblicate dopo la caduta del regime zarista Lenin scrisse che l’imperialismo formatosi in Europa, negli USA e in Giappone negli anni precedenti la Prima guerra mondiale era la vigilia della rivoluzione socialista: gli uomini sono oramai in grado di produrre merci in quantità illimitata con un impiego decrescente di forza lavoro, quindi l’aspetto centrale dello sviluppo della società non è più la produzione di merci (la crescita delle forze produttive), ma chi comanda, cioè la politica. Ciò è ancora più evidente oggi che nel 1916.


2. Gli uomini per vivere hanno bisogno di cibo, vestiti, case, ecc.: le merci (beni e servizi) che i capitalisti producono hanno cioè un valore d’uso.


La produzione di merci è solo una componente dell’attività economica, una componente indispensabile (2) (sosterrà chiaramente Lenin contro Bukharin nel 1919 durante l’ottavo congresso del PC(b)R: vedasi Rapporto sul programma del partito, vol. 29 delle sue Opere complete), ma del tutto subordinata al capitale finanziario e speculativo: la ricchezza delle società imperialiste si presenta come una immane massa di capitale finanziario e speculativo e il denaro si presenta come sua forma elementare. Ogni gruppo imperialista valorizza il proprio capitale con affari finanziari, con speculazioni, grandi opere ed eventi inutili se non anche dannosi, ingigantendo i debiti pubblici, con guerre e altre simili operazioni. L’attività politica presiede oramai all’attività economica: in ogni paese imperialista autorità ed enti pubblici sovrintendono alla gestione del sistema monetario, bancario e di tutto il sistema economico e lo Stato è il maggior fornitore di servizi e il maggior acquirente di beni e servizi e di forza lavoro. Clara E. Mattei sintetizza nel titolo del suo recente libro L’economia è politica quello che molti economisti illustrano: nell’epoca imperialista è la politica che dirige l’economia. Quindi: o capitalismo monopolistico di Stato o socialismo. La tesi (il cui più noto sostenitore in Italia è stato Gianfranco Pala - morto nei giorni scorsi - con la sua rivista La Contraddizione) secondo la quale anche nell’epoca imperialista resta valida la legge del valore-lavoro che (come dimostrato da Marx in Il capitale) presiede allo svolgimento dell’economia della vecchia società capitalista è sistematicamente confutata dallo svolgimento reale.(3) Quanto alla produzione di merci, i capitalisti la spingono al massimo, ma al massimo a cui riescono a spingere chi ha soldi a spenderli per beni e servizi anche inutili o addirittura nocivi (ma utili a ingigantire il primo pilastro del regime di controrivoluzione preventiva), però non vanno oltre ed è ben lungi dall’essere il principale strumento di valorizzazione di tutto il capitale da cui ogni capitalista deve ricavare profitto. Questo massimo assorbe solo una frazione decrescente del capitale complessivo. Il FMI, in un rapporto di cui si è servito l’autore di PIL mondiale e capitale finanziario (in La Voce 69, novembre 2021), stimava, calcolando il tutto in dollari USA, che in tutto l’anno 2013 l’intera produzione mondiale di merci (beni e servizi) era ammontata solo al 7% del capitale complessivo operante (75mila miliardi su 1 milione e 68mila miliardi di $).


3. Secondo i fautori di questa tesi in definitiva lo scambio delle merci avviene ancora oggi, dietro lo schermo dei prezzi in denaro, tra valori uguali (cioè sulla base del tempo di lavoro socialmente necessario per produrle). Cosa questa che è assurda: basta vedere le variazioni del prezzo del petrolio che non corrispondono a cambiamenti nelle modalità di produzione del petrolio (tempo di lavoro socialmente necessario per produrlo), basta vedere il prezzo dei prodotti in saldo, ecc.


Quanto alle principali caratteristiche della nuova società, alle principali trasformazioni in campo economico alle quali l’umanità dominata dalla borghesia capitalista per ricavarne profitti era già arrivata nel 1916, Lenin le aveva riassunte in cinque punti:

1. nella produzione di merci (beni e servizi) i monopoli hanno reso marginale la libera concorrenza tra capitalisti;

2. il capitale finanziario ha preso la direzione del capitale impiegato nella produzione di merci e ne ha fatto un suo strumento e parte minore;

3. l’esportazione di capitali ha preso il sopravvento sull’esportazione di merci;

4. le maggiori potenze capitaliste hanno spartito tra loro il mondo intero (colonie e semicolonie);

5. pochi grandi monopoli si dividono tra loro la produzione mondiale delle merci più importanti.


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Il capitalismo monopolistico di Stato


Tratto caratteristico del capitalismo monopolistico di Stato è il ruolo che lo Stato assume nell’economia. In ogni paese i grandi gruppi e centri finanziari e bancari (che già dominano i capitalisti industriali: le aziende industriali sono diventate società per azioni e sono quotate in Borsa, ecc.) si fondono in organismi formali (comitati e commissioni di produzione e d’altro genere) e informali con le autorità politiche del paese e gestiscono in modo unitario, per quanto possibile fin tanto che le forze produttive restano proprietà privata dei capitalisti ognuno dei quali deve valorizzare il suo capitale (ricavarne profitti) e questi godono della libertà d’iniziativa, l’intera vita economica: la produzione e la distribuzione di merci (beni e servizi) fatte da imprese capitaliste. Ma la gestiscono tramite:

1. una pianificazione che però è solo orientativa cioè fatta non assegnando a ogni impresa compiti produttivi definiti (pianificazione amministrativa), ma stimolando il capitalista tramite incentivi finanziari e fiscali, tramite ordinativi pubblici e facilitazioni legislative,

2. la creazione in alcuni settori di aziende di proprietà pubblica che producono anch’esse merci,

3. l’intervento dello Stato a regolare le relazioni tra lavoratori e padroni,

4. l’aiuto e il sostegno dello Stato per l’espansione internazionale degli investimenti finanziari e del commercio di gruppi capitalisti,

5. l’espansione della spesa pubblica: aumento del numero dei dipendenti pubblici, acquisto di beni e servizi da parte dello Stato, sviluppo su grande scala della produzione militare, della vendita di armi e della vendita e gestione di sistemi d’arma, espansione dei servizi pubblici (istruzione, sanità, manutenzione del territorio, vie di comunicazioni, reti di distribuzione, ecc.) e della previdenza sociale (pensioni di invalidità e vecchiaia, maternità e infanzia, ecc.).

Il capitalismo monopolistico di Stato si afferma nel corso della Prima guerra mondiale, a partire dalla Germania che è il paese in cui questo sistema si realizza più radicalmente e prima che negli altri paesi imperialisti proprio a causa della guerra, quando lo Stato distoglie dalla produzione e arruola nella guerra una parte considerevole dei lavoratori, regola il lavoro nelle aziende importanti ai fini della guerra (divieto di cambiare lavoro e altri regolamenti), gli ordinativi dello Stato (in armi ed esplosivi, divise, vie di comunicazione, opere edilizie, bare, medicinali, alimenti e altro) si moltiplicano.

Lenin (La catastrofe incombente e come lottare contro di essa, 1917) aveva indicato nel capitalismo monopolistico di Stato “la preparazione materiale più completa del socialismo, la sua anticamera, quel gradino della scala storica che nessun gradino intermedio separa dal gradino chiamato socialismo”.

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E a proposito dei partiti comunisti che dopo la Rivoluzione d’Ottobre per iniziativa dell’Internazionale Comunista fondata nel 1919 si erano formati in Europa e nell’America del Nord, Lenin, oramai assorbito dai compiti attinenti direttamente alla costruzione del socialismo in Russia, in relazioni a congressi del Partito Comunista (bolscevico) Russo e a congressi dell’Internazionale Comunista affermò più volte che complessivamente essi presentavano solo un’infarinatura di comunismo: nella sostanza non erano ancora diventati partiti comunisti capaci di far avanzare la rivoluzione socialista, nessuno di essi aveva una comprensione abbastanza avanzata delle condizioni, delle forme e dei risultati della lotta di classe nel proprio paese, dovevano ancora studiare. Valga a conferma quello che è scritto (Opere complete vol. 33) nella conclusione della sua relazione (Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale) al quarto Congresso dell’Internazionale Comunista (13 novembre 1922), l’ultimo al quale poté partecipare stante la malattia che lo condurrà alla morte prematura nel gennaio 1924.

In proposito vale anche per Stalin quanto detto per Lenin: anch’egli era convinto che ai fini del futuro della rivoluzione mondiale il compito principale a cui dovevano assolvere i comunisti sovietici era far avanzare la costruzione del socialismo in URSS. Egli lo disse anche esplicitamente: se l’URSS fosse stata sconfitta, nei paesi imperialisti sarebbe sopravvenuta un’epoca di “nera reazione” (vedasi Ancora sulla deviazione socialdemocratica nel nostro partito, 7 dicembre 1926 - Opere complete vol. 9, pag. 41-44 e Ancora sul carattere internazionale della Rivoluzione d’Ottobre, in Pravda 6 e 7 novembre 1927 - Opere complete vol. 10, pag. 260). Visto quello che è successo dopo il 1991 e prosegue nei paesi imperialisti, quando quell’ipotesi formulata anni prima come inverosimile è diventata realtà, Stalin non aveva torto. In sostanza, Lenin e Stalin si dedicarono principalmente alla costruzione del socialismo in URSS, non alla lotta ideologica (lotta tra due linee) nei partiti comunisti dei paesi imperialisti per renderli adeguati al loro compito storico: ritenevano che il successo della costruzione del socialismo in URSS avrebbe contribuito alla crescita del movimento comunista in tutto il resto del mondo, compresi i paesi imperialisti. Lo sviluppo successivo dei partiti comunisti nei paesi imperialisti non fu influenzato solo da questa scelta di due individui d’eccezione. Grazie anche ai successi della costruzione del socialismo in URSS e ai sacrifici dei popoli sovietici (i milioni di morti sovietici della Seconda guerra mondiale li testimoniano), le masse popolari dei paesi imperialisti, guidate dai partiti dell’Internazionale Comunista, strapparono alla borghesia grandi conquiste di civiltà e di benessere. Ma, in assenza dell’iniziativa cosciente del partito comunista, proprio questi successi distoglievano dalla lotta per instaurare il socialismo partiti e masse popolari che si affidavano a rivendicazioni e partecipazione alle istituzioni della democrazia borghese. I partiti comunisti non svilupparono la “infarinatura di comunismo” oltre un certo limite e in definitiva il grosso di essi regredì. Lo sviluppo della RPC guidata dal PCC di Mao Zedong e dei suoi successori, quello che succede negli altri paesi che hanno persistito sulla via del socialismo e quello che succede nei paesi dove i gruppi imperialisti hanno esportato ed esportano la produzione di merci confermano che per il futuro della rivoluzione socialista e del mondo quello che manca, quindi il compito attuale dei comunisti, è la rinascita del MCCO nei paesi imperialisti. In questo consiste la giusta comprensione del salto qualitativo tra l’epoca imperialista e la società borghese (capitalista) dei secoli precedenti.


2. Quanto alla forma che dobbiamo dare alla rivoluzione socialista nei paesi imperialisti perché sia vittoriosa, il problema venne posto esplicitamente per la prima volta da F. Engels nel 1895, quando fece pubblica autocritica (Introduzione del 1895 alla raccolta di scritti di K. Marx su Le lotte di classe in Francia 1848-1850) della forma che Marx e lui avevano fino ad allora attribuito alla rivoluzione socialista. Lui e Marx avevano ritenuto che essa si sarebbe svolta in modo simile alla rivoluzione antifeudale della borghesia. Avevano trascurato il fatto che con la rivoluzione borghese l’umanità era passata da una classe dominante e sfruttatrice a un’altra che già era alla testa di un nuovo sistema di sfruttamento, mentre con la rivoluzione socialista si trattava di mobilitare e organizzare le classi oppresse e sfruttate non per essere un po’ meno sfruttate e oppresse dalla borghesia, ma perché dessero inizio a uno sviluppo che avrebbe eliminato la divisione in classi.


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Usare la teoria come guida per l’azione

Epoca imperialista e lotta contro lo smantellamento dell’apparato produttivo


La caratteristica basilare dell’epoca imperialista è che la produzione di merci è una parte minoritaria delle attività con cui i capitalisti valorizzano i loro capitali ed è diventata un’appendice del capitale finanziario e speculativo. La borghesia imperialista ha così portato l’umanità in un vicolo cieco: una parte importante e crescente di uomini e donne non è impiegata dai capitalisti a produrre beni e servizi, perché per produrre la quantità dei beni e servizi usata basta una frazione del tempo di lavoro dei proletari (ovvero il tempo di lavoro di una frazione dei proletari); ma allo stesso tempo l’accesso dei proletari ai beni e servizi continua a dipendere per ognuno di loro dal tempo che egli dedica alla produzione di beni e servizi (lavoro salariato). Da qui lo smantellamento dell’apparato produttivo e la condanna di una parte dei proletari all’emarginazione e di un’altra parte al superlavoro. Da qui il moltiplicarsi delle grandi opere inutili e dannose, dei grandi eventi, del turismo usa e getta, la pubblicità e la promozione del consumismo, i beni a obsolescenza programmata, ecc. con tutto quello che ne consegue per gli uomini e l’ambiente.

Solo l’attività cosciente di quella parte delle masse popolari che si organizzano in modo da esserne capaci può rompere questo vicolo cieco con la pianificazione economica e la partecipazione crescente della massa della popolazione alla gestione della vita sociale, alle attività politiche, culturali, sportive e ricreative, cioè instaurando il socialismo. Da qui il ruolo specifico dei comunisti.


Questo ha varie ricadute sul lavoro di massa, sull’azione che i comunisti svolgono qui e ora verso i lavoratori contro lo smantellamento dell’apparato produttivo. Di seguito alcune di esse.

1. Non ci sono posti di lavoro sicuri. Ogni azienda è a rischio chiusura, riduzione, delocalizzazione e privatizzazione, indipendentemente da ciò che produce (beni o servizi), dal mercato per cui produce (nazionale o internazionale), dal tipo di prodotto (nuovo o vecchio). Con iniziative opportune e usando ogni spunto, bisogna incitare e portare i lavoratori a organizzarsi fin da subito, a formare in ogni azienda propri organismi senza aspettare di essere sotto attacco, senza aspettare che inizi la mobilitazione o la vertenza sindacale.

2. La vendita di aziende italiane a multinazionali industriali e a fondi di investimento stranieri e italiani è l’anticamera di chiusure, riduzioni o delocalizzazioni, perché a multinazionali e fondi di investimento le aziende non interessano principalmente per quello che producono ma per accaparrarsi sovvenzioni pubbliche, togliere di mezzo dei concorrenti, speculare sulle variazioni del corso delle azioni, ecc. Bisogna promuovere l’iniziativa dei lavoratori per impedirla.

3. Le lotte per salari, sicurezza sul posto di lavoro, diritti sono strettamente legate alla lotta per impedire lo smantellamento dell’apparato produttivo, bisogna combinarle: se conquistano un aumento di salario ma il padrone chiude l’azienda i lavoratori restano con un cerino in mano.

4. È possibile vincere singole lotte, per i governi e le altre autorità borghesi trovare soldi e altre risorse necessarie a tenere in funzione l’azienda che un capitalista vuole chiudere, trovare un capitalista che subentra a quello che vuole delocalizzare, nazionalizzare un’azienda, allargare le attività di aziende pubbliche o partecipate inglobando i lavoratori di un’azienda in chiusura è solo una questione di volontà politica. Si tratta di fare della lotta contro chiusure e delocalizzazioni un problema di ordine pubblico, cioè di costringere con le buone o con le cattive le autorità a intervenire.

5. La chiusura, riduzione, delocalizzazione di un’azienda non riguarda solo i lavoratori di quell’azienda, ma anche quelle dei lavoratori delle aziende a monte e a valle, delle masse popolari della zona, del paese e in molti casi anche di altri paesi. Bisogna far valere praticamente questo legame, costruendo alleanze su ampia scala.

6. È possibile vincere singole lotte, ma non è possibile rimuovere la causa generale comune a ogni chiusura, riduzione, delocalizzazione lottando in ordine sparso, azienda per azienda: è come stuccare una crepa in un edificio che sta crollando. Ogni singola lotta deve servire a promuovere, suscitare e alimentare un movimento generale di trasformazione del paese, per costituire un governo di emergenza che inquadra in un piano economico nazionale le aziende capitaliste e pubbliche, le cooperative (vecchie e nuove) e altre strutture economiche.


Mobilitare le masse popolari contro lo smantellamento dell’apparato produttivo e gli altri effetti del dominio della borghesia imperialista e combattere tra i comunisti la tendenza a limitarsi a questo! Per quanto siano avanzate e grandi le richieste che i lavoratori fanno ai padroni e le rivendicazioni che avanzano, per quanto siano combattive le lotte rivendicative che conducono, queste restano sempre una cosa qualitativamente diversa dal volersi impadronire del potere, eliminare i padroni, instaurare il socialismo e costruire una società senza padroni e senza più divisione in classi.

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Era ovvio che i portavoce delle classi sfruttate e oppresse di paesi dominati dai capitalisti e dai loro associati e agenti (i partiti laburisti, socialisti o socialdemocratici) incominciassero dandosi, in conformità con il senso comune alimentato dalla nuova classe dominante, 1. alla promozione di rivendicazioni relative alle condizioni di lavoro e di vita a fronte dei capitalisti e del loro Stato con relativa Pubblica Amministrazione, agenzie ed enti autonomi e 2. alla partecipazione alle elezioni e alla lotta relativa all’operato degli organi elettivi dello Stato borghese. I partiti comunisti costituitisi negli attuali paesi imperialisti nell’ambito dell’Internazionale Comunista continuarono sulla stessa strada. Ad essa si riferisce Lenin nella sua valutazione della loro natura. I successi che ottenevano li confermarono a torto della bontà della strada che stavano percorrendo.

Nel primo campo le classi sfruttate e oppresse hanno raggiunto grandi risultati nell’epoca imperialista, specialmente dopo la nascita dell’Unione Sovietica. Sono le conquiste di civiltà e di benessere delle masse popolari, che da quando negli anni ’70 del secolo XX è incominciata la nuova crisi generale del capitalismo la borghesia imperialista sta eliminando (anche se con difficoltà crescenti stante la resistenza delle masse e i contrasti tra capitalisti), giovandosi anche della crisi ambientale prodotta dalla società capitalista che si è via via aggravata.

Nel secondo campo la borghesia imperialista ha provveduto (come Engels aveva ben previsto ed esposto - vedi l’Introduzione del 1895) prima a neutralizzare e poi ad arginare il seguito dei partiti comunisti creando il regime di controrivoluzione preventiva (vedasi Manifesto Programma del (n)PCI cap. 1.3.3).

I partiti comunisti non avevano dunque una strategia per prendere il potere, ma nel secolo XX le condizioni della lotta di classe nei paesi imperialisti dell’Europa e dell’America del Nord sono state tuttavia tali che in dati periodi la borghesia imperialista ha dovuto di fatto ammettere nei suoi governi esponenti dei partiti socialisti e dei partiti comunisti. Fu quello che apertamente avvenne in alcuni Stati della Germania dopo la sconfitta del 1918, in Francia, in Spagna. In Italia nel 1943 la borghesia imperialista addirittura pregò socialisti e comunisti perché entrassero nel suo governo. Espongo con un certo dettaglio quello che successe in Italia perché dà anche la chiave di lettura di quello che apertamente o di fatto è successo negli altri paesi imperialisti. Quando nel 1923 l’Esecutivo dell’IC incaricò Antonio Gramsci di dirigerlo, il PCI quanto alla concezione della forma della rivoluzione socialista in Italia era arretrato come gli altri partiti comunisti. Gramsci ha esposto il compito che intendeva svolgere nello scritto (a firma Giovanni Masci) Che fare? pubblicato il 1° novembre su La Voce della gioventù, organo della FGCI. Il partito doveva comprendere perché e come “aveva regalato tanti giovani e proletari” al movimento fascista di Mussolini ispirato dalla borghesia. Gramsci mise il partito allo studio (come ben si desume dalle Opere di Antonio Gramsci 1923-1926, Einaudi Editore e dalle Tesi del Congresso di Lione - 20-26 gennaio 1926) perché elevasse il livello della sua azione politica. Purtroppo Gramsci non aveva compreso abbastanza a fondo il corso delle cose e non fece adottare dal PCI le misure necessarie a rendere impossibile al regime fascista di decapitare il PCI, a preservare il suo nucleo dirigente dall’opera criminale del regime fascista e a proteggere gli altri partiti non apertamente collusi con il regime fascista. Gramsci pagò questo suo limite con la prigionia a vita (1926-1937) come succederà al dirigente comunista tedesco Ernst Thälmann e il PCI con l’arresto della via che con Gramsci aveva intrapreso. Il PCI continuò con eroismo ad alimentare la resistenza delle masse popolari in Italia e le lotte antifasciste in Spagna, in Abissinia e nel mondo, ma nonostante le lotte rivendicative (esempio marzo 1943) non ebbe un ruolo da promotore consapevole nella dissoluzione del Fascismo (culminata nel luglio 1943). Quando nel settembre del 1943 l’esercito regio si dissolse, solo con iniziative spontanee e isolate molti membri del PCI fecero man bassa delle armi abbandonate che impiegarono più tardi quando Palmiro Togliatti tramite Radio Mosca lanciò la direttiva di mettersi alla testa dei soldati sbandati e alimentare con operai delle fabbriche formazioni partigiane per la guerra contro le forze nazifasciste. Quando a seguito del successo della Resistenza in corso borghesi, clero e monarchici chiesero il suo ingresso nel regio governo Badoglio, il PCI vi acconsentì e indusse i partiti progressisti del CLN ad acconsentire solo grazie all’opera di Palmiro Togliatti orientato da Stalin.

Il PCI tuttavia tanto poco aveva compreso la forma che la rivoluzione socialista doveva assumere che i suoi esponenti non si avvalsero delle loro nuove posizioni governative e delle difficoltà in cui la borghesia imperialista si trovava per far prendere al governo misure favorevoli agli interessi immediati delle masse popolari (miglioramento delle condizioni di vita, cambio della moneta, assunzione per la ricostruzione del paese di tutti i proletari disponibili, direzione delle fabbriche e di altre aziende ed enti pubblici e privati nelle mani dei lavoratori organizzati, terra ai contadini, ecc.) e per togliere potere uno dopo l’altro agli esponenti del governo e dell’Amministrazione Pubblica (e in particolare delle Forze Armate e delle Forze dell’Ordine) irriducibilmente contrari alle misure che i comunisti facevano prendere al governo. Si adattarono invece loro alle misure che i borghesi facevano prendere al governo: negazione di potere legislativo alla Costituente, ritorno di Valletta e C. nelle fabbriche e nelle altre aziende da cui i lavoratori li avevano cacciati o da cui erano fuggiti, amnistia ai fascisti e silenzio sull’operato di collaboratori e di dirigenti di enti privati e pubblici che erano stati opportunisticamente succubi dei fascisti (come Einaudi, De Gasperi, ecc.), dissoluzione a guerra finita delle formazioni partigiane, consegna della gestione dell’ordine pubblico alle forze regie oramai vassalle degli imperialisti anglosassoni, ecc. A conclusione di questo operato, comunisti e altri progressisti si lasciarono espellere dal governo e dalle direzione di fabbriche e altre aziende ed enti pubblici e privati non appena la borghesia imperialista e il suo clero hanno avuto la forza per farlo.

Sulla base del bilancio dell’esperienza del primo PCI e di altri partiti comunisti dei paesi imperialisti d’Europa e dell’analisi del corso catastrofico delle cose che i gruppi imperialisti cercano di imporre al nostro paese, il (n)PCI ha concluso che la strategia della rivoluzione socialista nel nostro paese è la guerra popolare di lunga durata tradotta nel 2008 in dettaglio nella linea del Governo di Blocco Popolare (GBP). Stante le condizioni nazionali e internazionali in cui operano, i vertici della Repubblica Pontificia non possono che proseguire nel fare quello che fanno. Si tratta di approfittare di ogni circostanza per creare le 3+1 condizioni (4) e indurre i vertici della RP a ingoiare la costituzione di un GBP che operi in conformità ai sette punti del suo programma (5) e contemporaneamente creare le condizioni per far fronte vittoriosamente alle manovre che i vertici della RP e i loro alleati certamente metteranno in opera quando si renderanno conto che il GBP non è né un governo Conte (2018-2021) né il governo del CLN (1943-1947). È facendo fronte con successo a queste loro manovre che il partito comunista coalizzerà attorno a sé le forze necessarie a instaurare la dittatura del proletariato e darà il via alla costruzione del socialismo. Non dobbiamo avere paura che la borghesia imperialista ricorra alla guerra civile nel nostro paese. La via più efficace per prevenirla e impedire che vi faccia ricorso è creare le condizioni per vincerla.

Umberto C.


4. Le 3+1 condizioni necessarie alla costituzione del Governo di Blocco Popolare sono: 1. propagandare l’obiettivo del GBP e spiegare in cosa consiste, fino a che la sua costituzione diventi la sintesi consapevole delle aspirazioni delle organizzazioni operaie e delle organizzazioni popolari e lo strumento per realizzarle; 2. moltiplicare e rafforzare (politicamente e organizzativamente) le organizzazioni operaie e popolari; 3. promuovere in ogni modo e ad ogni livello il coordinamento delle organizzazioni operaie e popolari (reti territoriali e reti tematiche a livello di zona, provincia, regione o dell’intero paese; su questa base, rendere il paese ingovernabile da ogni governo emanazione del Vaticano, dei padroni, dei ricchi, delle organizzazioni criminali, degli imperialisti USA e succube del sistema imperialista mondiale.


5. I sette punti del programma generale del GBP sono: 1. assegnare a ogni azienda compiti produttivi (di beni o servizi) utili e adatti alla sua natura, secondo un piano nazionale (nessuna azienda deve essere chiusa); 2. distribuire i prodotti alle famiglie e agli individui, alle aziende e ad usi collettivi secondo piani e criteri chiari, universalmente noti e democraticamente decisi; 3. assegnare ad ogni individuo un lavoro socialmente utile e garantirgli, in cambio della sua scrupolosa esecuzione, le condizioni necessarie per una vita dignitosa e per la partecipazione alla gestione della società (nessun lavoratore deve essere licenziato, ad ogni adulto un lavoro utile e dignitoso, nessun individuo deve essere emarginato); 4. eliminare attività e produzioni inutili o dannose per l’uomo o per l’ambiente, assegnando alle aziende altri compiti; 5. avviare la riorganizzazione delle altre relazioni sociali in conformità alla nuova base produttiva e al nuovo sistema di distribuzione; 6. stabilire relazioni di solidarietà e collaborazione o di scambio con gli altri paesi disposti a stabilirle con noi; 7. epurare gli alti dirigenti della Pubblica Amministrazione che sabotano l’azione del GBP, conformare le Forze dell’Ordine (Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza, Polizia Penitenziaria), le Forze Armate e i Servizi d’Informazione allo spirito democratico della Costituzione del 1948 (in particolare a quanto indicato negli articoli 11 e 52) e ripristinare la partecipazione universale più larga possibile dei cittadini alle attività militari a difesa del paese e a tutela dell’ordine pubblico.