La Voce 62 (ritorna all'indice)

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XXI - luglio 2019

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Consolidamento e rafforzamento del (nuovo)PCI

Combattere lo scetticismo nelle nostre file!

Per dirigere un compagno bisogna imparare a conoscerlo


I dirigenti devono imparare a conoscere i compagni, dedicare tempo ed energie a farlo, vedere le loro potenzialità e farli crescere. È sbagliato sia limitarsi alla critica dei loro errori, limiti e difetti o delle storture frutto della decadenza della borghesia e dell’esaurimento della prima ondata, sia limitarsi a dare indicazioni di lavoro e curare poco la loro trasformazione!


Cari compagni,

molti compagni hanno studiato l’articolo Cinque questioni sulla direzione (La Voce n. 61) e alcuni lo hanno usato anche per letture collettive. Le cinque questioni poste nell'articolo sono molto utili per riflettere sul percorso di Riforma Intellettuale e Morale (RIM) di ognuno di noi e sul percorso di rafforzamento della Carovana del (n)PCI.

La maggior parte dei compagni con cui ho ragionato dell’articolo individuano nella seconda delle cinque la questione che più li riguarda e che frena lo sviluppo del lavoro dei loro collettivi. La riporto, per favorire il ragionamento: “Solo chi si cimenta con slancio e creatività in quest’opera [nell’attività esterna, in particolare nell’intervento sulla classe operaia e i lavoratori delle aziende pubbliche, ndr], chi mette le mani in pasta comprende le potenzialità che ci sono per la crescita della Carovana del (n)PCI, vede gli appigli e le possibilità di sviluppo. Così come solo chi si cimenta nella cura dei compagni, capisce le possibilità che ci sono nella trasformazione degli uomini e delle donne. Spingere i compagni a sperimentare la linea nella pratica, a ‘mettersi alla scuola’ dell’intervento nella lotta di classe: questa è la migliore cura per lo scetticismo dentro la Carovana del (n)PCI, in particolare per quanto riguarda i quadri. Infatti chi sta alla finestra, chi non si attiva per attuare la nostra linea, chi non mette le mani in pasta o lo fa burocraticamente, senza slancio e interesse, senza impegno, senza usare l’intelligenza, vede solo mare piatto”.

Voglio dare un contributo per approfondire la questione dello scetticismo nelle nostre file.

Sono tre i modi con cui esso si manifesta:

1. lo scetticismo sulla possibilità di fare la rivoluzione socialista e instaurare il socialismo,

2. lo scetticismo sulla trasformazione dei diretti in comunisti di nuovo tipo,

3. lo scetticismo sulla propria capacità di trasformare i diretti.

Per combattere efficacemente lo scetticismo bisogna capire quale dei tre è l’aspetto principale nel compagno su cui interveniamo. Per il primo mi basta dire che la cura sta nell'uso del materialismo dialettico per conoscere la realtà: la nostra attività è proficua e feconda di risultati nella misura in cui perseguiamo obiettivi conformi alle leggi di sviluppo proprie del mondo che vogliamo trasformare, nella misura in cui conosciamo quelle leggi e ce ne avvaliamo per dirigere la nostra azione. Mi dilungo invece sul secondo e terzo punto.

Ogni individuo è una realtà unitaria e contraddittoria in sviluppo, creata dalla sua storia: si sviluppa per sue contraddizioni interne e per condizioni esterne. La trasformazione di un compagno in comunista è uno dei suoi possibili sviluppi. Avviene sulla base di presupposti esistenti in lui e secondo sue caratteristiche specifiche frutto della sua storia e della sua concezione, mentalità e personalità. Inoltre per la trasformazione in comunista sono essenziali la mobilitazione e l’impegno dell’interessato. Quindi il ruolo del dirigente è secondario e superfluo? No, non lo è. Se è vero che la base della sua trasformazione è nel diretto, è vero anche che il dirigente ne è la condizione. Il dirigente promuove la trasformazione del diretto. Per chiarire il concetto uso le parole di Mao: “A una temperatura adatta un uovo si trasforma in un pulcino, ma non c'è temperatura che possa trasformare una pietra in un pulcino, perché le basi dell'uovo e della pietra sono diverse”.(1)

La comprensione delle caratteristiche del compagno da parte del dirigente è fondamentale per promuovere la sua trasformazione. Ogni compagno è diverso dall’altro: il dirigente riesce a “tirare fuori” il meglio da lui, a fargli sprigionare energie, risorse e capacità tanto più quanto più adeguatamente tiene conto delle caratteristiche del compagno. Molti degli errori che ancora commettiamo nella cura e formazione dei compagni sono errori nella comprensione del compagno su cui interveniamo, delle sue caratteristiche, della sua concezione, mentalità e personalità.(2)


1. Mao Tse-tung, Sulla contraddizione, in Opere di Mao Tse-tung vol. 5, pag. 186.


2. Sul tema è utile lo studio dei seguenti articoli: Concezione del mondo, mentalità e personalità in La Voce n. 35, Concezione, mentalità e personalità in La Voce n. 39, Perché a volte restiamo sorpresi dagli sviluppi che avvengono nella trasformazione dei compagni? in La Voce n. 47.


Per la cura e formazione dei compagni bisogna capire “la loro lingua”, entrare nel “loro mondo” e incominciare a “navigare” con loro, partendo da come sono e facendoli evolvere, fino a renderli autonomi ideologicamente e capaci di dirigersi (orientarsi) da soli. È un’operazione di alto livello, che richiede scienza, elasticità mentale e anche una certa sensibilità, nel senso di comprensione della persona e capacità di entrarci in dialettica.

Per dirigere e formare un compagno, bisogna conoscere a fondo la sua storia personale oltre che politica, conoscere le esperienze che lo hanno fatto crescere e quelle che lo hanno segnato. In particolare sono molto utili quelle negative, per capire il compagno: come si è plasmato, come ha reagito, i segni che si porta dietro, le sue relazioni con gli altri e in particolare quelle con i genitori, con i familiari, con l’altro sesso e con i figli. Conoscere le fragilità della persona permette di comprendere come essa è: spesso, infatti, tutta una serie di atteggiamenti, comportamenti, modi di essere sono reazioni a sue fragilità (ad esempio chi si sminuisce perché genitori o insegnanti lo hanno fatto sentire stupido; si maschera per apparire sicuro; teme il giudizio perché lo hanno sempre paragonato a qualcun altro “migliore di lui”; evita sistematicamente determinate situazioni; si infogna sistematicamente in determinate situazioni; ecc.).

Dirigiamo una persona tanto meglio quanto più a fondo la conosciamo. Questo però non significa che prima bisogna conoscerla e solo dopo dirigerla: è solo dirigendola che riusciamo a conoscerla nel senso che a noi interessa, per trasformarla. Significa che il dirigente deve avere una grande attenzione (è una cosa che si sviluppa con il tempo e con l’esperienza, non è una cosa innata) e pazienza per capire chi dirige. Oggi al nostro interno questo lavoro è spesso visto, erroneamente, come una “palla”, un qualcosa che “distoglie tempo dal lavoro esterno”, ecc. Questo è un approccio negativo che porta il dirigente a non essere creativo, d’iniziativa nella cura e formazione e inoltre porta a vedere principalmente il negativo nei compagni.

Bisogna ribaltare l’approccio: partire dal fatto che sono gli uomini che attuano la linea e gli uomini vanno curati e formati, spinti in avanti, stimolati, incoraggiati. La cura del fronte interno è condizione fondamentale per lo sviluppo del lavoro esterno. È un’operazione complessa conoscere una persona, richiede i suoi tempi e non avviene di colpo, ma è fondamentale.

Tanto più il dirigente si porrà in quest’ottica, tanto più farà un buon lavoro e la sua sfiducia (lo scetticismo) nei diretti e nella loro trasformazione diminuirà. La sfiducia nasce infatti da un modo di analizzare le persone e di intervenire su di esse che non corrisponde sufficientemente alla realtà: analisi errate, parziali (unilaterali), frettolose, burocratiche, inficiate dal “come dovrebbe essere” idealmente un compagno e non da come realmente è, con i suoi aspetti positivi e negativi, e su questa base spingerlo in avanti.

Il dirigente fa un intervento tanto migliore sul diretto quanto più si pone nell’ottica di imparare dall’esperienza che sta facendo e anche dal diretto. È molto difficile che un dirigente vada lontano nella trasformazione di un compagno se non coglie (comprende) cosa lui impara dal diretto (si impara da ogni diretto, a prescindere dal fatto se il diretto ne sia o meno consapevole).

In sintesi, il dirigente per molti versi è come l’insegnante di una scuola o l’allenatore di una squadra: deve capire la classe o la squadra, i punti forti e i punti deboli, e tirare fuori il meglio da essa. L’insegnante o l’allenatore che maledice la classe o la squadra, anziché farla evolvere, è lui che è fuori strada. Se non si corregge (e in questo sono importanti anche l’intervento del suo collettivo di appartenenza e dei suoi dirigenti, ma anche le critiche dei diretti), alla lunga non potrà che “vedere tutto nero” e perdere fiducia nella nostra causa: essa infatti è affidata a quegli uomini che fanno la storia consapevolmente.

Avanti nella costruzione del (n)PCI!

Prospero G.