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del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XXIII - luglio 2021

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La lotta tra due linee condotta dal PCC nel periodo della guerra di resistenza antigiapponese

Quest’anno cade il centenario sia della fondazione del primo Partito Comunista Italiano sia della fondazione del Partito Comunista Cinese (PCC). Sono partiti che hanno operato in paesi profondamente differenti tra loro per estensione, popolazione, storia e natura (1) e diverso era anche il carattere della rivoluzione che essi dovevano condurre (rivoluzione socialista in Italia, rivoluzione di nuova democrazia in Cina). I comunisti devono assolutamente guardarsi dagli accostamenti superficiali e dalle imitazioni dogmatiche.(2) Ma se abbiamo ben in mente le differenze di fondo, è possibile distinguere quello che riguarda le condizioni particolari della rivoluzione di ogni paese da quello che ha valore universale, cioè riguarda i partiti comunisti di tutto il mondo. Prendo quindi spunto dalla contemporaneità dei due centenari per esaminare un aspetto dell’attività del PCC che è utile, direi anzi illuminante per il bilancio dell’azione svolta dal primo PCI durante e dopo la Resistenza contro il nazifascismo,(3) in particolare per rispondere alla domanda “perché la vittoria della Resistenza non si è trasformata in rivoluzione socialista”: la lotta tra due linee come strumento per sviluppare il partito e impedire che in esso prevalga l’influenza della borghesia e del clero.


1. L’Italia era un paese capitalista, pur con ampie zone del meridione e delle isole in cui sono perdurati residui feudali e con un’istituzione feudale, la Chiesa, che fino alla fine della Seconda guerra mondiale ha condiviso con la monarchia dei Savoia la direzione del paese, poi è diventata il governo di fatto, irresponsabile, occulto e di ultima istanza che dirige il governo ufficiale della Repubblica; la Cina era un paese semifeudale e semicoloniale.


2. La parola d’ordine “fare come in Russia” ebbe largo corso tra gli operai e le masse popolari italiane negli anni ’40 e ’50. In positivo sintetizzava l’aspirazione a instaurare il socialismo e alle conquiste di civiltà e benessere di cui l’Unione Sovietica di Stalin era la dimostrazione. In negativo distoglieva l’attenzione dalle linee che dovevano seguire in Italia per realizzare quelle aspirazioni e permetteva alla destra capeggiata da Togliatti di eludere i compiti particolari del PCI. Lenin nella sua Relazione del 13 novembre 1922 (Opere complete vol. 33 pagg. 395-397, Editori Riuniti 1967) al IV Congresso dell’IC richiamò con forza l’attenzione dei delegati sul fatto che le Tesi sulla struttura organizzativa dei partiti comunisti, sui metodi e il contenuto del loro lavoro, approvate il 12 luglio 1921 nel precedente congresso dell’IC, pur essendo eccellenti non erano servite e non servivano a niente perchè “quasi interamente ispirate alle condizioni russe... I compagni stranieri hanno firmato senza leggere e senza comprendere” quelle Tesi. E affermava che le condizioni della rivoluzione mondiale erano favorevoli e che solo gli errori e i limiti dei comunisti avrebbero potuto impedire l’instaurazione del socialismo nei paesi imperialisti d’Europa e dell’America del Nord.


3. Un bilancio da comunisti, quindi che né si riduce a concludere che “non poteva che andare così” e che “anche chi ha commesso degli errori era animato da buone intenzioni, da ideali e valori” né considera il parlare di errori e limiti del primo PCI e del movimento comunista alla stregua dei “libri neri del comunismo”. Ma un bilancio che, per dirla con le parole di Mao Tse-tung, “esamina il passato per trarre insegnamento per il futuro”.


Anche se non la chiamavano così, Marx ed Engels e successivamente Lenin e Stalin (per Stalin mi limito a citare la Lettera al compagno Me-rt, ma molte altre citazioni si possono trarre da tanti discorsi e scritti di Stalin successivi al 1923) hanno costantemente praticato la lotta tra due linee nel partito (come, più in generale, la lotta sul fronte teorico per l’affermazione di analisi, linee, programmi e metodi giusti, cioè conformi alla realtà e allo sviluppo della lotta di classe, contro quelli sbagliati). Mao Tse-tung ne ha elaborato la teoria.

È giocoforza constatare che la lotta tra due linee nel partito è una “grande assente” nell’attività non solo del primo PCI, ma di tutti i partiti comunisti dei paesi imperialisti sorti su impulso della vittoria della Rivoluzione d’Ottobre e dell’Internazionale Comunista. Nonostante le esortazioni in tal senso di Stalin e altri dirigenti sovietici e nonostante i contrasti di tendenze e di orientamento che comunque vi sono stati, in questi partiti la lotta teorica seria e prolungata contro le correnti non comuniste non si è mai sviluppata, non ha mai preceduto e accompagnato la “politica di allontanamento dei compagni che la pensano diversamente”.

Com’è giocoforza constatare che anche oggi la dichiarata adesione al marxismo-leninismo e, come nel caso del PC di Marco Rizzo e del Fronte Comunista-Fronte della Gioventù Comunista, anche agli insegnamenti di Stalin, non ha portato a praticare la lotta tra due linee nel partito: a praticare cioè lo strumento grazie al quale il partito di Lenin e di Stalin ha “educato centinaia di migliaia di nuovi membri del partito (e di non iscritti) nello spirito del bolscevismo”.(4)

Alcuni compagni considerano forte un partito comunista unito, e per unito intendono che tutti sono d’accordo, e disciplinato: la lotta tra due linee al suo interno sarebbe invece un fattore di debolezza. A quanto spiega Stalin nella Lettera al compagno Me-rt sulla relazione tra lotta tra due linee e unità del partito, aggiungo che la lotta tra le due linee non è solo strumento indispensabile di vita e di sviluppo del partito comunista, stante che l’influenza ideologica e politica della borghesia si riflette per forza di cose anche nel partito comunista e la sua ala destra ne è la personificazione. Ma è anche la sorgente della sua disciplina da Stato Maggiore della rivoluzione socialista (centralismo democratico): la disciplina risulta dalla capacità della sinistra di prevalere e avanzare, altrimenti porta il partito comunista alla morte. È quello che dimostra la storia di tutti i partiti comunisti. La disciplina non deve mai essere sottomissione della sinistra alla destra, di chi vuole proseguire la rivoluzione socialista e instaurare il socialismo a chi vuole la concertazione e la convivenza con la borghesia. Una simile disciplina porta alla disgregazione, alla corruzione e in definitiva alla dissoluzione del partito comunista.


4. Cosa che, nelle relazioni tra partiti e organizzazioni comuniste, fa il paio con il persistere nella condotta da cui Stalin, nella Lettera al compagno Me-rt, mette in guardia i comunisti tedeschi: “Voi parlate della linea del Partito comunista tedesco. È indubbio che la sua linea - parlo della linea politica - è giusta. Appunto così si spiegano gli stretti, amichevoli rapporti (non solo da compagni) esistenti fra il PCUS e il Partito comunista tedesco, di cui Voi stesso parlate nella Vostra lettera. Ma significa forse questo che dobbiamo dissimulare i singoli errori commessi dal Partito comunista tedesco o dal PCUS nel lavoro politico? No di certo. Si potrebbe forse affermare che il Comitato Centrale del Partito comunista tedesco o il Comitato Centrale del PCUS sono immuni da singoli errori? Si potrebbe forse affermare che la critica a una specifica attività del CC del Partito comunista tedesco (l’insufficiente utilizzazione dello scandalo Barmat [al processo sull'affare del “cartello dei fratelli Barmat”, celebrato all'inizio del 1925, risultò che noti esponenti del Partito socialdemocratico tedesco, tra cui Wels, avevano ricevuto dal cartello e dalle banche ad esso legate, forti somme di denaro di cui si erano tra l’altro serviti per condurre la lotta contro il Partito comunista tedesco durante le elezioni al Reichstag del dicembre 1924, ndr], la ben nota votazione del gruppo parlamentare comunista al parlamento prussiano sulla questione delle elezioni del presidente del parlamento, la questione delle imposte in riferimento al piano Dawes, ecc.) è incompatibile con una completa solidarietà con la linea generale del CC del Partito comunista tedesco? Evidentemente no. Che accadrà dei nostri partiti se incontrandoci, per esempio nel Comitato esecutivo dell’Internazionale Comunista, chiuderemo gli occhi sui singoli errori dei nostri partiti, ci lasceremo allettare dall’esteriorità del “pieno accordo” e della “situazione soddisfacente” e incominceremo a darci ragione a vicenda in tutte le questioni? Penso che partiti di questa fatta non potrebbero mai diventare rivoluzionari. Sarebbero delle mummie e non dei partiti rivoluzionari. A me sembra che alcuni compagni tedeschi talvolta non sono alieni dall’esigere da noi che diamo sempre ragione al Comitato Centrale del Partito comunista tedesco, essendo sempre pronti da parte loro a dar ragione in tutto e per tutto al Comitato Centrale del PCUS. Io sono decisamente contrario a queste reciproche approvazioni. A giudicare dalla Vostra lettera anche Voi siete contrario. Tanto meglio per il Partito comunista tedesco”.


Altri compagni, invece, ritengono che quando si è impegnati a combattere, tanto più quando lo si fa armi alla mano (come il PCI durante la Resistenza contro il nazifascismo nel periodo 1943-1945 e le Brigate Rosse negli anni ’70), la cosa importante è combattere, la lotta tra linee è una perdita di tempo e una diversione dai compiti della guerra.

Per questo motivo della storia del PCC esamino il periodo della guerra di resistenza antigiapponese (1937-1945). In essa la necessità di un partito forte, unito e disciplinato e le necessità della guerra in armi si combinano apertamente. Il PCC ha condotto e vinto la guerra di resistenza antigiapponese, una guerra lunga, difficile e dura, contro nemici esterni e interni (5) forti e potenti, in contesti internazionali che sono mutati più volte, una guerra che ha richiesto un partito forte, unito e disciplinato. Ebbene, questa guerra è stata dall’inizio alla fine accompagnata dalla lotta condotta dal PCC, o meglio dalla sinistra del PCC diretta da Mao Tse-tung, contro la linee opportuniste di destra e di “sinistra” (e le tendenze arretrate) nel Partito e anche tra le forze che componevano il Fronte unito nazionale antigiapponese.


5. Oltre a combattere contro gli occupanti giapponesi, il PCC dovette contemporaneamente 1. rafforzare il Fronte unito nazionale antigiapponese e 2. far fronte alle manovre e agli attacchi lanciati apertamente dall’ala destra del Kuomintang (partito che pure faceva parte del Fronte) capeggiata da Chiang Kai-shek, con la prima (inverno 1939-primavera 1940), la seconda (gennaio 1941) e la terza (marzo 1943) campagna anticomunista.


Subito all’indomani dell’inizio dell’occupazione della Cina, il PCC condusse la lotta per la “mobilitazione di tutte le forze”, cioè per far assumere alla guerra contro il Giappone il carattere di guerra nazionale generale di resistenza e creare, allargare e consolidare il Fronte unito nazionale antigiapponese tra il Kuomintang (il partito al governo), il PCC (che aveva sue forze armate e governava alcune zone del paese) e tutti i partiti, organizzazioni e singoli disposti a battersi,

- contro le linee della capitolazione di classe e della capitolazione nazionale;

- contro la linea della guerra di resistenza sostenuta solo dal governo del Kuomintang;

- contro la tendenza a sottovalutare la guerra partigiana e a fondare tutto sulla guerra regolare, in particolare sulle operazioni delle truppe del Kuomintang, a favore della combinazione della guerra partigiana e della guerra regolare;

- contro la teoria della “inevitabilità dell’asservimento della Cina (tendenza al compromesso), contro la teoria della “onnipotenza delle armi”, per la continuazione della guerra fino alla vittoria e per contare sulle proprie forze; (6)

- contro le teorie della rapida vittoria cinese (tendenza a sottovalutare il nemico).


6. “Dobbiamo contare soprattutto sulle nostre forze, pur non trascurando alcuna possibilità per assicurarci l’aiuto straniero. Ora che la guerra imperialista è scoppiata [la Seconda guerra mondiale, ndr], l’aiuto straniero proviene principalmente da tre fonti:

1. dall’Unione Sovietica socialista,

2. dai popoli di tutti i paesi capitalisti del mondo,

3. dalle nazioni oppresse delle colonie e delle semicolonie di tutto il mondo.

Queste sono le soli fonti di aiuto su cui possiamo contare. Qualunque altro aiuto straniero, anche se possibile, può essere considerato solo come supplementare e temporaneo. Naturalmente, dobbiamo sforzarci di ottenere anche questo aiuto supplementare e temporaneo, ma non dobbiamo mai contare troppo su di esso, né considerarlo sicuro” (Identità di interessi tra l’Unione Sovietica e tutta l’umanità, 28 settembre 1939, in Opere di Mao Tse-tung, Edizioni Rapporti Sociali, vol. 7, pag. 117).


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Stalin e la lotta tra due linee nel partito comunista

Sono decisamente contrario alla politica di allontanamento di tutti i compagni che la pensano diversamente. Sono contrario a questa politica non perché mi fanno pena coloro che la pensano diversamente, ma perché essa genera nel partito un regime di intimidazione, un regime di timore che uccide lo spirito di autocritica e di iniziativa. Le cose non vanno bene se i capi del partito sono temuti ma non stimati. I capi del partito possono essere dei veri capi solo se sono non soltanto temuti, ma anche stimati nel partito e se la loro autorità è riconosciuta. È difficile formare questi capi, è cosa lunga e difficile, ma assolutamente necessaria, perché se non esiste questa condizione il partito non può chiamarsi un vero partito bolscevico e la disciplina del partito non può essere una disciplina cosciente. Penso che i compagni tedeschi peccano contro questa verità palmare. Per sconfessare Trotzki e i suoi fautori, noi, bolscevichi russi, abbiamo sviluppato un’intensissima campagna di chiarificazione teorica in difesa dei principi del bolscevismo, contro i principi del trotzkismo, anche se, a giudicare dalla forza e dal peso specifico del Comitato Centrale del PCUS, avremmo potuto fare a meno di questa campagna. Era necessaria questa campagna? Lo era, assolutamente, giacché con essa abbiamo educato centinaia di migliaia di nuovi membri del partito (e di non iscritti) nello spirito del bolscevismo. È estremamente doloroso che i nostri compagni tedeschi non sentono la necessità di far precedere o accompagnare le misure disciplinari contro l’opposizione con una larga campagna di chiarificazione teorica, e rendono così più difficile il lavoro di educazione dei membri e dei quadri del partito nello spirito del bolscevismo. Non è difficile cacciare Brandler e Thalheimer [Brandler e Thalheimer, capi del gruppo opportunista di destra del Partito comunista tedesco, diressero il partito tedesco negli anni 1922-1923. La loro politica portò alla sconfitta la classe operaia tedesca durante gli avvenimenti rivoluzionari del 1923. Nell'aprile 1924, al Congresso di Francoforte del PCT, Brandler e Thalheimer furono allontanati dalla direzione del partito. Il V Congresso dell’Internazionale Comunista (1924) condannò l’indirizzo capitolardo del gruppo Brandler-Thalheimer. I due in seguito, nel 1929, furono espulsi dal partito per aver svolto attività frazionistica ostile al partito, ndr]; è anzi cosa facile. Ma vincere il brandlerismo è cosa complessa e seria; su questo terreno se si ricorre solo alle misure disciplinari non si fa che nuocere alla causa; è necessario preparare accuratamente il terreno e illuminare seriamente le menti. Il PCUS si è sempre sviluppato attraverso i contrasti, cioè nella lotta contro le correnti non comuniste, e solo mediante questa lotta si è irrobustito, ha forgiato dei veri quadri. Davanti al Partito comunista tedesco si apre la stessa via di sviluppo, attraverso i contrasti, attraverso una lotta effettiva, seria e lunga contro le correnti non comuniste, specialmente contro le tradizioni socialdemocratiche, il brandlerismo, ecc. Ma per condurre questa lotta le misure disciplinari da sole non bastano. Ecco perché, a mio avviso, bisogna rendere più duttile la politica interna di partito del Comitato Centrale del Partito comunista tedesco. Non dubito che il PCT saprà correggere le deficienze esistenti in questo campo” (Stalin, Lettera al compagno Me-rt, 28 febbraio 1925, Opere Complete, vol. 7 pagg. 53-59).

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Rispetto al ruolo del PCC e al rapporto tra quest’ultimo e le altre forze del Fronte, Mao Tse-tung condusse la lotta per l’indipendenza e autonomia del partito comunista nel Fronte unito nazionale antigiapponese, in sostanza per la direzione del proletariato nel Fronte unito, contro la linea “tutto attraverso il Fronte”, cioè contro l’opportunismo di destra, consistente nel “fare concessioni nei confronti della politica antipopolare del Kuomintang; aver maggiore fiducia nel Kuomintang che nelle masse popolari; non osare mobilitare con audacia le masse nella lotta; non osare ampliare le zone liberate e ingrossare l’esercito popolare nelle zone occupate dai giapponesi; cedere la direzione della guerra di resistenza contro il Giappone al Kuomintang”. Quindi una politica di unità e lotta, contro l’unità a ogni costo (senza lotta) e la lotta senza unità (contro il settarismo).

Per rafforzare ideologicamente e politicamente il partito (come presupposto per il suo rafforzamento organizzativo e come strumento perché l’allargamento delle sue forze non andasse a scapito del livello) o, per usare le parole di Mao, per fare del PCC un “partito bolscevizzato, su scala nazionale e con largo carattere di massa, assolutamente solido sul piano ideologico, politico e organizzativo”, il PCC lanciò tre grandi movimenti di rettifica

- nel 1941-42, la rettifica dello studio, dello stile di lavoro, dello stile stereotipato,

- nel 1943, la rettifica sui metodi di direzione;

- nel 1943-44, il movimento per lo studio e la discussione della storia del partito (in particolare del periodo 1931-1934), cioè lo studio del problema delle due linee nella storia del PCC.(7)


7. Vedasi in particolare Risoluzione su alcune questioni della storia del nostro partito, 20 aprile 1945, op. cit., vol. 9, pag. 67.


Quando nel 1944 si profila la vittoria sul Giappone, infine, il PCC inizia la lotta sulle due prospettive della Cina, contro l’usurpazione dei frutti della vittoria della guerra di resistenza antigiapponese da parte del Kuomintang in combutta con gli imperialisti USA. “D’ora in poi la lotta sarà per decidere che tipo di paese costruire. Edificare un paese di nuova democrazia, delle larghe masse popolari, posto sotto la direzione del proletariato oppure un paese ancora semicoloniale e semifeudale sotto la dittatura dei grandi proprietari terrieri e della grande borghesia? (…) Scoppierà una guerra civile aperta e generale? Ciò dipende da fattori interni e internazionali”.(8)


8. Vedasi La situazione e la nostra politica dopo la vittoria nella Guerra di resistenza contro il Giappone, 13 agosto 1945, op.cit., vol. 9, pag. 195.


Qui mi fermo ed esorto i lettori che vogliono approfondire l’argomento a studiare gli scritti e i discorsi di Mao del periodo 1937-1945 contenuti nei volumi 6, 7, 8 e 9 delle Opere (l’Indice generale reperibile sul sito www.nuovopci.it aiuta nella selezione), che mostrano in dettaglio le caratteristiche delle lotte tra due linee con cui il PCC educò i suoi membri a condurre la guerra vittoriosa contro l’occupante giapponese in modo da porre le basi per la successiva guerra (1945-1949) contro i feudatari, la borghesia compradora e i suoi padrini, i gruppi imperialisti USA e il loro Stato, che si concluse con la proclamazione il 1° ottobre 1949 della Repubblica Popolare Cinese.

Marcella V.


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Per promuovere la lotta tra due linee, bisogna formulare chiaramente ognuna delle due linee

Man mano che la rivoluzione socialista avanza (in lotta contro il catastrofico corso delle cose che la borghesia imperialista impone al mondo e contro la connessa mobilitazione reazionaria che i gruppi più estremisti della borghesia imperialista cercano di promuovere) si pone maggiormente, continuamente e ripetutamente al Partito e a ognuno di noi il compito

1. di tradurre (alla luce della concezione comunista del mondo) la nostra linea nel particolare e attuarla nel concreto

e contemporaneamente

2. di verificare e sviluppare la nostra linea.

Quando non facciamo questo tempestivamente, uno degli indizi è la mancanza di unità di indirizzo. Il nostro lavoro cresce, il gruppo dirigente si allarga e indirizzi diversi o addirittura contrastanti emergono nel lavoro pratico e corrente.

Nel nostro caso l’emergere della mancanza di unità di indirizzo è facilitato dalla persistente debolezza del carattere collettivo nel nostro lavoro: per effetto della storia che abbiamo alle spalle, siamo abituati a lavorare individualmente.

La lotta tra due linee è un principio importante per il compimento della nostra opera. Nelle nostre file alcuni compagni lo sviliscono parlando superficialmente di “lotta tra le due linee”, confondendo la mancanza di unità di indirizzo con lo scontro tra due linee. Di fronte ad avvenimenti nuovi e a nuovi campi di lavoro, individui diversi per personalità e mentalità (cioè individui diversi per nascita e formazione, che hanno alle spalle una storia diversa, che non hanno una lunga abitudine di lavoro rivoluzionario comune) reagiscono in modi diversi. Questo non significa ancora scontro tra linee diverse.

La linea è la risposta articolata e ben definita alle domande del che fare, è applicazione della concezione del mondo a una situazione particolare ben definita, appartiene al campo della coscienza. È elaborando la pratica, l’esperienza, la conoscenza sensibile alla luce della concezione comunista del mondo che noi arriviamo a formulare la nostra linea d’azione. Allora si possono avere due linee, perché due e solo due sono le classi fondamentali della società attuale (classe operaia e borghesia) e di fronte a ogni scelta due in definitiva sono le vie: una che porta verso l’instaurazione del socialismo e l’altra che impedisce l’avanzamento della rivoluzione socialista, la fa regredire e favorisce la borghesia.

Due classi (struttura della società), due vie (nello scontro politico), due linee (orientamento, concezione). La linea non è la concezione del mondo, è la sua applicazione a una ben precisa situazione particolare. Dire che ci sono due linee senza enunciarle chiaramente tutte e due in relazione alla situazione particolare, ridurre la linea alla concezione del mondo è ostacolare la lotta tra le due linee e ingarbugliare l’attività, è comportarsi da dogmatici e da lazzaroni. Mentre d’altra parte noi in ogni situazione dobbiamo mettere in chiaro la connessione tra ogni linea particolare che viene proposta in una situazione data e la nostra concezione del mondo, le nostre idee fondamentali: dobbiamo essere scientifici, non empiristi.

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