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La Voce 46

del (nuovo)Partito comunista italiano

anno XVI - marzo 2014

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Cura e formazione degli uomini e delle donne

 

Lettera aperta alla redazione

L’autocritica di un dirigente del (nuovo) Partito comunista italiano

 

Alla redazione di La Voce

Cari compagni,

questa lettera è autobiografica, racconta in forma logica la mia storia personale. Ma questa storia riguarda strettamente la nostra causa e credo che la mia lettera insegni molto ai compagni che la studieranno: ai membri del Partito, a quelli che si avvicinano al Partito e più largamente ai compagni della Base rossa che prima o poi si decideranno a fare un giusto bilancio del vecchio movimento comunista e capiranno i limiti che hanno portato all’esaurimento della prima ondata della rivoluzione proletaria. Credo quindi che sia bene renderla pubblica.

 

*** manchette

È certo che la classe operaia può fare la rivoluzione e instaurare il socialismo. Ma riesce a farlo solo se è guidata da un partito comunista che applica la concezione comunista del mondo per analizzare la realtà e definire tattiche e metodi per trasformarla. Qui sta la causa del fallimento dei partiti comunisti dei paesi imperialisti durante la prima ondata della rivoluzione proletaria, nel secolo scorso.

 

Le vicende della mia relativamente lunga militanza nel Partito in ruoli dirigenti mi hanno portato fino alla soglia della diserzione, da cui mi sono ritratto grazie all’intervento dei miei dirigenti che mi hanno indotto a capire la logica del percorso che avevo fatto (dall’adesione piena e senza riserve al Partito alle soglie della diserzione) e a intraprendere invece un percorso di rettifica della mia concezione e della mia mentalità, quello che noi chiamiamo percorso di CAT (critica, autocritica, trasformazione), di assimilazione della concezione comunista del mondo. È nel corso di questo processo di rettifica e come strumenti di esso che, oltre ad altri documenti, ho redatto anche i sei articoli che la redazione ha deciso di usare per la rubrica Cura e formazione degli uomini e delle donne.

In sintesi la parte negativa del percorso che voglio descrivere parte dalla accettazione formale della linea del partito, a cui segue lo scarso successo dell’attività pur svolta senza riserve di tempo e di sforzi per attuarla, lo sconforto per la mancanza di risultati, la sfiducia in me stesso e nel Partito, fino alla decisione di lasciar perdere, di ritornare a casa, di disertare. Una decisione che non ha avuto seguito perché di fronte alla gravità dell’atto e grazie all’intervento dei miei dirigenti mi sono dato una scossa e ho imboccato il percorso della ripresa, il percorso di CAT. Ho quindi anche ricostruito la logica del mio percorso di cui qui espongo quella relativa al tratto negativo.

Da dove nasceva l'adesione formale (burocratica, di facciata) alla linea? Perché un compagno dirigente afferma di essere d'accordo con la linea tracciata dal Partito e poi la stravolge o addirittura non la applica? Ho riflettuto sulla mia esperienza, per rispondere a queste domande e individuare l'origine di questo processo soggettivo distorto e nocivo, al fine di contribuire ad elaborare principi, criteri e metodi superiori per affrontare il problema.

Perché accettavo la linea tracciata dal Partito, ma l’accettavo in modo formale?

Perché da una parte aderivo senza riserve alla causa del comunismo di cui il (n)PCI è campione, ma la mia adesione al Partito era sostanzialmente identitaria.

Cosa intendiamo con l’espressione “adesione identitaria” e perché un compagno aderisce al Partito comunista in modo identitario (cioè senza aver prima assimilato la concezione comunista del mondo che è ciò che fonda il Partito)?

Perché il compagno è contro il mondo come è e, per qualche motivo (quale? lo si capisce studiando l’esperienza del compagno e non importa qui che illustri questo aspetto della mia esperienza), è convinto che il Partito è in grado di cambiare il mondo (un esempio: Giorgio Amendola nella sua autobiografia dice esplicitamente che aderì al PCI perché “era l’unico partito che combatteva seriamente il fascismo”). Quindi aderisce.

Però non si applica a comprendere come sarà il mondo futuro che il Partito costruirà (che si propone di costruire). L’obiettivo del Partito non è arbitrario: la società borghese si trasforma secondo una linea che le è propria e che Marx ed Engels hanno scoperto facendo il bilancio dell’intera storia dell’umanità. Né si applica a capire cosa fare e come fare a costruire proprio quel mondo (ogni formazione economico-politica (ogni paese) si trasforma (può trasformarsi) seguendo una linea sua propria che il Partito deve scoprire e assumere coma base della sua azione). Cioè non si applica a comprendere la concezione comunista del mondo, l’analisi della situazione, la strategia e la linea del Partito. Quindi si comporta come ben indicato in La Voce n. 39 nell’articolo I primi tre capitoli del MP: “con adesione identitaria intendiamo il modo di essere membro del Partito comunista proprio del compagno che non ha assimilato e quindi non è in grado di applicare (usare) con autonomia la concezione comunista del mondo, quindi ha bisogno di una direzione di dettaglio (vale a dire di un individuo o organismo dirigenti che compie per lui la traduzione del generale nel particolare della sua azienda, zona o settore operativo). Quando è diretto nel dettaglio, egli applica le direttive in modo dogmatico (vale a dire in modo non concreto, senza fare “analisi concreta della situazione concreta”, senza adeguare la forma delle sua azione alla situazione concreta); in mancanza di una direzione di dettaglio, agisce in base al senso comune che gli è proprio”.

È importante chiarire questo punto: l’adesione identitaria non è un male, è di fatto il punto di partenza per la gran parte dei comunisti. Di tutti, salvo quei pochi intellettuali che vengono al partito comunista dopo aver studiato il marxismo, perché lo studio della storia, della natura della società attuale e del patrimonio teorico del movimento comunista li ha portati alla convinzione che il comunismo è il futuro dell’umanità, la soluzione dei problemi della società attuale e che il Partito fa quello che bisogna fare per instaurare il socialismo.

Le condizioni in cui la società relega le masse popolari è tale che esse imparano principalmente per esperienza diretta. I comunisti vengono per lo più dalle masse popolari e aderiscono al partito comunista perché lì, per qualche via accidentale, li porta la loro esperienza. Si parte quindi da un’adesione identitaria. Anche oggi gran parte dei compagni che aderiscono al Partito, vi aderiscono “in modo identitario”, perché credono che il Partito voglia e sappia fare la rivoluzione socialista. Nel passato, nella prima parte del secolo scorso, fu il caso di migliaia e centinaia di migliaia di compagni che aderirono ai partiti dell’Internazionale Comunista perché attratti dalla vittoria che i comunisti avevano strappato in Russia e dalla lotta che conducevano con successo contro la borghesia, il clero e ogni genere di oppressori e sfruttatori.

Il male fu che la mia adesione rimase sostanzialmente identitaria. E questo, beninteso, è responsabilità mia personale ma anche responsabilità del Partito che non fece leva sulla mia adesione identitaria per “costringermi” ad apprendere e assimilare la concezione comunista del mondo, usandola. Ma mi conferì ruoli da dirigente, benché la mia adesione restasse principalmente identitaria. La mia vicenda mette in luce che il Partito deve fare un passo in avanti. Ovvio tuttavia che il Partito non può che mediare con la realtà (“bisogna arare il campo con i buoi che si hanno”): anche nel Partito di Lenin non a caso emersero di volta in volta dei disertori. Non parlo di Trotzki che aderì e fu accettato nel Partito solo alla vigilia dell’Ottobre e vi rimase pochi anni (“è con noi, ma non è dei nostri”, disse di lui un bolscevico), ma di uomini come Zinoviev, Kamenev, Bukharin e altri.

A causa della mia adesione rimasta sostanzialmente identitaria, messo di fronte al compito di dirigere le attività del Partito in un ampia zona del paese, mi sono scontrato con tre ostacoli.

1. Non avevo e non riuscivo a raggiungere del contesto in cui dovevo dirigere l’attività del Partito una comprensione sufficiente per applicare la linea. Non possedevo il generale (la concezione comunista del mondo, l’analisi e la strategia del Partito) in misura sufficiente per studiare il particolare fino a ricostruirne nella mia mente il “concreto di pensiero” necessario per dirigere.[Cosa è il “concreto di pensiero”? v. K. Marx, Il metodo dell’economia politica - da Lineamenti per la critica dell’economia politica (Grundrisse), Opere complete vol. 29, pagg. 33-41 e in www.nuovopci.it/classic/marxengels/ecopol.html, ndr] Non andavo quindi oltre una visione limitata del contesto in cui dovevo dirigere, del processo storico attraverso cui esso si è formato, delle sue contraddizioni principali e secondarie, delle tendenze che lo attraversano, del suo movimento complessivo e particolare (del suo divenire). Potremmo sintetizzare il tutto dicendo che avevo una visione limitata (dunque unilaterale, eclettica, soggettivista) delle condizioni, dei risultati e delle forme della lotta di classe della zona in cui operavo e in cui io stesso ero immerso e, dunque, di cui ero parte (prodotto, componente, agente trasformatore). Non riuscivo a ricostruire il contesto in cui agivo fino a farne un “concreto di pensiero”. Dunque principalmente subivo il contesto, più che principalmente incidere su di esso: così era anche se sono un soggetto particolarmente attivo e di iniziativa (vale l’esempio della mosca cocchiera che pensa di dirigere il cavallo). Vedevo la realtà ma non la capivo, al pari degli uomini che per secoli hanno visto e vissuto l'alternarsi della notte e del giorno e hanno pensato che fosse il Sole a girare intorno alla Terra. Non basta guardare (le forme) per capire (il contenuto, il divenire). Empirismo vuol dire conoscenza superficiale, vedere solo quello che si dà a vedere, vedere solo quello che una data cosa è e non anche quello che non è e che può diventare (tenendo conto delle diverse varianti a cui il divenire può giungere, in cui può tradursi). In condizioni simili l’'iniziativa e l'attivismo diventano un muoversi a vuoto (tappabuchi, animatore sociale, assistente sociale). La quantità non produce qualità, l'accumulazione quantitativa non produce salti qualitativi e trasformazioni del negativo in positivo (dalla contraddizione a una sintesi superiore).

2. Non avevo una concezione giusta del ruolo dell’azione soggettiva, mia e dei compagni che dirigevo, nella lotta di classe. Avevo una visione distorta delle masse (sfiducia nei compagni diretti, nelle masse in generale, in me stesso come dirigente). Questo punto è un derivato del precedente (assenza del “concreto di pensiero” che politicamente si traduce nel girare a vuoto), una sua degenerazione, opposta ma ugualmente unilaterale (non dialettica) come il determinismo positivista: la sfiducia e il determinismo positivista non partono dall'analisi concreta della situazione concreta e violentano entrambe in modo soggettivista l'azione soggettiva sul contesto, nella lotta di classe che si sviluppa nella zona. Tutto questo porta a vedere le linee tracciate dal Partito come eccessivamente ambiziose, ottimiste, ecc. e, dunque, inattuabili nella “dura e misera realtà” in cui si opera. Se si cerca di applicare la linea, o la si distorce (la si plasma in base al senso comune) o la si applica burocraticamente (ossia senza l'azione creativa del dirigente sul campo, che analizza la situazione e applica in modo vivo e dinamico la linea tracciata).

3. Avevo una concezione da carrierista (individualista) del mio rapporto con il collettivo e con il Comitato Centrale del Partito: non potevo chiedere aiuto al Centro. Viene da chiedersi a questo punto come mai un dirigente che reputa inattuabile una linea non lo dice subito, apertamente, in modo chiaro e schietto, permettendo al Centro di guidarlo ad una comprensione superiore della realtà (giungere ad una comprensione logica [il “concreto di pensiero”] e non solo storica) oppure permettendo al Centro di avere maggiori elementi per affinare l'elaborazione della linea. Per quanto mi riguarda ciò avveniva principalmente per un motivo: il timore che manifestando le mie perplessità venissi considerato inadeguato, arretrato, ecc. (individualismo, soggettivismo, concezione del bottegaio piccolo-borghese).

Passo dopo passo, fallimento dopo fallimento, questo processo di accumulo quantitativo ha avuto salti qualitativi: prima l'interruzione dei rapporti con il Centro, poi (nel procedere dell'accumulo quantitativo e di salti qualitativi) la completa incapacità di far fronte al contesto che a quel punto era diventato “un caos” nella mia testa, una diga piena di faglie a cui cercavo di mettere mano correndo ancora più affannosamente a destra e a sinistra (e bere la sera per cercare di contenere l'ansia e lo stress, per anestetizzare la scissione tra quello che ero e quello che avrei voluto essere come dirigente; tra quello che costruivo effettivamente e quello che invece avrei voluto costruire: anche il positivo diventava un fattore negativo). Non si chiede aiuto (si continua a non chiedere aiuto e si continua a nascondere) perché a quel punto si è nel vortice, nell'avvitamento più completo. A questo stadio di degrado morale e intellettuale il distacco dal Partito diventa uno sbocco “naturale” di questo corso delle cose, se il corso non viene rotto, reciso, negato (in senso dialettico) con l'affermazione di un corso superiore (che quindi lo supera – nel linguaggio della dialettica la negazione consiste nel superamento di un corso inferiore da parte di un corso superiore che si afferma su di esso e lo sostituisce: senza questo processo la negazione sarebbe solo rigetto del vecchio e non costruzione, solo contro e non per, ma, dato che le cose non restano ferme, se non si sostituisce non si nega, se non si trasforma si subisce).

Il risultato è stato che mi sono via via sempre più aggrovigliato in compiti non risolti, nell’arrabattarsi a tappare buchi e in definitiva sono arrivato al proposito di disertare.

Se astraiamo dal particolare (dalla mia vicenda personale), vediamo che questo sbocco è universale, a determinate condizioni, pur con varianti: accettare tutto sommato pacificamente (senza lottare in modo giusto per trasformarsi, senza lottare non solo con le “unghie e con i denti” ma in modo giusto) di fare un passo indietro come dirigente e ricoprire ruoli di secondo piano; voler tornare nel proprio paese e nella famiglia di origine per “mettere su casa” facendo politica rivoluzionaria come hobby per lavarsi la coscienza; volersi ritirare nel privato (nella propria professione e nella propria famiglia), ecc.

Da questa analisi deriva la “cura”: le due vie maestre (1. conoscenza, assimilazione e applicazione della concezione comunista del mondo, 2. rapporto costante con il Centro). Questa linea implica:

- da un lato che i dirigenti non si affidino alle dichiarazioni di intenti dei diretti. Farlo significa infatti partire da quello che uno dice di sé e non da quello che effettivamente (oggettivamente) è (“non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così come non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente tra le forze produttive della società e i rapporti di produzione”, Marx, prefazione all'opera Per la critica dell'economia politica (1859) [ho trascritto l’affermazione di Marx in senso contrario: dalla società all’individuo, mentre Marx l’ha scritta dall’individuo alla società];

- dall'altro che ci sia, da parte del compagno oggetto di un processo di rettifica, la volontà individuale di percorrerlo: passaggio del compagno dall'essere oggetto all'essere soggetto attivo del processo di rettifica. Egli, dopo la forzatura iniziale ad opera del collettivo a cui si affida percorrendo la via che gli viene indicata, assimila il processo di rettifica, lo fa suo, ne interiorizza via via il senso profondo e la valenza (anche qui per accumuli quantitativi e salti qualitativi), lo rende “materia viva” mettendoci del suo (atteggiamento positivo, autocritico, creativo, costruttivo, teso ad avanzare), passando dalla necessità (costrizione) alla libertà (disciplina cosciente) e giungendo ad una comprensione logica del suo processo evolutivo, superando la comprensione frammentaria, storica, superficiale (con diversi gradi di intensità), empirica e iniziando a ricavare principi e criteri dalla sua esperienza alla luce della concezione comunista del mondo, rendendoli via via guida per la sua azione: è in questo processo che egli si trasforma e apre una nuova, superiore fase della sua evoluzione, del suo essere soggetto e oggetto della rivoluzione.

A date condizioni la costrizione è tatticamente principale. La volontà individuale di trasformarsi (di essere soggetto e oggetto della rivoluzione) costituisce però l'aspetto strategico (la contraddizione interna è quella che muove un fenomeno, le condizioni esterne la influenzano ma non la sostituiscono – contro la “teoria della supplenza”, della delega, contro l'opportunismo).

Il criterio indicato nel nostro Manifesto Programma “bisogna insegnare alle masse a pescare [che in questo caso, ossia nel lavoro interno, significa formazione, direzione, inquadramento dei compagni in organismi con compiti e piani definiti, non essere conservatori in campo organizzativo], non dargli il pesce”, vale anche per gli aspiranti comunisti. Gli aspiranti comunisti devono voler imparare a pensare e imparare ad usare il pensiero scientifico come metodo di conoscenza e guida per l'azione, ponendosi nell'ottica degli scienziati che lavorando in squadra scoprono attraverso un percorso di scienza sperimentale (sperimentazione e sintesi) come tradurre la strategia in tattica, la linea generale in linee particolari, scoprendo via via nuovi e superiori principi, criteri, metodi e strumenti attraverso cui aprirsi la strada e avanzare nella costruzione della rivoluzione.

Riporto in allegato un estratto dell'Avviso ai naviganti del (n)PCI 22 - 4 agosto 2013, che fissa il concetto in modo a mio avviso molto istruttivo (penso che dobbiamo porre questo estratto come uno dei testi guida a supporto della linea delle due vie maestre, che altro non sono che le vie (il metodo) per imparare appunto a pensare e a trasformare).

Avanti!

il compagno Federico

 

 

Allegato

Le difficoltà nel movimento comunista [del secolo scorso] sono sorte principalmente dal fatto che quelli che pensavano (gli intellettuali e dirigenti del movimento comunista) pensavano male, si lasciavano influenzare dalla borghesia e dal clero. Non sono sorte principalmente dal fatto che tra le masse popolari pensare era un’attività praticata ancora da pochi e ancora a livelli relativamente bassi di apprendimento (la rivoluzione non può che iniziare con masse popolari che la borghesia e il clero hanno mantenuto con ogni mezzo nell’ignoranza e nell’abbrutimento). Non sono le masse popolari che hanno trascinato a destra dirigenti che indicavano con chiarezza, convinzione, nel dettaglio (passo dopo passo) e nella prospettiva la via verso l’instaurazione del socialismo. Al contrario è stato il grosso dei dirigenti che hanno imposto una linea di destra ai vertici dei partiti comunisti che a loro volta l’hanno imposta alla base. Questa, mossa dalla sua esperienza che anche se non ancora elaborata in pensiero concorre pur sempre a formare il comportamento pratico e le aspirazioni degli individui, era così poco convinta dalla loro linea di destra che poco a poco ha ridotto il suo slancio e la sua militanza e infine ha lasciato cadere il partito comunista e le sue organizzazioni di massa (sindacati, cooperative, associazioni culturali). Il movimento comunista da quello che era si è ridotto allo stato attuale.

Le masse popolari e in particolare gli operai per far fronte alla borghesia e fondare una società su loro misura hanno bisogno indispensabile di comunisti armati di una comprensione avanzata delle condizioni, delle forme e dei risultati della lotta tra le classi. Ma hanno bisogno non di teorie qualsiasi, ma di una teoria giusta, della concezione comunista del mondo. Da quando i suoi dirigenti e intellettuali hanno abbandonato il marxismo e si sono dati a sciorinare e vendere sciocche fantasticherie e divagazioni che facevano comodo alla borghesia e al clero (dalla “questione morale”, al “piccolo è bello”, al “dividere tra tutti il lavoro che c’è” (cioè quello che serve ai capitalisti per fare profitti) e altre baggianate del “pensiero debole” compresa perfino la tesi che “non esiste più classe operaia”), in effetti la classe operaia ha cessato di esistere come soggetto politico, si è frammentata azienda per azienda, zona per zona, individuo per individuo, sulla difensiva o rassegnato e disperato. Tanto la concezione comunista del mondo le è indispensabile! Ma non potevano gli operai pensare da se stessi? Non potevano fare a meno di intellettuali e di dirigenti? Che è come dire: “Ma perché la gente non compone musica senza bisogno di compositori?”. Gli operai hanno bisogno di propri intellettuali, di intellettuali marxisti, organici alla loro causa di instaurazione del socialismo (potere politico del proletariato) e di transizione dell’umanità intera al comunismo. Ne hanno bisogno indispensabile. Ma pensare non è come cagare, che a ogni animale viene spontaneo con l’esistenza. Pensare, pensare in modo scientifico, costruire una scienza è un mestiere, un’arte, un’attività che bisogna imparare per non partire sempre dai primi vagiti, in un eterno partire senza seguito. È un’attività che gli uomini hanno imparato a fare nel corso dei secoli, accumulando da una generazione all’altra strumenti e procedure. È un’attività che le classi dominanti limitano a pochi e fidati. Berlusconi e Moratti proclamano a gran voce e con arroganza che nelle scuole e nelle università bisogna insegnare una professione, ma non insegnare a pensare: ma era anche la linea del ministro Luigi Berlinguer & C. Non ci si improvvisa pensatori, si impara a pensare, si diventa pensatori, come si diventa compositori, scultori, ecc. ecc. Imparare a pensare è possibile. Tutti sono in grado di imparare a elaborare in concetti le proprie esperienze e la realtà percepita con i sensi, connettere i concetti in affermazioni usando la logica formale e formulare teorie generali usando la logica dialettica. È possibile come è stato possibile imparare a leggere, a scrivere e a far di conto, benché i preti sostenessero che era contro l’ordine delle cose stabilito da dio. Ma bisogna imparare, fare uno sforzo, da cui la borghesia e il clero distolgono per mille vie le masse popolari, che confinano in relazioni sociali in cui “non sono pagati per pensare, altri sono pagati per farlo!”.