La Voce 68 (ritorna all'indice)

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XXIII - luglio 2021

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Il partito comunista deve essere clandestino!

Chi vuole fare la guerra contro la borghesia deve arruolarsi nel (nuovo) PCI o collaborare con esso

1. Centenario del PCI e clandestinità del Partito

Il periodo della clandestinità del primo PCI è uno degli argomenti meno presenti nel dibattito suscitato dal centenario della sua fondazione il 21 gennaio 1921. Eppure per circa un ventennio, dal 1926 (anno in cui Mussolini e Vittorio Emanuele III emanarono le leggi speciali) fino alla Resistenza del periodo 1943-1945, il primo PCI in Italia operò totalmente nella clandestinità, messo al bando per legge e aspramente perseguitato dalla polizia politica del regime fascista. Fu in queste circostanze che il PCI (denominato PCd’I fino allo scioglimento dell’Internazionale Comunista (IC) nel 1943) si riprese dalla sconfitta subita con l’instaurazione e il consolidamento del regime fascista e sotto la direzione dell’IC, dalla clandestinità e in un contesto di feroce repressione anticomunista, ricostruì la propria organizzazione nel paese e il radicamento tra operai e masse popolari. Dunque fu nelle condizioni della clandestinità che il Partito accumulò le forze che gli permisero poi nel 1943 di porsi alla testa della Resistenza.

L’instaurazione e consolidamento del regime fascista furono per il primo PCI ciò che Lenin scriveva nel 1922 in Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale rivolgendosi ai rivoluzionari italiani (quelli interni al neonato PCI e quelli che ancora restavano nelle file del PSI): “i compagni stranieri debbono digerire un buon pezzo di esperienza russa. Come questo avverrà, non lo so. Forse i fascisti in Italia per esempio, ci renderanno grandi servizi mostrando agli italiani che non sono ancora abbastanza istruiti, che il loro paese non è ancora garantito contro i centoneri”. Evidentemente Lenin non sospettava che cose analoghe e peggiori sarebbero avvenute in Germania e in altri paesi europei. Nel 1922 si rivolgeva agli italiani per esortarli a studiare l’esperienza della rivoluzione russa e a elaborare la via alla rivoluzione socialista in Italia.

La condizione di clandestinità in cui il primo PCI venne costretto fu una vittoria del Fascismo ma fu al contempo un servizio che il Fascismo rese all’istruzione del movimento comunista italiano. Infatti la repressione fascista costrinse il Partito ad adeguare la propria azione ai compiti che con la sua costituzione nel 1921 si era assunto di fronte al proletariato italiano, cioè dirigerlo nella lotta per l’instaurazione del socialismo. Fu grazie alla clandestinità e al sostegno dell’IC che il Partito non fu eliminato dalla repressione fascista come sostanzialmente accadde agli altri partiti, ricostruì la sua organizzazione e accumulò le forze che lo resero capace di agire e alimentare la resistenza al Fascismo. Ma fu una clandestinità difensiva e tardiva: ancora nel 1926, a quattro anni dalla marcia su Roma e dopo che il Fascismo si era affermato con il ferro e con il fuoco, i vertici del Partito avevano fiducia di potersi ritagliare margini di attività pubblica legale. È emblematica la vicenda dell’arresto di Antonio Gramsci avvenuto mentre ritornava a casa dal Parlamento.(1) Quindi il Partito fu costretto dagli eventi ad accettare l’idea che la lotta per il socialismo aveva la forma di una guerra e che occorreva regolarsi di conseguenza, agendo nella clandestinità.

Gramsci nei Quaderni del carcere ha trattato del tema della rivoluzione socialista come guerra di posizione (2) ma né lui né i vertici del Partito rimasti in attività né l’Internazionale Comunista (che fu il retroterra ideologico, politico e organizzativo del PCI, un retroterra che i comunisti di oggi non hanno) compresero che il partito comunista, lo Stato Maggiore della rivoluzione socialista, nei paesi imperialisti “democratici” d’Europa e dell’America del Nord doveva essere strategicamente, dal principio, organizzato come partito clandestino, libero dal controllo della borghesia.

Di fatto nella storia dei comunisti italiani organizzarsi su un piano pubblico è sempre stata la norma. Ciò venne motivato con la necessità di raggiungere le larghe masse con la propria propaganda, orientarle con il proprio intervento nella lotta politica borghese, nel movimento sindacale, ecc. Invece il lavoro illegale e clandestino era considerato alla stregua di una privazione in cui si era costretti nei periodi più bui (come è stato ad esempio nel ventennio fascista) oppure come un appendice del lavoro pubblico e legale cui ricorrere per specifiche attività extra-legali (come ad esempio l’organizzazione di squadre di combattimento contro lo squadrismo fascista).(3)

 

1. Vedasi Giuseppe Fiori, Vita di Antonio Gramsci, ed. Laterza 1966 pag. 254. Dell’episodio tratta anche Renzo Del Carria in Proletari senza rivoluzione (capitolo XIX La classe operaia e il partito alla guida della lotta nel ventennio fascista). Citando memorie di Montagnana, Del Carria scrive che molti compagni avevano suggerito a Gramsci di espatriare, ma egli si era opposto perché “credeva che, in quel momento, il suo posto fosse nel Parlamento: l’unica tribuna dalla quale sarebbe stato ancora possibile forse parlare al popolo: non poté neppure raggiungere quella Tribuna”.


2. Vedere Quaderni del carcere 7 (paragrafo 16), 10 (paragrafo 9), 13 (paragrafo 7) e altri.


3. La terza delle 21 condizioni per l’ammissione all’Internazionale Comunista approvate dal suo II Congresso (17 luglio-7 agosto 1920) recitava: “In quasi tutti i paesi d’Europa e d’America la lotta di classe entra in un periodo di guerra civile. In queste condizioni i comunisti non possono fidarsi della legalità borghese. Essi devono creare ovunque, accanto all’organizzazione legale, un organismo clandestino, capace di assolvere nel momento decisivo al suo dovere verso la rivoluzione. In tutti i paesi in cui, a causa dello stato d’assedio o di leggi d’eccezione, i comunisti non possono svolgere legalmente tutto il loro lavoro, essi devono senza alcuna esitazione combinare l’attività legale con l’attività illegale”.


Prova ne è il fatto che nel 1945, a liberazione avvenuta e ripristinate le agibilità democratico-borghesi, il PCI diretto da Togliatti ritornò, sul piano della linea e dell’azione politica, agli antichi fasti del fu Partito Socialista Italiano e nel giro di alcuni anni liquidò l’organizzazione rivoluzionaria di quadri tempratasi nella lotta clandestina al fascismo e poi nella Resistenza.

Cosa insegnano i 100 anni trascorsi dal 21 gennaio 1921 a proposito della concezione del ruolo e delle caratteristiche del partito comunista che il primo PCI espresse? Che il partito comunista in quanto Stato Maggiore della rivoluzione socialista deve essere un partito libero dal controllo della borghesia e quindi clandestino da un punto di vista strategico. Che i suoi quadri e membri, il funzionamento interno, le risorse organizzative, ecc. devono essere ignoti alla classe dominante: esso da questa posizione promuove e dirige il proprio intervento tra le masse popolari e infiltra propri agenti nel campo nemico. Che il partito comunista che non è clandestino è destinato alla sconfitta:

1. perché non è libero dal controllo della borghesia e quindi, come accaduto al primo PCI durante il fascismo, offre la possibilità al nemico di sbarazzarsene e reprimerlo come e quando meglio crede,

2. perché non è libero ideologicamente e politicamente di elaborare la propria linea e sviluppare la propria azione tesa alla costruzione della rivoluzione socialista ed è destinato a fossilizzarsi nei terreni d’azione (elezioni, sindacato, ecc.) che il nemico gli concede, come accaduto al primo PCI dopo la Resistenza.

L’esame dell’esperienza del primo PCI dimostra che quando questi fu clandestino, sia pure per imposizione del regime fascista, fu capace di accumulare forze fino a dirigere la Resistenza, il punto più alto raggiunto dalla classe operaia nella lotta per il potere.(4) Ciò fu il risultato di quasi 15 anni di attività clandestina del Partito, condotta combinando varie forme di lotta: la promozione di scioperi e organizzazioni illegali nelle aziende capitaliste e pubbliche, l’organizzazione dei volontari per la partecipazione alla guerra di Spagna in difesa della Repubblica, l’infiltrazione e l’intervento dei membri clandestini del Partito nelle organizzazioni di massa e nei sindacati fascisti, l’organizzazione della lotta armata contro il Fascismo dopo l’8 settembre 1943.(5) Invece quando agì come partito legale e pubblico finì, per ben due volte, con il dissipare il potenziale rivoluzionario a sua disposizione: una prima volta dopo la sua costituzione nel gennaio 1921 (al termine del Biennio Rosso e mentre emergeva il movimento degli Arditi del Popolo) e una seconda volta dopo il 1945 (con il Partito reduce dalla vittoriosa Resistenza antifascista). La storia ha dimostrato che la concezione legalitaria da “partito rivoluzionario nei limiti della legge” o conduce ad essere sbaragliati dal nemico (come accadde con il Fascismo) o all’essere inglobati dal nemico (come accadde dopo la Resistenza con l’integrazione del PCI nel regime della Repubblica Pontificia come partito promotore di lotte rivendicative e loro sponda parlamentare, nonostante la grande opera organizzativa e culturale che tuttavia il PCI svolse tra le masse popolari).


4. Per approfondimenti sui limiti del PCI nella Resistenza si rimanda all’articolo Le due linee nel PCI tra il 1943 e il 1947 in La Voce 67.


5. Per rendersi conto di quale sia stata la capacità di penetrazione dell’attività clandestina del Partito tra le masse popolari (perfino tra le masse organizzate al seguito del nemico), suggeriamo la lettura dell’autobiografia Il voltagabbana di Davide Lajolo. Lajolo fu membro del Partito Nazionale Fascista, combattente anti-repubblicano in Spagna, capitano dell’esercito fino all’8 settembre 1943, prima di essere reclutato dal PCI attraverso il movimento partigiano di cui in seguito divenne un importante esponente in Piemonte. La biografia di Lajolo è in generale una lettura utile per il nostro lavoro teso ad accumulare forze agendo nel campo nemico.


Per effetto di questa tradizione del primo PCI, nel nostro paese, tra quanti oggi si dichiarano appartenenti al movimento comunista e suoi fautori, è sedimentata una concezione legalitaria del ruolo e dei compiti del partito comunista, una concezione da “rivoluzionari nei limiti della legge emanata dallo Stato borghese” che era, per andare alle sue origini, la concezione del partito predominante anche nella II Internazionale. Di essa Stalin nel 1926, in Principi del leninismo, scriveva: “(...) i partiti della II Internazionale non sono atti alla lotta rivoluzionaria del proletariato, non sono atti alle battaglie che portano gli operai alla conquista del potere, ma sono semplici apparecchi di campagne elettorali e di lotta parlamentare. Questo spiega come mai, nel periodo del predominio degli opportunisti della II Internazionale, l’organizzazione politica essenziale del proletariato non fosse il partito ma la frazione parlamentare. Il Partito era allora, come si sa, l’appendice, il servo degli elementi della frazione parlamentare. È chiaro che in simili condizioni, sotto la guida di un simile partito non si poteva parlare di preparazione del proletariato alla rivoluzione”.

Sono queste le origini della concezione legalitaria del partito che ereditiamo dal primo PCI e che sopravvive ancora oggi: in forma plateale in elettoralisti alla Marco Rizzo (“se qualcuno pensa di fare la rivoluzione socialista c’è da chiamare il 118” è un ritornello frequente nei suoi discorsi), in una forma meno plateale in quei gruppi ed esponenti che concepiscono il partito come escrescenza delle proprie attività sindacali: Aldo Milani e il gruppo dirigente del SI Cobas, i capi di Rete dei Comunisti e dell’Unione Sindacale di Base. Bene si addice a questi ultimi quanto, sempre in Principi del leninismo, Stalin scrive a proposito dello spontaneismo. “La teoria della spontaneità è la teoria dell’opportunismo. Essa si inchina alla spontaneità del movimento operaio ed è di fatto la negazione della funzione dirigente dell’avanguardia della classe operaia, del partito della classe operaia. Questa teoria è decisamente opposta al carattere rivoluzionario del movimento operaio; è infatti contraria alla lotta contro le basi del capitalismo, vuole che il movimento segua la linea delle rivendicazioni “possibili”, “ammissibili” da parte del capitalismo, la “linea di minore resistenza”. Essa è l’ideologia del tradunionismo. La teoria della spontaneità non ammette che al movimento operaio spontaneo sia dato un carattere cosciente, metodico; non vuole che il partito marci alla testa della classe operaia, elevi la coscienza delle masse, guidi il movimento secondo direttive elaborate dal partito. Ritiene che gli elementi coscienti non devono impedire al movimento di andare per la sua strada e che il partito deve adattarsi al movimento spontaneo e lasciarsi rimorchiare da esso. È la teoria della sottovalutazione della funzione dell’elemento cosciente del movimento, l’ideologia dei “codisti”, la base logica di ogni opportunismo”.


2. La concezione legalitaria del primo PCI sopravvive nell’attuale movimento comunista cosciente e organizzato

La sottomissione alle leggi della borghesia e del clero è soltanto uno degli ingredienti della concezione legalitaria del primo PCI. Il suo ingrediente principale consiste nel delimitare l’azione del Partito e dei comunisti all’intervento negli spazi che il regime concede ai suoi oppositori. Oggi tra quelli che si dichiarano fautori della rinascita del movimento comunista questa concezione si esprime principalmente in tre forme grosso modo coerenti con le tre tare del movimento comunista dei paesi imperialisti.

1. Gli elettoralisti: coloro che circoscrivono l’azione del partito comunista all’agitazione e propaganda da condurre sui media, attraverso la partecipazione a campagne elettorali e ad assemblee elettive. Sono gli interpreti più fedeli del verbo legalitario del primo PCI e vedono nella riedizione della sua esperienza il viatico alla rinascita del movimento comunista.

2. Gli economicisti: coloro che circoscrivono l’azione del partito comunista al ruolo di organizzatore delle masse nella lotta sindacale e rivendicativa. Tra questi troviamo spesso individui generosi nel dedicarsi alla lotta al fianco di quelli che organizzano e anche individui che non hanno remore nel violare le leggi della borghesia. Essi concepiscono la rivoluzione socialista come un evento che prima o poi scoppierà per effetto di un processo di accumulazione di lotte spontanee sempre più radicali, coordinate, combattive.

3. I ribelli: sono gli orfani del militarismo che rievocano le gesta passate delle Organizzazioni Comuniste Combattenti degli anni ’70. Concepiscono l’attività del partito comunista alla stregua di quella di un’avanguardia votata all’azione diretta, che con le proprie azioni darebbe l’esempio ed ecciterebbe le masse a lottare in forme via via più combattive e “militanti”.

Oggi tra i fautori di questi tre modi di concepire il movimento comunista e la sua rinascita troviamo molti sinceri oppositori del regime della Repubblica Pontificia e individualmente onesti sostenitori degli interessi della classe operaia e delle masse popolari. In ciascuno di questi ambienti si esprimono la volontà e l’aspirazione a superare la concezione legalitaria del primo PCI ma in essa restano comunque intrappolati perché rassegnati che più che partecipare alle elezioni, fare sindacalismo o inscenare atti di ribellioni non è possibile fare. Quelli che il tran tran in cui sono immersi ha educato allo spirito anti-partito, anche se giurano di essere fautori della sua ricostruzione non esitano a scagliarsi contro il nostro Partito clandestino perché distante dalla loro “vera lotta” elettorale, economica, di movimento, oppure partecipano al “cordone sanitario” (nascondere l’esistenza del (n)PCI, rifiutare il dibattito franco e aperto) e alla denigrazione (il (n)PCI è manovrato dai Servizi Segreti: è la difesa di Marco Rizzo che non ha argomenti). Ciò che i fautori della “vera lotta” non sanno è che mentre, anche sinceramente, inalberano la parola d’ordine della ricostruzione del partito, proseguono la strada rovinosa che ha portato alla disfatta il primo PCI quando era grande e godeva di largo seguito:

1. sul piano ideologico con il ritrovarsi in un orizzonte ideale più o meno comune alla borghesia: alla borghesia sta bene anche che si parli di anticapitalismo e di socialismo se chi ne parla non è seriamente impegnato nella lotta per quell’obiettivo (disfattismo e attendismo);

2. sul piano politico con l’adesione ad una più o meno definita linea sottesa all’orizzonte di cui sopra, organizzandosi per fare sindacato, per competere nelle elezioni, per fare aggregazione sociale riducendo il nemico a controparte a cui rivendicare (di cui chi rivendica non può fare a meno) e se stessi a suoi oppositori;

3. sul piano organizzativo con il vincolarsi secondo legami di scopo che si rinnovano attraverso la vertenza, la lotta, la competizione elettorale, il movimento, ecc.

In definitiva vediamo che la prosecuzione, nella pratica, della concezione legalitaria che fu del primo PCI appiattisce il ruolo dei comunisti a quello di animatori del movimento spontaneo delle masse popolari, mentre il ruolo dei comunisti è sviluppare e trasformare il movimento spontaneo. Li riduce a rivoluzionari aspiranti ma impotenti poiché non attrezzati sul piano ideologico, politico e organizzativo ad assolvere la funzione cardine dei comunisti organizzati in Partito. Quale? Il comunista non è un agitatore delle acque del movimento spontaneo. Il comunista è il dirigente e l’organizzatore della lotta per la conquista del potere politico. È membro di un’avanguardia di cospiratori selezionata in base all’adesione e all’assimilazione della concezione comunista del mondo. È il membro di un corpo scelto che si confronta e si lega alle iniziative spontanee e si occupa specificamente di farle confluire in un movimento rivoluzionario, di far svolgere ad esse un ruolo nella guerra per abbattere il dominio della borghesia e del clero. L’agitazione e propaganda della rivoluzione socialista che è in corso (bando all’attendismo e al disfattismo) è il cuore della sua azione di proselitismo. La costruzione del nuovo potere operaio e popolare è il fine del suo intervento nelle lotte spontanee. La lotta con ogni mezzo necessario, legale e illegale che sia, è il suo metodo di lavoro. La clandestinità del nostro Partito è il presupposto che rende possibile e di prospettiva agire in questo senso. Nella nostra azione ci gioviamo di ogni organismo legale e pubblico. In particolare ci gioviamo del nostro partito fratello, il Partito dei CARC, che spicca tra gli organismi del movimento comunista cosciente e organizzato perché è un’organizzazione di tipo pubblico e legale ma:

1. condivide con noi l’analisi del corso delle cose e il bilancio della prima ondata da cui noi del (nuovo)PCI abbiamo ricavato che il partito comunista deve essere clandestino,

2. contribuisce alla lotta per il socialismo nel nostro paese collaborando, dalla sua posizione, al nostro piano d’azione per l’instaurazione del Governo di Blocco Popolare e in particolare all’opera per moltiplicare organizzazioni operaie e popolari e per l’uso creativo e rivoluzionario dell’intervento alle elezioni e nel movimento sindacale e rivendicativo,

3. contribuisce attivamente alla lotta ideologica contro le concezioni legalitarie del partito comunista, anzitutto riconoscendo che stante il suo carattere pubblico e legale il suo contributo alla lotta per il socialismo è utile ma limitato.


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L’instaurazione del regime di controrivoluzione preventiva rende sistematico l’impegno della borghesia a prevenire e impedire lo sviluppo del movimento comunista, prima di doverne reprimere il successo. Che la conquista del potere da parte della classe operaia si realizza per via rivoluzionaria, non è una novità. Ciò che è nuovo, è che da quando la conquista del potere da parte della classe operaia è storicamente all’ordine del giorno, la direzione della sua lotta per il potere, cioè il partito comunista, deve essere una struttura libera dal controllo della borghesia e dei suoi sistemi di controrivoluzione preventiva, cioè deve essere un partito clandestino.

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3. La clandestinità strategica del (nuovo)PCI

L’esperienza ha mostrato che avere un organismo clandestino che entri in azione “nel momento decisivo” non basta a rendere i partiti comunisti capaci di dirigere con successo le masse e nemmeno a evitare la loro decapitazione e decimazione. L’accumulazione e la formazione delle forze rivoluzionarie deve avvenire “in seno alla società borghese”, ma per forza di cose avviene gradualmente. Essa quindi non può avvenire legalmente. Il partito deve evitare, con una conduzione tattica adeguata, di essere costretto a uno scontro decisivo finché le forze rivoluzionarie non sono state accumulate fino ad avere raggiunto la superiorità su quelle della borghesia imperialista. Non basta quindi creare un organismo clandestino “accanto all’organizzazione legale”. È il partito che deve essere clandestino, è l’organizzazione clandestina che deve dirigere l’organizzazione legale e assicurare comunque la continuità e la libertà d’azione del partito. Il partito comunista deve essere un partito clandestino e dalla clandestinità muovere tutti i movimenti legali che sono necessari e utili alla classe operaia, al proletariato e alle masse: questa è la lezione della prima ondata della rivoluzione proletaria” (Sulla natura del Partito, in La Voce 1, marzo 1999).

La clandestinità non è un espediente tattico, sia esso difensivo (come fu per il primo PCI durante il Fascismo) o offensivo (come fu per le BR negli anni ‘70 in funzione della conduzione di azioni armate). Il partito comunista deve essere strategicamente clandestino: il suo carattere clandestino è un principio costitutivo del partito e della sua azione nelle varie fasi della lotta, fino ad avvenuta conquista del potere politico e soppressione della parte decisiva delle forze nemiche. Ciò è coerente con l’obiettivo per cui lotta (abbattere il potere politico della borghesia e instaurare il socialismo) e con le caratteristiche e la forma della lotta (che è una guerra contro la classe dominante). Nella prima ondata della rivoluzione proletaria nessun partito comunista dei paesi imperialisti ha teorizzato la clandestinità come aspetto strategico. Ma i partiti (come i bolscevichi russi diretti da Lenin) che dalle condizioni in cui operavano furono costretti ad essere di fatto integralmente, per tutto il corso della propria lotta, clandestini, sono anche quelli che hanno raggiunto le vette più alte. Anche il primo PCI ha raggiunto il punto più alto della sua storia (la vittoria della Resistenza antifascista del 1943-45) dopo quasi 15 anni di attività clandestina. Nella storia della prima ondata della rivoluzione proletaria sono stati raggiunti risultati superiori laddove i comunisti hanno agito in coerenza con la natura dei loro scopi, dove e quando hanno agito con scienza e coscienza come Stato Maggiore di una guerra. Dove ciò non è avvenuto, è invece puntualmente giunta la disfatta. Proclamando e soprattutto praticando la clandestinità strategica noi del (nuovo)PCI abbiamo contribuito e stiamo tuttora contribuendo a una nuova epoca del movimento comunista: l’epoca della sua rinascita sulla base della coscienza più avanzata che il patrimonio teorico e pratico del passato movimento comunista ci permette di portare a sintesi. Il marxismo-leninismo-maoismo è la sintesi di questa coscienza più avanzata che è arricchita anche da lezioni e insegnamenti ricavabili dall’esperienza del movimento comunista italiano. Era concesso a Gramsci sbagliare ad aspettarsi rispetto dell’immunità parlamentare da parte dalla polizia fascista e della Monarchia tanto da farsi arrestare nel novembre 1926 mentre ritornava da Montecitorio dove svolgeva attività parlamentari. Gramsci non aveva alle sue spalle il patrimonio di esperienze che abbiamo noi comunisti oggi. A noi non è concesso aspettarci magnanimità e legalità dai nostri nemici. Superare limiti ed errori del primo PCI significa anzitutto essere preparati allo scontro con la borghesia e all’ineliminabile carattere di guerra di esso. Quali che siano le loro personali intenzioni, sono dei velleitari i fautori della rinascita del movimento comunista che rifuggono dal fare i conti con la necessità strategica del carattere clandestino del partito. Velleitarismo buono o per provare a rientrare nei parlamenti o per mascherare con vesti rivoluzionarie linee codiste ed economiciste.


4. Chi vuole fare la guerra contro la classe dominante deve arruolarsi nel (nuovo)PCI clandestino o collaborare con esso

Oggi le forze del nostro Partito sono in crescita ma a una velocità inferiore rispetto al montare della resistenza spontanea degli operai e delle masse popolari. Esse sono in tanti casi minori di quelle di cui dispongono i numerosi organismi legalitari che ripropongono la sottomissione ideologica, politica e organizzativa del partito al regime della Repubblica Pontificia. Per questo ci avvaliamo di loro (i tre serbatoi) con la tattica del Governo di Blocco Popolare. Dare forza al Partito clandestino è il principale modo per alimentare la lotta ideologica contro le concezioni erronee, legalitarie e fondamentalmente attendiste e disfattiste che circolano.

Ai comunisti che ritengono giusta e necessaria l’esistenza e l’azione del partito clandestino indichiamo il salto da fare: rompete gli indugi e arruolatevi e se non siete ancora pronti all’arruolamento sperimentatevi nelle tante forme possibili di collaborazione con il Partito! La causa del Partito ha bisogno del vostro sostegno pratico.

Agli oppositori del regime della Repubblica Pontificia che dalla loro esperienza politica e personale hanno tratto la conclusione che per opporsi al corso delle cose è necessario lottare risolutamente per estromettere la borghesia e il clero dalla direzione del paese e organizzare la guerra con cui abbattere il loro potere, diciamo: studiate la concezione del mondo, la strategia rivoluzionaria e le linee in cui l’azione del (nuovo) PCI si articola. Il (nuovo)PCI è l’organizzazione di chi è determinato ad andare fino in fondo nella guerra contro la borghesia e il clero!

Agli ammiratori della causa del Partito, a chi anche apertamente si proclama simpatizzante del Partito clandestino, a quanti ritengono che un partito come il (nuovo)PCI sia “quel che ci vuole”, diciamo: riconoscere la necessità del Partito clandestino ed essere d’accordo con la nostra linea fa di voi elementi d’avanguardia. Trasformate la vostra condivisione, ammirazione, simpatia per il Partito in attività pratiche. Il Partito clandestino non si imita e per il Partito clandestino non si tifa: nel Partito clandestino si milita o lo si sostiene con la propria attività pratica. Nuoce alla nostra causa anche se in cuor suo pensa di far del bene per essa, chi utilizza e considera a cuor leggero l’orientamento, la linea, le indicazioni di lotta, l’agitazione e propaganda del Partito. Nuocciono ad esempio quei nostri simpatizzanti che maneggiano con leggerezza i materiali di propaganda del Partito perché espongono se stessi a dei rischi di cui, non avendo un rapporto con il Partito, non sanno assumere le conseguenze. Nuocciono ad esempio quei nostri dichiarati simpatizzanti che decorano la loro attività politica pubblica utilizzando formule, categorie, espressioni proprie dell’attività e della linea del Partito clandestino. Con la clandestinità del Partito non ci si fregia come se si trattasse di un ornamento con cui emergere come i più a sinistra del proprio ambiente.

Quest’anno ci sono molti gloriosi anniversari, da quello della fondazione del primo PCI a quello della fondazione del PCC. Rendiamo onore agli eroici combattenti del vecchio movimento comunista profondendo sforzi superiori per la rinascita del movimento comunista nel nostro paese e nel mondo sulla base del marxismo-leninismo-maoismo e degli insegnamenti che ricaviamo dal primo movimento comunista. La clandestinità del partito comunista è tra questi insegnamenti uno dei più decisivi e senz’altro quello più di rottura con la prassi diffusa nel campo dei comunisti italiani, per ragioni di storia e tradizione che in questo articolo abbiamo esaminato. È una verità scientifica contro cui si battono con mezzi e influenza superiori alla nostra sia la corrente anti-comunista e anti-partito promossa dalla borghesia e dal clero sia gli agenti del disfattismo e dell’attendismo nel movimento comunista cosciente e organizzato, gli uni e gli altri d’accordo nel denigrare il Partito clandestino, nel liquidarlo come impossibile a farsi, avventurista, superato. Ma piaccia o no a costoro, la storia insegna che per fare la rivoluzione socialista c’è bisogno di un partito comunista clandestino e che esistono comunisti che si sono uniti nel (nuovo)PCI per realizzarlo questo partito. Ad ogni nostro membro, sostenitore, simpatizzante il compito di rafforzarlo!

Antonio L.