La Voce  56 - anno XIX, luglio 2017 - in formato PDF - Formato Open Office - Formato Word

del (nuovo)Partito comunista italiano

consolidamento e rafforzamento del (nuovo)Partito comunista italiano

Lettera di una compagna sulla sua recente esperienza di “candidatura” nel partito

Pubblichiamo la lettera della compagna per il valore che l’esperienza che racconta ha per altri collaboratori e simpatizzanti del partito, in un raggio più ampio per ogni persona che aspira a liberare l’umanità dalla barbarie del sistema capitalista in putrefazione; ma anche perché mette in luce un processo compiuto nel passato da vari CdP: con una concezione del CdP come “braccio armato”, in un periodo non di lotta armata (nella prima fase della GPR) si scivola facilmente nel CdP appiattito sul lavoro pubblico.

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Compagne e compagni di VO,

questa lettera tratta della mia esperienza nel rapporto con il (n)PCI. Ve la scrivo chiedendovi di pubblicarla (nei modi e tempi che riterrete opportuni), perché credo sia utile per quei compagni che come me si sono interrogati o si stanno interrogando sul contributo che vogliono dare alla nostra causa. Ci tengo a sottolineare che il principio per cui “la nostra opera è grande e il contributo di ognuno è prezioso” è validissimo, ma un conto è collaborare, altra storia è contribuire avviando un percorso di candidatura e militanza nel partito. Ed è di questo che si tratta nel mio caso.

Come scrivete anche voi, arruolarsi e far parte del partito clandestino non è “un pranzo di gala”. Significa intraprendere un particolare percorso di riforma intellettuale e morale (RIM). Quindi quello che ho capito con l’esperienza è che per arruolarsi nel partito clandestino non bisogna essere dei super-uomini, come in effetti non lo erano i comunisti che animarono la prima ondata rivoluzionaria, dal PC(b) dell’URSS al PCI alle BR. Per arruolarsi nel partito clandestino bisogna semplicemente fare scelte di campo e di vita che si sostanziano in passi concreti e ben precisi sotto la direzione e con il supporto del partito. Questo approccio per tutto un periodo ha cozzato con la visione identitaria, romantica e idealista della rivoluzione socialista e della vita per cui bastava professare la linea o essere presenti, testimoniare la nostra esistenza; per cui l’essere disposti a tutto non si concretizzava nemmeno nel fare le piccole cose che sono necessarie per far avanzare noi e il partito; per cui prima o poi la rivoluzione socialista sarebbe scoppiata perché le condizioni spingono le masse a mobilitarsi e il socialismo è l’unica via d’uscita.

Poco dopo la fondazione del (n)PCI nel 2004 con altri compagni abbiamo costituito un Comitato di Partito (CdP) di base, ma la mia militanza è rimasta identitaria, si limitava ad azioni di propaganda con il Comitato di Partito di cui facevo parte, mentre nella vita vivacchiavo, mantenendo una serie di vie di fuga in caso “ci andrà male”. Queste alimentavano un certo attendismo ed erano fonte di alti e bassi, peripezie e malesseri, che mi hanno portato anche a pensare di “mollare un po’”, mi spingevano al ritirarsi a vita privata. Né il CdP mi ha spinto a superare quel livello. Il nostro livello era basso e il partito non ci costringeva ad avanzare: infatti a lungo andare il CdP si è sciolto

 

L’attività spontanea delle masse popolari, in primo luogo degli operai, è terreno in cui raccogliamo le nostre forze. Dobbiamo conoscerla, appoggiarla, favorire la sua crescita. I chiacchieroni e gli opportunisti venerano la spontaneità con parole o piangono che è poca cosa: per loro sono entrambe scuse per non fare, per non assumere responsabilità. Noi ci assumiamo la responsabilità di dirigerla: obiettivi e metodi, organizzazione e coscienza. Partiamo dal livello che c’è e lo facciamo avanzare.

 

Tuttavia non voglio buttare via il bambino con l’acqua sporca: quell’esperienza mi è servita per elevare la mia concezione della vigilanza rivoluzionaria ad esempio, del lavoro per compartimentazione, della segretezza, arginando anche il  mio individualismo (mi ha abituato a mettere davanti gli obiettivi, a fare lavoro dietro le quinte senza avere un riconoscimento, la “medaglia”). Però cresceva in me la tendenza al lasciar correre, al liberalismo soprattutto verso me stessa e a ricaduta su chi mi stava intorno, anziché darmi i mezzi per avanzare, per imparare dall’esperienza e dalle cadute, senza interrompere il cammino intrapreso. Inoltre il vivacchiare, il mantenersi riserve rispetto alla militanza apre in definitiva le porte al legalitarismo, porta ad appiattirci sulle due tare tipiche dei partiti comunisti dei paesi imperialisti. Questo ha alimentato il mio senso di non essere all’altezza, mi faceva sentire il “topolino di fronte alla montagna”, anziché lo scalatore che impara a scalarla e si dà i mezzi per arrivare sulla cima.

In definitiva dovevo fare il salto e passare dall’essere la ragazzina ribelle con la sua visione romantica della vita e della rivoluzione socialista, all’essere una donna che con determinazione e affidandosi al partito si trasforma in dirigente comunista.

Oggi non ho ancora fatto questo salto compiutamente, ma penso di aver fatto dei passi avanti, sono maturata e un primo insegnamento che ne traggo e che pone le basi più solide nel “nuovo” corso è che da soli, senza il confronto con il Centro è difficile essere in grado di portare la linea, di trasformarsi in comunisti che effettivamente operano come tali.

Un po’ di tempo fa su spinta di alcuni compagni ho intrapreso lo studio di alcuni testi sul bilancio della prima ondata della rivoluzione proletaria, in particolare nel nostro paese. Grazie a questo ho capito meglio l’inadeguatezza dei vecchi partiti comunisti che di fatto si sono fatti sorprendere dal fascismo, sono rimasti nel confine della società borghese e delle due tare. Dalla Storia del Partito Comunista Italiano di Spriano ad alcuni scritti e romanzi di dirigenti comunisti del vecchio PCI come Antonio Gramsci, Teresa Noce o Pietro Secchia ho compreso anche il mio divario tra teoria e pratica, tra le aspirazioni e convinzioni che andavo maturando e la mia pratica “appiattita” sul lavoro pubblico. Una pratica che non mi faceva vedere i numerosi appigli che la situazione rivoluzionaria in sviluppo presenta e comprendere la “grandezza” dell’opera che stiamo costruendo; una pratica che ci porta a scivolare inevitabilmente nell’economicismo e nell’elettoralismo, le due tare che impedirono la valorizzazione dell’eroismo dei comunisti della prima ondata nei paesi imperialisti. Questa consapevolezza è stata poi tradotta nella pratica avviando nuovamente la collaborazione con il partito. Questa mi ha portata a rimettermi in gioco e soprattutto mi ha fatto capire che anche io potevo contribuire (non ero il “topolino di fronte alla montagna”). La mia visione romantica e idealista della rivoluzione socialista iniziava a cedere il passo alla concretezza della trasformazione, della RIM che “avanza per tappe e salti” concreti, in stretto rapporto con il collettivo e con i compagni che mi dirigevano. Ho dovuto però superare un altro scoglio: infatti la caratteristica del (n)PCI che mi faceva restare distante è la clandestinità. Di fatto la concepivo unicamente come la “partenza” con documenti falsi, l’essere truppa mobile, anziché vedere il partito nelle sue articolazioni (i CdP di base e intermedi, le commissioni di lavoro, il lavoro ordinario che bene avete indicato a pag. 35 su La Voce n. 55) e la “partenza” come frutto di un percorso di cura, formazione e trasformazione. Questa visione falsata della clandestinità mi metteva in difficoltà rispetto al dovermi staccare da alcune relazioni familiari. Insomma la militanza nel (n)PCI, in un partito clandestino è cosa viva e va calibrata in base a ciò che serve al partito e alle caratteristiche del compagno (alla sua concezione, mentalità e personalità) di partenza e su cui lavorare per trasformarlo.

Da qui la decisione non solo di riprendere i contatti con il partito ma anche di chiedere una nuova “candidatura”, rompendo con gli indugi che mi avevano portato ad abbandonare.

Il percorso che sto facendo oggi è tutt’altro che lineare e la lotta tra le due linee, tra il vecchio e il nuovo, nella fase che sto attraversando è viva, mi pone davanti a nuovi compiti e difficoltà: come combinare il lavoro pubblico che faccio con quello clandestino, senza appiattirmi sul primo ma anzi usandolo per rafforzare il secondo? Quali percorsi mettere in pista per reclutare tra gli operai avanzati e le masse popolari che sebbene capiscano l’importanza e la necessità di avere un partito clandestino che garantisca la continuità della costruzione della rivoluzione, oggi ancora non si sentono pronti? Come superare le resistenze che emergerebbero nel caso che il partito mi chiedesse di “partire” e diventare trup pa mobile al servizio della rivoluzione socialista?

Ma il percorso intrapreso mi sta facendo comprendere meglio il principio per cui “il contributo di ognuno è prezioso”, per cui comunisti lo si diventa con il collettivo e con processi ben precisi di RIM in cui via via si affrontano contraddizioni, problematiche, difficoltà che a causa del senso comune, di concezioni che sono frutto del vecchio mondo e dell’oppressione delle classi dominanti, ci impediscono o rallentano il processo rivoluzionario, la nostra trasformazione.

Non siamo tarati e nemmeno super-uomini: tutto si può trasformare, con e nel partito! Aver studiato e approfondito il bilancio della prima ondata mi ha portato a comprendere che è necessario costruire un partito clandestino e iniziare a farlo. Ora, in questa nuova fase, mi devo affidare al partito per affrontare nuove e vecchie contraddizioni e avanzare per diventare la comunista che impara dall’esperienza e contribuisce con più scienza e coscienza alla costruzione dello Stato Maggiore della classe operaia che la guiderà nella lotta per la presa del potere.

L’appello che rivolgo alle compagne e ai compagni che come me si sentono come il “topolino di fronte alla montagna”, è di rompere con gli indugi, di prendere contatto con il partito, di esporre i propri dubbi ma anche fare proposte di attività che si possono intraprendere fin da subito, con l’approccio dello scienziato che impara facendo e contribuisce così alla grande opera che stiamo costruendo.

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