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del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XXI - novembre 2019

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Il Biennio Rosso in Italia e la forma della rivoluzione socialista oggi

 

Introduzione

La storia del Biennio Rosso (1919-1920) fornisce a noi comunisti italiani grandi lezioni di arte rivoluzionaria, di cosa dobbiamo fare per condurre alla vittoria la rivoluzione socialista, per portare le masse popolari a organizzarsi attorno al Partito comunista e a prendere il potere e dare inizio al socialismo, la fase della transizione dal capitalismo al comunismo. Il Biennio Rosso fu un periodo di grande mobilitazione delle masse popolari italiane uscite dalla guerra mondiale.

Prima e durante il Biennio Rosso la parte organizzata delle masse popolari non controllata dalla borghesia e dal clero faceva capo in maggioranza al Partito Socialista Italiano (PSI), membro della II Internazionale (fino alla fine del ‘20 anche i futuri creatori del Partito comunista facevano parte del PSI) e solo in piccola parte a organismi anarchici, anarco-sindacalisti e altri.

Ripercorrere la storia del Biennio Rosso ci consente di scoprire perché il PSI non riuscì a sviluppare la mobilitazione rivoluzionaria delle masse popolari e lasciò spazio al fascismo: non aveva una concezione abbastanza avanzata della lotta di classe, anche se decine di migliaia dei suoi membri erano combattenti coraggiosi e perfino eroici, molti diedero la loro vita o affrontarono con dignità anni di carcere. In particolare la storia del Biennio Rosso insegna che è sbagliato:

1. sia concepire la rivoluzione socialista come un evento che scoppia, come una rivolta generale di masse mobilitate dall’opera di vari organismi politici (tra cui il partito comunista), sindacali e d’altro genere, un evento di cui il partito comunista, l’organismo dotato di una comprensione più avanzata delle condizioni, forme e risultati della lotta di classe, approfitta per prendere il potere, instaurare il proprio governo e costruire la nuova amministrazione pubblica che soppiantano quelli borghesi,

2. sia concepire la rivoluzione socialista come un’insurrezione decisa dal partito comunista che dispone di forze rivoluzionarie, militari e affini, operanti ai suoi ordini e che punta a trascinare grazie all’azione di esse le masse e di instaurare un suo governo e costruire la nuova amministrazione pubblica che soppiantano quelli borghesi.

Alla rivoluzione socialista, per portarla a compimento, i comunisti devono dare la forma conforme alla natura del processo in corso (il passaggio dal capitalismo al comunismo, ossia la creazione di una società senza più divisione in classi di sfruttati e sfruttatori, di oppressi e oppressori): devono darle la forma di una guerra popolare rivoluzionaria promossa dal Partito comunista. Non importa quanto grande questo è all’inizio della sua opera. L’importante è che esso si basi sulla scienza delle attività con le quali gli uomini fanno la storia, la concezione comunista del mondo fondata da Marx e che aggreghi attorno a sé le forze rivoluzionarie che via via forma tra le masse popolari rafforzando la resistenza che esse spontaneamente oppongono al corso delle cose. Stante la natura del processo in corso la rivoluzione socialista può trionfare definitivamente solo come rivoluzione internazionale, ma questa risulta dalla combinazione di rivoluzioni nazionali. Il Partito comunista italiano deve elaborare il piano della guerra delle masse popolari del nostro paese contro la borghesia e il suo clero, un piano conforme alle condizioni particolari della lotta tra le classi nel nostro paese e guidare le masse ad attuarlo.

È con questa concezione della rivoluzione socialista in mente che è possibile imparare dalla storia del Biennio Rosso.

 

 

 

 Breve ricostruzione storica

 

Il primo dopoguerra in Italia

L’Italia esce dalla guerra stremata in uomini e mezzi e con tutto il suo tessuto sociale profondamente sconvolto. Le spese di guerra arrivano a circa 20 miliardi di lire-oro a fronte di un reddito annuo degli operai, degli altri proletari non aggregati nelle fabbriche (camerieri, domestiche, dipendenti pubblici di base, braccianti, ecc.) e dei contadini poveri stimabile approssimativamente a 6 miliardi di lireoro: quindi le masse popolari sfruttate all’osso, lo Stato enormemente indebitato nei confronti degli italiani ricchi e dell’estero da cui ha importato quanto occorreva per la guerra e un’inflazione (aumento dei prezzi in lire-carta) notevole: quello che nel 1913 costava 100 lire, nel 1918 costava 400.

I maggiori beneficiari della guerra erano stati i capitalisti proprietari delle industrie siderurgiche, meccaniche e chimiche che avevano ottenuto profitti altissimi; i ricchi si erano quindi lanciati nell’acquisto di azioni di società di ogni genere. La stretta fusione tra capitalisti industriali e bancari porta nel dopoguerra a una situazione nella quale la crisi industriale per la riconversione si abbatte anche sul sistema bancario con ricadute deleterie sui depositi bancari e una generale restrizione del credito. Bisogna aggiungere che la riconversione dell’industria di guerra in quella di pace causa enorme disoccupazione nelle città e fame di terra nelle campagne. Gli sconvolgimenti del dopoguerra hanno ricadute su tutte le classi delle masse popolari. Per dare l’idea della situazione incandescente basti sapere che nel 1919 si contano 1.663 scioperi e nel ‘20 se ne contano ben 1.881.(1)

L’Italia, come il resto del mondo, viveva una situazione rivoluzionaria.(2)

 

1. Gran parte delle informazioni fin qui riportate e quelle date nel resto di questo articolo sono tratte da Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione, Edizione Oriente 1966, cap. XIV e XV. Il libro di R. Del Carria è affidabile quanto alle informazioni usate dall’autore, mentre l’interpretazione che questi dà dei fatti è permeata dalla concezione che le masse popolari sarebbero di per se stesse capaci di fare la rivoluzione socialista e che l’avrebbero fatta se non glielo avessero impedito prima il partito socialista e poi quello comunista. Una concezione frutto della volontà di mostrare l’effettiva impotenza rivoluzionaria del PSI e del PCI di fronte allo slancio delle masse popolari, ma sbagliata: una concezione secondo la quale le masse sarebbero capaci di fare la rivoluzione socialista e impadronirsi del potere senza partito comunista.

 

2. Lenin in Il fallimento della Seconda Internazionale (1915) dà una descrizione della situazione rivoluzionaria: “(…) 1. le classi dominanti non riescono più a conservare il loro potere senza modificarne la forma (…), 2. un aggravamento, maggiore del solito, dell’oppressione e della miseria delle classi oppresse, 3. in forza delle cause suddette, un rilevante aumento dell’attività delle masse, le quali nel periodo “pacifico” si lasciano depredare tranquillamente, ma in periodi burrascosi sono spinte, sia da tutto l’insieme della crisi che dagli stessi “strati superiori” a un’azione storica indipendente (…)”.

La situazione nel primo dopoguerra in Italia è tale che:

- centinaia di migliaia di operai partecipano alla costituzione dei Consigli di Fabbrica in qualche misura concepiti come cellule di un nuovo potere,

- i contadini poveri lottano per impadronirsi della terra occupando latifondi e terre incolte

(durante la guerra, per convincere i soldati a combattere, il governo aveva promesso ai contadini le terra),

- contro i capitalisti delle campagne (affittuari o mezzadri ricchi) i braccianti dell’Emilia, del cremonese e della bassa padana non si limitano a rivendicazioni salariali, ma si pongono l’obiettivo dell’espropriazione,

- nell’Esercito e nella Marina sono numerosi gli ammutinamenti fino all’episodio maggiore dell’insurrezione di Ancona,

- il ceto medio non si oppone alla mobilitazione delle masse popolari e talvolta è in aperta rottura verso lo Stato borghese: l’impresa di Fiume è un esempio,

- nel campo nemico, borghese, monarchico e clericale, tutta la classe politica liberale è in crisi (dal trasformismo di Giolitti alla socialdemocrazia di Turati, da Nitti a Bonomi) e non c’è stabilità di governo.

 

Gramsci in Passato e Presente sintetizza quel periodo e le sue mutazioni economico-sociali così: “(…) 1. Grandi masse, precedentemente passive, sono entrate in movimento, ma in un movimento caotico e disordinato, senza direzione, senza precisa volontà politica collettiva; 2. le classi medie che nella guerra avevano avuto funzione di comando e di responsabilità ne sono state private con la pace, restando disoccupate, proprio dopo aver imparato a comandare; 3. le forze antagoniste sono risultate incapaci di organizzare a loro profitto questo disordine”. Il problema è che “la testa” del movimento, il PSI, non aveva una comprensione abbastanza giusta della forma della rivoluzione socialista e quindi non  si era dotata di un piano di guerra e, come vedremo più avanti, non ce l’avevano nemmeno i gruppi e i singoli che dentro al PSI erano maggiormente influenzati da Lenin e dai bolscevichi (L’Ordine Nuovo capeggiato da Gramsci e Il Soviet capeggiato da Bordiga).

 

Il moto contro il caroviveri e la lotta per la terra

Il moto contro il caroviveri è il primo grande moto del Biennio Rosso. Il costo medio dei generi di prima necessità era aumentato di quattro volte tra il 1913 e il 1918 e tra il 1918 e il 1919 subisce un’ulteriore impennata. A metà del 1919 si intensificano gli scioperi di tutte le categorie. Renzo Del Carria scrive: “(...) Nella primavera-estate di quell’anno [il 1919] lottano insieme in tutta Italia i metallurgici, i ferrovieri, i tranvieri, i postelegrafonici, i tipografi, i braccianti, i tessili, i muratori, i professori e i giudici. E il movimento sindacale ed economico ottiene aumenti salariali e strappa le 8 ore di lavoro giornaliero a parità di salario. (…) Nell’estate del ‘19 la sensazione era che si potesse arrivare a “fare come la Russia” senza incontrare resistenze considerevoli del nemico. La prima città che passa dagli scioperi ai moti di piazza è La Spezia (11 giugno). Dopo due giorni i moti si estendono a Genova, poi a Milano e Torino anche in solidarietà ai primi morti, ammazzati a La Spezia e Genova dalle Guardie Regie e dai Carabinieri. Il 16 giugno i moti si allargano a Pisa, Bologna e poi a Forlì, Faenza, Ancona, Imola, Torre Annunziata. Il 3 luglio è la volta della popolazione di Firenze. Nella mattina la parola d’ordine dello sciopero passa da un’officina all’altra e migliaia di operai si ritrovano alla sede della Camera del Lavoro. I dirigenti si riuniscono d’urgenza da una parte per formalizzare lo sciopero generale e dall’altra per incontrare il Prefetto: non per cacciarlo ma per studiare insieme il mezzo migliore per disciplinare il movimento. (…) La folla intanto invade il centro e la periferia e comincia a gestire, a governare la città e per cinque giorni la città è occupata e autogestita. (...) In verità l’occupazione consiste principalmente nella costituzione di “Soviet annonari” composti da operai che regolano la distribuzione dei beni di prima necessità tra la popolazione: nell’estate del ‘19 la sinistra del movimento politico e sindacale non prendeva ancora in considerazione la questione della gestione della produzione né tanto meno la questione della direzione politica. L’allora dirigenza sindacale e politica era addirittura spaventata dall’occupazione della città e “si getta così nelle mani del Prefetto”. L’occupazione della città dura tre giorni: il 6 luglio i Carabinieri sparano sulla folla e muoiono 2 lavoratori, 8 rimangono feriti, 700 gli arresti. Quello del proletariato fiorentino è solo un esempio di un’impressionante movimento con caratteristiche simile che attraversò anche Prato, Pistoia, le grandi e piccole località dell’Emilia e della Romagna, delle Marche, della Toscana così come a Palermo, Brescia Livorno, Lucca, Catania, Piombino e sempre a luglio a Milano, Genova, Napoli, Savona, Bari, Pisa, l’Umbria, Messina, Brescia, Taranto e tutte le località minori della Toscana”. Ma nel giro di qualche settimana la lotta rifluisce molto velocemente sotto i colpi della repressione ma soprattutto perché farla avanzare comportava inserire ogni “scintilla” in un piano di guerra per instaurare un nuovo ordinamento sociale.

In quegli anni la popolazione italiana era per il 55% composta da contadini. Si trattava di un’agricoltura povera. Molta terra era nelle mani di latifondisti e di istituzioni ecclesiastiche e civili. Molti contadini non avevano terra da coltivare. L’importazione di derrate alimentari frenava l’espansione del capitalismo nelle campagne. Nel ‘19 e ‘20 la lotta dei contadini divampa ed è principalmente lotta per impadronirsi della terra. In generale è un movimento che sfugge alla direzione del sindacato e del PSI sia per la debolezza organizzativa dei socialisti al sud, sia per divergenze di linea: la parola d’ordine del PSI e del sindacato non era “la terra a chi lavora” ma la “socializzazione della terra”. Nell’agostosettembre del ‘19 l’occupazione delle terre dilaga dal centro al sud Italia fino ad arrivare all’occupazione di decine di migliaia di ettari di terra con in embrione la loro gestione tramite il coordinamento delle Leghe contadine che regolano produzione e distribuzione. La risposta dello Stato borghese è durissima. È evidente anche in questo caso che l’occupazione delle terre e la loro gestione per divenire stabili dovevano essere lotte particolari di un movimento  generale di presa del potere nel quale lo stato maggiore (il partito) avrebbe dovuto guidare i contadini. In realtà la lotta contadina, anche se vasta e profonda, non si saldò mai con quella operaia. L’occasione era “ghiotta” perché la parola d’ordine “la terra ai contadini” poteva valere per i contadini del sud e del centro ma anche per quelli della Toscana, dell’Emilia e del Veneto.

Il culmine e l’esempio eclatante dei moti contadini è dato da quanto avvenuto in Emilia. Scrive Del Carria: “Qui la lotta è durissima e diretta dai sindacati rossi. La carica di classe si esprime attraverso la lotta contadina per il minimo imponibile e in una battaglia asprissima: si impongono taglie ai dissenzienti, si distruggono raccolti, si compiono violenze contro i proprietari e si istituiscono blocchi stradali. (…) Il problema non era certo di estensione delle lotte e tumulti per la terra: a maggio del ‘20 l’intera campagna del bolognese erano sotto il controllo delle Leghe operaie ma mai dai socialisti arriva la direttiva e la formalizzazione della presa in possesso di tutta la terra. Nessuna direttiva in questo senso non arriva, anche se la Prefettura è ormai esautorata e le Leghe impongono la loro autorità promuovendo ordinanze, taglie e sabotaggi”. Ma un processo rivoluzionario non portato fino in fondo apre la strada a quello reazionario: alla fine del ‘20 le conquiste delle masse contadine sul piano delle rivendicazione economiche e sociali sono anche la soglia della loro definitiva sconfitta non avendo distrutto lo Stato borghese e sovvertito il sistema dei rapporti sociali. I contadini hanno “terrorizzato” il nemico di classe che dopo pochi mesi reagirà proprio a partire dalle terre dell’Emilia con i “fasci italiani di combattimento”, composti proprio dai figli degli agrari appoggiati dagli strati intermedi delle masse agricole: queste non avendo potuto avere la terra per via rivoluzionaria, cercano di risolvere in altro modo il problema.

 

L’impresa di Fiume e il fenomeno dell’ammutinamento

La città di Fiume, in maggioranza italiana, era rimasta fuori dai confini italiani a seguito del Patto di Londra ed era presidiata da contingenti alleati. Nella battaglia per l’annessione all’Italia sono evidenti:

1. la presenza nell’Esercito e nella Marina italiani di una larga parte di soldati che non riconoscevano lo Stato borghese e ne volevano cambiare i connotati,

2. le possibilità per il movimento comunista (il Partito) di intervenire nel campo nemico e rivoltarglielo contro. Ma ciò è possibile solo se questo ha una strategia ferma combinata con operazioni tattiche flessibili e talvolta spregiudicate (cosa che quindi non era possibile per il PSI per mancanza di strategia e quindi anche di tattica rivoluzionarie).

Questo vale anche per altri ammutinamenti che nello stesso periodo avvengono in Italia (in particolare ad Ancona, Trieste e Brindisi).

 

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Alla vigilia della costituzione (21 gennaio 1921) del PCd’I, sezione italiana dell’Internazionale Comunista, gli esponenti più avanzati della concezione comunista erano capeggiati dal gruppo L’Ordine Nuovo (con Gramsci come esponente di spicco) che si era posto alla testa del movimento comunista cosciente e organizzato Italiano. Tuttavia, nonostante la spinta di Lenin e dell’Internazionale Comunista, Gramsci non si assunse fin da subito la responsabilità di dirigere il movimento comunista. Il freno principale era la sua errata concezione dei Consigli di Fabbrica. Egli considerava il movimento degli operai come pratica da cui veniva la scienza che avrebbe guidato il proletariato nella rivoluzione socialista e nel costruire il nuovo mondo. Ma in verità è il Partito comunista, di cui fanno parte anche gli operai comunisti, che aggrega attorno a sé gli operai avanzati. I CdF sono l’organismo degli operai avanzati: con i CdF questi aggregano attorno a sé la massa degli operai. I CdF sono gli organismi del loro potere, gli organi del nuovo Stato (la dittatura del proletariato).

Amedeo Bordiga, contrariamente a Gramsci, non concepiva il movimento dei Consigli come pratica da cui viene la scienza del movimento comunista, ma non li riconosceva neanche come organismi del potere del proletariato. Concepiva il Partito comunista come centro del nuovo potere, organo del potere (la dittatura del Partito). Ma così lo isolava dalla vera fonte del nuovo potere e del nuovo Stato.

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Tornando a Fiume, nella primavera-estate del ‘19, a seguito di incidenti nei quali rimangono uccisi e feriti alcuni soldati  francesi, la Commissione Interalleata di inchiesta decide di ridurre (e quindi allontanare) il contingente italiano. Ma un gruppo di ufficiali al grido di “Fiume o morte” si pronuncia per la liberazione di Fiume e nomina comandante il poeta soldato Gabriele D’Annunzio che accetta di dirigere l’operazione. Ancora da Del Carria (cap. XV): “Il 12 settembre ‘19 una colonna di un migliaio di uomini entra in Fiume, la occupa e proclama l’annessione all’I- talia per bocca di D’Annunzio. (…) Nei giorni seguenti gruppi di volontari arrivano a Fiume in sostegno a D’annunzio e in molte città d’Italia avvengono manifestazioni pro-Fiume. (…) Lo sbocco di questo ammutinamento poteva essere sia reazionario sia rivoluzionario. Sta di fatto che era emersa con forza una crisi profonda in uno dei pilastri fondamentali dello Stato capitalista”. Ma il PSI vide fin dal primo giorno solo lo sbocco reazionario dell’impresa di Fiume. A sinistra ci furono vari tentativi per entrare in contatto con D’Annunzio (uno su tutti, quello dell’anarchico Malatesta), ma fu proprio D’Annunzio a cercare in vari modi di entrare in contatto con il PSI e legare l’impresa di Fiume con una più generale rivoluzione socialista in Italia. L’episodio fu così significativo che lo stesso Lenin prese parola: “Bisogna sfruttare la situazione creata dall’impresa dannunziana per volgerla ai fini della rivoluzione proletaria italiana, le proposte fatte al partito devono essere ascoltate e discusse accuratamente”.(3) D’Annunzio addirittura arriva, il 13 aprile 1920, a fare al PSI esplicita richiesta di sostegno perché sua intenzione è costituire e proclamare la repubblica comunista soviettista a Fiume ed estenderla anche alla Venezia Giulia. Ma qualche giorno dopo L’Avanti scriverà:“Noi socialisti non possiamo parteggiare né per l’una né per l’altra delle parti contendenti. Noi assistiamo, vigili, a questo crollo che si prepara”. La conseguenza della posizione del PSI è che D’Annunzio “sterza a destra”, fa occupare dai legionari e dai Carabinieri le sedi dove si riuniscono gli organismi proletari di Fiume e l’impresa di Fiume sarà usata da Mussolini come modello per le sue milizie e per le sue uniformi, il nome delle sue squadracce, il suo grido di guerra e la sua liturgia.

 

3. Citato anche in Lenin Sul movimento operaio italiano, Editori Riuniti, 1962.

 

 

La lotta della classe operaia

Abbiamo parlato dei moti contro il caroviveri e accennato al ruolo della classe operaia e alle migliaia di scioperi che ci sono stati nel ‘19 e nel ‘20. Ma a metà del 1920 la tensione rivoluzionaria in Italia arriva al suo apice e porta gruppi di avanguardie operaie a cercare la strada per lo sbocco rivoluzionario. Nella primavera del ‘20 gli operai lottano per la difesa delle Commissioni Interne (4) che con la fine della guerra diventano sempre più lo strumento degli operai non solo per portare avanti rivendicazioni di carattere sindacale ma anche elemento organizzativo per partecipare alla direzione delle officine: l’oggetto del contendere tra borghesia e classe operaia nel marzo del ‘19 è proprio il ruolo delle Commissioni Interne. Nell’aprile del ‘19 la FIOM ottiene il riconoscimento delle Commissioni Interne e il diritto di selezionare i loro membri. Ma a questo punto si apre un nuova contraddizione in seno alla classe operaia: un numero crescente di gruppi operai spingono sempre più per un ulteriore passo verso la partecipazione di tutti gli operai (anche quelli non iscritti al sindacato) all’elezione dei membri della Commissione Interna.

 

4. Le Commissioni interne erano sorte durante la prima guerra mondiale in ogni stabilimento come punto di convergenza della spinta operaia a dotarsi di uno strumento di rappresentanza e di rivendicazione per migliorare le proprie condizioni di lavoro e del bisogno delle autorità governative di dotarsi di una cinghia di trasmissione e controllo (ingabbiamento) degli operai al servizio dello sforzo bellico.

 

Questa spinta in avanti delle avanguardie operaie è il frutto di un crescente legame tra loro e gruppi di sinistra all’interno del PSI. Stiamo parlando in particolare di un nucleo di giovani intellettuali socialisti di Torino che fanno capo alla rivista L’Ordine Nuovo: componenti di spicco sono Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti. Da Del Carria: “(…) Dai giovani ordinovisti le Commissioni Interne vengono subito viste come organizzazioni che se sviluppate e arricchite possono diventare organi del nuovo potere della classe operaia intorno al quale strutturare quello delle masse popolari. È attraverso i continui contatti tra i giovani di L’Ordine Nuovo e gli operai  più coscienti della FIAT-Centro (10 mila operai) che nell’agosto del ‘19 nasce l’idea dei Consigli di Fabbrica che si concretizzano con l’elezione dei propri delegati. (…). I Consigli di Fabbrica divengono via via la forma organizzata dei lavoratori sempre più riconosciuta rispetto alla vecchia forma delle Commissioni Interne. (…) A metà ottobre ‘19 si ha la prima assemblea di Consigli di Fabbrica della città che rappresentano oltre 30 mila operai. (…) Chiaramente tale organizzazione trova due opposizioni: quella di una parte della burocrazia sindacale che è espressione borghese in seno alla classe operaia e quella degli industriali”. La battaglia è imminente tra il potere costituito della borghesia e quello nascente dei Consigli di Fabbrica. Infatti a marzo del ‘20 gli industriali di Torino sferrano un primo attacco alla classe operaia (lo spunto è il licenziamento di un operaio che si rifiuta di adeguarsi all’ora legale e alla sospensione della Commissione Interna nello stesso stabilimento). L’attacco (sferrato con l’utilizzo delle Guardie Regie e dei Carabinieri) è durissimo. A fine marzo Torino vive uno stato d’assedio a tutti gli effetti. Ma gli operai torinesi (con alla testa i metallurgici) rispondono all’attacco e il 29 marzo indicono uno sciopero generale che durerà dieci giorni e si estenderà alle altre categorie di lavoratori fino ad allargarsi alla provincia e poi a tutto il Piemonte: parliamo di giornate di sciopero con adesioni di 500 mila tra operai e contadini. Parliamo di scioperi che si estendono a Novara, Pavia, Vercelli, Voghera, Casale Monferrato e Mortara, Biella e Alessandria.

Alla lotta prendono parte anche il PSI locale e le camere del lavoro delle maggiori città del Piemonte, ma la direzione nazionale del PSI respinge con ostilità la delegazione torinese dei CdF e L’Avanti si rifiuta di pubblicare l’appello della sezione socialista di Torino. Allo stesso modo falliscono i tentativi del comitato operaio di Torino (organo rappresentativo dei CdF della città) di coordinare la lotta operaia e contadina sulla parola d’ordine del controllo operaio e contadino.

La battaglia rifluisce ma non “la guerra” come in aprile la definì il comitato dello sciopero. E infatti dal mese di agosto si apre una nuova battaglia che parte dalla lotta per miglioramenti salariali e assume la forma dell’occupazione delle fabbriche. Nel giro di poche settimane essa travalica la lotta economica e diventa lotta politica nel quale si fronteggiano due poteri, quello del proletariato e quello dei capitalisti. Questa volta gli operai arrivano più organizzati e le loro avanguardie più legate alla sinistra del movimento socialista non solo a Torino (con gli ordinovisti) ma anche in Liguria e sul litorale tirrenico (con gli anarco-sindacalisti dell’USI), alla FIAT centro e nel resto del centro Italia con i gruppi di Il Soviet capeggiati da Bordiga.(5) Un avanzamento così travolgente della lotta per la presa del potere della classe operaia (6) sotto l’orientamento e la direzione della sinistra dell’allora movimento socialista acutizza le contraddizioni in seno al PSI e al sindacato. Esso però mostra anche i limiti degli stessi gruppi di sinistra dentro il PSI (L’Ordine Nuovo di Gramsci e Il Soviet di Bordiga). L’apice della crisi arriva il 10-11 settembre 1920 a Milano durante la riunione del Consiglio Nazionale della CGIL, della direzione del PSI e del direttorio riformista del gruppo parlamentare. In quell’occasione i gruppi dirigenti del sindacato mettono in mano al PSI la “patata bollente” della direzione del movimento, ma il PSI abdica e anche gli stessi gruppi ordinovisti e di Il Soviet non approfittano della situazione facendo così rifluire la lotta politica per il potere a conquiste economiche e sociali che la borghesia si riprenderà negli anni successivi.

Così alla fine del ‘20 termina il Biennio Rosso e si apre una nuova fase della lotta politica rivoluzionaria: la lotta contro la reazione borghese, monarchica e clericale e contro il fascismo.

Anna M.

 

5. Amadeo Bordiga nel 1920 era ancora membro del PSI. Sarà alla testa della scissione del PSI del 21 gennaio 1921 e diventerà il primo segretario generale del PCd’I.

 

6. Gli occupanti delle fabbriche sono circa 400 mila distribuiti a Torino, Milano, Genova, in Emilia, nel Veneto, in Tosca, Umbria, Ancona, Roma, Napoli, Palermo. Questa volta in varie delle occupazioni gli operai si organizzano anche militarmente per difendere le fabbriche.