La Voce 52

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVIII - marzo 2016

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Sulla situazione rivoluzionaria in sviluppo

Rapporti Sociali - indice generale degli articoli

Rapporti Sociali 9/10 - settembre 1991

 

 

Nel nostro paese a partire dagli anni ‘80 le forze soggettive della rivoluzione socialista (1) si sono considerevolmente ridotte. L’esiguità delle forze attuali ha suscitato e suscita pessimismo in alcuni compagni. È indispensabile analizzare la situazione sia per capire quali sono le prospettive reali del movimento rivoluzionario nel nostro paese sia per capire quali azioni l’attuale situazione richiede da parte dei comunisti.

 

1. Con l’espressione forze soggettive della rivoluzione socialista (FSRS) indichiamo le forze organizzate della rivoluzione e quell’insieme di organismi, comunque strutturati, che si propongono come obiettivo il sovvertimento dell’ordinamento politico borghese e la trasformazione socialista della società.

 

 

1. Una prima discriminante

Per analizzare la situazione attuale è anzitutto necessario tracciare una discriminante tra noi e quei sedicenti rivoluzionari, in generale residuati dei gruppi extraparlamentari e dei gruppi operaisti, che sono in realtà residui portavoce della “cultura borghese di sinistra”;(2) essi, visti sotto un altro aspetto, sono i nostalgici del “capitalismo dal volto umano”. Costoro danno un giudizio assolutamente pessimista della situazione attuale, che definiscono “anni bui”, “impasse”, ecc.

 

2. Con l’espressione cultura borghese di sinistra indichiamo quell’insieme di scuole e di tendenze, variegate e contraddittorie tra loro, che hanno raggiunto il loro massimo sviluppo e la loro massima influenza nel periodo (1945-1975) di ripresa e sviluppo del capitalismo, come espressione nel campo della teoria e dell’immaginario del tentativo pratico di costruire un “capitalismo dal volto umano”.

Esse avevano come comune denominatore

- l’illusione (comune anche ai revisionisti moderni) che il movimento economico e politico della società borghese fosse (o potesse essere) diretto dalla classe dominante conformemente a suoi progetti e convinzioni e che, quindi, il capitalismo si fosse liberato dall’ineluttabilità delle crisi e del trapasso ad una forma superiore di società;

- la negazione della tesi del materialismo dialettico secondo la quale al contrario il movimento economico e politico della società borghese si svolge come un “processo naturale” governato da leggi oggettive (per la formulazione analitica di questa tesi vedasi ad esempio K. Marx nell’introduzione a Per la critica dell’economia politica).

Su questa comune base la cultura borghese di sinistra ha avuto versioni ottimiste (nei portavoce dei gruppi dirigenti e dei partiti revisionisti) e versioni pessimiste (nella “Scuola di Francoforte” e nei suoi seguaci dei gruppi operaisti e delle “culture critiche”).

Per maggiori dettagli sulla cultura borghese di sinistra rinviamo a Rapporti Sociali n. 1 pag. 26-28 e n. 5/6 pag. 16-20 e pag. 31-36).

 

 

È inevitabile che costoro diano una valutazione così pessimista. Da costoro ci divide non solo la valutazione della situazione attuale, ma anche il bilancio del periodo precedente, la concezione della rivoluzione in un paese imperialista come il nostro e, più in generale, la concezione della storia e del mondo.

 Quando fanno il bilancio del periodo precedente, essi non distinguono le condizioni oggettive della rivoluzione dalle forze soggettive della rivoluzione (le condizioni soggettive della rivoluzione): non distinguono da una parte la materia, l’essere sociale e dall’altra le concezioni, le idee, il pensiero, le immaginazioni degli individui e dei gruppi che si scontrano nella società. Così come non distinguono le condizioni oggettive e soggettive della rivoluzione dalle condizioni oggettive e soggettive della controrivoluzione.

La loro concezione della rivoluzione, sfrondata dagli orpelli delle fraseologie rivoluzionarie, arcirivoluzionarie ed estremiste di cui spesso si riempiono la bocca, in sostanza si riduce all’estensione “a tutti” dei diritti, dei privilegi e degli istituti della democrazia borghese e all’illusione che il “capitalismo dal volto umano” non fosse il fenomeno di un periodo circoscritto, prodotto dalla soluzione della crisi del precedente periodo, ma fosse il (finalmente trovato) capitalismo libero dalle crisi e dalle contraddizioni antagoniste che gli sono proprie, illusione che essi avevano in comune con la borghesia. Di conseguenza essi vivono l’attuale situazione non come lo sviluppo dialettico del periodo precedente, ma come una deviazione (più o meno temporanea, più o meno accidentale, dovuta alla cattiva condotta di questo o quel gruppo) dal corso “normale”, “corretto” delle cose, corso che essi si ostinano a individuare nella prosecuzione della costruzione del “capitalismo dal volto umano”; essi chiamano la nuova situazione “imbarbarimento”, con la stessa logica di chi chiamasse l’autunno “imbarbarimento” dell’estate e la morte “imbarbarimento” della vita.

Essi rifiutano di prendere atto

- che gli anni 1945-1975 sono stati un periodo di ripresa ed espansione del capitalismo conseguente (dialetticamente) al periodo di crisi (1910-1945) che l’ha preceduto;

- che in quel periodo i rapporti tra il proletariato e la borghesia nei paesi imperialisti sono stati caratterizzati, nel loro aspetto principale, dal tentativo di costruire un “capitalismo dal volto umano”;

- che le conquiste economiche, politiche e culturali che il proletariato e le masse sono riuscite a strappare (e che la borghesia ha potuto concedere) in quel periodo erano legate alle particolari caratteristiche di quel periodo;

- che in quel periodo la concezione del mondo, la cultura e le linee politiche prevalenti nel proletariato e tra le masse dei paesi imperialisti sono state quelle della borghesia.

 

Alcuni di essi fanno un gran parlare contro il revisionismo moderno, ma ciò che li distingue dai revisionisti moderni che hanno diretto i partiti comunisti dei paesi imperialisti si riduce a questo:

- nel passato i revisionisti moderni si sono fatti promotori tra le larghe masse del proletariato delle misure e degli istituti del “capitalismo dal volto umano”, mentre essi, quando hanno svolto un ruolo politico, si sono dati all’organizzazione e alla celebrazione di pratiche di ghetto e di “rivoluzioni” più o meno pratiche (più o meno teoriche e velleitarie) di gruppi marginali ed effimeri;

- oggi i revisionisti moderni hanno abbandonato, in larga misura e da tempo, la fraseologia rivoluzionaria mentre essi sono rimasti attaccati ad essa, hanno continuato e alcuni continuano a professarla e ad ostentarla.

Per costoro il “periodo d’oro”, la “belle époque” è stato proprio il periodo in cui erano in auge i revisionisti moderni, in cui in Italia “tutta la cultura” era “di sinistra”, in cui a sinistra “far politica” significava fare grandi denunce e lasciare che tutto continuasse come prima (cioè non analizzare le cause dei fatti denunciati e non tradurre queste denunce ed analisi in una linea d’azione conseguente).

Effettivamente per essi, come gruppo sociale e come corrente culturale, gli attuali sono “tempi bui”. Se i revisionisti erano gli organizzatori e i propagandisti del “capitalismo dal volto umano”, essi ne erano un prodotto, un effetto, un’espressione e la loro epoca d’oro, il loro prestigio, il loro ruolo sociale, lo spazio per la loro esistenza e proliferazione, sono finiti con quello. Per essi il mondo attuale “è imbarbarito” perché la borghesia non può più  mantenere con le buone il suo potere che vacilla, mentre era “civile ed umano” il mondo di ieri, quando la borghesia sfruttava ed opprimeva senza dover ricorrere a misure generali di repressione perché il suo potere era uscito consolidato dalla crisi degli anni 1910-1945. Essi sono insomma gli “intellettuali organici” dell’aristocrazia proletaria dei paesi imperialisti.(3)

 

3. Per la categoria “aristocrazia proletaria” dei paesi imperialisti vedasi I fatti e la testa, Edizioni Rapporti Sociali, pag. 110 e segg.

 

Ovviamente con chi rimpiange quel mondo, quel modo di “far politica”, quelle illusioni, i comunisti non possono avere conclusioni comuni. E anzi, la costituzione dei comunisti in partito per un lato consiste precisamente nella rottura netta con questa genere di “rivoluzionari” sul piano della concezione del mondo, dell’analisi della situazione, della linea e dei metodi d’azione. I residui portavoce della “cultura borghese di sinistra” sono l’espressione di un’altra classe, di un’altra parte politica, per “sinistre” che siano le frasi che escono dalla loro bocca e la retorica che trasuda dai loro scritti. Essi sono, in ogni loro iniziativa e in ogni loro riflessione ed analisi, intrisi della convinzione dell’onnipotenza (4) del capitalismo (almeno quanto lo sono della sua intrinseca malvagità e del suo intrinseco carattere distruttivo di cui fanno un gran parlare). In sostanza essi non personificano la coscienza del proletariato rivoluzionario; in essi si personifica da una parte la coscienza critica della borghesia, il suo animo lacerato, il pessimismo che a ragione la pervade e la sua disperazione e dall’altra il malessere e le frustrazioni della piccola-borghesia e dell’aristocrazia proletaria. Da costoro quindi ci divide una discriminante di classe: quali che siano le collaborazioni e le alleanze che concludiamo in singole iniziative, non abbiamo né possiamo avere né una concezione, né un’analisi, né una teoria, né una linea né metodi d’azione comuni.

 

4. Il nucleo di questa concezione, infinitamente articolata, è la tesi che le attuali forze produttive non sono antagoniste al rapporto di produzione capitalista, ma anzi lo oggettivano e lo incarnano. Su questa loro tesi vedasi Rapporti Sociali n. 5/6, pag. 18 e pag. 31 e segg.

 

 

Per costoro gli anni ’50-’70 furono gli anni della pacchia: la ripresa e l’espansione del mondo capitalista accendevano i loro sogni sulle “magnifiche sorti e progressive” del mondo. Il periodo che è seguito è stata una doccia fredda per le loro illusioni e ha spento i loro ardori.

Per noi comunisti invece quelli di oggi sono i “primi segni dell’aurora” dopo la palude degli anni ’50-’70 in cui, stante il mancato successo della rivoluzione socialista nel periodo di crisi 1910-1945, la cultura borghese di sinistra raggiunse la sua massima espressione, il revisionismo moderno il massimo del suo sviluppo e l’iniziativa rivoluzionaria del proletariato e dei popoli oppressi incontrò il massimo delle difficoltà. Gli anni ’50-’70, e non gli attuali, sono stati per noi e per le masse gli “anni bui”, se proprio vogliamo per un momento adottare il linguaggio dei residui portavoce della “cultura borghese di sinistra”.(5)

 

5. Allora, “tanto peggio. tanto meglio”? La teoria del “tanto peggio, tanto meglio” è, comunque la si rigiri. un espediente propagandistico della classe dominante contro i comunisti, nulla di più. Se le cose volgono al peggio, se la società borghese entra in un periodo di crisi, ciò non è l’effetto né dei nostri desideri né delle nostre azioni: solo quelli che non accettano il fatto che il movimento economico e politico della società si svolge secondo leggi socialmente oggettive possono avere dubbi al riguardo. Noi comunisti siamo l’avanguardia del proletariato e il proletariato è l’unica classe, tra tutte le classi oppresse della società imperialista, che può dirigere con successo la lotta di queste. Noi comunisti operiamo quindi perché il proletariato affermi in ogni circostanza al meglio i suoi interessi e realizzi l’obiettivo strategico della gestione collettiva delle attività economiche della società, condizione base della definitiva emancipazione economica, politica e culturale del proletariato e delle altre classi oppresse della società attuale: ciò che noi possiamo fare si limita a questo.

Durante il periodo di ripresa e sviluppo del capitalismo, il proletariato e le altre classi oppresse hanno dovuto subire e pagare lo scotto della loro condizione di dipendenza economica e, di conseguenza, politica e culturale: ogni conquista strappata è stata pagata con sudore e sangue. Finché le lotte rivendicative comunque “pagavano”, ovviamente l’incompatibilità tra gli interessi del proletariato e quelli della borghesia non si manifestava direttamente. Il padrone  faceva buoni affari anche dopo che aveva dovuto concedere il congedo di maternità per le lavoratrici, il collocamento obbligatorio degli handicappati, il permesso sindacale ai delegati, l’aumento di salario, la giusta causa nei licenziamenti individuali, ecc. Quindi sembrava che la sua resistenza fosse stata frutto di malanimo o di ingordigia personale. I revisionisti e altri grilli parlanti (i Lama di turno) erano lì ogni giorno a declamare che i padroni resistevano alle richieste dei lavoratori perché “non capivano” che con alti salari e migliori condizioni di vita e di lavoro gli affari sarebbero andati ancora meglio.

Oggi gli affari dei capitalisti non vanno più così bene, nel complesso, come allora: ciò è l’effetto delle leggi intrinseche del sistema economico capitalista. Finché questo è il sistema economico della nostra società, anche il proletariato e le altre masse oppresse dipendono dall’andamento degli affari dei capitalisti e oggi essi, nell’ambito di questo sistema, non riescono più nemmeno a conservare, tantomeno ad espandere, le conquiste strappate ieri. Di conseguenza si manifestano direttamente sia l’incompatibilità degli interessi del proletariato e delle altre masse oppresse con quelli della borghesia, sia, quindi, l’interesse del proletariato e delle altre masse oppresse ad eliminare questo sistema economico che la borghesia dirige e difende.

Questo è “peggio”? Sicuramente le condizioni di vita e di lavoro per il proletariato e le altre classi oppresse sono peggiorate e peggiorano.

Quanto a noi comunisti, non solo non siamo noi a determinare questo “peggio”, ma siamo noi (e sempre meglio dobbiamo essere) i più accaniti e avveduti promotori ed organizzatori della resistenza del proletariato e delle altre classi oppresse a questo corso delle cose. Non risulta che i capitalisti e i loro portavoce che ci accusano di essere partigiani del “peggio”, sostengano la resistenza dei lavoratori contro il “peggio”. Ma serve a qualcosa lamentarsi del peggio e piagnucolare per il corso che le cose hanno preso? Assolutamente a nulla: i capitalisti e i loro uomini continuano a infierire, anche loro “spiacenti, ma le leggi dell’economia esigono così”. Da qui si vede che il dolersi e denunciare i mali della società borghese non è ciò che distingue i comunisti: anche i preti della Caritas denunciano, compatiscono, patiscono e fanno elemosine! Cosa serve fare? Usare tutti gli appigli che la situazione attuale presenta per eliminare questo sistema economico: la situazione attuale costringe milioni di uomini ad aprire gli occhi e a darsi da fare, oggi più di ieri. Indubbiamente questo è “meglio” per l’unità, la solidarietà e l’organizzazione delle masse.

Allora il peggio è il meglio e il meglio era il peggio? Il fatto è che il meglio e il peggio vanno assieme, costituiscono un’unità dialettica oggi, come la costituivano ieri, quando era più facile conquistare qualcosa ora qui ora là, ora per uno ora per un altro, ma era più difficile riuscire a coalizzare e accumulare le forze necessarie per eliminare questo sistema economico che per leggi sue proprie ieri era compatibile con alcune limitate conquiste e ora non lo è più. Il meglio e il peggio sembra proprio che viaggino sempre assieme, però cambiano di posto. Chi deve combattere, non può che far leva in ogni situazione su ciò che per lui di “meglio” la situazione presenta, per far fronte a ciò che di “peggio” per lui la situazione presenta.

 

 

2. La situazione rivoluzionaria

Quando diciamo che con la fine del periodo (1945-1975) di ripresa e di sviluppo del capitalismo è iniziato un nuovo periodo rivoluzionario intendiamo dire che la società è entrata in una fase di trasformazione inevitabile e traumatica degli ordinamenti e degli assetti politici interni (almeno dei principali paesi) e internazionali.

Non intendiamo assolutamente dire che “la rivoluzione è sicura”, che “la rivoluzione è alle porte”, che si sta “facendo la rivoluzione”, che “le masse sono in rivolta”, che le masse “lottano per il socialismo”, che “le forze soggettive della rivoluzione sono al loro massimo sviluppo”. Intendiamo dire invece che la classe dominante è lacerata da contraddizioni che non può risolvere con i procedimenti normali, che il suo potere sulla società vacilla e non può continuare nelle vecchie forme né ne ha ancora instaurate di nuove; che quindi le condizioni oggettive della società sono favorevoli allo sviluppo delle forze soggettive della rivoluzione, offrono molti e vari appigli per il loro sviluppo; insomma che la società offre gli elementi grazie ai quali le forze soggettive della rivoluzione che oggi sono deboli, se sapranno profittarne, potranno crescere fino a rovesciare a loro favore il rapporto di forza rispetto alle forze della conservazione che oggi ancora prevalgono, e quindi prendere il potere.

Noi non parliamo cioè di situazione rivoluzionaria

- né al modo dei soggettivisti, quelli alla ricerca di “soggetti rivoluzionari”, di masse in fermento “da organizzare” e portare all’avventura quali nuovi “capitani di ventura”;

- né al modo dei codisti di destra secondo i quali la situazione rivoluzionaria esiste quando un ampio movimento di massa già lotta per il socialismo;(6)

- né al modo dei codisti “di sinistra” che siccome pensano, come i loro soci di destra, che la situazione rivoluzionaria esiste quando un ampio movimento di massa già lotta per il socialismo, scambiano i loro desideri per realtà e il loro piccolo gruppo con le ampie masse;

 - né al modo di quegli sprovveduti che scambiano per situazione rivoluzionaria ogni lotta in cui volano un po’ di cazzotti e magari qualche colpo di pistola, per i quali, in generale, ciò che caratterizza la situazione è il metodo di lotta.

Noi parliamo di situazione rivoluzionaria al modo in cui ne parlano i marxisti, i materialisti-dialettici. Ecco come Lenin, che ha diretto per un periodo di vent’anni la preparazione del proletariato russo alla prima rivoluzione proletaria vittoriosa e poi ha diretto lo svolgimento di essa, si esprime nel maggio-giugno del 1915 a proposito della situazione rivoluzionaria.

 

6. Chi sostiene che la situazione rivoluzionaria si ha quando è in corso la rivoluzione, svuota di ogni utilità pratica la categoria “situazione rivoluzionaria”, riproduce in questo campo l’atteggiamento di chi si trascina alla coda degli avvenimenti, anziché esserne alla testa e dirigerne il corso: è capace di vedere unicamente il fenomeno quando è già dispiegato, non vede la possibilità che esso si sviluppi, possibilità che è invece ciò su cui l’avanguardia basa il suo lavoro.

 

“Per il marxista non v’è dubbio che la rivoluzione non è possibile senza una situazione rivoluzionaria e che non tutte le situazioni rivoluzionarie sboccano nella rivoluzione.

Quali sono, in generale, i sintomi di una situazione rivoluzionaria? Certamente non sbagliamo indicando i tre sintomi principali seguenti: 1. l’impossibilità per le classi dominanti di conservare il loro dominio senza modificarne la forma; una qualche crisi negli ‘strati superiori’, una crisi nella politica della classe dominante che apre una fessura nella quale si incuneano il malcontento e l’indignazione delle classi oppresse. Per lo scoppio della rivoluzione non basta ordinariamente che ‘gli strati inferiori non vogliano’, ma occorre anche che gli ‘strati superiori non possano’ più vivere come per il passato; 2. un aggravamento, maggiore del solito, dell’angustia e della miseria delle classi oppresse; 3. in forza delle cause suddette, un rilevante aumento dell’attività delle masse, le quali, in un periodo ‘pacifico’ si lasciano depredare tranquillamente, ma in tempi burrascosi sono spinte, sia da tutto l’insieme della crisi, che dagli stessi ‘strati superiori’, ad un’azione storica indipendente.

Senza questi elementi oggettivi, indipendenti dalla volontà non soltanto di singoli gruppi e partiti, ma anche di singole classi, la rivoluzione - di regola - è impossibile. L’insieme di tutti questi cambiamenti obiettivi si chiama situazione rivoluzionaria.

Una tale situazione si presentò in Russia nel 1905 e in tutte le epoche in cui vi furono rivoluzioni in occidente; ma essa si presentò anche nel 1860 in Germania e in Russia nel 1859-1861 e nel 1879-1880, sebbene in questi casi non vi sia stata una rivoluzione. Perché? Perché la rivoluzione non nasce da tutte le situazioni rivoluzionarie, ma solo da quelle situazioni rivoluzionarie nelle quali, alle situazioni oggettive sopra indicate, si aggiunge una trasformazione soggettiva, cioè la capacità della classe rivoluzionaria di compiere azioni rivoluzionarie di massa sufficientemente forti da poter spezzare (o almeno incrinare) il vecchio regime, il quale, anche in periodo di crisi, non ‘crollerà’ mai da sé se non lo si ‘farà crollare’” (Opere, vol. 21, Editori Riuniti, pag. 191-192 - Il fallimento della II Internazionale).

Ancora Lenin, cinque anni dopo, nel 1920, dopo che in Russia il proletariato aveva preso il potere, così si esprimeva, in polemica con gli esponenti “di sinistra” del comunismo europeo.

“La legge fondamentale della rivoluzione, confermata da tutte le rivoluzioni e in particolare da tutte e tre le rivoluzioni russe del secolo ventesimo, consiste in questo: per la rivoluzione non è sufficiente che le masse sfruttate e oppresse siano coscienti dell’impossibilità di vivere come per il passato ed esigano dei cambiamenti; per la rivoluzione è necessario anche che gli sfruttatori non possano più vivere e governare come per il passato. Soltanto quando gli ‘strati inferiori’ non vogliono più il passato e gli ‘strati superiori’ non possono più fare come per il passato, soltanto allora la rivoluzione può vincere. In altri termini, questa verità si esprime così: la rivoluzione non è possibile senza una crisi di tutta la società (che coinvolga cioè sfruttati e sfruttatori). Per la rivoluzione bisogna, dunque, in primo luogo, che la maggioranza degli operai (o per lo meno la maggioranza degli operai coscienti, pensanti, politicamente attivi) comprenda pienamente la necessità del rivolgimento e sia pronta ad affrontare la morte per esso; in secondo luogo, che  le classi dirigenti attraversino una crisi di regime che trascini nella politica anche le masse più arretrate (l’inizio di ogni vera rivoluzione sta in questo: che tra le masse lavoratrici e sfruttate, apatiche fino a quel momento, il numero degli uomini atti alla lotta politica aumenta rapidamente di dieci e persino di cento volte), indebolisca il regime e renda possibile ai rivoluzionari il rapido rovesciamento di esso”. (Opere, vol. 31, Editori Riuniti, pag. 74-75 - L’estremismo, malattia infantile del comunismo).

 

Risulta quindi che Lenin fa una distinzione netta tra “situazione rivoluzionaria” (che può anche non sboccare in una rivoluzione) e “rivoluzione”, cioè la battaglia decisiva e conclusiva lanciata per conquistare il potere, il “rapido rovesciamento” del regime della classe dominante, la conquista del potere e l’instaurazione del potere del proletariato. È una distinzione fondamentale. È particolarmente importante da noi, di questi tempi in cui il soggettivismo appesta ancora l’aria che tutti noi respiriamo e siamo poco abituati a distinguere tra le “condizioni oggettive” in cui si svolge il nostro lavoro di comunisti (e solo a fronte delle quali esso può progredire) e le “forze soggettive” della rivoluzione. La conquista del potere richiede, in linea di massima, che lo sviluppo delle forze soggettive della rivoluzione sia giunto ad un alto livello.(7) In particolare Lenin con molta precisione afferma che “senza un cambiamento delle opinioni della maggioranza della classe operaia la rivoluzione è impossibile, e questo cambiamento è un prodotto dell’esperienza politica delle masse e mai della sola propaganda”.

 

7. Per comprendere bene il ragionamento di Lenin occorre tener presente che egli in questi passaggi, come in generale nelle sue altre riflessioni sull’argomento, ha presente in primo luogo le “tre rivoluzioni russe del secolo ventesimo” (1905, febbraio 1917, novembre 1917), in secondo luogo le rivoluzioni dell’Europa occidentale. Egli, a quanto ci risulta, non ha mai compiuto un esame sistematico di quell’insieme di guerre popolari e di rivoluzioni come la guerra dei contadini in Germania del secolo XVI (su cui invece a lungo rifletté F. Engels che ci ha lasciato anche lo scritto del 1850 La guerra dei contadini in Germania), la rivoluzione inglese del sec. XVII, la rivoluzione americana del secolo XVIII, le rivoluzioni sudamericane del 1810-1828, la rivoluzione messicana del 1910-1917, le numerose guerre contadine che avevano sconvolto l’impero russo nei secoli XVII e XVIII.

Egli quindi prende in esame sostanzialmente rivoluzioni che avevano avuto come centro le città, come svolgimento l’insurrezione urbana e il “rapido rovesciamento” dello Stato e in cui i contadini avevano svolto un ruolo a volte importante, ma sempre complementare.

Una disanima critica di questa questione viene fatta nel libro di Enrique Collazo, La guerra rivoluzionaria, Edizioni Rapporti Sociali.

 

Lo studio della tattica seguita dal partito bolscevico durante la prima guerra mondiale, durante la rivoluzione di febbraio e specialmente dopo questa fino al novembre del 1917 mostra come Lenin intendesse questo “cambiamento delle opinioni della maggioranza della classe operaia” e in particolare che l’affermazione “questo cambiamento è un prodotto dell’esperienza politica delle masse e mai della sola propaganda” non lo portava ad una posizione attendista, ma al contrario diveniva una guida per decidere fase per fase, giorno per giorno quali iniziative prendere, come e verso dove il partito doveva dirigere le masse che già seguivano la sua direzione e orientare il resto.

Ma qui già si tratta della rivoluzione, più precisamente dell’insurrezione e della sua immediata preparazione.

Ai nostri fini, quello che oggi ci interessa è la riflessione di Lenin sulla situazione rivoluzionaria, cioè sulla situazione in cui esistono le condizioni oggettive della rivoluzione indipendentemente dal fatto che si sia o non si sia già realizzata quella “trasformazione soggettiva, cioè la capacità della classe rivoluzionaria di compiere azioni rivoluzionarie di massa sufficientemente forti da poter spezzare (o almeno incrinare) il vecchio regime”, indipendentemente quindi dal fatto che la situazione sbocchi o meno in una rivoluzione.

Quando diciamo che siamo entrati in una nuova situazione rivoluzionaria è appunto alle “condizioni oggettive della rivoluzione” che noi ci riferiamo. È ovvio che i soggettivisti, i cui sguardi al massimo possono vedere le forze soggettive della rivoluzione dopo che esse sono già giunte ad un certo grado di sviluppo, non ci possono seguire nella nostra riflessione, da cui comunque non ricaverebbero granché. Infatti noi materialisti-dialettici, marxisti,

- dal riconoscimento che la situazione è rivoluzionaria ricaviamo che uno sviluppo (anche rapido) delle forze soggettive  è possibile (ma non che è scontato, automatico, spontaneo, inevitabile, ecc.);(8)

- dall’esame delle caratteristiche universali (valide per tutti i paesi) e particolari (di un paese, di una zona, di un certo momento) di una concreta situazione rivoluzionaria ricaviamo gli elementi per decidere cosa noi e le altre già esistenti (per quanto piccole) forze soggettive della rivoluzione dobbiamo fare per sviluppare le forze soggettive della rivoluzione fino alla vittoria che la situazione rende possibile (ma non sicura, certa, scontata, inevitabile, fatale, ecc.).

Ma cosa può interessare ciò ai soggettivisti? Per essi gli obiettivi e i metodi d’azione sono dettati dalla loro coscienza e dalla coscienza delle forze soggettive della rivoluzione (il “movimento rivoluzionario”).(9)

La natura della situazione rivoluzionaria e il ruolo di questa categoria nella definizione della linea d’azione dei comunisti sono stati precisati in modo più universale, preciso e sistematico da Mao Tse-tung. Questo è uno dei punti su cui Mao Tse-tung ha fatto un grande passo avanti rispetto a Lenin.(10)

 

8. Per illustrare meglio quest’aspetto riportiamo per intero in questa nota la riflessione di Lenin sulla situazione rivoluzionaria di cui abbiamo citato nel testo un brano. Nello scritto in questione (Il fallimento della II Internazionale) Lenin sta esaminando il tradimento consumato a fronte dello scoppio della Prima Guerra Mondiale dai capi della II Internazionale che nel 1912, nella risoluzione del Congresso internazionale socialista di Basilea, avevano concretamente analizzato la natura della guerra imperialista che si profilava all’orizzonte.

Ma non può darsi che i socialisti sinceri fossero a favore della risoluzione di Basilea nella previsione che la guerra avrebbe creato una situazione rivoluzionaria, e che i fatti li abbiano smentiti e che la rivoluzione si sia dimostrata impossibile?

Precisamente con tale sofisma Cunow (nell’opuscolo Fallimento del partito? e in una serie di articoli) tenta di giustificare il suo passaggio nel campo della borghesia; e, in forma allusiva. incontriamo “argomenti” simili in quasi tutti i socialsciovinisti, con a capo Kautsky. Le speranze nella rivoluzione si sono dimostrate illusorie e non è da marxisti difendere delle illusioni: ecco come ragiona Cunow. Ma questo struvista [seguace di Struve, un intellettuale russo travisatore del marxismo: lo interpretava come descrizione del percorso che l’umanità avrebbe seguito indipendentemente dalla lotta di classe a cui si opponeva con determinazione, ndr] non dice parola riguardo alle “illusioni “di tutti i firmatari del manifesto di Basilea e, da vero gentiluomo com’egli è, tenta di scaricarne la colpa sui rappresentanti dell’estrema sinistra, del genere di Pannekoek e Radek!

Esaminiamo la sostanza di quest’argomento, secondo il quale gli autori del manifesto di Basilea presupponevano sinceramente lo scoppio della rivoluzione e sono poi stati smentiti dai fatti. Il manifesto di Basilea dice: 1. che la guerra creerà una crisi economica e politica; 2. che i lavoratori considereranno la loro partecipazione alla guerra come un delitto e riterranno criminoso “sparare gli uni sugli altri per il profitto dei capitalisti, per l’orgoglio delle dinastie e per la stipulazione di trattati segreti’; e che la guerra provocherà tra gli operai “l’indignazione e la collera’) 3. che i socialisti hanno il dovere di utilizzare la crisi e lo stato d’animo degli operai sopra indicati per far leva sugli strati popolari e affrettare la caduta del dominio capitalista; 4. che “i governi”, nessuno escluso, non possono scatenare la guerra “senza pericolo per loro stessi”; 5. che i governi “hanno paura di una rivoluzione proletaria”; 6. che i governi “debbono ricordare” la Comune di Parigi (cioè la guerra civile), la rivoluzione del 1905 in Russia, ecc. Tutte queste sono idee assolutamente chiare, in esse non c’è la garanzia che la rivoluzione avverrà; ma in esse si mette l’accento su una precisa caratteristica di fatti e tendenze. Chi dice, a proposito di questi argomenti e di questi ragionamenti, che prevedere lo scoppio della rivoluzione significa illudersi, ha dimostrato di avere, verso la rivoluzione stessa, un atteggiamento non marxista, ma struvista poliziesco, da rinnegato”.

(Qui si inserisce il brano che abbiamo già riportato nel testo).

Queste le idee marxiste sulla rivoluzione, le quali, molte e molte volte, sono state esposte e accettate come indiscutibili da tutti i marxisti e hanno avuto, per noi russi, una conferma particolarmente evidente dall’esperienza del 1905. Domandiamo: che cosa presupponeva a questo riguardo il manifesto di Basilea del 1912 e che cosa è avvenuto nel 1914-1915? Il manifesto presupponeva una situazione rivoluzionaria brevemente definita con l’espressione “crisi economica e politica”. Si è determinata questa situazione? Sì, senza dubbio. Il socialsciovinista Lensch (che difende lo sciovinismo più apertamente, francamente, onestamente degli ipocriti Cunow, Kautsky, Plekhanov e soci) ha persino detto che “attraversiamo una rivoluzione originale” (pag. 6 del suo opuscolo La socialdemocrazia tedesca e la guerra, Berlino, 1915). La crisi politica è evidente: non v’è un governo sicuro del proprio domani, non un governo che sia libero dal pericolo di un fallimento finanziario, d’una perdita di territorio, di essere cacciato dal proprio paese (così come è stato cacciato il governo belga). Tutti i governi vivono sopra un vulcano e fanno appello essi stessi all’iniziativa e all’eroismo delle masse. Tutto il regime politico dell’Europa è scosso, e nessuno, certo, oserà negare che siamo entrati (e sprofondiamo sempre più: scrivo questo nel giorno della dichiarazione di guerra dell’Italia [24 maggio 1915, ndr]) in un periodo di grandissime convulsioni politiche. Se Kautsky, due mesi dopo lo scoppio della guerra, ha scritto (Neue Zeit del 2 ottobre 1914) che “mai il governo è stato così forte e mai i partiti così deboli come all’inizio della guerra”, questo è uno degli esempi della falsificazione della scienza storica, compiuta da Kautsky per servire i Südekum e gli altri opportunisti. Mai il governo ha tanto bisogno del consenso di tutti i partiti delle classi dominanti e della “pacifica” sottomissione delle classi oppresse a questo dominio, come in tempo di guerra. Questo in primo luogo. Secondariamente, se “all’inizio della guerra”; specialmente nei paesi in cui si attende una rapida vittoria, il governo sembra onnipotente, nessuno, mai, in nessun luogo, ha legato l’attesa della situazione rivoluzionaria esclusivamente al momento in cui la guerra incomincia e, ancora meno, identifica ciò “che sembra” con ciò che è in realtà.

 Tutti sapevano, vedevano e riconoscevano che la guerra europea sarebbe stata ben più grave delle guerre precedenti. L’esperienza della guerra lo conferma sempre di più. La guerra si estende. Le basi dei sistemi politici dei paesi europei subiscono delle scosse sempre più profonde. Le calamità delle masse sono terribili e tutti gli sforzi dei governi, della borghesia e degli opportunisti per fare il silenzio su queste calamità, falliscono sempre più frequentemente. I profitti di guerra di certi gruppi di capitalisti sono inauditi, scandalosamente grandi. Enorme è l’aggravamento delle contraddizioni. La sorda indignazione delle masse, la confusa aspirazione degli strati oppressi e arretrati ad una pace accomodante (“democratica”), il brontolio che comincia a farsi sentire “negli strati più umili” delle masse, tutto questo è incontestabile. E quanto più la guerra si trascina e s’inasprisce, tanto più fortemente gli stessi governi sviluppano e sono costretti a sviluppare l’attività delle masse, spronandole ad una straordinaria tensione delle loro forze e al sacrificio di se stesse. L’esperienza della guerra, come l’esperienza di qualsiasi crisi nella storia, come qualsiasi grande disastro o qualsiasi svolta nella vita d’una persona, come istupidisce e abbatte gli uni, educa e tempra gli altri, di modo che, in complesso, nella storia di tutto il mondo, il numero e la forza di questi ultimi superano il numero e la forza dei primi, ad eccezione di singoli casi di decadenza e di sfacelo di qualche Stato.

La conclusione della pace non solo non può mettere fine “di colpo” a tutte queste calamità e a tutto questo aggravamento delle contraddizioni, ma, al contrario, per molti rispetti, li renderà più sensibili e particolarmente evidenti alle masse più arretrate della popolazione.

In una parola, per la maggioranza dei paesi più sviluppati e per le grandi potenze d’Europa, la situazione rivoluzionaria è evidente. E a questo riguardo la previsione del manifesto di Basilea è stata pienamente confermata. Negare direttamente o indirettamente questa verità, oppure tacerla, come fanno Cunow, Plekhanov, Kautsky e soci, significa proferire la più grande menzogna, ingannare la classe operaia e servire la borghesia. Nel Sotsial-Demokrat (nn. 34, 40, 41) abbiamo fornito i dati comprovanti che coloro i quali temono la rivoluzione - i preti piccolo-borghesi cristiani, gli stati maggiori, i giornali dei milionari - sono stati costretti a constatare che in Europa esistono i sintomi di una situazione rivoluzionaria.

Questa situazione si protrarrà ancora a lungo? E in quale misura si aggraverà? Condurrà essa alla rivoluzione? Non lo sappiamo e nessuno può saperlo. Questo potrà mostrarlo soltanto l’esperienza dello sviluppo dello stato d’animo rivoluzionario e del passaggio alle azioni rivoluzionarie della classe avanzata, del proletariato. Qui non si può neppure parlare di “illusioni” di nessun genere né della confutazione di esse, perché nessun socialista, mai e in nessun luogo, ha garantito che la rivoluzione sarà generata precisamente dall’attuale guerra (e non dalla prossima), precisamente dall’attuale situazione rivoluzionaria (e non da quella di domani). Qui si tratta del più indiscutibile e fondamentale obbligo di tutti i socialisti: dell’obbligo di svelare alle masse l’esistenza della situazione rivoluzionaria, di mostrarne l’ampiezza e la profondità, di svegliare la coscienza rivoluzionaria e la risolutezza rivoluzionaria del proletariato, di aiutarlo a passare alle azioni rivoluzionarie e di creare organizzazioni corrispondenti alla situazione rivoluzionaria, per lavorare in questa direzione.

Nessun socialista influente e responsabile si è mai permesso di dubitare che tale, appunto, è il dovere dei partiti socialisti, e il manifesto di Basilea senza diffondere né alimentare la benché minima “illusione”, parla proprio di questo dovere dei socialisti: incitare e “scuotere” il popolo (e non addormentarlo con lo sciovinismo, come fanno Plekhanov, Axelrod e Kautsky), “utilizzare” la crisi per “affrettare” il crollo del capitalismo, seguire l’esempio del-la Comune e dell’ottobre-dicembre 1905. Il fatto che i partiti attuali non adempiono questo dovere costituisce appunto il loro tradimento, la loro morte politica, il ripudio della loro funzione e il loro passaggio dalla parte della borghesia”.

 

9. È facile capire come, su questa base, si producano facilmente i “salti della quaglia” a cui ripetutamente abbiamo assistito. La coscienza (i sentimenti, le immaginazioni, i pensieri, gli stati d’animo) degli individui è soggetta agli influssi di mille fattori e muta rapidamente e frequentemente. Niente di più facile che passare dall’esaltazione e dal furore all’abbattimento e alla convinzione che non c’è nulla da fare; tanto più facile dato che proprio gli errori conseguenti ad un’impostazione soggettivista portano ripetutamente a “sbattere la testa contro il muro”, a sprecare e liquidare anche le forze già esistenti in iniziative disperate e sterili e quindi “confermano” che “non c’è nulla da fare”.

 

10. Certi gruppi di sinistra hanno ereditato dalla cultura borghese la denigrazione del movimento rivoluzionario (cosa che impedisce ad essi di attingere alla sua esperienza e quindi alimenta la loro debolezza). In particolare è di moda attribuire alla III Internazionale la “teoria dell’ora X”, la teoria dell’insurrezione che “scoppia” e di fronte alla quale i comunisti si troverebbero essi stessi sorpresi. Concezione che fu (ed è) tipica di quei gruppi che “si preparano” al giorno fatidico per essere pronti ad “assumere la direzione”. Concezione che in Italia fu usata negli anni ’40 e ’50 da Togliatti e dai suoi soci per tenere a bada e sotto controllo una parte dei partigiani e dei membri del PCI.

Noi siamo assertori della necessità di imparare dall’esperienza del movimento comunista e in generale del movimento proletario che abbiamo alle spalle. Proprio per questo e in questo senso rivendichiamo la continuità tra noi e la III Internazionale. Il movimento comunista non nasce con noi. Ha più di 170 anni di vita. Come movimento pratico esso inizia nei primi decenni del secolo XIX, come movimento cosciente di sé, quindi come teoria, esso inizia con il Manifesto del partito comunista del 1848, come epoca delle rivoluzioni proletarie esso inizia con la fase imperialista del capitalismo: un grande movimento pratico che via via è stato anche compreso e formulato teoricamente. Rompere con questo ricco e glorioso patrimonio di esperienze e ignorarlo o attingere ad esso per proseguire il cammino? Questo è in sostanza il senso pratico delle polemiche che ogni tanto sorgono anche tra di noi tra fondatori/rifondatori (costruttori/ricostruttori) del partito comunista. Quindi non per “amore di verità”, ma perché le nostre idee non possono che nascere dall’esperienza, dobbiamo aver presente che la III Internazionale è stata una vasta organizzazione mondiale in cui sono cresciute concezioni, linee e persone diverse e dal destino opposto: Togliatti e Mao Tse-tung, Bukharin e Stalin, Thorez e Ho Chi Min, ecc. Ridurre la III Internazionale alla schiera dei traditori che ne è sorta è solo un espediente polemico che i nemici del comunismo hanno elaborato (e che alcuni ingenui e sprovveduti comunisti adottano). Ridurre la III Internazionale al revisionismo moderno fa molto comodo ai revisionisti moderni.

In realtà la III Internazionale, come ogni cosa, giunta ad un certo grado di sviluppo si è “divisa in due”. La teoria della guerra popolare di lunga durata è nata nella III Internazionale almeno quanto vi sono nate la “teoria dell’ora X”, le teorie militariste alla Neuberg (v. Neuberg L’insurrezione armata), ecc.

 Una disanima delle due vie che sono nate dalla III Internazionale si trova in Enrique Collazo. La guerra rivoluzionaria, Edizioni Rapporti Sociali. A chi vuole realmente studiare le posizioni della III Internazionale segnaliamo il pregevole lavoro del Centro di documentazione Filorosso (Milano, C.so Garibaldi 89/B) L’Internationale Communiste e La correspondance internationale, raccolta completa degli indici di tutti i numeri delle due riviste della III Internazionale [ora c/o Edizioni Rapporti Sociali, ndr].

Richiamiamo l’attenzione su un fatto che i denigratori “ingenui” dovrebbero considerare: dalla III Internazionale nascono, dividendosi e contrapponendosi, Togliatti/Kruscev e Mao Tse-tung. Non è un indice sicuro della vitalità della III Internazionale il fatto che essa si è divisa in due come ogni organismo vivo? Cosa è nato dalle scuole e congreghe che “vissero” accanto e contro di essa? Dagli alberi fecondi nascono sia i semi che le foglie secche. Dai tronchi sterili non nascono né foglie secche né semi.

 

Per quanto ci risulta, gli scritti in cui più analiticamente Mao Tse-tung ha fatto ciò sono Una scintilla può dar fuoco a tutta la prateria del 1930 e, in modo meno esplicito, Perché in Cina può esistere il potere rosso? del 1928. In questi scritti Mao Tse-tung, riferendosi ad una situazione concreta che ovviamente solo nei suoi termini generalissimi è simile alla nostra, tratta della relazione tra situazione rivoluzionaria (condizioni oggettive della rivoluzione) e forze rivoluzionarie. In particolare nel primo scritto citato egli illustra la categoria di “situazione rivoluzionaria in sviluppo”,(11) cioè di un movimento economico e politico della società che per leggi sue proprie offre, e via via sempre più offrirà, elementi che rendono possibile lo sviluppo delle forze soggettive della rivoluzione; mostra come sulla “situazione rivoluzionaria in sviluppo” si fondi la strategia della rivoluzione come guerra di lunga durata e come la tattica delle già esistenti forze soggettive della rivoluzione dipenda e debba dipendere proprio dalle caratteristiche della situazione rivoluzionaria e dal movimento oggettivo di queste caratteristiche.(12)

 

11. La teoria maoista della situazione rivoluzionaria in sviluppo è ampiamente illustrata nella raccolta di testi del Partito comunista peruviano Guerra popular en el Perù - El pensamiento Gonzalo, ed. L.A. Borja.

 

12. È istruttivo ricordare l’impasse in cui di fronte allo scoppio della prima Guerra Mondiale si trovò l’ala sinistra della socialdemocrazia tedesca (Rosa Luxemburg, Klara Zetkin, Karl Liebnecht, Karl Radek, ecc.) e in generale l’ala sinistra di tutti i partiti della II Internazionale (salvo quelli a cui la specifica situazione del paese aveva impedito di aderire alla tattica della II Internazionale). Allora l’ala destra riuscì a trascinare con sé il centro anche perché in concreto l’ala sinistra sul piano tattico poteva contrapporre al collaborazionismo sostenuto dall’ala destra solo l’esempio della lotta condotta nel periodo delle leggi speciali antisocialiste (1878-1890).

Come Engels aveva previsto (vedasi Introduzione del 1895 a La guerra civile in Francia), in tutti i paesi i governi misero i dirigenti di fronte al ricatto: o collaborate o sciogliamo il vostro bel partito e i vostri grandi sindacati, confischiamo tutte le proprietà e interniamo chi resiste. Di fronte a questo ricatto (anche se non è scontata la piega che avrebbero preso gli avvenimenti se i dirigenti dei partiti della Il Internazionale non si fossero piegati alla collaborazione) sul piano tattico anche l’ala sinistra era impreparata sia teoricamente sia organizzativamente. È significativo che gran parte dei suoi dirigenti furono o mandati al fronte o internati e ci vollero anni e la spinta fornita dalle rivolte spontanee contro la guerra per ricostituire una qualche organizzazione.

Negli anni precedenti la prima Guerra Mondiale Rosa Luxemburg aveva avvertito l’impreparazione e l’incapacità di azione rivoluzionaria del Partito socialdemocratico tedesco nonostante la sua forza organizzativa cd elettorale, il grande sistema di organizzazioni di massa ad esso collegate e le analisi rivoluzionarie di vari suoi esponenti (Karl Kautsky in testa). Ma non seppe porvi rimedio. Le rivoluzioni “scoppiano”? I capi della I1 Internazionale sembra pensassero di sì, che arrivati ad un certo punto dello sviluppo né il proletariato né le masse avessero bisogno di un’azione specifica del partito per andare oltre, ma tutto proseguisse senza più bisogno di alcun intervento del partito (come procede un’esplosione dopo che si è accesa la miccia, o una valanga dopo che si è data una spinta al primo masso).

Lenin negli anni precedenti il 1917 applicò la teoria della “situazione rivoluzionaria in sviluppo” prima che questa fosse formulata: come sempre, le cose nuove si presentano (e devono presentarsi) nella pratica prima che si possano presentare nella teoria.

 

In uno scritto successivo (del 1945), Risoluzione su alcune questioni della storia del nostro partito, Mao Tse-tung, facendo il bilancio della lotta fino allora condotta dal PCC, delle sue vittorie e delle sue sconfitte, sosterrà che la vittoria della rivoluzione è sicura se le forze soggettive della rivoluzione adeguano passo dopo passo la loro azione alle leggi oggettive della situazione rivoluzionaria e che le loro sconfitte derivano dal fatto di essersi scostate da esse.

In conclusione né Lenin né Mao Tse-tung pongono all’inizio del processo (e del loro ragionamento su di esso) la dimensione delle forze soggettive della rivoluzione al momento già esistenti, cosa invece da cui partono i soggettivisti e i codisti delle varie scuole sia per sostenere i loro furori (“siamo tanti”, “tutti vogliono il comunismo”, “nessuno ne può più”, “stiamo vincendo”, ecc.), sia per alimentare i loro lamenti (“nessuno vuol più saperne di comunismo”, “non c’è più nessuno da organizzare”, ecc.), sia per giustificare la loro diserzione (“non c’è più nessuno, non c’è più nulla da  fare”, “la lotta è finita”, “siamo stati sconfitti”, ecc.), sia il loro tradimento (“cosa potevo fare oramai da solo?”, “abbiamo sbagliato linea”, ecc.).

Sia Lenin sia Mao Tse-tung sostengono che la base necessaria dello sviluppo delle forze soggettive della rivoluzione è l’esistenza di una situazione rivoluzionaria, che la comprensione delle caratteristiche della situazione rivoluzionaria e del movimento di queste caratteristiche è la base indispensabile per stabilire la tattica che le forze soggettive della rivoluzione devono seguire per accrescere se stesse e portare alla vittoria la rivoluzione.

 

3. La situazione attuale [1991, ndr]

Siamo quindi ricondotti, per capire quali sono le prospettive reali del movimento rivoluzionario nel nostro paese e quali azioni l’attuale situazione richiede da parte dei comunisti, alla valutazione della situazione attuale. Quali sono state le principali caratteristiche delle società borghesi a partire dagli ultimi armi ’70?

Noi sosteniamo

- che con la fine del periodo (1945-1975) di crescita e sviluppo del capitalismo siamo entrati in una nuova situazione rivoluzionaria,

- che questa nuova situazione rivoluzionaria dalla fine degli anni ’70 ha continuato a svilupparsi e quindi anche a fornire appigli più numerosi e sicuri per lo sviluppo delle forze soggettive delle rivoluzione.

Da ciò deriviamo ovviamente

- che i limiti dello sviluppo effettivamente raggiunto dalle forze soggettive della rivoluzione derivano dal fatto che quelle già esistenti non hanno seguito una tattica conforme alle leggi oggettive secondo cui si è sviluppata e si sviluppa la situazione rivoluzionaria;

- che le esistenti forze soggettive della rivoluzione, quali che siano le loro dimensioni, devono dedicare tutte le loro energie principalmente a comprendere quelle leggi oggettive e ad elaborare e verificare una tattica conforme ad esse.(13)

 

13. Stante il carattere borghese della cultura dominante, alcuni compagni intendono l’appello a “comprendere” unicamente o principalmente come un invito a leggere e studiare libri e periodici, quindi come un lavoro principalmente da intellettuali e da condurre a tavolino “ritirandosi dalla lotta quotidiana”.

Questo modo di intendere il “comprendere” non si basa sulla teoria marxista della conoscenza (le idee vengono dalla pratica, ecc.), bensì sulla concezione idealista e soggettivista della conoscenza (le idee vengono dalle idee, dai geni e dai libri). Questo metodo idealista di “comprendere” non è stato mai praticato dai rivoluzionari, neanche nei periodi di massimo riflusso del movimento. Dopo il 1850 Marx si dedicò individualmente al bilancio dell’esperienza fino allora compiuta dal movimento proletario e a dare sistemazione organica alle idee in esso fermentate, mentre tesseva tra i gruppi comunisti le fila che culminarono nel 1864 nella fondazione della I Internazionale. Dopo il 1907 Lenin si dedicò individualmente al bilancio dell’esperienza della prima rivoluzione russa ricavando da esso la linea dell’alleanza operai-contadini con la direzione degli operai, mentre costruiva il partito che avrebbe guidato l’accumulazione delle forze nella nuova ascesa fino alla Rivoluzione d’Ottobre.

Il modo idealista di intendere il “comprendere”

- isterilisce il lavoro degli intellettuali che passano il loro tempo su testi che contengono le opinioni, impressioni ed analisi di altri intellettuali certamente di fama maggiore ma con capacità di comprensione delle cose spesso minore della loro, su testi i cui dati sono o inventati o manipolati o mediati da categorie e processi tali da renderli più atti a nascondere la realtà che a rivelarla (ciò vale anche per molti testi di statistiche, che si presentano come i più “oggettivi”);

- esclude i compagni che non hanno una preparazione da intellettuali e spreca le loro preziose esperienze.

In conclusione questo modo di intendere il “comprendere” non ha mai portato a comprendere.

In realtà la comprensione dei processi oggettivi della società nel senso necessario ai rivoluzionari non avviene principalmente attraverso lo studio di testi, a meno che si tratti di testi che espongono e quindi comunicano e divulgano la comprensione già raggiunta da altri rivoluzionari. Essa, coerentemente con la teoria marxista della conoscenza, avviene attraverso un processo che combina l’esperienza diretta (esperienza-tipo), la riflessione (il bilancio) dell’esperienza, il confronto con altre esperienze simili, l’elaborazione di una rappresentazione (teoria) provvisoria della situazione, l’elaborazione di una linea d’azione conseguente a quella rappresentazione, l’applicazione nella pratica della linea d’azione, la riflessione (il bilancio) dei risultati della verifica, l’elaborazione di nuove teorie o la conferma delle vecchie, la generalizzazione delle conclusioni combinando varie esperienze tipo fino a trarne una teoria generale. Il processo attraverso cui si arriva alla comprensione è lo stesso processo della lotta, solo condotto con spirito rivoluzionario e con metodo scientifico (cioè non come routine, moralisticamente, spontaneisticamente, ecc.). È quindi  un processo in cui utilmente lavorano sia gli intellettuali sia gli altri compagni ed è un processo intimamente connesso con l’attività.

In generale gli errori più diffusi sono:

- per gli intellettuali: ridurre la conoscenza a studio di testi, escogitare teorie e sistemi “a tavolino”;

- per gli altri compagni: condurre esperienze senza riflettere su di esse (senza usarle come fonte di conoscenza), non elaborare linee d’azione sulla base del bilancio dell’esperienza, non condurre sistematicamente verifiche.

Sul modo di acquisire la comprensione del movimento economico e politico della società si veda Mao Tse-tung, Contro la mentalità libresca in Opere di Mao Tse-tung, vol. 2, Edizioni Rapporti Sociali.

 

 

Crediamo di “constatare l’evidenza” affermando che i regimi politici di tutti i maggiori paesi imperialisti e l’ordine mondiale nel suo complesso sono percorsi da fermenti sempre più acuti e profondi, che sia la classe dominante che le classi dominate sono venute e vengono manifestando un’insofferenza crescente per la situazione esistente, che i regimi politici di molti paesi, e le loro “costituzioni reali” più ancora delle loro costituzioni legali, sono sottoposte a pressioni crescenti.(14)

 

14. Per seguire il filo del nostro ragionamento occorre che il lettore cessi di prendere i vari episodi e gli episodi relativi ai vari paesi ognuno come un fatto a sé stante, che al contrario provi a pensarli come manifestazioni singole, episodiche e specifiche di un processo generale. Che cessi di studiare quindi i singoli episodi come prodotti dalla volontà e dalle inclinazioni dei singoli uomini politici, che al contrario provi a pensare che sono le “esigenze della situazione” che portano al potere, fanno emergere determinati uomini politici, con caratteristiche specifiche: che questi sono la personificazione di esigenze oggettive della società, sono gli esecutori di mandati oggettivamente richiesti, anziché gli inventori e i creatori di questi mandati. I Reagan, le Thatcher, i Gorbaciov, i Craxi, i Cossiga, i Bossi possono esistere come personaggi politici solo perché le caratteristiche di questi individui li rendono adatti ai ruoli che la situazione richiede. Solo grazie alla comprensione di questa situazione si può giungere alla “razionalità” delle loro azioni e dei loro comportamenti; mentre il tentativo inverso, di spiegare gli avvenimenti grazie alle caratteristiche degli individui, non può approdare ad alcunché.

 

Il motore di questa trasformazione è la crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale in cui la società capitalista è nuovamente impantanata. La sostanza di questa crisi infatti è che nell’ambito dell’attuale assetto politico il capitale non può più proseguire la sua accumulazione (valorizzazione), la crescita di una frazione di capitale può avvenire solo a spese di un’altra frazione, la classe dominante deve togliere alle masse popolari, e in primo luogo al proletariato, quello che queste hanno conquistato nel periodo di ripresa e sviluppo del capitale.(15) Quindi l’attuale assetto politico verrà inevitabilmente sovvertito.

 

15. Sulla natura, le cause e gli sviluppi delle crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale rinviamo a Rapporti Sociali n. 0 (Don Chisciotte) pag. 12-19, n. 5/6 pag. 22-28 e n. 8 pag. 7-23.

 

La sua trasformazione è inevitabile e irresistibile, nessuna opposizione di individui e di gruppi la può evitare e quindi ogni partito o organismo che si pone come obiettivo la conservazione o il ripristino della situazione esistente durante il periodo del “capitalismo dal volto umano” è destinato alla sconfitta. Altrettanto destinato alla sconfitta è ogni partito o gruppo i cui obiettivi presuppongono per la loro realizzazione le circostanze economiche e politiche di quel periodo. La trasformazione sta avvenendo e avverrà indipendentemente dai desideri e dalla consapevolezza più o meno profonda, più o meno precisa, più o meno giusta che gli uni o gli altri hanno o avranno di essa, delle sue cause, del suo corso e dei suoi sbocchi. Questo vale per tutti i partiti, per tutti i gruppi, per tutte le classi. Vale per la borghesia che non riesce più a regolare i rapporti tra i gruppi in cui è divisa né a governare le classi oppresse con le istituzioni che hanno funzionato nel periodo di ripresa e sviluppo. Vale anche per il proletariato che non può conservare, per sé e per il resto delle masse, le conquiste strappate nel periodo di ripresa e sviluppo e ha di fronte solo due possibilità: o lo sviluppo di un’azione rivoluzionaria di significato storico per conquistare tutto o essere cacciato in uno stato di oppressione e coinvolto in una tormenta peggiori di quelli conosciuti dalle generazioni passate. Non è un caso, né è frutto principalmente della  corruzione e delle caratteristiche personali degli individui che li guidavano, il fatto che tutti i gruppi che si sono ostinati a limitarsi ai “non si tocca” (“i consigli di fabbrica non si toccano”, “la scala mobile non si tocca”, “il diritto di sciopero non si tocca”, “le pensioni non si toccano”, “la scuola di massa non si tocca”, “il servizio sanitario nazionale non si tocca”, ecc.) hanno finito e finiscono per subire passivamente e servilmente prevaricazioni di ogni genere.

 

Consideriamo, per meglio illustrare le nostre tesi, un aspetto dell’assetto politico del periodo di ripresa e sviluppo: l’attenuazione degli effetti più estremi (fallimenti di imprese, povertà cronica di larghi strati della popolazione, disoccupazione cronica) attuata sistematicamente nell’ambito dei loro confini da tutti gli Stati imperialisti, a mezzo di massicci e sistematici trasferimenti di reddito (alle imprese e agli individui) che hanno fatto crescere continuamente la spesa pubblica. Queste politiche in Italia volevano dire finanziamenti a fondo perso e crediti agevolati alle imprese, assorbimento di imprese in fallimento da parte dell’IRI e di altre compagnie pubbliche, cassa integrazione guadagni, pensionamenti anticipati, pensioni di invalidità e pensioni sociali, presalario, servizi elementari di base gratuiti, contributi di vario genere a persone, ad enti più o meno morali e a iniziative più o meno “utili”, crescita del pubblico impiego, prebende e redditi elargiti a clienti e a “fedeli servitori dello Stato”, ecc.(16) Da quando la crescita del plusvalore prodotto ha incominciato a rallentare, la prosecuzione di queste politiche ha dato luogo e dà luogo in tutti i paesi imperialisti a fenomeni che di per se stessi sconvolgono ulteriormente il corso degli affari (inflazione, crescente indebitamento privato e pubblico, interno ed estero, con conseguenti rigidità delle relazioni finanziarie, ecc.) e i gruppi imperialisti che vogliono sopravvivere (e chi non lo vuole?) le trovano incompatibili con i “necessari” movimenti che i loro interessi comportano, quindi incompatibili con “l’economia nazionale”. Tutti gli stati imperialisti, con forme e in tempi diversi, stanno eliminando quelle politiche; ma eliminando queste, devono eliminare anche le istituzioni politiche che potevano vivere grazie ad esse. I partiti di regime sempre meno possono mantenere il loro seguito con favori e clientele, le loro promesse sono sempre più disattese e quindi via via meno efficaci. Le organizzazioni di massa di regime sempre meno possono agire da intermediari tra le masse e la classe dominante, perché sempre meno le richieste di quelle sono “compatibili” con gli interessi di questa e con la “salvaguardia dell’economia nazionale”. La “gestione consociativa del potere” si basava sul fatto che gli interessi di molti gruppi potevano in qualche misura essere soddisfatti; essa non regge quando la salvaguardia degli interessi di alcuni gruppi richiede che quelli di molti altri siano sacrificati.

 

16. Se si considera anche solo questo sommario elenco delle politiche proprie del periodo di ripresa e sviluppo (riassunte nell’espressione “tentativo di costruire un capitalismo dal volto umano”) risulta evidente la trappola in cui si trovano attualmente i gruppi riformisti che erano fioriti nel periodo di ripresa e sviluppo. Ogni proposito avanzato da questi di “riforma progressiva” dell’esistente (contrapposta alla “involuzione della situazione politica”) per venire incontro alle “esigenze dell’economia nazionale” si traduce anche in una divisione all’interno delle masse.

Aboliamo gli “enti inutili”? E dove troveranno lavoro i lavoratori impiegati in essi e nel loro indotto? Aboliamo le clientele e le associazioni “mafiose”? E i milioni di persone che vivono grazie a queste? L’elenco potrebbe continuare. Il carattere collettivo della società che il capitalismo ha creato fa sì che gli interessi costituiti siano aggrovigliati e interdipendenti al punto che ogni “riforma” mette a disposizione di chi vi si oppone una congrua frazione delle masse popolari. Non è strano quindi che proprio stante la crisi i gruppi riformisti (“di sinistra”) perdano peso, infatti diventano inutili e di peso sia alla classe dominante che alle masse. Le masse possono unirsi nello scioglimento del groviglio degli interessi costituiti solo in un’azione che faccia piazza pulita di tutto il vecchio mondo e delle forme di difesa e di esistenza che ad esso erano connesse e costruisca un nuovo sistema di relazioni sociali sulla base dell’universale partecipazione delle masse all’attività economica, alla gestione economica e politica, al patrimonio culturale della società.

 

La classe dominante non può più continuare a vivere come ha vissuto nel passato. Il suo modo di essere e di operare, le sue istituzioni politiche, giuridiche e culturali che hanno funzionato nel periodo precedente e che per alcuni decenni hanno permesso e assecondato il proseguimento dell’accumulazione del capitale, da alcuni anni non funzionano più.

La trasformazione è traumatica. Ogni cambiamento favorisce alcuni interessi e ne danneggia altri. Gli interessi di un  gruppo sono inconciliabili con quelli di un altro. Quindi si sviluppano contrasti feroci tra gruppi e fazioni della classe dominante. Contrasti che erano normalmente regolati “in famiglia” vengono portati in piazza e diventano risse, in queste risse si insinua ed erompe il malcontento popolare. Ciò avviene sia all’interno di ogni paese sia a livello internazionale.

 

Un aspetto specifico di questo acuirsi delle contraddizioni tra i gruppi della classe dominante è la crisi del sistema parlamentare ed elettorale come mezzo per dirimere le controversie tra essi e “dare espressione politica” alle masse nell’ambito dell’ordinamento politico borghese.

Le forme assembleari, elettorali e parlamentari di soluzione dei contrasti politici generano ovunque la paralisi e devono essere accantonate. Quando sono in gioco interessi vitali, quando tra i gruppi della classe dominante l’oggetto del contendere non è più la quota di partecipazione alla nuova torta, ma la morte di uno per l’allargamento di un altro, i conflitti non possono più regolarsi “in guanti gialli”, le “buone maniere” vengono “gettate alle ortiche”. Vengono in primo piano le risse, i colpi di mano, i fatti compiuti, gli scontri, le guerre, ecc. Ogni gruppo si arma contro l’altro, cerca di coalizzare alleati e di imporre agli altri gruppi della classe dominante i suoi interessi come “soluzione della crisi”, i suoi esponenti come “salvatori della patria”, “uomini forti”, “decisionisti”. Ogni gruppo cerca di arruolare uomini e accrescere il proprio seguito facendosi portavoce di rivendicazioni vecchie e nuove. Ogni interesse che non può presentarsi apertamente, in forma nuda e diretta, cerca una bandiera nell’arsenale delle ragioni e dei torti che la storia ci ha lasciato in eredità, attorno a cui coalizzare interessi e malcontento. Ogni gruppo imperialista cerca di “mobilitare le masse” al suo servizio contro i gruppi imperialisti concorrenti (dal “comprate italiano”, alla “lotta contro la mafia”, alla “difesa dei nostri interessi nel Golfo”) e a questo fine ricorre ai mezzi che la situazione concreta di ogni formazione economico-sociale offre: da qui i “rigurgiti di nazionalismo”, i “rigurgiti di razzismo”, i “rigurgiti di pregiudizi che credevamo sepolti per sempre”, i “rigurgiti di superstizioni e fobie”, i “rigurgiti di violenza”, ecc. su cui piange la stampa benpensante di questi tempi.

Anche il sistema elettorale diventa una trappola per la classe dominante: tutta la classe dominante ha bisogno di togliere alle masse popolari, ma ogni volta che un gruppo di essa cerca di attuare una qualche misura concreta di rapina non può che attuarla a proprio vantaggio e contro di esso i gruppi avversari “cavalcano il malcontento” delle masse popolari. Queste trovano mille inattesi e aleatori “difensori del popolo”. Grandi protagonisti dell’oppressione della classe dominante, fedeli “servitori dello Stato”, uomini da sempre abitanti “nel palazzo”, si scoprono improvvisamente la stoffa di “tribuni del popolo”, denunciano le malefatte degli organismi di cui fino a ieri erano membri e di un regime di cui sono esponenti, danno fiato e fanno da grancassa al malcontento popolare. Salvo rientrare nei ranghi in modo apparentemente inspiegabile e lasciar perdere di punto in bianco ogni battaglia e denuncia. La rappresentanza politica della classe dominante si frantuma: si moltiplicano i gruppi, i club, i partiti, le leghe, le correnti, le consorterie, le bande, le logge, le associazioni. Esplode la “crisi del sistema dei partiti”, perché i conflitti tra i gruppi della classe dominante non possono più esprimersi ed essere regolati da essi e tra essi.

La crisi degli ordinamenti parlamentari ed elettorali si riscontra in tutti i paesi imperialisti, anche se lo sviluppo della crisi non procede con gli stessi tempi e i momenti acuti della crisi sono sfasati da paese a paese. In Italia essa assume i suoi aspetti specifici: la “guerra di mafia”, la “strategia della tensione”, il proliferare di complotti e congreghe (sullo stile della P2 e delle contro-P2), le battaglie di Sindona, dei “Servizi segreti”, di Pertini, della Montedison, del Corriere della Sera, del Banco Ambrosiano (Calvi), della Mondadori, di Cossiga, di Gladio, di Craxi, della Federconsorzi, e quelle che verranno.

Nei rapporti internazionali crescono nell’ambito della borghesia l’insofferenza per il predominio della borghesia USA e del suo Stato, i contrasti e le lotte per l’accesso ai mercati, per accaparrarsi le occasioni di investimenti industriali e  finanziari, per appropriarsi le rendite connesse al possesso di fonti di materie prime e di altre risorse naturali, per il predominio sui paesi neocoloniali; cresce il ricorso al ricatto e alla forza per imporre i propri interessi, in particolare da parte della borghesia USA e del suo Stato. Si sviluppa e si generalizza la lotta tra gruppi imperialisti e tra i loro Stati, tra i gruppi e gli stati imperialisti e i gruppi dirigenti dei paesi neocoloniali, tra i vecchi e i nuovi gruppi.

Nei rapporti tra la classe dominante e le classi oppresse, la borghesia è costretta di giorno in giorno a combattere, contenere, mandare alla malora ed eliminare le istituzioni del proprio ordinamento politico che, basandosi su una qualche partecipazione delle masse, ogni giorno di più diventano canali attraverso cui si esprime e acquista forza il malcontento di queste. La contrattazione sindacale è sempre più avocata ad un corpo di professionisti: dalle assemblee di fabbrica ai referendum, dai referendum alla contrattazione di vertice riservata ai funzionari sindacali “che sanno”, “sono persone responsabili”; dalla fabbrica alle federazioni categoriali e territoriali, alle confederazioni nazionali; dalle elezioni dirette dei delegati, alle liste elettorali chiuse, alle nomine del vertice, dai Consigli di fabbrica alle R.S.U., ecc. Dai partiti di massa, ai gruppi clientelari, alle consorterie, all’avocazione dei poteri all’esecutivo e ai funzionari; dalla politica di piazza, alle trame segrete, alla diplomazia; dal “disarmo della polizia in servizio di ordine pubblico” alla militarizzazione dei vigili urbani; ecc.(17)

Che questo sia il processo che si è sviluppato nel nostro paese, in tutti i paesi imperialisti e in tutto il mondo negli anni ‘80 è innegabile. Ma questa tendenza è destinata a proseguire e ad approfondirsi o a scomparire per lasciar posto a un “nuovo ordine” di “pace e prosperità”? A questa domanda devono dare una risposta quanti rifiutano di trascinarsi alla coda degli avvenimenti, quanti non vogliono essere usati e subire gli eventi. Quindi a questa domanda devono dare una risposta i comunisti.

 

17. Alcuni gruppi soggettivisti hanno avanzato ed avanzano la tesi dello “ampliamento delle forme della democrazia borghese” che sarebbe in atto in questo periodo come strumento astuto di rafforzamento del potere della borghesia. In realtà questa tesi che cozza con l’andamento reale di questi anni di tutte le società imperialiste è l’ultima (in ordine di tempo) e timida formulazione della concezione francofortese del “sistema che ingloba tutto, che integra tutti, che gestisce e controlla e attutisce tutte le contraddizioni che si producono nella società”, che “tiene buone le masse con l’apparente partecipazione al potere”.

 

Abbiamo già detto sopra che il corso seguito dal movimento politico negli anni passati è la manifestazione sovrastrutturale, a livello dei rapporti politici e statali, della crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale che attanaglia sempre di più il mondo capitalista e sempre più strettamente ne determina il movimento. Questo corso quindi è destinato a svilupparsi ulteriormente e ad approfondirsi, fino alla soluzione finale della crisi.(18)

All’interno di ogni paese la crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale ha messo in moto ed alimenterà due tendenze.

 

18. Alcuni politicanti e politologi idealisti ammettono che il movimento politico della società è quello che abbiamo descritto fin qui, ma si limitano a parlare di un “processo involutivo del sistema politico”. Ma questo da dove viene? Scende forse dal cielo? Nasce da un misterioso ricorso di malvagità individuale degli esponenti della classe dominante? Oppure è la realizzazione di una tendenza permanente della borghesia che ora può espandersi perché è venuta meno “l’opposizione dei partiti di sinistra”?

Quest’ultima è la tesi più ricorrente tra i “rifondatori del PCI”. Ma, come si vede, questi, non meno dei sostenitori dell’origine astrale o ultraterrena dell’“involuzione del sistema politico”, si ostinano a restare nel campo della politica e a rifiutare di prendere atto della connessione, più precisamente della derivazione del movimento politico della società dal suo movimento economico.

In termini pratici la loro denuncia dell’“involuzione del sistema politico” si riduce a spaventare chi li ascolta. Essi non mettono in luce gli elementi di debolezza della classe dominante su cui le masse possono far leva per  attaccare e vincere. Si pongono come partigiani della conservazione dell’attuale regime contro l’incombente involuzione. L’alternativa che prospettano è tra conservazione dell’esistente e involuzione. Si propongono alle masse come difensori dell’esistente. “Dateci i vostri voti che noi vi difenderemo dall’involuzione”: questa è la sostanza pratica della loro posizione. Ovviamente, al di là delle buone intenzioni di chi ancora ne avesse, non possono che mercanteggiare ora con l’uno ora con l’altro dei “campioni” della classe dominante: oggi con Craxi, domani con De Mita; oggi con De Benedetti, domani con Agnelli, ecc.

C’è da meravigliarsi che quella parte delle masse che non concepisce ancora altro avvenire oltre l’alternativa da essi proposta, giorno dopo giorno li abbandona?

 

1. Nella classe dominante si acuiranno i contrasti tra i gruppi perché ogni gruppo deve cercare di sacrificare gli interessi degli altri ai suoi: ogni gruppo cercherà di creare un “regime forte” a tutela dei suoi interessi e quindi capace di sottoporre alla sua disciplina e autorità gli altri gruppi della classe dominante e le masse popolari. Ogni gruppo ha bisogno di un potere più forte per sé, di maggiore “coesione e unità nazionale” a proprio favore. Ma la stessa causa che determina questo bisogno per ogni gruppo, pone ogni gruppo contro gli altri gruppi e quindi determina la lacerazione del regime esistente, anarchia, contrasti, sviluppo dei mezzi extralegali di risoluzione dei contrasti (ricatti, “malavita organizzata”, affari “loschi” e tutto il resto delle “delizie” che vengono crescendo in tutti i paesi imperialisti). Un regime più forte e autoritario può essere creato solo attraverso uno scontro che deciderà quale dei gruppi guiderà il nuovo regime.

2. La classe dominante dovrà cercare e cercherà di eliminare le conquiste economiche, politiche e culturali delle masse lavoratrici e di mandare in malora le istituzioni in cui esse sono incarnate che diventeranno via via “incompatibili” con le “leggi dell’economia”, con la “competitività” delle industrie, con la “salvezza dell’economia nazionale”.

 

2.1. Da una parte ciò svilupperà l’antagonismo delle masse popolari verso la classe dominante. È inevitabile che le masse popolari resistano sempre più accanitamente: ciò vale per il proletariato e le altre masse oppresse sia dei paesi imperialisti sia dei paesi neocoloniali. Da ciò si ricavano una serie di conclusioni pratiche.

Riflettiamo un momento sulla “questione sindacale”, sulla resistenza alla cancellazione delle conquiste economiche e normative del proletariato e delle altre masse popolari, come si viene ponendo da noi. Se è vero quanto abbiamo fin qui detto, ne deriva che la collusione delle Confederazioni sindacali con la Confindustria e il Governo a danno delle conquiste strappate dai lavoratori e l’esclusione dei lavoratori dalla conduzione delle organizzazioni sindacali e dalle trattative (problema della democrazia sindacale) sono destinate a proseguire ed estendersi, che esse non sono legate alla corruzione e alla disonestà dei singoli dirigenti (che indubbiamente esistono perché individui personalmente onesti sempre più difficilmente potranno occupare posizioni di dirigenza). Ne deriva che le Confederazioni sindacali e le strutture che ai vari livelli le compongono saranno sempre più lacerate tra due vie che sempre meno possono coesistere e confondersi tra loro: o esistere grazie all’appoggio dei lavoratori o esistere grazie all’appoggio dei padroni e del loro Stato.

Di fronte a questa situazione ha iniziato a svilupparsi un “nuovo sindacalismo” che proclama come proprio compito e obiettivo l’“onesta difesa degli interessi dei lavoratori”. Che prospettive ha?

È un fenomeno qualitativamente diverso dal sindacalismo corporativo e/o scissionista che è esistito nel periodo di ripresa e sviluppo perché nasce da altri interessi e in un altro contesto.

È destinato inevitabilmente a diffondersi sia perché risponde agli interessi dei lavoratori sia perché vi confluirà anche l’opera di gruppi della classe dominante contrapposti a quelli cui sono affiliati gli attuali sindacati di regime.

Quali contraddizioni trova sulla sua strada? L’“onesta difesa” è una condizione base e preliminare, ma non è una base sufficiente di sviluppo. I sindacati di regime hanno abbandonato la difesa degli interessi non per volontà di potere e per  disonestà personali dei dirigenti e funzionari, ma perché essa è diventata incompatibile con il regime di cui fanno parte. Se il nuovo sindacalismo vuole anzitutto, e come condizione determinante della sua esistenza, farsi anch’esso istituzione e godere dei molti vantaggi che il regime accorda alle sue istituzioni sindacali, esso non può che diventare uno tra i vari sindacati corporativi di regime nell’ambito delle compatibilità dell’“economia nazionale”.

Il “nuovo sindacalismo” non può quindi reggere avendo come linea fondante e portante l’“onesta difesa degli interessi dei lavoratori”, anche se deve accogliere totalmente in sé, per trasformarla in qualcosa di meno velleitario, ogni posizione di “onesta difesa degli interessi dei lavoratori”. Infatti molte di queste battaglie difensive inevitabilmente al momento saranno perse. L’“onesta difesa dei propri interessi” alimenterà anche una regressione corporativa che la borghesia cercherà di utilizzare e strumentalizzare fino ad imporsi come mediatrice nella contrapposizione tra gruppi di lavoratori. Le “garanzie legali” per i sindacalisti non subordinati alle confederazioni saranno sempre meno e anzi tutte le componenti del regime (politici, sindacalisti, magistrati e poliziotti) si coalizzeranno per eliminare questi “elementi di disturbo”, tanto più scomodi quanto maggiore sarà il malcontento dei lavoratori (anche se tutte le contraddizioni ancora esistenti tra queste componenti del regime vanno sfruttate).

L’origine della “degenerazione dei sindacati” non sta nella volontà di potere e la disonestà personali dei dirigenti, al contrario è il corso economico della società borghese che assegna oggi ai suoi sindacati un ruolo tale che questi non possono avvalersi che di dirigenti mossi da ambizione di potere e di arricchimento personali. Quindi l’“onesta difesa degli interessi dei lavoratori” da cui partono molti esponenti del “nuovo sindacalismo” ha aperte davanti a sé due strade:

- o cercare di costituirsi come nuova istituzione del regime in concorrenza con quelle già esistenti, anch’essa “riconosciuta” dai padroni e dal loro Stato,

- o alimentare e alimentarsi della partecipazione diretta dei lavoratori e quindi organizzativamente basarsi sulle assemblee, sui comitati e organismi di base.

La ricerca dell’istituzionalizzazione e del “riconoscimento della controparte” è cercare di sostituire l’istituzione sindacale alla mancanza di linea e di partito di cui soffrono i promotori.

Ciò rende antagonisti chi oggi vuole l’onesta difesa e l’istituzione (il “quarto sindacato”)? Non immediatamente. Ma chi è su quella strada, abbastanza presto si troverà a dover scegliere tra quelle due vie.(19)

 

19. Un’interessante esperienza di “nuovo sindacalismo” è illustrata, relativamente alla Spagna, nell’antologia ¿Que camino debemos tomar? Dalla Spagna la voce del PCE(r) e dei GRAPO, Edizioni Rapporti Sociali.

 

Ogni società borghese sviluppata ha anche le sue istituzioni sindacali: ciò è un dato di fatto che costatano (neanche Pinochet e i regimi fascisti ne possono fare a meno) anche quelli che non comprendono che la sua origine è nel carattere collettivo della società imperialista che appunto si esprime nelle sue forme antitetiche dell’unità sociale. Ma il sindacato di regime non può essere che... di regime. Quando il regime deve ledere gli interessi economici del proletariato e delle masse popolari, il sindacato di regime non può che adeguarsi costituendo l’ala sinistra di esso, salvo essere sovvertito come il regime stesso.

Insomma la resistenza dei lavoratori non può svilupparsi se non come componente della ripresa del movimento rivoluzionario dei lavoratori, come alimento di esso e scuola di comunismo. Ogni tentativo di sviluppare un “sindacato onesto” apolitico accanto a quello già esistente anche se ad esso contrapposto, ma che viva degli stessi strumenti e si avvalga dello stesso quadro legale e organizzativo di quello, è destinato alla sconfitta. Un nuovo sindacalismo che difenda onestamente gli interessi dei lavoratori potrà svilupparsi solo in connessione col movimento rivoluzionario e in lotta rivoluzionaria contro il regime, perché la resistenza alla liquidazione delle conquiste strappate dai lavoratori è una questione politica e la loro difesa è anche una questione politica, prima che una questione sindacale. Tale nuovo sindacalismo può trovare la sua forza solo nel sostegno dei lavoratori, che in questa direzione sono mossi dai loro stessi  interessi: questa è una potente leva di sviluppo. D’altra parte l’uso sistematico e accorto di questa leva può derivare solo dalla tenace fede degli esponenti del nuovo sindacalismo nel destino rivoluzionario e di potere del proletariato (che è inscritto nelle forze produttive dell’attuale società); questa fede a sua volta può essere alimentata solo da una linea di partito giusta, cioè che conduce al rafforzamento delle forze soggettive della rivoluzione socialista perché è conforme alle leggi oggettive del movimento economico e politico della società.

Considerazioni analoghe valgono per la difesa dei più vari interessi delle classi oppresse sia dei paesi imperialisti sia dei paesi neocoloniali.

 

2.2. D’altra parte lo sviluppo della crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale farà nascere anche iniziative di gruppi della classe dominante per deviare, sterilizzare e controllare questo antagonismo frazionando il movimento popolare, guadagnandosi l’appoggio di qualche frazione popolare contro le altre e scagliando una frazione contro l’altra, per trovare in questo appoggio popolare la forza per regolare a proprio vantaggio i conti con i gruppi avversari appartenenti alla classe dominante stessa e imporre un “nuovo ordine”. Infatti ogni nuovo ordine prima di essere una questione di “belle idee”, di “ordinamenti giusti” e di “ingegneria costituzionale” è una questione di interessi che prevalgono e si affermano a spese di altri.

In ogni paese imperialista le due correnti (la resistenza delle classi dominate e le manovre di gruppi della classe dominante) si condizioneranno a vicenda, una cercherà di usare l’altra a proprio vantaggio e non potrà svilupparsi che imparando a farlo meglio dell’altra.

A livello internazionale la crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale renderà sempre più conflittuali i rapporti tra gruppi, Stati e schieramenti. I vecchi schieramenti verranno “ridefiniti”: chi conta di guadagnarci cercherà di rendere più stretti i vincoli che univano gli schieramenti, di rendere l’unione più forte dotando i suoi organismi di poteri coercitivi, di “rifondare” le “alleanze” dotandole di poteri costrittivi. Chi ci perde, resisterà a questi tentativi e cercherà di sciogliere anche i vecchi legami. Alcuni compagni vanno da tempo facendo scongiuri sulla CEE, sul Mercato Unico, sull’Atto Unico e sul 1992: sarebbe più utile che provassero a capire quali tra i gruppi imperialisti ha interesse a stringere e quali ci perdono nella stretta,(20) forse capirebbero di che cosa vale la penna occuparsi e preoccuparsi. La “integrazione” dei paesi dell’est e dell’Unione Sovietica sta dando luogo non solo alla competizione tra aspiranti colonizzatori, ma tra gli aspiranti colonizzatori e i gruppi borghesi di quei paesi che aspirano al proprio “spazio al sole” e le due lotte si intrecciano e si scontrano con le resistenze delle masse alla restaurazione. Nei paesi del Terzo Mondo la distruzione dell’economia naturale, che prosegue, dopo aver gettato milioni di diseredati nelle bidonville nazionali li sta ora gettando verso i paesi imperialisti; le classi dominanti locali sono alle prese ovunque con rivolte e sono schiacciate tra gli ordini dei gruppi imperialisti (emanati sia attraverso il Fondo Monetario Internazionale sia direttamente) e le esigenze della loro sopravvivenza e sempre più spesso dovranno scontrarsi con i loro “protettori” (l’apparente anomalia di Saddam Hussein probabilmente farà scuola).

 

20. Quelli che credono davvero che “tutti ci possono guadagnare” è il caso che smettano di parlare a vuoto di crisi. Se tutti i gruppi della classe dominante possono accrescere i loro affari, che razza di crisi è quella di cui cianciano? Una cosa che c’è, ma non si vede e non si sente: un puro spirito, come il diavolo e il dio di Woityla! Oppure una crisi che esiste solo per le masse popolari: ma allora perché, se gli affari ai capitalisti vanno bene, le masse popolari non possono più conservare le vecchie conquiste e strapparne di nuove? Cosa sono questi affari che vanno a gonfie vele e non si traducono nell’ampliamento del movimento D - M - ... P ... - M’ - D’ e quindi in più occupati e più salari? Domande che ci sarebbe da imparare qualcosa a risponderci!

 

In conclusione, l’antagonismo nella società si svilupperà. Masse via via più ampie scenderanno in lotta: questo è indubbio ed inevitabile. Non ci saranno né predicazione di papi, né allettamenti di imbonitori, né dispositivi di poliziotti che potranno impedire che questa tendenza si sviluppi. Il corso reale degli avvenimenti di questi anni confermano che  questa tendenza è in atto. La capitale del più potente Stato imperialista, Washington, in stato d’assedio, Los Angeles e Bruxelles presidiate da pattuglie in armi, esplosioni di rivolte nelle più diverse città e zone confermano questa tendenza. Il malessere, il ricorso a mezzi spicci e diretti, la violenza, le esplosioni di rivolte, ecc. vanno crescendo in tutti i paesi imperialisti.

Di fronte a questi moti alcuni compagni sciolgono inni di esaltazione; altri storcono il naso perché si tratta di “rivolte di sottoproletari”, di “rivolte che non hanno né linea né organizzazione”, “rivolte per futili motivi”, ecc.

Cantare gli avvenimenti è mestiere da spettatori e da cantanti e grossomodo lascia il tempo che trova: quindi ha poco a che vedere con i compiti dei comunisti.

Il fatto che si tratti di “rivolte di sottoproletari” fa di esse un indice prezioso della generalizzazione dell’insofferenza e dell’antagonismo che la società imperialista genera al suo interno assieme a larghe fasce di sottoproletari, di emarginati, di espulsi cronici dal processo produttivo, sia a livello internazionale (come approfondimento della miseria e dello sfruttamento dei popoli dei paesi neocoloniali), sia all’interno di ognuno dei paesi imperialisti. Il ruolo delle forze soggettive della rivoluzione è di portare nel campo della rivoluzione questo antagonismo e frustrare il tentativo della borghesia di servirsene contro la rivoluzione.

Il fatto che siano “rivolte che non hanno né linea né organizzazione” costituisce per noi comunisti un richiamo (possente e pressante) al nostro ruolo: da dove possono ricevere una linea? Raccogliere le idee che vivono sparse e confuse tra le masse, elaborarle in un sistema organico e restituirle alle masse: non è in ciò che consiste uno dei compiti dei comunisti?(21)

 

21. Anche per questo processo valgono le considerazioni fatte nella nota 14. a proposito del “comprendere”. Non si tratta essenzialmente di un processo mentale, di pensiero, da politologo; si tratta di un processo politico, intellettuale e organizzativo, di indagine e di lotta assieme, attraverso cui si forma lo schieramento delle forze soggettive della rivoluzione, accogliendo, trasformando e portando ad un livello superiore quanto l’attuale società genera da se stessa, per suo proprio movimento.

 

In conclusione: siamo entrati in una situazione rivoluzionaria; gli ordinamenti politici della società devono inevitabilmente cambiare e cambieranno in maniera traumatica; i gruppi e le istituzioni della borghesia sono destinate inevitabilmente a scontrarsi tra di loro per definire il “nuovo ordine” mondiale; questo scontro coinvolgerà inevitabilmente le masse popolari e in particolare la classe fondamentale delle masse popolari nei paesi imperialisti, il proletariato e il suo nucleo più capace di azione politica, la classe operaia; i regimi politici della borghesia in ogni paese e a livello internazionale sono entrati in una fase di instabilità e debolezza crescenti; l’antagonismo delle masse popolari verso l’ordine esistente è destinato a crescere. Questa è la situazione che ci sta davanti.

Solo rispetto a questa situazione si possono definire le prospettive della rivoluzione e le sorti delle forze soggettive della rivoluzione. Porre il problema diversamente, ricercare altrove la definizione dei nostri obiettivi strategici per i prossimi anni, della nostra linea d’azione e dei nostri metodi d’azione vuol dire trascinarci o correre dietro ai nostri pregiudizi anziché cercare di adeguare la nostra azione alle leggi del movimento oggettivo. Quindi vuol dire votare alla sconfitta la causa della rivoluzione socialista.

Questa è la situazione attuale e le sue tendenze. Gli individui, i gruppi, i partiti, le classi si raffigurano e si raffigureranno ognuno a suo modo la situazione, si muovono e si muoveranno in essa per difendere i propri interessi alla maniera in cui la concezione che via via avranno della cosa, l’azione degli altri e le circostanze permetteranno e suggeriranno loro di agire. Il risultato effettivo delle loro azioni sarà non quello che essi si propongono e si proporranno, ma quello che la natura effettiva delle cause della crisi e le relazioni tra le forze in gioco faranno essere. Ogni soluzione prima di essere reale, deve essere possibile: solo le soluzioni possibili diventano reali.

Quello che è in discussione e attorno a cui si gioca la partita è: che direzione prenderà tutto ciò? Dove approderà?

  

4. Le due vie

Per quanto il potere della borghesia attraversi un periodo di instabilità e di debolezza e la crisi lo sottoponga a sforzi, esso non può crollare come crolla una casa. Tutte le teorie sul crollo della società borghese inteso al modo del crollo di un edificio, non tengono conto del carattere sovrastrutturale del potere politico. Il potere politico della borghesia è l’espressione sovrastrutturale del suo ruolo economico. La crisi di un’istituzione e di un regime particolare, il disfacimento di un regime (come 1’8 settembre ‘43 in Italia o il crollo degli Stati austroungarico e tedesco nel 1918 o dello Stato tedesco nel 1945) porta alla formazione di un nuovo regime in cui il ruolo della borghesia non può che essere riconfermato perché è l’unica classe che può dirigere politicamente un paese economicamente borghese. Che il potere economico della borghesia non “crolli”, crediamo sia evidente, dato che nessuna società può vivere e riprodursi senza relazioni economiche. Il potere economico della borghesia può solo essere sostituito da un altro potere e da un’altra direzione e solo nell’ambito di questa sostituzione del potere economico può realizzarsi l’abbattimento anche del potere politico della borghesia e la sua sostituzione con il potere del proletariato.

 

Le soluzioni possibili dell’attuale crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale in sostanza non possono essere che due, benché i travestimenti e le forme in cui si presentano possano essere e sicuramente saranno svariati e variopinti, al punto da confondere chiunque oggi cerca di raffigurarseli.

La crisi può risolversi

o sotto la direzione della borghesia attraverso un periodo di guerre e rivolgimenti rispetto ai quali le guerre del periodo 1914-1945 faranno la figura che la locomotiva di Stevenson fa rispetto a un TGV e a mezzo del quale verrà sgomberato il campo per un nuovo periodo di ripresa e sviluppo del capitalismo;

o sotto la direzione del proletariato attraverso il rovesciamento del potere politico della borghesia e l’avviamento della trasformazione socialista della società;

ovvero con una combinazione delle due soluzioni, come avvenne nella prima metà di questo secolo per la prima crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale.

Un periodo di trasformazione rivoluzionaria a livello mondiale e nei principali paesi sta di fronte a noi.

 

5. Le forze soggettive della rivoluzione

È solo alla luce del cambiamento subito dalla situazione oggettiva (dal periodo di ripresa e sviluppo alla nuova crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale, dal “capitalismo dal volto umano” alla nuova situazione rivoluzionaria) che si può comprendere la dialettica tra forze soggettive e condizioni oggettive della rivoluzione che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo.

Dagli ultimi anni ‘70 in avanti nel nostro paese le condizioni oggettive favorevoli alla rivoluzione hanno continuato a svilupparsi, ma le forze soggettive della rivoluzione apparentemente si sono indebolite. Perché?

Lo sviluppo delle condizioni oggettive della rivoluzione costringe le forze soggettive a cambiare forma e metodi. I partiti “di sinistra” sono in difficoltà in tutti i paesi imperialisti. Alcuni diventano decisamente “di destra” e, in base alla storia specifica dei rispettivi paesi, hanno il mandato a governare da parte della classe dominante (PSOE, PS francese) e sopravvivono. Altri si spostano a destra, ma perdono voti e seguito, schiacciati nella contraddizione: la classe dominante che non se ne può più servire per governare perché non ha più da gestire la mediazione a cui essi erano addetti; per ingraziarsi la classe dominante si spostano a destra e così perdono anche il seguito e l’attivismo dei militanti che si dedicavano ad essi per il socialismo che essi “promettevano”.

Le vecchie forze non possono più occupare lo spazio e svolgere il ruolo che svolgevano prima. Anche qui in primo  luogo non sono le caratteristiche individuali dei personaggi (degli Occhetto, dei Garavini, dei Cossutta, ecc.) che decidono, ma la relazione tra la linea di un gruppo e le leggi del movimento oggettivo della società. Lo spazio delle vecchie forme si riduce, la nuova situazione richiede forze nuove. Chi si incaponisce a “far politica” alla vecchia maniera non può che scuotere la testa sconsolato: “che tempi!”.

Il problema è che le forze soggettive o si adeguano alla nuova situazione e a far fronte ai compiti che la nuova situazione pone all’ordine del giorno o periscono.

Quelli di oggi sono “tempi bui” per chi non vuole cambiare. Sono in realtà un periodo di trasformazione. Dobbiamo “cambiare pelle” per adempiere ai compiti “più gloriosi” che la nuova situazione ci pone.