La Voce 53

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVIII - luglio 2016

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Alle origini del primo Partito comunista italiano (PCI)

 

Uno dei sintomi positivi di questi mesi è la ventata d’interesse per l’esistenza del partito comunista, la percezione che per porre fine al catastrofico corso delle cose che la borghesia imperialista e il suo clero impongono al mondo intero, compreso il nostro paese, occorre il partito comunista. Il Seminario Nazionale promosso da Rete dei Comunisti il 18 giugno a Roma e l’Assemblea Costituente che tra il 24-26 giugno a Bologna ha ricostituito il PCI sono due delle manifestazioni di questa ventata.

Il primo apparentemente si è concluso senza sorprese. I capi storici di RdC, relatori al Seminario (le relazioni sono disponibili su www.retedeicomunisti.org) hanno sentenziato, come fanno da circa venti anni a questa parte ogni volta che si riuniscono,

1. che la situazione è completamente nuova rispetto a quella in cui si è svolta la prima ondata della rivoluzione proletaria. Non sono così netti, ovviamente, perché filosoficamente rientrano nel campo degli scettici (“chissà se mai si può conoscere la verità”) e si permettono quindi anche affermazioni contrastanti e l’unità in campo teorico non è di rigore e neanche la coerenza,

2. che per costituire il partito occorrono accurati bilanci del passato (sempre da fare) e studi più profondi dell’assetto che la borghesia ha dato alla struttura economica perché da esso dipende anche l’organizzazione dei comunisti. A questo comunque aggiungono che sono entrambi (assetto della struttura economica e organizzazione dei comunisti) in perenne trasformazione: insomma viva la concezione dell’organizzazione-processo già analizzata da Lenin in Un passo avanti e due passi indietro (maggio 1904 - Opere vol. 7).

Ma alcuni dei seminaristi nuovi non sono rimasti soddisfatti del vecchio opportunismo. Niente di definito, ma il corso delle cose spinge nella direzione che noi promuoviamo chi vuole contribuire alla rivoluzione socialista.

Invece i promotori della ricostituzione del PCI riuniti a Bologna, come a suo tempo i promotori della fondazione del PC di Marco Rizzo (ex Comunisti - Sinistra Popolare), proclamano di innestarsi pari pari sulla concezione del primo PCI fondato nel 1921 a Livorno. I promotori dell’Assemblea Costituente di Bologna si distinguono però dai promotori del PC di Rizzo perché mentre questi accettano per buono il vecchio PCI fino a Togliatti e si dichiarano ammiratori di Pietro Secchia, (1) i primi fanno proprio il patrimonio del PCI fino alla Bolognina (1989) e forse anche fino ad alcuni anni dopo.

 

1. A proposito del PC di Marco Rizzo rimandiamo al Comunicato CC 2/2014 - 11 gennaio 2014, Saluto al II Congresso di Comunisti - Sinistra Popolare, reperibile sul sito www.nuovopci.it.

 

A proposito dell’eredità del vecchio PCI vale quindi la pena di mettere alcuni puntini sulle i.

Negli anni 1921 e 1922 Lenin mise chiaramente in luce in numerose circostanze (es. Lettera ai comunisti tedeschi (agosto 1921), Note di un pubblicista (febbraio 1922), Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione proletaria mondiale (novembre 1922)) che i partiti comunisti europei, formati per iniziativa dell’Internazionale Comunista da frazioni dei vecchi partiti socialisti della II Internazionale, erano “partiti europei di vecchio tipo, parlamentari, riformisti di fatto, con solo una spruzzatina di colore rivoluzionario” e che avrebbero dovuto trasformarsi profondamente per diventare capaci di fare la rivoluzione socialista. L’“incapacità rivoluzionaria” dimostrata dai vecchi partiti socialisti di fronte alla prima guerra mondiale non era questione di persone né riguardava solo la destra del partito. Riguardava anche la sinistra: esempi tipici Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht in Germania, Giacinto Menotti Serrati in  Italia. Era una questione che riguardava la concezione del partito e della rivoluzione socialista che era alla base di quei partiti. Alla fine del 1922 Lenin arrivò a scrivere: “Forse i fascisti in Italia ci renderanno grandi servizi mostrando agli italiani che non sono ancora abbastanza istruiti, che il loro paese non è ancora abbastanza garantito contro il terrorismo reazionario. Forse questo sarà molto utile. ... I compagni [europei] devono studiare per comprendere veramente l’organizzazione, la struttura, il metodo e il contenuto del lavoro rivoluzionario”.

Noi abbiamo più volte (vedi ad esempio il nostro Manifesto Programma cap. 1.4.) detto e spiegato che i partiti comunisti dei paesi imperialisti erano e restarono profondamente intrisi delle due tare che avevano fatto imputridire i partiti socialisti: il riformismo elettoralista (sostituire la lotta politica rivoluzionaria con la partecipazione delle masse popolari dirette dal partito comunista alla lotta politica borghese) e l'economicismo (sostituire la lotta politica rivoluzionaria con le lotte rivendicative delle masse popolari). Sono le due tare più evidenti nella loro storia, ma il nesso tra esse e altri aspetti negativi e positivi di quella storia è la non assimilazione del materialismo dialettico come metodo per conoscere e per agire. Da qui proviene anche l’ambiguità dei rapporti tra le sezioni nazionali europee e degli USA dell’Internazionale Comunista e il suo Centro su cui tanto hanno giocato e giocano gli esponenti della borghesia e della sinistra borghese per la loro opera di denigrazione di Stalin e del partito comunista dell’URSS.

Nella storia dei partiti europei si distingue in positivo Antonio Gramsci, che tanti venerano come un santino, senza assimilarne la lezione. Antonio Gramsci portò a fondo l’assimilazione del marxismo-leninismo nel periodo che trascorse in Russia dal maggio del 1922 a quando per decisione dell’Internazionale Comunista assunse la direzione del PCd’I e (nel novembre del 1923) si trasferì a Vienna. Gramsci era profondamente convinto come Lenin che occorreva un profondo lavoro di riorientamento del partito e si accinse a questo lavoro. Aveva chiaro l’obiettivo e operò guidato dalla concezione materialista dialettica. Lo documentano gli scritti del periodo in cui diresse il partito, raccolti in La costruzione del partito comunista 1923-1926 (Einaudi Editore, 1974), in particolare quelli relativi alla scuola interna di partito, la relazione al CC dell’11-12 maggio 1925 (La situazione interna del nostro partito e i compiti del prossimo congresso), le Tesi di Lione (gennaio 1926), l’articolo Cinque anni di vita del partito (l’Unità 24 febbraio 1924), la relazione al CC del 2-3 agosto 1926 e Alcuni temi sulla questione meridionale, incompiuto a causa dell’arresto. Venne arrestato l’8 novembre 1926. Il gruppo dirigente che prese in mano il partito dopo il suo arresto abbandonò sostanzialmente il lavoro di riorientamento che Gramsci aveva avviato.

Il distacco tra Gramsci e il gruppo dirigente che prese in mano il PCd’I dopo il suo arresto (Togliatti & C), consiste in questo:

- Gramsci aveva iniziato nel 1923 e continuò poi fino alla morte (vedasi il lavoro dedicato ai problemi strategici del partito, relativi quindi alla via di avvicinamento all’instaurazione del socialismo adatta all’Italia, che è espresso nei Quaderni del carcere) il lavoro di riorientamento del PCd’I promosso da Lenin e sostenuto da Stalin e dal gruppo dirigente del PCUS (sono conferma di questo sostegno ad es. la critica aperta in sede Cominform di Zdanov al PCI (settembre 1947), il rapporto presentato da Pietro Secchia alla Sezione Esteri del CC del PCUS alla fine del 1947,(2) i ripetuti tentativi di Stalin di rimuovere Togliatti e farlo sostituire alla direzione del PCI;

 

2. A proposito di questo rapporto rimandiamo all’articolo Pietro Secchia e due importanti lezioni di Rosa L. in La Voce 26, reperibile sul sito www.nuovopci.it.

 

- il gruppo dirigente che prese il suo posto dal 1926 si trincerò invece sempre più nella lotta (spesso eroicamente condotta) per la sopravvivenza del partito nelle condizioni create dal fascismo e finì col portare il partito a diventare effettivamente quello che dichiaravano che non doveva diventare: l’ala sinistra del movimento antifascista della borghesia e del clero quando la crisi interna del fascismo (per niente pilotata dal PCd’I benché vi avesse potentemente contribuito  con gli scioperi nelle fabbriche del marzo 1943) porterà al crollo del regime e borghesia, clero e monarchia concluderanno che per non scomparire col fascismo devono farsi antifascisti (come apertamente disse e fece il gen. Raffaele Cadorna che dopo il 1943 assunse il comando del Corpo Volontari della Libertà). L’approdo a cui portò l’indirizzo dato all’attività del PCI dal nuovo gruppo dirigente divenne palese nel 1947 quando il PCI senza colpo ferire fu estromesso dal governo e infine (1949) il paese cadde sotto il protettorato degli USA (NATO).

La differenza quindi non consiste nel contrasto tra elaborazione teorica fine (Gramsci) e comunismo rozzo (Stalin) su cui il nuovo gruppo dirigente si sarebbe allineato (dissidenti e traditori a parte), come sostengono i denigratori del movimento comunista e di Stalin in particolare. In tutti i Quaderni del carcere Gramsci è sempre sulle posizioni di Stalin negli scontri tra le due linee avvenuti nel PC(b)R e nella IC di cui si occupa (anche se ne parla con estrema discrezione o tra le righe, per difendersi dal rischio che il regime fascista gli tagliasse il rifornimento di libri e riviste e la carta su cui scrivere). Anche il rapporto Lisa conferma questa tesi.(3) La questione è che Gramsci era materialista dialettico nel metodo di analisi, il resto del gruppo dirigente no. Il nuovo gruppo dirigente era nella concezione del mondo più vicino a Bordiga che a Stalin e a Gramsci.(4) Il rapporto Lisa lo mostra chiaramente proprio perché lo descrive ingenuamente.

 

3. Athos Lisa il 22 marzo 1933, appena uscito dal carcere di Turi dove era prigioniero anche Gramsci, stese per l’Ufficio Politico del PCd’I un rapporto in cui racconta che in carcere Gramsci nel 1930 aveva tenuto per un paio di settimane corsi di educazione politica. In sostanza contro la concezione del mondo meccanicista (positivista) ereditata dall’ambiente massimalista (bordighista) da cui proveniva la maggioranza dei membri del PCd’I (compreso Lisa), Gramsci educava al materialismo dialettico. Spiegava (come già aveva fatto ad esempio nell’intervento al CC del PCd’I di agosto 1926) che con il procedere della crisi del capitalismo il fascismo sarebbe andato alla rovina e una parte della borghesia e del clero avrebbero cercato di salvaguardare i propri interessi di classe staccandosi dal fascismo. I comunisti dovevano valorizzare nella lotta politica questa contraddizione, per avanzare sulla via di avvicinamento all’instaurazione del socialismo. Questo venne interpretato da Lisa e dal gruppo dirigente del PCd’I nel senso che il PCd’I avrebbe dovuto rinunciare alla rivoluzione socialista (“la sola rivoluzione possibile in Italia” aveva scritto Gramsci nelle Tesi di Lione del gennaio 1926, ben dopo l’avvento del fascismo), a favore di una rivoluzione democratico-borghese, come se il fascismo avesse fatto regredire al feudalesimo la struttura (la composizione di classe e i rapporti tra le classi) della società italiana. Il nuovo gruppo dirigente era incapace di distinguere tra il contenuto sociale della rivoluzione e il percorso della lotta politica di avvicinamento all’instaurazione del socialismo e stravolse in questo senso anche le decisioni del X Plenum del Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista (luglio 1929) che, nel quadro della lunga lotta tra due linee apertamente condotta nel PC(b) dell’URSS, aveva liquidato la destra (Bukharin e suoi alleati). Era l’interpretazione che anche una parte dei prigionieri aveva dato alle lezioni di Gramsci e, a causa del degenerare della lotta tra linee in lotta frazionistica e personale, Gramsci aveva sospeso le lezioni.

Da notare che dopo il 1943 proprio quella parte del gruppo dirigente di allora (Togliatti, Longo, Ravera, Grieco e Secchia) che aveva ancora un ruolo nel PCI dopo la Resistenza (gli altri membri dell’UP del 1930, Ravazzoli, Leonetti, Tresso e Silone avevano tradito prima) abbandonò la via della rivoluzione socialista e optò per la Repubblica Pontificia accampando a motivazione perfino la lotta contro “i residui feudali”.

Per le notizie su Lisa ci siamo avvalsi di Giuseppe Fiori Vita di Antonio Gramsci (Laterza, 1966) cap. 26.

 

4. La concezione di Bordiga era dogmatica e meccanicista: ogni cosa è quello che è. Per il materialista dialettico in realtà ogni cosa è più cose; quale il partito assume come principale è il contesto in cui quella cosa è inserita e la trasformazione che il partito vuole realizzare che lo decidono; per di più ogni cosa è quello che è ma anche quello che può diventare, ecc. In Togliatti il meccanicismo nella concezione è mascherato dall’eclettismo da sofista (una cosa e anche il suo contrario accostate per opportunismo, come se l’accostamento fosse dettato dal nesso dialettico che nel realtà unirebbe i due contrari) e dall’empirismo (trattare dei “fatti” e dei fenomeni senza studiarne i nessi che solo la ricerca scientifica rivela - vedere in proposito la lettera di Marx a Kugelmann in questo numero di La Voce). A documentare quello che diciamo a proposito della concezione di Togliatti, valgono anche i suoi rapporti sull’azione del partito comunista spagnolo nel periodo del Fronte Popolare di cui in questo numero presentiamo un estratto.

 

Il materialismo dialettico anche oggi non è molto diffuso: o è cambiato tutto (Rete dei Comunisti ad esempio) o niente è cambiato (PC di Marco Rizzo e PCI di Mauro Alboresi). In realtà vi è continuità e innovazione. Nel movimento qualcosa persiste, vi è continuità, e qualcosa di nuovo subentra, vi è rottura. Evoluzione quantitative e salti qualitativi. Chi è  fisso sulla rottura al 100% (Rete dei Comunisti) poi si riduce a fare il continuista nella pratica auspicata (Rete dei Comunisti e la sponda nelle istituzioni del sistema politico borghese, la divisione dei compiti tra partito e sindacato, il partito lasco, a rete, senza centralismo democratico e democrazia proletaria). Chi è fisso sulla continuità al 100% (PC e PCI) si riduce a scimmiottare nei discorsi e ad accodarsi alla sinistra borghese nella pratica, perché la situazione è per aspetti decisivi effettivamente diversa da quella in cui operò il PCI e anche loro sono diversi dal PCI.

A documentazione della concezione del mondo di Gramsci riportiamo di seguito la valutazione che egli scrisse del Congresso di Livorno 1921, alla vigilia del congresso.

Maria P.

 

Antonio Gramsci e il congresso di Livorno

da L'Ordine Nuovo, 13 gennaio 1921

 

Il Congresso di Livorno è destinato a diventare uno degli avvenimenti storici più importanti della vita italiana contemporanea.(1) A Livorno sarà finalmente accertato se la classe operaia italiana ha la capacità di esprimere dalle sue file un partito autonomo di classe, sarà finalmente accertato se le esperienze di quattro anni di guerra imperialista e di due anni di agonia delle forze produttive mondiali hanno valso a rendere consapevole la classe operaia italiana della sua missione storica.

 

1. Il XVII congresso del Partito socialista italiano si tenne a Livorno dal 15 al 21 gennaio 1921. Delle tre correnti rappresentate al congresso ottennero 98.028 voti quella massimalista unitaria guidata da Giacinto Menotti Serrati, 58.783 quella comunista, 14.685 quella riformista. Dopo la votazione, i comunisti della frazione astensionista di Bordiga, del gruppo ordinovista torinese e di altri gruppi minori, abbandonarono il teatro Goldoni, sede del congresso e, riuniti nel teatro San Marco, proclamarono la costituzione del Partito Comunista d'Italia (PCd’I), sezione della III Internazionale.

 

La classe operaia è classe nazionale e internazionale. Essa deve porsi a capo del popolo lavoratore che lotta per emanciparsi dal giogo del capitalismo industriale e finanziario nazionalmente e internazionalmente. Il compito nazionale della classe operaia è fissato dal processo di sviluppo del capitalismo italiano e dello Stato borghese che ne è l'espressione ufficiale. Il capitalismo italiano ha conquistato il potere seguendo questa linea di sviluppo: ha soggiogato e campagne alle città industriali e ha soggiogato l'Italia centrale e meridionale al Settentrione.

La questione dei rapporti tra città e campagna si presenta nello Stato borghese italiano non solo come questione dei rapporti tra le grandi città industriali e le campagne immediatamente vincolate ad esse nella stessa regione, ma come questione dei rapporti tra una parte del territorio nazionale e un'altra parte assolutamente distinta e caratterizzata da note sue particolari. Il capitalismo esercita così il suo sfruttamento e il suo predominio: nella fabbrica direttamente sulla classe operaia; nello Stato sui più larghi strati del popolo lavoratore italiano formato di contadini poveri e semiproletari.

È certo che solo la classe operaia, strappando dalle mani dei capitalisti e dei banchieri il potere politico ed economico, è in grado di risolvere il problema centrale della vita nazionale italiana, la questione meridionale; è certo che solo la classe operaia può condurre a termine il laborioso sforzo di unificazione iniziatosi col Risorgimento. La borghesia ha unificato territorialmente il popolo italiano; la classe operaia ha il compito di portare a termine l'opera della borghesia, ha il compito di unificare economicamente e spiritualmente il popolo italiano.

Ciò può avvenire solo spezzando la macchina attuale dello Stato borghese, che è costruita su una sovrapposizione gerarchica del capitalismo industriale e finanziario sulle altre forze produttive della nazione; questo rivolgimento non può avvenire che per lo sforzo rivoluzionario della classe operaia direttamente soggiogata al capitalismo, non può avvenire che a Milano, a Torino, a Bologna, nelle grandi città da cui partono i milioni di fili che costituiscono il sistema di domi nio del capitalismo industriale e bancario su tutte le forze produttive del paese.

In Italia, per la configurazione particolare della sua struttura economica e politica, non solo è vero che la classe operaia, emancipandosi, emanciperà tutte le altre classi oppresse e sfruttate, ma è anche vero che queste altre classi non riusciranno mai a emanciparsi se non alleandosi strettamente alla classe operaia e mantenendo permanente questa alleanza, anche attraverso le più dure sofferenze e le più crudeli prove. Il distacco che avverrà a Livorno tra comunisti e riformisti avrà specialmente questo significato: la classe operaia rivoluzionaria si stacca da quelle correnti degenerate del socialismo che sono imputridite nel parassitismo statale, si stacca da quelle correnti che cercavano di sfruttare la posizione di superiorità del Settentrione sul Mezzogiorno per creare aristocrazie proletarie, che accanto al protezionismo doganale borghese (forma legale del predominio del capitalismo industriale e finanziario sulle altre forze produttive nazionali) avevano creato un protezionismo cooperativo e credevano emancipare la classe operaia alle spalle della maggioranza del popolo lavoratore.

I riformisti portano come “esemplare” il socialismo reggiano, vorrebbero far credere che tutta l'Italia e tutto il mondo può diventare una sola grande Reggio Emilia. La classe operaia rivoluzionaria afferma di ripudiare tali forme spurie di socialismo: l'emancipazione dei lavoratori non può avvenire attraverso il privilegio strappato, per una aristocrazia operaia, col compromesso parlamentare e col ricatto ministeriale; l'emancipazione dei lavoratori può avvenire solo attraverso l'alleanza degli operai industriali del Nord e dei contadini poveri del Sud per abbattere lo Stato borghese, per fondare lo Stato degli operai e contadini, per costruire un nuovo apparato di produzione industriale che serva ai bisogni dell'agricoltura, che serva a industrializzare l'arretrata agricoltura italiana e a elevare quindi il livello del benessere nazionale a profitto delle classi lavoratrici.

La rivoluzione operaia italiana e la partecipazione del popolo lavoratore italiano alla vita del mondo non può verificarsi altro che nei quadri della rivoluzione mondiale. Esiste già un germe di governo mondiale operaio: è il Comitato esecutivo dell'Internazionale Comunista uscito dal II Congresso.(2) L'avanguardia della classe operaia italiana, la frazione comunista del Partito socialista, affermerà a Livorno necessaria e imprescindibile la disciplina e la fedeltà al primo governo mondiale della classe operaia: anzi di questo punto farà il punto centrale della discussione al congresso. La classe operaia italiana accetta il massimo di disciplina, perché vuole che tutte le altre classi operaie nazionali accettino e osservino il massimo di disciplina.

 

2. Il secondo congresso dell’Internazionale Comunista si era svolto a Mosca dal 19 luglio al 7 agosto 1920.

 

La classe operaia italiana sa di non potersi emancipare e di non poter emancipare tutte le altre classi oppresse e sfruttate dal capitalismo nazionale, se non esiste un sistema di forze rivoluzionarie mondiali cospiranti allo stesso fine. La classe operaia italiana è disposta ad aiutare le altre classi operaie nei loro sforzi di liberazione, ma vuole avere anche una certa garanzia che le altre classi l'aiuteranno nei suoi sforzi. Questa garanzia può essere data solo dall’esistenza di un potere internazionale fortemente centralizzato, che goda la fiducia piena e sincera di tutti gli associati, che sia in grado di mettere in movimento i suoi effettivi con la stessa rapidità e con la stessa precisione con cui riesce, per suo conto e nell'interesse della borghesia, il potere mondiale del capitalismo.

Appare evidente così che le questioni che tormentano oggi il Partito socialista e che saranno definite al Congresso di Livorno non sono mere questioni interne di partito, non sono conflitti personali tra singoli individui. A Livorno si discuterà il destino del popolo lavoratore italiano, a Livorno si inizierà un nuovo periodo nella storia della nazione italiana.