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La Voce 45 del (nuovo)Partito comunista italiano

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Quale partito comunista?

Perché proponiamo ai nostri lettori di studiare oggi ancora una volta questo articolo pubblicato su La Voce del (n)PCI - n° 1 - marzo 1999, quindi ben prima che nel 2007-2008 entrassimo nella fase acuta e terminale della crisi generale del capitalismo?

1. Perché constatino che la concezione comunista del mondo (la scienza sperimentale della trasformazione della società capitalista nel comunismo) permette di capire il corso delle cose (la questione della situazione rivoluzionaria) e quindi si diano con più energia ad assimilarla per usarla come guida della loro attività nella GPR che stiamo conducendo.

2. Perché, confrontando con il presente quanto allora scritto dalla Commissione Preparatoria del congresso di fondazione del nuovo PCI, misurino il percorso fatto nella promozione della GPR e nella costruzione del suo Stato Maggiore, il partito comunista costruito dalla clandestinità e nella clandestinità e ne traggano lezioni per il cammino che dobbiamo fare in questi mesi.

Abbiamo corredato il vecchio articolo degli indirizzi Internet dove leggere o prendere i testi citati.

 

La settima discriminante

Quale partito comunista?

Un partito che sia all’altezza del compito che il procedere della seconda crisi generale del capitalismo e la conseguente situazione rivoluzionaria in sviluppo pongono ad esso e che tenga pienamente conto dell’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria

Una introduzione necessaria

Tra le Forze Soggettive della Rivoluzione Socialista (FSRS) operanti in Italia questa formula è stata posta al centro del dibattito sul partito già nel 1995, con l’opuscolo pubblicato dai CARC in occasione del centenario della morte di F. Engels.(1) Nel dibattito tra le FSRS nessuno ha contestato apertamente e direttamente questa formulazione. In realtà vi è però una divergenza che pesa nel lavoro che le FSRS conducono per la ricostruzione del partito comunista e nelle linee che lo guidano. La divergenza è stata ben espressa nel recente (15 novembre 1998) Coordinamento Nazionale (http://www.laltralombardia.it/public/docs/confed5.html) della CCA (Confederazione dei Comunisti/e Autorganizzati) da G. Riboldi che ha affermato: “Noi oggi non siamo in una situazione né rivoluzionaria, né prerivoluzionaria”. Questa sua affermazione è strettamente connessa al suo ripetuto richiamo, sempre nello stesso contesto (la relazione che ha presentato al Coordinamento), alla “stabilità di questo potere politico”, al “programma della stabilità capitalistica” che sarebbe impersonato dal governo D’Alema, al “processo di normalizzazione [che] rischia di affermarsi stabilmente in assenza di opposizione sociale che ne ostacoli la realizzazione”, alla “concertazione neocorporativa [che] rischia di funzionare regolarmente e di stabilizzarsi in assenza di soggetti politici e sindacali che rifiutano e combattono l’accettazione dei parametri economici, politici e istituzionali imposti dagli accordi di Maastricht”: in sintesi, alla stabilità che secondo GR hanno gli attuali regimi borghesi e l’assetto delle loro relazioni internazionali, stabilità che solo la lotta (delle classi o dei soggetti politici e sindacali: qui la differenza non ha importanza) potrebbe scuotere.

 

1. PCARC , F. Engels/10, 100, 1000 CARC per la ricostruzione del partito comunista, 1995, Edizioni Rapporti Sociali, pagg. 17 e segg. e pagg. 38 e segg.

http://www.carc.it/index.php?option=com_content&view=article&id=865

 

Il merito della relazione di GR è di aver posto nettamente e apertamente un’obiezione che in altri progetti, proposte e relazioni (ad esempio nella relazione presentata allo stesso Coordinamento da Leonardo Mazzei) è sottintesa o solo accennata di sfuggita. Facciamo quindi riferimento alla relazione di GR per esaminare anche le obiezioni di altri.

G. Riboldi fa alcune altre affermazioni preziose per questa analisi. Dice: “L’aspetto principale della fase ... non è solo la “crisi ideologica del riformismo”,(2) ma [anche] la “crisi economica del capitalismo” e l’accentuarsi delle contraddizioni dei poli imperialisti”. E ancora: “Sarebbe un errore credere che la crisi e il progressivo peggioramento delle condizioni di vita di per sé possono condurre a una mobilitazione rivoluzionaria delle masse”.

 

2. Di passaggio osserviamo che qualificare di ideologica la crisi del riformismo è sminuire l’importanza politica del fatto. Da quando a metà degli anni ‘70 è iniziata la seconda crisi generale del capitalismo, la borghesia sta eliminando una a una, pezzo a pezzo tutte le conquiste di civiltà e di benessere, sta cancellando o svuotando tutti i diritti che le masse popolari avevano strappato nel periodo precedente. Questa inversione di tendenza è un fatto pratico, è un processo che avviene nella realtà, non nelle coscienze. Non è venuta meno la fiducia nel riformismo, non si tratta di “aver cambiato idea”. Si tratta che la borghesia cancella quel tessuto di civiltà e di diffuso benessere che le masse avevano costruito e via via esteso (e che i revisionisti moderni assicuravano che sarebbe stato possibile estendere in continuazione: la linea delle “riforme di struttura” di Togliatti). Da qui ha origine la crisi del PCI, dei sindacati di regime e dello stesso regime DC.

Infatti l’egemonia del PCI sulle masse popolari non era principalmente basata sulle chiacchiere di Togliatti e di Berlinguer sulle “riforme di struttura” e sul “socialismo sotto l’ombrello della NATO”, ma sul fatto che sotto la direzione del PCI dal 1945 al 1975 le masse popolari italiane avevano strappato reali riforme. Queste reali riforme avevano anche dato stabilità al regime DC, perché avevano attenuato fino a quasi estinguerla la lotta della classe operaia per il potere. A partire dalla metà degli anni ‘70 la lotta politica in Italia è tra chi vuole eliminare le riforme e chi le vuole difendere, tra chi le difende a parole e chi le difende con accanimento, tra chi le difende in maniera inconseguente e chi le difende in maniera coerente. Classificare la svolta degli anni ‘70 come una svolta ideologica, è assolutamente sbagliato. Non sono le idee che sono andate in crisi, ma un regime politico, un corso pratico della società (quello del capitalismo dal volto umano).

Classificare come ideologica la crisi del riformismo vuol dire lasciare avvolto nel fumo anche il periodo precedente: non erano le parole e le idee del PCI sulle riforme ciò che gli ha permesso di mantenere la direzione del proletariato italiano, ma le effettive reali conquiste strappate sotto la sua direzione grazie alla forza acquisita dalle masse popolari nel precedente movimento rivoluzionario e alla forza del movimento comunista internazionale (a conferma che le riforme non sono il prodotto di un pensiero riformista, ma il sottoprodotto delle rivoluzioni mancate). Questo (non la religiosità degli italiani e l’influenza morale del Vaticano) era anche la base principale su cui fu possibile alla borghesia instaurare il regime DC (che aveva alla sua testa il Vaticano) e su cui poggiava la stabilità dello stesso regime.

Va da sé che quelle riforme erano frutto della lotta delle masse popolari: chi ha l’età necessaria, si ricorda le lotte, le dimostrazioni, gli scontri, i feriti, i caduti, la galera, i processi e il resto del corollario da cui nacquero le riforme (altro che pensiero riformista o piano del capitale per integrare le masse!). Quelle riforme erano però compatibili con il dominio della borghesia imperialista perché il capitalismo attraversava un periodo di ripresa dell’accumulazione e di espansione dell’apparato produttivo, per cui le lotte rivendicative erano produttive di riforme e conquiste, erano efficaci. Da qui è chiaro che il periodo del capitalismo dal volto umano (il periodo delle conquiste) era connesso con la ripresa e che la crisi del riformismo è connessa con la crisi economica del capitalismo, è un prodotto, un effetto di essa. 

La crisi del riformismo non è cioè un fenomeno accanto a un altro (la crisi economica del capitalismo). Vi è tra i due fenomeni una connessione dialettica (uno genera l’altro) il cui disconoscimento impedisce a G. Riboldi, e a quanti altri lo condividono, di comprendere il reale processo pratico in corso su cui si deve fondare ogni linea politica realistica. La stessa connessione dialettica esiste anche tra crisi economica del capitalismo e accentuarsi delle contraddizioni tra i gruppi imperialisti. La crisi economica è madre della crisi del riformismo (cioè della eliminazione delle riforme già strappate e della inconsistenza dei progetti e delle promesse di riforme) e dell’accentuarsi delle contraddizioni tra i gruppi imperialisti. Esse corrispondono ai due tipi di contraddizioni (tra borghesia imperialista e masse popolari e tra gruppi imperialisti) che la crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale rende antagoniste, in cui si esprime e che aggrava e aggraverà continuamente nel suo procedere fino a che dall’una o dall’altra delle due sorgerà il movimento che porrà fine alla crisi: la mobilitazione rivoluzionaria o la mobilitazione reazionaria delle masse.

Le relazioni presentate al Coordinamento Nazionale della CCA da cui attingiamo le citazioni sono pubblicate in nuova unità, n. 8/98. (http://www.laltralombardia.it/confed.html)

 

Osserviamo ora gli avvenimenti reali alla luce e con lo strumento del materialismo dialettico. La storia degli ultimi decenni mostra

- che da un certo periodo in qua, all’incirca dalla metà degli anni ‘70, il meccanismo della valorizzazione del capitale ha incominciato a perdere colpi;(3)

- che da qui sono nate l’eliminazione delle conquiste di benessere e di civiltà che le masse popolari avevano strappato nei trent’anni precedenti (“i gloriosi trenta” della pubblicistica borghese),(4) la ricolonizzazione dei paesi semicoloniali (piano Brady e simili) e lo sfruttamento della loro popolazione e delle loro risorse ambientali fino all’estinzione, il crollo (1989) e la devastazione dei paesi socialisti che il lungo dominio dei revisionisti moderni aveva reso economicamente, finanziariamente e culturalmente dipendenti dall’imperialismo, il gonfiarsi del capitale finanziario fino a sovrastare e schiacciare il capitale produttivo di merci (beni e servizi) (l’economia reale), la privatizzazione delle aziende pubbliche, l’eliminazione dei “lacci e lacciuoli” - le regole di salvaguardia del pubblico interesse,(5) la corsa alla costituzione di un numero ristretto (poche unità) di monopoli mondiali nei settori più importanti, le lotte sempre più aspre tra i gruppi imperialisti, la crescita delle differenze economiche tra paesi, regioni, gruppi e classi;

- che da qui è nata anche la crisi di tutti i regimi politici dei paesi imperialisti e del sistema delle loro relazioni internazionali (cioè la crisi politica);

- che da qui sono venute anche la crisi culturale che sconvolge miliardi di uomini da un capo all’altro del mondo, l’incertezza del futuro, l’insicurezza generale, la precarietà, la mancanza di stabilità, proprio di quella stabilità contro cui G. Riboldi e soci chiamano a lottare come Don Chisciotte chiamava a lottare contro i mulini a vento.(6)

 

3. Vedere in proposito Per il dibattito sulla causa e sulla natura della crisi attuale, in Rapporti Sociali n. 17/18, 1996 e Le fasi in cui si divide l’epoca imperialista, in Rapporti Sociali n. 12/13, 1992. (http://www.nuovopci.it/scritti/RS)

4. L’ultima conquista strappata dalle masse è stato l’accordo del 1975 tra Confindustria (presidente G. Agnelli) e Sindacati per il punto unico di contingenza che migliorò molto la dinamica dei salari più bassi. Di lì a poco subentrò la “linea dell’EUR” (1978).

Sulla eliminazione delle conquiste, vedere CARC, Le conquiste delle masse popolari, 1997, Edizioni Rapporti Sociali (http://www.carc.it/index.php?view=article&id=866) e G. Pelazza, Cronache di diritto del lavoro 1970-1990, Edizioni Rapporti Sociali. (http://www.carc.it/index.php?view=article&id=1157)

5. Vedere sulle Forme Antitetiche dell’Unità Sociale (FAUS), Rapporti Sociali n. 4, pagg. 20-25, 1989. (http://www.nuovopci.it/scritti/RS)

6. Sul carattere economico, politico e culturale della crisi in corso, vedere CARC, La situazione e i nostri compiti, 1994/1995, Edizioni Rapporti Sociali.

http://www.carc.it/index.php?view=category&id=104

7. Il movimento di resistenza delle masse popolari al procedere della crisi della società borghese e i compiti delle Forze Soggettive della Rivoluzione Socialista, in Rapporti Sociali n. 12/13, 1992. (http://www.nuovopci.it/scritti/RS)

 

Dove porta questo corso delle cose? Esso accentua la contraddizione tra borghesia imperialista e masse popolari e le contraddizioni tra i gruppi imperialisti. Le masse sono costrette a cercare nuove soluzioni ai loro problemi di vita e di lavoro, dato che la borghesia imperialista distrugge essa stessa (nei paesi imperialisti, nelle colonie, negli ex paesi socialisti) le vecchie soluzioni. Sono cioè costrette a mobilitarsi. Noi abbiamo dato un nome a questa mobilitazione delle masse indotta dalla crisi generale del capitalismo, l’abbiamo chiamata “resistenza delle masse popolari al procedere della crisi”.(7) Che la si chiami come si vuole. È però incontestabile che essa è il fattore politico più importante del presente, è il terreno su cui si danno battaglia tutte le classi, le forze e i gruppi che lottano per il potere. Quindi di per sé “la crisi e il progressivo peggioramento delle condizioni di vita non producono la mobilitazione rivoluzionaria delle masse”, come giustamente osserva GR che però omette di aggiungere che di per sé producono la mobilitazione delle masse che è il fattore principale e indispensabile della trasformazione della società e quindi la base oggettiva di ogni progetto politico realistico, di ogni progetto politico che non si riduca a declamazione e a vaniloquio. Non è forse vero? Chi ha generato e genera la migrazione di milioni di persone da un continente a un altro? Chi ha generato e genera la ribellione crescente di milioni di persone a questa “invasione”? Chi ha generato e genera l’abbandono delle organizzazioni di regime e delle istituzioni (elezioni, ecc.) del regime? Chi ha generato e genera l’esplosione di religioni, sette, volontariato, doppio e triplo lavoro, violenze gratuite, ecc.? Chi ha generato e genera quell’insieme di fenomeni che si riassumono nell’imbarbarimento: la malavita, l’esplosione della delinquenza giovanile, gli scandali, l’insofferenza, la “ingovernabilità delle metropoli”? Quindi la crisi generale produce di per sé la mobilitazione delle masse: non mobilitazione rivoluzionaria, ma mobilitazione!

La crisi, proprio perché è crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale, genera anche la lotta antagonista tra gruppi imperialisti perché ognuno deve valorizzare il suo capitale e il capitale accumulato è troppo e il plusvalore estorto ai lavoratori, per quanto grande e crescente, non basta a valorizzarlo tutto. Ogni capitalista per valorizzare il suo capitale oltre a spremere a morte i lavoratori deve anche “uccidere” un altro capitalista, deve appropriarsi del suo capitale. Questo rende antagonisti i contrasti tra gruppi imperialisti.

Queste tendenze che ognuno può constatare, creano forse stabilità? No, di per sé generano instabilità, sconvolgono regimi e relazioni tra classi, paesi, nazioni e Stati. Non è quello che avviene sotto i nostri occhi?

Ebbene, a questa situazione la cui comprensione nell’insieme e nei dettagli è essenziale per ogni attività politica autonoma (cioè che non sia a rimorchio e al servizio di altri che pensano e decidono al nostro posto), che nome diamo?

Noi la chiamiamo situazione rivoluzionaria in sviluppo.(8) È una situazione in cui i vecchi poteri crollano e crolleranno e altri poteri si affermeranno lottando e imponendosi ai loro avversari: come è avvenuto nel corso della prima crisi generale del capitalismo (1900-1945). In questa situazione la mobilitazione delle masse può diventare rivoluzionaria o diventare reazionaria, ma non una terza cosa!

 

8. La situazione rivoluzionaria in sviluppo, in Rapporti Sociali n. 9/10, 1991. (http://www.nuovopci.it/scritti/RS)

L’affermazione di G. Riboldi e altri “non siamo in una situazione rivoluzionaria né prerivoluzionaria” diventa meno fuori posto se intesa come “non siamo in una situazione insurrezionale né preinsurrezionale”: cosa che (a quanto pare) nessuno contesta. Ma così intesa l’affermazione di GR comporta una concezione schematica e ristretta del lavoro delle FSRS del tipo: “La rivoluzione si fa con l’insurrezione; finché non c’è l’insurrezione o non si è nell’imminenza dell’insurrezione, la politica rivoluzionaria si riduce a fare da “sponda politica” al lavoro sindacale, a sostenere, promuovere e organizzare le lotte rivendicative dei lavoratori e a sostenere le loro ragioni presso le autorità, nelle istituzioni”. Che è la concezione della politica rivoluzionaria che ha dato la triste dimostrazione della sua impotenza all’inizio di questo secolo, nei partiti della Seconda Internazionale e, per quel che ci riguarda, nel PSI e nel “biennio rosso” 1919-1920.

 

La mobilitazione delle masse, che la crisi generale produce di per sé, deve crescere sotto una direzione, non può crescere senza direzione: esiste e non può esistere che sotto una direzione. Quale sarà la direzione che effettivamente si affermerà in un caso concreto, non dipende dalla crisi, ma da altri fattori: come dire che ogni uccello a primavera fa il nido e lo deve appoggiare da qualche parte, ma che lo appoggi da una parte o dall’altra non dipende dalla primavera. Crescerà come mobilitazione rivoluzionaria, certamente non di per sé, non ineluttabilmente, ma solo se le FSRS, se il partito comunista della classe operaia (quindi le FSRS oggi e il partito comunista domani) saranno capaci di far prevalere in essa la direzione della classe operaia, rispetto a quella di tutti gli altri pretendenti (i gruppi imperialisti promotori della mobilitazione reazionaria), quindi se saranno capaci di trasformarla in lotta per il comunismo, in rivoluzione socialista. In caso contrario la mobilitazione delle masse crescerà come mobilitazione reazionaria, come mobilitazione delle masse diretta da qualche gruppo della borghesia imperialista che mobilita le masse nella sua lotta contro altri gruppi imperialisti che a loro volta mobilitano altre masse, cioè nelle guerre imperialiste in cui i gruppi imperialisti e i loro clienti scagliano le masse le une contro le altre.(9) È stato anche dimostrato dalla pratica, ed è comprensibile anche teoricamente, che la mobilitazione reazionaria può essere trasformata in mobilitazione rivoluzionaria e viceversa. Nel giugno-luglio 1919 la piccola borghesia urbana italiana portava le chiavi dei negozi alle Camere del lavoro, la stessa piccola borghesia urbana due anni dopo forniva reclute alle squadre fasciste che davano la caccia agli operai. Viceversa i soldati che nel 1940 avevano applaudito Mussolini che li chiamava alla guerra, nel 1944 gli davano la caccia come partigiani. La storia della prima crisi generale è folta di trasformazioni di questo genere.

 

9. Le mille guerre nazionalistiche, interetniche, ecc. che imperversano dall’Europa all’Asia sono per la maggior parte un esempio di queste guerre che i gruppi imperialisti conducono tra loro mobilitando ognuno masse al suo seguito e facendo a tale fine leva su uno dei mille contrasti e differenze (nazionali, economiche, religiose, ecc.) che la storia ci lascia in eredità. Sulla natura della mobilitazione reazionaria, v. Rapporti Sociali n. 12/13 pagg. 25-31. (http://www.nuovopci.it/scritti/RS)

 

Ma come possono le FSRS essere capaci di far crescere la mobilitazione delle masse (la resistenza che le masse oppongono al procedere della crisi generale del capitalismo) come mobilitazione rivoluzionaria (cioè come lotta per il comunismo, come rivoluzione socialista), se neanche si accorgono di questa mobilitazione che cresce di per sé, se continuano a fare i loro chiacchiericci senza rendersi conto di questa esplosione in arrivo, di questa colata lavica che va montando? Che cosa significa il fatto che un autorevole esponente di una FSRS nasconde dietro la negazione di una tesi (la tesi che la crisi produce di per sé mobilitazione rivoluzionaria delle masse) che, a quanto risulta, nessuno sostiene, il suo silenzio su una tesi (la crisi produce di per sé mobilitazione delle masse) che, se è vera come lo è, in questa fase sta alla base di tutta l’attività politica rivoluzionaria consapevole, di ogni progetto realistico di politica rivoluzionaria? Stante che la crisi effettivamente in corso fa mobilitare le masse, ogni piano di politica rivoluzionaria, ogni concezione del divenire della società, ogni concezione della rivoluzione socialista che non sono lavoro per far diventare rivoluzionaria la reale mobilitazione delle masse, quella che effettivamente si sviluppa, ogni progetto di creare un altro tipo di rivoluzione socialista sono un proposito sciocco, uno sterile gioco intellettuale e una dispersione di forze.

Il ragionamento di GR in sintesi è: “La crisi non produce di per sé la mobilitazione rivoluzionaria delle masse, quindi non ha senso occuparsi della mobilitazione delle masse che la crisi di per sé produce e di cosa dobbiamo fare per farla diventare rivoluzionaria. Passiamo quindi a parlare d’altro”.

Proprio al contrario, le FSRS devono studiare con la massima cura la reale mobilitazione delle masse che la crisi produce di per sé, questa colata lavica che monta; devono scoprire le leggi dello sviluppo della resistenza delle masse al procedere della crisi generale del capitalismo; devono far leva sulle tendenze positive presenti in questa resistenza per far prevalere in essa la direzione della classe operaia, cioè per trasformarla in lotta per il comunismo.

Noi dobbiamo costituire un partito comunista che sia in grado di adempiere a questo compito, perché questo e non altro è il compito che gli sta di fronte.

Per chiunque vede la reale connessione tra crisi economica per sovrapproduzione assoluta di capitale, crisi generale (economica, politica e culturale), lotte tra gruppi imperialisti, crisi del riformismo (delle politiche riformiste, dei riformisti, degli illusionisti delle riforme) e mobilitazione delle masse, per costui è quindi chiaro che la classe operaia, il proletariato, le masse popolari, la causa del comunismo hanno bisogno di un partito che sia all’altezza del compito che il procedere della seconda crisi generale del capitalismo e la conseguente situazione rivoluzionaria in sviluppo pongono ad esso e che tenga pienamente conto dell’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria, perché siamo proprio in una situazione rivoluzionaria in sviluppo, una situazione di grande instabilità e precarietà degli attuali regimi politici borghesi, che va di per sé verso la mobilitazione delle masse che sarà rivoluzionaria o reazionaria a secondo della capacità delle forze politiche di capire e applicare a proprio vantaggio le sue leggi di sviluppo.

La seconda crisi generale genera di per sé un periodo di guerre e di rivoluzioni. Quali guerre, quali rivoluzioni, con quali esiti provvisori, con quale esito finale? Questo lo “deciderà” lo scontro tra la mobilitazione rivoluzionaria che le FSRS oggi e il partito comunista domani promuoveranno e la mobilitazione reazionaria che vari gruppi imperialisti a loro volta e in concorrenza tra loro promuoveranno.

Ma è chiaro che non abbiamo bisogno di un partito comunista che si qualifichi principalmente come “sponda politica” del “sindacato di classe” (per riprendere un’altra affermazione di G. Riboldi), ma di un partito comunista promotore, organizzatore e dirigente della mobilitazione delle masse popolari, che solo così diventa mobilitazione rivoluzionaria, cioè lotta per la conquista del potere da parte della classe operaia e per l’instaurazione del socialismo.

 

Posto questo, sono tre le questioni che ne derivano.

1. Cosa significa in concreto, nella nostra situazione, un partito che sia all’altezza del compito che il procedere della seconda crisi generale del capitalismo e la conseguente situazione rivoluzionaria in sviluppo pongono ad esso?

2. Cosa insegna al riguardo l’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria (1900-1945)?

3. Quali sono le caratteristiche che rendono un partito quale lo vogliamo?

Ogni compagno che si pone responsabilmente e concretamente il compito di ricostruire il partito comunista si pone queste tre domande. Ogni compagno ha cercato e cerca di dare ad esse delle risposte. Ricavandole da dove? Dalle sue credenze, dai suoi pregiudizi, dalla cultura correntemente diffusa dalle università, dai centri studi, dalle fondazioni, dalle case editrici, dalle riviste di prestigio, dai giornalisti ben pagati, insomma dalla macchina ideologica della classe dominante? No, le ricava dalla esperienza passata e presente del movimento comunista internazionale e del nostro paese e dalle condizioni della lotta di classe che si svolge nel nostro paese, studiando ed elaborando quelle esperienze con gli strumenti forniti dal patrimonio teorico del movimento comunista internazionale che è sintetizzato nel marxismo-leninismo-maoismo. Può darsi che questo scandalizzi alcuni critici accaniti del “pensiero unico” della borghesia imperialista che però ad esso si rifanno ogni volta che devono pensare qualcosa. Ma questa è la strada che noi seguiamo.

Noi vogliamo essere materialisti dialettici, comunisti, rivoluzionari proletari. Quindi le nostre risposte sono criteri che ci guideranno nella nostra azione, sottoposti alla verifica della realtà. Facciamo il bilancio delle esperienze, raccogliamo ed elaboriamo le esperienze, le sensazioni, le aspirazioni sparse, diffuse e confuse delle masse che sono effetto della vita che esse conducono e quindi rivelatrici (indizi) del reale corso delle cose, traduciamo tutto ciò in una linea che riportiamo alle masse perché diventi guida nell’azione. Dai risultati di questa azione ripartiremo per ripetere il processo, elaborare una linea più giusta e più conforme alle leggi oggettive del movimento della società, della lotta tra le classi sfruttate e la borghesia imperialista. Il successo nella pratica è, in definitiva, il criterio della verità di ogni nostra linea e di ogni nostra idea.

 

In questo articolo vogliamo dimostrare che l’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria e l’analisi della società attuale insegnano concordemente tre cose.

- 1. Che la rivoluzione proletaria che dobbiamo e possiamo fare ha la forma della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata.

- 2. Che il nuovo partito comunista deve essere costruito in modo da essere la direzione della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata che in maniera confusa e dispersa si sta già sviluppando sotto i nostri occhi, onde renderla una guerra che le masse popolari conducono in modo via via più organizzato, prendendo l’iniziativa nelle loro mani, sotto la direzione lungimirante e capace della classe operaia organizzata nel suo partito comunista, ponendosi l’obiettivo della vittoria e dell’instaurazione del socialismo (passando insomma da una guerra che ora le masse subiscono difendendosi alla meno peggio e in ordine sparso, a una guerra che conducono come si deve condurla per vincere).

- 3. Che esso deve essere costruito dalla clandestinità, come partito che non basa la sua esistenza sul margine di libertà di azione politica che la borghesia imperialista reputa le convenga consentire alle masse popolari, ma sulla sua capacità di esistere e di operare nonostante i tentativi della borghesia di eliminarlo e che da qui sfrutta al massimo anche quel margine per la sua azione: solo dalla clandestinità il partito è in grado di raccogliere le forze rivoluzionarie che il corso della lotta tra le classi gradualmente genera, di dirigerle a educarsi alla lotta lottando e di accumularle fino a rovesciare l’iniziale sfavorevole rapporto di forza.

Illustriamo in questo articolo le risposte che noi diamo alle domande sopra indicate. Pubblicheremo via via nei prossimi numeri della rivista le risposte che altri compagni daranno ad esse, in modo da raccogliere e poterci giovare nel lavoro che ci sta davanti, del massimo dell’esperienza e della elaborazione attualmente disponibile. Le idee giuste vengono verificate dalla pratica e arricchite dal bilancio delle esperienze; nel bilancio delle esperienze le idee giuste si affermano contro le idee sbagliate: per questo sono indispensabili i dibattiti e le lotte ideologiche.

Sulla forma della rivoluzione proletaria

Incominceremo dalla forma della rivoluzione proletaria, dal modo in cui la classe operaia prepara e attua la conquista del potere, da cui parte poi la trasformazione socialista della società.(10)

Alla fine del secolo scorso, cioè all’inizio dell’epoca imperialista del capitalismo, i partiti socialdemocratici nei paesi più avanzati avevano già compiuto la loro opera storica di costituire la classe operaia come classe politicamente autonoma dalle altre. Avevano posto fine all’epoca in cui molte persone di talento o inette, oneste o disoneste, attratte dalla lotta per la libertà politica, dalla lotta contro il potere assoluto dei re, della polizia e dei preti, non vedevano il contrasto fra gli interessi della borghesia e quelli del proletariato. Quelle persone non concepivano neanche lontanamente che gli operai potessero essi stessi agire come una forza sociale autonoma. I partiti socialdemocratici avevano posto fine all’epoca in cui molti sognatori, a volte geniali, pensavano che sarebbe bastato convincere i governanti e le classi dominanti dell’ingiustizia e della precarietà dell’ordine sociale esistente per stabilire con facilità sulla terra la pace e il benessere universali. Essi sognavano di realizzare il socialismo senza lotta della classe operaia contro la borghesia imperialista. I partiti socialdemocratici avevano posto fine all’epoca in cui quasi tutti i socialisti e in generale gli amici della classe operaia vedevano nel proletariato solo una piaga sociale e constatavano con spavento come, con lo sviluppo dell’industria, si sviluppava anche questa piaga. Perciò pensavano al modo di frenare lo sviluppo dell’industria e del proletariato, di fermare la “ruota della storia”.(11) Grazie alla direzione di Marx ed Engels i partiti socialdemocratici avevano invece creato nei paesi più avanzati un movimento politico, con alla testa la classe operaia, che riponeva le sue fortune proprio nella crescita del proletariato e nella sua lotta per l’instaurazione del socialismo e la trasformazione socialista dell’intera società. Iniziava l’epoca della rivoluzione proletaria.(12) Il movimento politico della classe operaia era il lato soggettivo, sovrastrutturale della maturazione delle condizioni della rivoluzione proletaria, mentre il passaggio del capitalismo alla sua fase imperialista ne era il lato oggettivo, strutturale.

 

10. Sulla forma della rivoluzione socialista, vedere pagg. 14-15 e pagg. 38-44 di CARC, F. Engels/10, 100, 1000 CARC per la ricostruzione del partito comunista, 1995, Edizioni Rapporti Sociali.

http://www.carc.it/index.php?view=article&id=865

11. Su questi temi vedere F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, 1882, Edizioni Rapporti Sociali.

http://marxists.anu.edu.au/italiano/marx-engels/1880/evoluzione

12. Lenin, Friedrich Engels, 1895, in Opere complete, vol. 2.

http://www.marxists.org/italiano/lenin/1895/biogra-e.htm

 

La classe operaia aveva già compiuto alcuni tentativi di impadronirsi del potere: in Francia nel 1848-50 (13) e nel 1871 con la Comune di Parigi,(14) in Germania con la partecipazione su grande scala alle elezioni politiche.(15) Era ormai possibile e necessario capire come la classe operaia sarebbe riuscita a prendere nelle sue mani il potere e avviare la trasformazione socialista della società. Erano riunite le condizioni per affrontare il problema della forma della rivoluzione proletaria. Nel 1895, nella Introduzione alla ristampa degli articoli di K. Marx Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, F. Engels (http://www.nuovopci.it/classic/marxengels/prlotfra.html) fece il bilancio delle esperienze fino allora compiute dalla classe operaia ed espresse chiaramente la tesi che “la rivoluzione proletaria non ha la forma di un’insurrezione delle masse popolari che rovescia il governo esistente e nel corso della quale i comunisti, che partecipano ad essa assieme agli altri partiti, prendono il potere”. La rivoluzione proletaria ha la forma di un accumulo graduale delle forze attorno al partito comunista, fino ad invertire il rapporto di forza: la classe operaia deve preparare fino ad un certo punto “già all’interno della società borghese gli strumenti e le condizioni del suo potere”. Lo sviluppo delle rivoluzioni nel nostro secolo ha confermato, precisato e arricchito la tesi di F. Engels.(16)

 

13. K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, 1850, in Opere, vol. 10.

http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1850/lottecf/

14. K. Marx, La guerra civile in Francia, 1871 e F. Engels, Introduzione, 1891. http://marxists.anu.edu.au/italiano/
marx-engels/1871/gcf/introduzioneengels.htm

15. F. Engels, Introduzione a “K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850”, 1895, in Opere, vol. 10.

http://www.nuovopci.it/classic/marxengels/prlotfra.html

16. I revisionisti dell’inizio del secolo (E. Bernstein & C) e i revisionisti moderni (Kruscev, Togliatti, ecc.) hanno cercato ripetutamente di “tirare dalla loro parte” l’Introduzione del 1895 di Engels. “Accumulo graduale delle forze rivoluzionarie all’interno della società borghese? Certo! Ecco i nostri gruppi parlamentari sempre più numerosi, abili, influenti e ascoltati dal governo, i nostri voti in crescita di elezione in elezione, i nostri sindacati cui sono iscritti milioni di lavoratori e che ministri e industriali ascoltano e interpellano con rispetto, le nostre floride cooperative, le nostre buone case editrici, i nostri giornali e periodici ad alta tiratura, le nostre manifestazioni d’ogni genere sempre affollate, le nostre associazioni culturali che raccolgono il fior fiore dell’intelligenza del paese, la nostra vasta rete di contatti e di presenze in posti che contano, il nostro seguito in tutte le categorie. Ecco l’accumulo delle forze rivoluzionarie che ci rende capaci di governare!”.

È una grande violenza far dire queste cose a Engels che, pur non avendo visto tutto quello che è successo nel secolo XX, aveva messo in guardia dal farsi illusioni, aveva avvertito che la progressione elettorale del partito socialdemocratico tedesco, segno del progresso del socialismo nella classe operaia tedesca e della sua crescente egemonia sulle masse popolari, non sarebbe continuata all’infinito, aveva avvertito che la borghesia avrebbe “sovvertito la sua stessa legalità” quando questa l’avrebbe messa in difficoltà.

Ma il problema principale non è “quello che Engels ha veramente detto”. Il problema principale è che i fatti, la realtà, gli avvenimenti hanno ripetutamente dimostrato che quelle forze accumulate di cui parlano i revisionisti si sono sciolte come neve al sole in ogni scontro acuto e crisi acuta della società che hanno posto all’ordine del giorno la conquista del potere, in ogni caso in cui erano dirette dai revisionisti ed erano le sole o le principali “forze rivoluzionarie” che la classe operaia aveva accumulato (basti richiamare l’Italia del 1919-1920, la Germania del 1914 e del 1933, l’Indonesia del 1966, il Cile del 1973). Esse hanno potuto servire allo scopo solo quando erano le propaggini legali, il braccio legale di un partito e di una classe operaia che veniva altrimenti accumulando le vere e decisive forze rivoluzionarie (basti citare la Russia del 1917).

 

Il processo della rivoluzione socialista è complesso, ha le sue leggi, si svolge nel corso di un certo tempo.

Chi dice che la classe operaia non può vincere, rovesciare la borghesia imperialista e prendere il potere, sbaglia (i pessimisti e gli opportunisti sbagliano). I successi raggiunti dal movimento comunista nella prima ondata della rivoluzione proletaria (1914-1949) hanno confermato praticamente ciò che Marx ed Engels avevano dedotto teoricamente dall’analisi della società borghese.

Chi dice che la classe operaia può facilmente e in breve tempo vincere, rovesciare la borghesia imperialista e prendere il potere, sbaglia (gli avventuristi sbagliano: da noi abbiamo visto all’opera i soggettivisti e i militaristi). Le sconfitte subite dal movimento comunista nella prima ondata della rivoluzione proletaria (tra cui in Italia quella del “biennio rosso” 1919-1920 di cui ricorre quest’anno lo 80° anniversario), le rovine prodotte dal revisionismo moderno dopo che negli anni ‘50 ha preso la direzione del movimento comunista e la sconfitta subita in Italia dalle Brigate Rosse all’inizio degli anni ‘80 hanno confermato praticamente anche questa tesi.

La classe operaia può vincere, rovesciare la borghesia imperialista e prendere il potere, ma attraverso un lungo periodo di apprendistato, di dure lotte, di lotte dei tipi più svariati e di accumulazione di ogni genere di forze rivoluzionarie, nel corso del processo di guerre civili e di guerre imperialiste che durante la crisi generale del capitalismo comunque (inevitabilmente, indipendentemente dalle teorie e dalle decisioni di uomini e partiti) sconvolgono il mondo fino a trasformarlo. Per condurre con successo questa lotta, per ridurre gli errori che si compiono, bisogna capire la natura del processo, le contraddizioni che lo determinano, le leggi secondo cui si sviluppa.

Non per nostra scelta ma per le caratteristiche proprie del capitalismo, il processo di sviluppo dell’umanità si è posto in questi termini: o guerre tra masse popolari dirette da gruppi imperialisti o guerre tra classe operaia e borghesia imperialista. È un dato di fatto, un fatto a cui non possiamo sfuggire per forza dei nostri desideri o della nostra volontà se non ponendo fine all’epoca dell’imperialismo;(17) è un fatto reso evidente dallo studio dei 100 anni dell’epoca imperialista già trascorsi e dallo studio delle tendenze attuali della società. La situazione è resa ancora più complessa dal fatto che nella sua guerra contro la borghesia imperialista la classe operaia deve sfruttare le contraddizioni tra gruppi imperialisti. I due tipi di guerre (la guerra della classe operaia contro la borghesia imperialista e le guerre tra gruppi imperialisti) in sostanza si sviluppano entrambi e si intrecciano.(18) Il problema è quale prevale. I comunisti devono fare in modo che gli antagonisti nella guerra siano la classe operaia e la borghesia imperialista in modo che alla sua conclusione la classe operaia emerga come nuova classe dirigente, come la classe che ha vinto la guerra. D’altra parte devono condurre la guerra in modo tale che i gruppi imperialisti si azzuffino tra loro onde non uniscano e concentrino le loro forze, all’inizio prevalenti, contro la classe operaia. Questo è un problema della relazione tra strategia e tattica nella rivoluzione proletaria.

 

17. Non è un caso che ripetutamente si vedono pacifisti dichiarati diventare nel corso degli avvenimenti fautori della guerra. Clamoroso il caso di A. Sofri che divenne fautore dell’intervento militare degli imperialisti USA ed europei nei Balcani. Le cose procedono nonostante le volontà dei pacifisti e diventano tali che essi o si schierano contro la causa (l’imperialismo) che determina il corso delle cose o si schierano con una delle parti in guerra, giustificando in qualche modo il venir meno del loro pacifismo.

Il loro pacifismo non può trasformare il corso delle cose e quindi è il corso delle cose che trasforma il loro pacifismo. Il pacifismo non è una “terza via”. In alcuni è uno stadio transitorio verso lo schieramento nella guerra, per altri è una politica per impedire che le masse popolari prendano le armi contro la borghesia imperialista: predicano il disarmo e la pace alle masse che non hanno armi in modo da lasciare libero il campo d’azione alla borghesia imperialista che è armata fino ai denti e continua ad armarsi. Esponente tipico di questa seconda specie di “pacifismo” è Papa Woityla.

18. Esemplare al riguardo fu la Seconda guerra mondiale. Essa fu contemporaneamente guerra tra gruppi imperialisti e guerra tra classe operaia e borghesia imperialista. La contraddizione tra i due aspetti ha caratterizzato la natura, l’andamento e l’esito della Seconda guerra mondiale. Tra quelli che non comprendono questa contraddizione o per opportunità politica la negano, alcuni pongono unilateralmente un aspetto (guerra interimperialista), altri l’altro (guerra di classe), gli uni e gli altri facendo a pugni con i fatti e impelagandosi in un intrico di contraddizioni logiche da cui non riescono a uscire.

Su questa contraddizione che caratterizza la Seconda guerra mondiale, vedere l’articolo di M. Martinengo Il movimento politico degli anni trenta in Europa, in Rapporti Sociali n. 21, 1999. (http://www.nuovopci.it/scritti/RS)

Vedere anche Un libro e alcune lezioni di Umberto C. in La Voce n. 24 (novembre 2006). http://www.nuovopci.it/voce/voce24/librlez.html

 

In contrasto con la tesi di Engels (che la classe operaia può arrivare alla conquista del potere solo attraverso un graduale accumulo delle forze rivoluzionarie), alcuni presentano la rivoluzione russa del 1917 come un’insurrezione popolare (“assalto al Palazzo d’Inverno”) nel corso della quale i bolscevichi hanno preso il potere. In realtà l’instaurazione del governo sovietico nel novembre del 1917

1. è stata preceduta da un lavoro sistematico di accumulazione delle forze diretto dal partito che a partire dal 1903 si era costituito come forza politica libera, che esisteva e operava con continuità in vista della conquista del potere nonostante che l’avversario mirasse a distruggerla e quindi come forza politica indistruttibile dall’avversario;

2. è stata preceduta dal lavoro più specifico fatto tra il febbraio e l’ottobre 1917;

3. è stata seguita da una guerra civile e contro l’aggressione imperialista conclusa nel 1921 e conclusa solo in un certo senso perché lo sforzo della borghesia imperialista per soffocare l’Unione Sovietica è proseguito nelle lunghe e molteplici manovre antisovietiche degli anni ‘20 e ‘30 e nell’aggressione nazista del 1941-1945.

La rivoluzione russa del 1905 quella sì aveva avuto più la forma di un’esplosione popolare non preceduta dall’accumulo delle forze attorno al partito comunista; ma non a caso non aveva portato alla vittoria.(19)

 

19. Lenin, Rapporto sulla rivoluzione del 1905, 22.1.1917, in Opere complete, vol. 23. http://www.nuovopci.it/classic/lenin/raprivol.htm

 

Una conferma esemplare della giustezza e della profondità della teoria di Engels è data dalla storia del “biennio rosso” (1919-1920) in Italia. La mancata accumulazione delle forze rivoluzionarie nel periodo precedente, la “insufficienza rivoluzionaria” del PSI come venne chiamata, impedirono di trasformare in rivoluzione socialista la mobilitazione delle masse che pure erano in larga misura orientate dal PSI (aderente alla Internazionale Comunista) e dalla Rivoluzione d’Ottobre e nelle quali molti erano gli uomini che nel corso della Prima guerra mondiale, appena finita, erano stati addestrati all’uso delle armi e alla guerra.

Alcuni sostengono che la colpa del mancato successo va attribuita ai capi riformisti (Turati, Treves, Modigliani, D’Aragona, ecc.) presenti nel PSI e alla testa della CGL. Altri sostengono che in generale mancarono i capi rivoluzionari. Altri ancora sostengono che la mobilitazione delle masse non era sufficientemente ampia e rivoluzionaria ... da poter fare a meno di capi.

Il problema è un altro.

Il movimento socialista e sindacale italiano si era sviluppato solo nei campi parlamentare, sindacale, cooperativo ed educativo. Gran parte dei partiti della Seconda Internazionale avevano di fatto ridotto il loro lavoro socialista a questi soli campi. I revisionisti e i riformisti avevano addirittura rivendicato e giustificato teoricamente questa limitazione. Il movimento italiano non si era distinto dal grosso della Seconda Internazionale. Negli altri campi aveva fatto solo magniloquenti dichiarazioni e appelli e alimentato generose aspirazioni, ma nulla di più.

Era un movimento capace di moltiplicare e migliorare i voti nelle elezioni, il numero dei rappresentanti eletti, i periodici, le cooperative, le organizzazioni sindacali, le associazioni culturali, ecc. ma incapace di avere anche un solo distaccamento di uomini armati o alcuni degli altri strumenti di potere di cui la classe dominante si avvale per il suo dominio e di cui tutela per legge il monopolio. Tutto il movimento socialista e sindacale italiano era ricco di esperienze nelle lotte rivendicative e nelle iniziative consentite dalla legge dello Stato borghese, ma incapace di accumulare qualsiasi esperienza nei campi di cui la classe dominante si riservava il monopolio. Esso fuoriusciva dai limiti delle leggi dello Stato borghese solo per iniziative episodiche, estemporanee, istintive e circoscritte, nei tumulti e negli scontri di piazza prodotti dall’indignazione delle masse o dalle provocazioni delle forze della repressione, episodi che coinvolgevano parti più o meno ampie del movimento socialista, ma a cui restava estranea la sua direzione che così non veniva educata a svolgere il suo compito specifico né sul piano strategico né sul piano tattico. I riformisti non volevano la rivoluzione e cercavano di evitarla con tutte le loro forze e i massimalisti (G. Menotti Serrati, ecc.) non sapevano cosa fare per passare dalla rivendicazione alla rivoluzione e più volte si mostrarono disposti a farsi da parte. Ma neanche i comunisti (Gramsci, Bordiga, Terracini, Tasca, ecc.) sapevano cosa fare. Questi alimentavano e spingevano avanti il movimento delle masse e chiedevano che “il partito”, che essi non dirigevano né cercavano di dirigere, desse il via a una rivoluzione di cui nessuno aveva mai pensato e tanto meno sperimentato i passaggi attraverso i quali doveva svolgersi e di cui nessuno aveva approntato gli strumenti.(20) Quando nella riunione del 9-10 settembre 1920 a Milano della Direzione del PSI e del Consiglio Generale della CGL venne chiesto a Tasca e a Togliatti (che vi partecipavano come rappresentanti degli operai torinesi che occupavano le fabbriche) se i torinesi erano in grado di incominciare con una sortita offensiva dalle fabbriche, essi dovettero convenire che no, non erano in grado. In modo analogo erano andate le cose anche durante lo sciopero generale e la serrata nell’aprile 1920 quando al Consiglio Nazionale del PSI riunito a Milano il 20-21 aprile come portavoce degli operai torinesi avevano partecipato Tasca e Terracini. Più volte negli anni successivi A. Gramsci dovette riconoscere che essi non erano in alcun modo preparati a una offensiva che avesse probabilità di successo, non sapevano da dove incominciare un’azione per la conquista del potere e chiedevano ... che lo facesse “il partito”.

 

20. Da notare che gli stessi erano invece sicuramente sperimentati e capaci di predisporre un piano per uno sciopero generale, per la fondazione di una cooperativa, per organizzare una casa editrice, per condurre una campagna elettorale, ecc. Insomma per tutti quei campi in cui si era svolta fino allora l’attività del movimento socialista e sindacale italiano e quella di gran parte dei partiti della Seconda Internazionale.

 

Tutto il movimento socialista italiano si connotava da una parte per l’estremismo e il massimalismo sul piano tattico, nelle iniziative singole spesso frutto dell’improvvisazione e dell’indignazione di individui e gruppi a cui il partito non dedicava né addestramento pratico né orientamento politico e ideologico e tanto meno direzione e dall’altra parte per il riformismo nella strategia per cui gli obiettivi generali del movimento si configuravano sempre come richieste che la direzione rivolgeva al governo o allo Stato borghesi che per loro natura né volevano né potevano soddisfarle.

Non vi erano nel PSI alcuna iniziativa di partito né alcuna direzione relativa all’armamento e all’addestramento all’uso delle armi e ad operazioni militari: tutto quanto fu fatto sul piano dell’armamento era frutto di iniziative individuali e l’addestramento o era frutto di iniziative individuali o derivava dal servizio militare che i lavoratori prestavano nelle forze armate della borghesia: ciò tra l’altro comportava che il partito non svolgeva alcuna elaborazione di concezioni militari tattiche e strategiche appropriate al carattere della classe operaia e delle altre classi popolari, distinte da quelle della borghesia e derivate dall’elaborazione della esperienza militare che le masse facevano nel corso dei tumulti, delle rivolte, degli scontri di strada.

Giova infine ricordare che entrambe le maggiori prove di forza del biennio (lo sciopero di aprile e l’occupazione di settembre 1920) iniziarono per iniziativa dei padroni e che la risposta alla loro iniziativa venne decisa dagli organismi dirigenti della FIOM, a conferma della impreparazione del PSI a ogni azione rivoluzionaria.(21)

 

21. Vedere in proposito: le due lettere (10 gennaio e 2 aprile 1924) di A. Gramsci a Z. Zini pubblicate in Rinascita n. 17, 25 aprile 1964; il capitolo 6 della Storia del Partito comunista italiano di P. Spriano vol. 1; i capitoli 14 e 15 di R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione.

 

La mancanza di una accumulazione delle forze rivoluzionarie, di un processo nel corso del quale la classe operaia avesse preparato fino ad un certo punto già all’interno della società borghese gli strumenti e le condizioni del suo potere, risalta evidente come causa della sconfitta anche nelle rivoluzioni tedesca, austriaca, finlandese, ungherese del 1918-1919: rivoluzioni popolari che portano alla dissoluzione del vecchio Stato, ma non portano all’instaurazione di un nuovo Stato fino a quando non lo fa la borghesia. Lo stesso confermano le vicende delle altre acute crisi politiche (Polonia, Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Turchia, USA, Inghilterra, Francia, ecc.) che segnano la fine della Prima guerra mondiale e gli anni immediatamente successivi.

Anche la successiva storia europea di questo secolo conferma l’indicazione di Engels. Fondamentalmente è la storia della guerra tra classe operaia e borghesia imperialista. Tutte le crisi politiche borghesi e i contrasti tra gruppi e Stati imperialisti sono condizionati da questa guerra sottostante. Ma i partiti comunisti non affrontano la situazione in questi termini.

Negli anni ‘30 e ‘40 “meglio Hitler che i comunisti” fu la parola d’ordine dei gruppi imperialisti francesi di fronte al sorgere del nazismo in Germania e alla sua espansione in Spagna, in Cecoslovacchia, ecc. “Meglio Hitler che il bolscevismo”, “meglio i giapponesi che i comunisti” fu la regola dei gruppi imperialisti inglesi e americani. Lo schieramento degli “Stati democratici” (USA, Inghilterra, Francia) contro il governo repubblicano durante la guerra civile spagnola (1936-1939) fu determinato dallo stesso motivo.

La borghesia imperialista infine, nonostante la guerra in corso tra gruppi imperialisti, condusse la Seconda guerra mondiale in funzione anticomunista, con l’obiettivo di stroncare il movimento comunista in Europa e il movimento antimperialista di liberazione nazionale nelle colonie e nelle semicolonie e di soffocare l’Unione Sovietica. Strategicamente la contraddizione tra la borghesia imperialista e la classe operaia era antagonista, la contraddizione tra gruppi imperialisti era secondaria benché anch’essa antagonista. Sul piano tattico il rapporto tra le due contraddizioni fu variabile durante l’intera Seconda guerra mondiale.

Se cerchiamo oggi una risposta alla domanda: “Perché durante la prima crisi generale del capitalismo i partiti comunisti dei paesi imperialisti non sono riusciti a guidare le masse popolari fino alla conquista del potere e all’instaurazione del socialismo?”, la risposta che ci viene dal bilancio dell’esperienza è: “Perché non compresero che la forma della rivoluzione socialista era la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata”. A causa di questa incomprensione essi o dispersero le loro forze in insurrezioni sconfitte (Amburgo - ottobre 1923, Tallin - dicembre 1924, Canton - dicembre 1926, Shangai - ottobre 1926, febbraio 1927, marzo 1927) o subirono l’iniziativa della borghesia e le sue provocazioni (Germania 1919, Ungheria 1919, Italia 1920, Austria 1934, Asturie 1934) o ebbero una linea incerta e contraddittoria (Germania 1933, Spagna 1936-1939, Francia 1936-1939).

I limiti dei partiti comunisti nei paesi imperialisti durante la prima crisi generale (1900-1945) in sintesi si riducono alla incomprensione della forma della rivoluzione socialista, a non aver compreso (e tradotto in azione politica la comprensione) che la guerra civile tra classe operaia e borghesia imperialista era la forma principale assunta dalla lotta di classe in quegli anni. I partiti comunisti dei paesi imperialisti non si posero mai su questo terreno come loro terreno strategico principale, dal quale e in funzione del quale sviluppare tutto il loro lavoro, anche quello pacifico e legale. Affrontarono con forza e con eroismo la clandestinità e la guerra quando l’avversario le impose (in Italia e in Jugoslavia nel 1926, in Portogallo nel 1933, in Germania nel 1933, ecc.), ma come un evento straordinario, una pausa in un processo che “doveva” svolgersi altrimenti. Allora anche i comunisti ritenevano che la rivoluzione proletaria assumeva la forma principale della guerra nelle colonie e nelle semicolonie, non nei “civili” paesi imperialisti, benché la borghesia nei “civili” paesi imperialisti avesse a più riprese mostrato che era capace di radere al suolo città e paesi, di passare per le armi decine di migliaia di uomini disarmati (a Parigi nel 1871 le forze reazionarie dopo la resa avevano passato per le armi circa 30.000 comunardi o supposti tali), di ricorrere a ogni mezzo pur di conservare il proprio potere, di preferire l’occupazione straniera (“meglio Hitler che il comunismo”) al potere della classe operaia. La storia della Francia nel 1935-1940 è esemplare. Eppure J. Duclos, uno dei maggiori esponenti del PCF di quegli anni assieme a M. Thorez, riassume così i compiti del partito comunista nel 1935 in Francia “porre come obiettivo del movimento operaio la lotta per la difesa e l’ampliamento delle libertà democratiche di fronte al fascismo”.(22) La linea del Fronte unico proletario e del Fronte popolare antifascista (approvata dal VII Congresso dell’Internazionale Comunista, agosto 1935) nei paesi imperialisti fu applicata come linea di alleanza con forze politiche e sindacali e con classi senza l’autonomia del partito e senza la direzione del partito comunista nel Fronte. Quindi portò il partito comunista a essere continuamente ricattato dai partiti socialdemocratici e borghesi; a dipendere, in una certa misura e in certi periodi, nella sua azione verso le masse popolari dalla collaborazione dei dirigenti e dei partiti socialdemocratici e riformisti; a subordinare al loro consenso la sua iniziativa; a porsi compiti la cui attuazione dipendeva dal loro concorso; a non assumere in prima persona la direzione e a non concepire il movimento come guerra.

 

22. Dalla Prefazione di J. Duclos del 1972 a G. Dimitrov, Oeuvres Choisies, Editions Sociales, pag. XXI/XXII.

Sulla forma della rivoluzione socialista il Centro dell’Internazionale Comunista ebbe una posizione non definita. Per un certo periodo esso attese che in alcuni paesi dell’Europa occidentale (in particolare Italia e Germania) la classe operaia riuscisse a prendere il potere con partiti comunisti improvvisati o con partiti, come il PSI, che avevano aderito all’Internazionale Comunista solo formalmente, come ci si iscrive a un club.

In un secondo tempo cercò di promuovere movimenti insurrezionali regolarmente falliti: espressione di questa tendenza è la pubblicazione A. Neuberg, L’insurrezione armata.(http://scintillarossa.forumcommunity.net/?t=53107085)

In un terzo tempo (1935 - VII Congresso) lanciò la linea dei Fronti popolari antifascisti di cui i singoli partiti diedero interpretazioni molto diverse.

La concezione della rivoluzione socialista come insurrezione (come conquista del potere in un’azione di breve durata - cosa diversa è l’insurrezione come operazione tattica nell’ambito di una guerra, come le insurrezioni della primavera del 1945 in Italia), ingabbia il partito comunista in una condizione in cui la conquista del potere da parte della classe operaia diventa impossibile, salvo casi eccezionali. Infatti nel periodo precedente l’insurrezione il partito e le forze rivoluzionarie compiono grandi esperienze ma in campi che con la conquista del potere hanno direttamente poco a che fare. Esse escono dalle attività legali, che appunto hanno poco da vedere direttamente con la conquista del potere e con l’instaurazione di uno Stato, solo in casi circoscritti e occasionali, sulla spinta dell’emozione, nei tumulti o negli scontri di piazza, con azioni autonome di individui o di piccoli gruppi, sulla spinta di provocazioni delle forze della repressione, come frutto dell’indignazione. Non si tratta mai di operazioni coordinate e combinate di una guerra di cui il partito tira le fila e che dirige, di operazioni tattiche di un piano di guerra predisposto dal partito, in cui le nostre forze hanno l’iniziativa e di cui raccolgono con cura i risultati e gli insegnamenti.

Questo partito e le forze rivoluzionarie raccolte attorno ad esso, che non hanno alcuna esperienza di guerra e che non sono state formate da alcuna esperienza pratica alle arti dell’attacco, della guerra, dell’organizzazione e della direzione degli uomini in azioni militari, dovrebbero improvvisarsi come forze capaci di un’azione rapida ed energica il cui esito si decide in pochi giorni, se non in poche ore come un’insurrezione!

 

Il crollo dello Stato francese del maggio-giugno 1940, la liquefazione di vari Stati nazionali davanti all’avanzata di Hitler dopo il 1938 (Cecoslovacchia, Austria, Polonia, Belgio, Olanda, Danimarca, Norvegia, Jugoslavia, Grecia, ecc.), il crollo del fascismo nel luglio 1943 in Italia, ecc. non solo non portarono all’instaurazione della dittatura del proletariato, ma il partito comunista non fu neanche in grado di dare una direzione alle forze popolari che il crollo del vecchio Stato liberava: perché non si era posto in condizioni tali da poter prendere la testa del movimento politico nella nuova situazione; non si era preparato e non aveva accumulato esperienza e strutture per dirigere la guerra; non aveva concepito la forma della rivoluzione proletaria secondo la sua reale natura; non si era abbastanza liberato, nella realtà e non solo nelle dichiarazioni, dalla concezione valida al tempo della Seconda Internazionale (di partito più a sinistra tra i partiti della società borghese, di partito che lotta per far valere gli interessi della classe operaia nella società borghese, di portavoce nella società borghese della sua parte più avanzata). Sarà solo successivamente, nel corso della Seconda guerra mondiale che un po’ alla volta i partiti comunisti assumeranno in una certa misura la direzione delle masse popolari nella guerra contro il nazifascismo, nella Resistenza.

Persino nel settembre 1943 in Italia manca ancora una linea di partito per spostare l’attività sul piano della guerra. Dalle caserme che restano per alcuni giorni abbandonate o scarsamente presidiate, i singoli comunisti recuperano armi ma per iniziativa individuale; ai soldati, che a causa della vergognosa diserzione del re e di gran parte degli ufficiali superiori, si sbandano, il partito per alcune settimane non dà direttive né fornisce organizzazione e direzione. Solo nel corso del mese il partito incomincia a svolgere il suo compito di promotore, organizzatore e dirigente della guerra antifascista con i grandi risultati che conosciamo. Per la prima volta nella loro storia le masse popolari italiane vedono all’opera un partito comunista che dirige sul piano strategico e sul piano tattico una vasta azione politica (che comprende anche il suo aspetto militare): per questo giustamente abbiamo detto che la Resistenza è stata a tutt’oggi “il punto più alto raggiunto finora nel nostro paese dalla classe operaia italiana nella sua lotta per il potere”. (http://www.carc.it/index.php?view=article&id=869)

Facendo il bilancio dell’esperienza della guerra civile spagnola (1936-1939), il Partito Comunista di Spagna (ricostruito) è arrivato alla conclusione di “indicare la via della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata come la via verso la quale conduceva l’esperienza del PCE, ma che il PCE non scoprì”. E in questo limite, che il PCE non riuscì a superare, il PCE(r) vede la causa principale della sconfitta delle masse popolari spagnole.(23)

Perché il crollo di uno Stato porti all’instaurazione della dittatura del proletariato, occorre che essa sia preceduta da un periodo di “accumulazione delle forze rivoluzionarie attorno al partito comunista” e che il crollo dello Stato borghese avvenga nel corso di un movimento diretto dal partito (l’avanzata dell’Armata Rossa in Europa Orientale nel 1944-45; la Cina del 1949; Cuba nel 1959; i tre paesi dell’Indocina nel 1975).

Mao Tse-tung ha sviluppato in modo approfondito gli aspetti universalmente validi dell’accumulazione delle forze rivoluzionarie attorno al partito comunista nel partito stesso, nel fronte delle classi rivoluzionarie e nelle forze armate rivoluzionarie e ha chiamato guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata questo processo in cui le forze che il corso della vita sociale gradualmente suscita, vengono via via raccolte dal partito comunista che le educa impiegandole nella lotta (secondo il principio di “imparare a combattere combattendo”), le organizza, le unisce in modo che crescano fino a prevalere sulle forze della borghesia imperialista.(24)

 

23. PCE(r), La guerra di Spagna, il PCE e l’Internazionale comunista, 1993-1995, Edizioni Rapporti Sociali. http://www.carc.it/index.php?view=article&id=1126

24. Mao Tse-tung, Sulla guerra di lunga durata, 1938, in Opere di Mao Tse-tung, Edizioni Rapporti Sociali, vol. 6. http://www.nuovopci.it/arcspip/articleab67.html

 

Mao ha studiato e indicato anche le grandi fasi attraverso cui si sviluppa la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata.

La fase della difensiva strategica: le forze della borghesia sono preponderanti, le forze rivoluzionarie deboli; il compito del partito è quello di raccogliere, addestrare e organizzare forze impiegandole nella lotta evitando però di essere costretto a uno scontro frontale e decisivo e mirare a preservare e accumulare le sue forze; la borghesia cerca lo scontro risolutivo, il partito lo evita tenendo in pugno l’iniziativa sul piano tattico.

La fase dell’equilibrio strategico: le forze rivoluzionarie hanno raggiunto le forze della borghesia imperialista.

La fase dell’offensiva strategica: le forze rivoluzionarie hanno raggiunto la superiorità rispetto alle forze della borghesia; il compito del partito è quello di lanciare le forze rivoluzionarie all’attacco per eliminare definitivamente le forze della borghesia, distruggere il potere della borghesia e instaurare il nuovo potere in tutto il paese.

Ovviamente sta a noi comunisti italiani trovare, con la riflessione e con la verifica nella pratica, i passaggi e le leggi concrete della rivoluzione nel nostro paese. Ma noi troviamo illustrate nelle opere di Mao Tse-tung le leggi universali della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata, elaborate sulla base dell’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria e confermate dai vari episodi che la compongono.

Il maoismo non è il marxismo-leninismo applicato alla Cina o alle semicolonie o alle colonie e semicolonie. È la terza superiore tappa del pensiero comunista, dopo il marxismo (Marx-Engels) e il leninismo (Lenin-Stalin). Giustamente Stalin in Principi del leninismo (1924) (http://www.bibliotecamarxista.org/stalin/prindellen.htm) aveva mostrato che il leninismo non era l’applicazione del marxismo alla Russia o ai paesi arretrati, ma era il marxismo dell’epoca in cui la rivoluzione proletaria incominciava. Non era più possibile essere marxisti senza essere leninisti. Analogamente oggi non si può più essere marxisti-leninisti senza essere maoisti: vorrebbe dire non tenere conto dell’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria, di cui ovviamente Lenin non ha potuto fare il bilancio. Ma tutti i tentativi di affermare il maoismo come terza superiore tappa del pensiero comunista si impantanano in discorsi e riflessioni fumosi se non poggiano sulla tesi che “la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata è la forma universale della rivoluzione proletaria”. Questa tesi emerge chiaramente dagli articoli Per il marxismo-leninismo-maoismo. Per il maoismo e Sulla situazione rivoluzionaria in sviluppo pubblicati in Rapporti Sociali n. 9/10 (1991) a cui rimandiamo per alcuni sviluppi particolari (http://www.nuovopci.it/scritti/RS).

Mao Tse-tung non ha criticato negli anni ‘30 e ‘40 la concezione della rivoluzione proletaria prevalente nei partiti comunisti dei paesi imperialisti, anzi ha indicato la loro linea di “allargamento della democrazia” (per la quale rimandiamo all’affermazione di J. Duclos sopra riportata) come linea normale nelle loro circostanze (salvo criticare quei comunisti cinesi che volevano adottare anche in Cina la parola d’ordine del PCF “Tutto attraverso il Fronte” negando così l’autonomia del Partito comunista cinese nel Fronte antigiapponese). Ciò attiene allo stesso ordine di questioni per cui Lenin ha difeso l’organizzazione strategica clandestina del partito russo in nome della particolarità russa fino a quando il crollo della Seconda Internazionale nel 1914 dimostrò praticamente la necessità universale di essa. Il marxista trae dalla pratica gli insegnamenti che essa contiene, non inventa teorie. Le idee devono dar prova di sé nella pratica, al negativo e al positivo, prima di poter essere rigettate le une e valorizzate le altre. I partiti comunisti dei paesi imperialisti durante la prima crisi generale del capitalismo hanno compiuto grandi opere, hanno mobilitato grandi masse e hanno dato un contributo importante alla vittoria contro il nazifascismo. Bisognava che i limiti di tutto questo grande lavoro fossero mostrati dall’incapacità di valorizzare i frutti della vittoria sul nazifascismo e di assumere il potere, perché essi potessero essere compresi e criticati e la teoria maoista sulla forma universale della rivoluzione proletaria assurgesse a parte del patrimonio teorico del movimento comunista.

La realtà dello svolgimento della rivoluzione proletaria nel periodo 1900-1945 ha mostrato, anche nei paesi imperialisti, che i partiti comunisti hanno unito la classe operaia e hanno affermato la direzione della classe operaia sulle altre classi popolari quando e nella misura in cui hanno saputo organizzare le masse popolari nella guerra contro l’esistente regime della borghesia imperialista. Finché la loro azione aveva al centro il tentativo di convincere socialdemocratici, cattolici, ecc. a costituire un comune fronte di opposizione legale, un comune fronte rivendicativo, un comune fronte antifascista, la loro azione ha avuto scarsi risultati. Essi hanno diretto lavoratori cattolici, socialisti, senza partito ecc. e hanno costretto anche i loro dirigenti a seguirli, quando si sono messi alla testa della guerra cui le condizioni pratiche costringevano le masse.

 

Ma allora forse che noi comunisti dobbiamo proclamare una guerra che non esiste, per affermare nel corso di essa la direzione della classe operaia? Quando noi diciamo che la crisi generale attuale ha la sua soluzione nello scontro tra mobilitazione rivoluzionaria e mobilitazione reazionaria delle masse, noi diciamo che lo scontro tra le classi e lo scontro tra i gruppi imperialisti si spostano sempre più sul terreno della guerra. Oltre alle guerre dichiarate, è in corso una guerra non dichiarata tra da una parte la borghesia imperialista che vuole e deve valorizzare il suo capitale e che a questo fine deve schiacciare e torturare milioni di uomini e donne e dall’altra le masse popolari che si difendono come possono e in ordine sparso. La borghesia la combatte a suo modo, usando gli strumenti di cui dispone (il denaro, le leggi “oggettive” dell’economia, i “normali” rapporti sociali, l’autorità morale dei padroni e dei preti, la pressione delle abitudini e della cultura corrente, le armi, i corpi ufficiali dello Stato, i corpi extralegali, le istituzioni dello Stato, ecc.) per cacciare milioni di uomini e donne nello stato di “esuberi”, per privare delle condizioni elementari di vita - il cibo, la casa, il vestiario, l’istruzione, le cure mediche, ecc. - milioni di uomini, per spogliare milioni di uomini di quanto avevano conquistato, per stroncare i loro tentativi di emanciparsi e di organizzarsi, per eliminare quei loro dirigenti che cercano di promuovere, organizzare e dirigere la resistenza. A livello mondiale le vittime di questa guerra diffusa e non dichiarata sono innumerevoli, maggiori di quelle di tutte le guerre dichiarate che si svolgono nello stesso tempo, se è vero che solo i morti per fame sono dell’ordine di 30 milioni all’anno. Anche nei ricchi paesi imperialisti le vittime di questa guerra sono i milioni di uomini e donne emarginati come esuberi, distrutti moralmente e fisicamente, abbrutiti, depravati, prostituiti, in mille modi angariati e umiliati. È la famosa “lotta di classe che non esiste più” nelle interessate dichiarazioni della borghesia imperialista e dei suoi portavoce. Una lotta che noi comunisti dobbiamo assumere come nostra, riconoscere, scoprirne le leggi, attrezzarci per combatterla con successo portando sul campo di battaglia le forze che il corso della vita sociale e lo sviluppo stesso della lotta suscitano. A nostra volta dobbiamo combatterla a nostro modo: in conformità alla classe che la deve dirigere, alle classi che la devono combattere e da cui provengono le nostre forze, alle condizioni complessive dei rapporti tra le classi del nostro campo e alle influenze reciproche tra il nostro campo e il campo nemico.

Il problema quindi è di essere presenti e protagonisti sul terreno di questa guerra, di non farsi sorprendere dagli eventi ma prevenirli, di orientare il nostro lavoro di oggi in vista di questo corso inevitabile, di avere l’iniziativa in mano anche se il rapporto delle forze oggi è largamente a favore dei nostri avversari e di capire le leggi particolari di questa guerra (che non sono quelle della guerra in generale né quelle delle guerre passate né quelle della guerra imperialista). Questo è il terreno di scontro reale. Su questo terreno si decidono le sorti. In funzione di questo terreno vanno decise e condotte tutte le campagne, tutte le battaglie e ogni operazione. Occorre stabilire una giusta gerarchia strategica tra le nostre campagne e battaglie e poi di passaggio in passaggio definire la gerarchia tattica. Non si tratta oggi principalmente di propagandare la guerra, di convincere con la nostra propaganda la classe operaia e le masse popolari a prepararsi alla guerra. Non si tratta principalmente di “elevare la coscienza” delle masse con la nostra propaganda. Si tratta principalmente di creare un partito che lavori e sia capace di lavorare in funzione della guerra e che da questa posizione diriga e promuova anche la lotta delle masse a favore della pace contro la guerra imperialista verso cui la borghesia imperialista, con tutte le sue misure concrete, ci sta trascinando anche se la teme e se ne ritrae, resa timorosa dalle esperienze passate. Ovviamente per riuscire in questo compito bisogna tra l’altro che noi impariamo a vedere che effettivamente la borghesia imperialista, con le sue misure concrete in campo economico, politico e culturale, 1. sta portando verso la guerra imperialista (la mobilitazione reazionaria delle masse) e 2. sta conducendo una guerra di sterminio contro le masse popolari. Chi non vede questo chiaramente, o ripiega su illusioni opportuniste e conciliatorie (“non ci sarà alcuna guerra”) o “proclama lui la guerra” .

A scanso di equivoci e visti i precedenti delle Brigate Rosse che dalla propaganda armata per riunire le condizioni per la ricostruzione del partito comunista sono passate a una “guerra dispiegata” che esisteva solo nella fantasia dei militaristi (dove quindi si sono trovate sole, abbandonate dalle masse, fino alla disgregazione e alla corruzione anche delle forze che avevano già accumulato), occorre dire che la guerra, in quanto forma principale della rivoluzione proletaria, è una guerra particolare, differente dalle guerre che l’umanità ha conosciuto nei secoli precedenti. Essa è una guerra di tipo nuovo perché ha un obiettivo diverso da tutte le guerre precedenti: la conquista da parte della classe operaia della direzione delle masse popolari nella loro mobilitazione contro la borghesia imperialista per l’instaurazione del potere della classe operaia e del socialismo. Essa si svolge in forme sue proprie. La comprensione delle forme particolari di questa guerra nel nostro paese, l’elaborazione e l’applicazione di linee e metodi conformi ad esse e la sua direzione costituiscono il compito specifico del nuovo partito comunista.

Sulla natura del nuovo partito comunista.

La classe operaia ha bisogno di un partito comunista che,

1. abbia una linea giusta, cioè una linea che raccolga e sintetizzi la tendenza positiva delle masse popolari nella fase attuale (la seconda crisi generale del capitalismo),

2. abbia una forma organizzativa adeguata alla attuazione della sua linea.

È sbagliato discutere della forma organizzativa prima e senza avere risolto il problema della linea. L’organizzazione nasce per attuare la linea.

L’organizzazione deve essere adeguata alla linea. È la linea che determina l’organizzazione, benché ovviamente l’organizzazione sia la condizione necessaria per attuare la linea. È la linea che decide di quale organizzazione abbiamo bisogno oggi, non viceversa.

La classe operaia ha bisogno di un partito comunista. Questa è la prima lezione che ci deve essere chiara e che deriva sia dall’esperienza storica sia dall’analisi della società capitalista. La classe operaia ha bisogno di un partito comunista perché il ruolo del partito comunista non può essere assolto dalla classe nel suo complesso. Solo l’avanguardia della classe operaia si organizza nel partito. La crisi della forma-partito di cui tanto parlano i sociologi e i politologi borghesi e i loro seguaci della sinistra borghese (Negri e negrini in testa), è la crisi dei partiti riformisti e borghesi del vecchio regime. La crisi di quei partiti non è la causa dei mali, l’evento da piangere, il guasto a cui porre rimedio: è un aspetto della crisi del vecchio regime. Il riformismo è in crisi perché la crisi generale impedisce che le masse possano strappare nuove riforme se non in un movimento rivoluzionario per il quale i partiti riformisti sono inadatti: da qui la crisi dei partiti riformisti che hanno perso il terreno oggettivo (le riforme reali che nel periodo del capitalismo dal volto umano venivano effettivamente strappate) su cui erano costruite le loro fortune. I partiti del regime DC sono in crisi perché tutto il regime è in crisi. Esso era il regime della conciliazione degli interessi (25) ed è in crisi come in tutti i paesi imperialisti sono in crisi i regimi che avevano ben impersonato il dominio della borghesia nel periodo della ripresa e dello sviluppo, i regimi impostisi alla fine della Seconda guerra mondiale. Oggi sono all’ordine del giorno le forze borghesi che si candidano a promotrici della mobilitazione reazionaria delle masse, benché alle loro fortune si oppongano ancora sia l’arretratezza delle forze rivoluzionarie sia la paura che tutta la borghesia ha della mobilitazione reazionaria, avendo ripetutamente sperimentato che essa può trasformarsi in mobilitazione rivoluzionaria.

La linea generale del futuro partito comunista deriva dall’analisi della situazione che sopra abbiamo richiamato trattando della forma della rivoluzione proletaria e che nella rivista Rapporti Sociali è stata da più lati illustrata e che i CARC hanno ampiamente propagandato.(26) Essa può essere formulata nel modo seguente: “Unirsi strettamente e senza riserve alla resistenza che le masse popolari oppongono e opporranno al progredire della crisi, comprendere e applicare le leggi secondo cui questa resistenza si sviluppa, appoggiarla, promuoverla, organizzarla e far prevalere in essa la direzione della classe operaia fino a trasformarla in lotta per il socialismo, adottando come metodo principale di lavoro e di direzione la linea di massa”.(27)

 

25. Sulla natura del regime DC rimandiamo a Il fiasco del 27 marzo ‘94, in Rapporti Sociali n. 16, inverno 1994-1995. (http://www.nuovopci.it/scritti/RS)

26. La linea generale del partito, in F. Engels/10, 100, 1000 CARC per la ricostruzione del partito comunista, 1995, Edizioni Rapporti Sociali. http://www.carc.it/index.php?view=article&id=865

27. Da Lo Statuto dei CARC, 1997, Edizioni Rapporti Sociali, pag. 9. (http://www.carc.it)

28. Le formule esprimono il concetto, ma il concetto non è interamente in nessuna formula. Se rendiamo la formula autonoma dal concetto, facciamo quello che fanno i giuristi borghesi rispetto alle formule delle Costituzioni, dei Codici, ecc., con il risultato che ogni giurista e ogni organismo fa dire cose diverse a una stessa formula. Se si scorrono le pubblicazioni dei CARC, si trovano via via formulazioni un po’ diverse della linea generale del partito comunista, usate per esprimere lo stesso concetto. Con esse via via si cerca di esprimere meglio il concetto, di tenere meglio conto nella formula di un aspetto del concetto che è diventato nella pratica importante, si pone cura ad elaborare ogni volta una formula comprensiva di più aspetti, più esatta, più esauriente.

 

Questa linea è stata formulata anni fa, la prima formulazione risale al 1992 (28) e non ha finora incontrato serie obiezioni da parte di nessuna delle FSRS del nostro paese. Possiamo ritenere che sia universalmente accettata, o si tratta di uno di questi casi in cui si continua da una parte a dire che “bisogna fare un serio dibattito teorico e politico” e dall’altra ci si guarda bene sia dal produrre qualcosa sia dall’entrare in merito a quanto da altri prodotto? È comunque certo che nessuna FSRS ha avanzato altre proposte di linea generale per il futuro partito comunista.

Abbiamo anche ripetutamente detto che nessuna FSRS, e in particolare nemmeno i CARC che questa linea hanno formulato e propagandano, erano in grado di attuare questa linea stante la qualità, la natura delle forze in questione (quindi a prescindere da fattori quantitativi che possono per un tempo più o meno lungo valere anche per il nuovo partito comunista). In cosa consiste la qualità che, mancando alle FSRS, impedisce loro di applicare la linea generale del futuro partito comunista se non in limiti ristretti e monchi? Non è la composizione di classe, perché il partito comunista lotterà per organizzare nelle sue file la parte d’avanguardia della classe operaia, ma la composizione di classe del partito alla sua fondazione avrà sicuramente dei limiti che solo con la lotta verranno superati.(29)

 

29. Tra le FSRS italiane vi sono alcuni che sostengono che il nuovo partito comunista deve fin dall’inizio avere tra i suoi membri folti e rappresentativi gruppi di operai dei maggiori centri produttivi del paese.

Se questi compagni pensano che il nuovo partito comunista debba nascere dal confluire e dal mandato di varie organizzazioni operaie attuali (come “sponda politica” di COBAS, SLAI-COBAS, ecc.), come all’inizio del secolo il partito laburista inglese nacque per mandato e come “braccio politico” delle Trade Unions e come nell’ultimo quarto del secolo scorso alcuni partiti socialisti, compreso il PSI, nacquero dalle società operaie di mutuo soccorso e da altri organismi di difesa della classe operaia, essi “vogliono riportare indietro l’orologio della storia”.

Se invece vogliono che si formino folti e rappresentativi gruppi di operai comunisti prima che si costituisca il partito comunista, la loro è una pretesa arbitraria, simile a quella dei compagni che vogliono un partito che nasca già riconosciuto dalle masse come loro direzione. Questa pretesa contrasta sia con l’esperienza del movimento comunista internazionale sia con il concreto sviluppo del movimento comunista nel nostro paese. È una pretesa arbitraria che porta a rinviare a tempo indeterminato la costituzione del partito comunista che è oggi necessaria e possibile.

Noi condividiamo invece pienamente la tesi che la formazione di folti e rappresentativi gruppi di operai comunisti trasformerà il nuovo partito comunista e lo porterà a un livello al cui raggiungimento i nostri attuali modesti inizi avranno contribuito.

 

Noi riteniamo che la qualità che distingue il partito comunista dalle FSRS è un insieme di caratteristiche la principale delle quali consiste in questo: il partito comunista è un partito clandestino, ma non è una società segreta. Vedremo di spiegare nel seguito il senso e le ragioni di questa nostra tesi.

Il nuovo partito comunista ha il compito strategico di essere il centro dell’accumulazione delle forze rivoluzionarie: partito, fronte, esercito. Il suo compito è la raccolta e l’impiego delle forze proletarie nella corsa alla mobilitazione rivoluzionaria perché sopravanzi la mobilitazione reazionaria (o nella trasformazione della mobilitazione reazionaria in mobilitazione rivoluzionaria), nella guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata, nella guerra civile che è la sintesi della lotta delle masse popolari contro la borghesia imperialista. La classe operaia per porsi come classe che lotta in proprio per il potere deve porsi come contendente, forza politica sul terreno della guerra civile (sia che la situazione che dovremo affrontare abbia per intero la forma di una guerra civile, sia che abbia anche la forma di una guerra tra gruppi e Stati imperialisti).(30)

 

30. In proposito v. Rapporti Sociali n. 4, 1989, pagg. 26-31.

(http://www.nuovopci.it/scritti/RS)

 

Per condurre alla vittoria l’accumulazione delle forze rivoluzionarie abbiamo bisogno di un partito che sia fondato sulla classe operaia, che abbia come suo obiettivo l’instaurazione del potere della classe operaia e l’eliminazione di quello della borghesia imperialista, che subordini tutto a questo obiettivo, che selezioni e formi i suoi membri, i suoi dirigenti, le sue organizzazioni e le sue relazioni con le masse in funzione di questo obiettivo, che sia capace di resistere alla controrivoluzione preventiva e all’aggressione scatenati dalla borghesia, che faccia tesoro dell’esperienza dei 150 anni di storia del movimento comunista, che impari dai successi e dalle sconfitte della rivoluzione proletaria, che abbia quindi come teoria guida il marxismo-leninismo-maoismo.

Il partito deve quindi essere libero dal controllo della borghesia. Non può vivere e operare nei limiti che la borghesia consente, come un altro tra i partiti della società borghese. I rapporti tra i gruppi imperialisti (e tra le rispettive forze politiche) appartengono a una categoria diversa da quella a cui appartengono i rapporti tra le masse popolari (e la classe operaia che ne è la sola potenziale classe dirigente) e la borghesia imperialista: sono rapporti che si sviluppano secondo leggi diverse. Quelli che in un modo o in un altro si ostinano a considerare questi rapporti come rapporti dello stesso ordine, soggetti alle stesse leggi, o cadono nel politicantismo borghese (parlamentare o affine) o nel militarismo, infatti l’accordo alle spalle delle masse e la guerra imperialista sono le due forme alterne con cui i gruppi imperialisti trattano i rapporti tra loro.

Questo vuol dire che la classe operaia (e la sua espressione politica, il partito comunista) non è comunque condizionata dalla borghesia? No. Vuol dire che il partito comunista non poggia la sua possibilità di operare sulla tolleranza della borghesia, che il partito assicura la propria possibilità di esistere e operare nonostante la borghesia faccia ricorso alla controrivoluzione preventiva, che il partito, grazie alla sua analisi materialista dialettica della situazione e ai suoi legami con le masse, precede le misure della controrivoluzione preventiva volgendole a proprio favore. Vuol dire che il partito è condizionato dalla borghesia come in una guerra ognuno dei contendenti è condizionato dall’altro e condizionato in ogni fase della guerra secondo il rapporto delle forze in quella fase (difensiva strategica, equilibrio strategico, offensiva strategica), ma non soggetto alle sue leggi e al suo Stato, come lo sono le masse in condizioni normali.

Fin dal suo inizio il movimento comunista (31) ha chiaramente indicato che la classe operaia avrebbe preso il potere solo tramite una rivoluzione.

Successivamente tutte le affermazioni dei socialisti e dei revisionisti sulla via pacifica, democratica, parlamentare al socialismo sono state nei fatti smentiti dalla borghesia stessa che, come F. Engels già nel 1895 aveva ben indicato, non ha avuto alcuno scrupolo a “sovvertire la sua legalità”, ogni volta che questa non assicurava la continuità del suo potere. La partecipazione alle elezioni e in generale a una serie di altre normali attività della società borghese, cui le organizzazioni operaie partecipano in quanto libere associazioni tra le altre, sono stati strumenti utili per affermare l’autonomia della classe operaia, ma da quando è iniziata l’epoca della rivoluzione proletaria si sono trasformati in catene controrivoluzionarie ogni volta che sono stati presi per strumenti per la conquista del potere.(32)

 

31. K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, 1845-1846, in Opere, vol. 5.

http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1846/ideologia

32. Questo concetto è ben illustrato in Stalin, Principi del leninismo, 1924.

http://www.bibliotecamarxista.org/stalin/prindellen.htm

 

L’instaurazione della controrivoluzione preventiva come cuore dello Stato borghese moderno (http://www.nuovopci.it/scritti/mpnpci/01_03_03_contrivol_prev.html) rende sistematico l’impegno della borghesia a prevenire e impedire lo sviluppo del movimento comunista, prima di doverne reprimere il successo. Che quindi la conquista del potere da parte della classe operaia debba realizzarsi per via rivoluzionaria, non è una novità. Ciò che è nuovo, è che da quando la conquista del potere da parte della classe operaia è storicamente all’ordine del giorno, la direzione della sua lotta per il potere, cioè il partito comunista, deve essere una struttura libera dal controllo della borghesia e dei suoi sistemi di controrivoluzione preventiva, cioè deve essere un partito clandestino.

La classe operaia non può combattere vittoriosamente la borghesia imperialista, non può porsi come suo contendente nella lotta per il potere, non può condurre l’accumulazione delle forze rivoluzionarie fino a rovesciare l’attuale sfavorevole rapporto di forza con le forze della reazione, se ha una direzione che sottostà alle leggi e al potere della borghesia.

Non si tratta solo di avere un apparato illegale. Questo lo avevano già tutti i partiti della Terza Internazionale: faceva parte delle condizioni per essere ammessi nell’Internazionale Comunista, era la terza delle 21 condizioni, approvate dal II Congresso (17 luglio - 7 agosto 1920). Essa diceva: “In quasi tutti i paesi d’Europa e d’America la lotta di classe entra in un periodo di guerra civile. In queste condizioni i comunisti non possono fidarsi della legalità borghese. Essi devono creare ovunque, accanto all’organizzazione legale, un organismo clandestino, capace di assolvere nel momento decisivo al suo dovere verso la rivoluzione. In tutti i paesi in cui, a causa dello stato d’assedio o di leggi d’eccezione, i comunisti non possono svolgere legalmente tutto il loro lavoro, essi devono senza alcuna esitazione combinare l’attività legale con l’attività illegale”.

L’esperienza della rivoluzione proletaria durante la prima crisi generale del capitalismo (1900-1945) ha mostrato che i paesi in cui i partiti comunisti possono svolgere tutto il loro lavoro legalmente, se il loro lavoro ha successo nonostante la controrivoluzione preventiva, si trasformano in paesi in cui i partiti comunisti non possono svolgere il loro lavoro legalmente. Nei paesi dove la borghesia imperialista non aveva la forza per operare autonomamente questa trasformazione (ad es. la Francia degli anni ‘30), essa ha preferito l’aggressione e l’occupazione straniera purché questa trasformazione si attuasse. La lotta di classe è entrata in un periodo di guerra civile dovunque la classe operaia non ha rinunciato alla lotta per il potere, quindi essa deve condurre la sua lotta per il potere come una guerra civile e i partiti comunisti, dovunque vogliono restare tali, non possono e non devono “fidarsi della legalità borghese”. I partiti comunisti hanno potuto svolgere legalmente, alla luce del sole tutto il loro lavoro solo dove la classe operaia deteneva già il potere: nei paesi socialisti e nelle basi rosse.

L’esperienza ha mostrato che avere un organismo clandestino che entri in azione “nel momento decisivo” non basta a rendere i partiti comunisti capaci di dirigere con successo le masse e nemmeno a evitare la loro decapitazione e decimazione. L’accumulazione e la formazione delle forze rivoluzionarie deve avvenire “in seno alla società borghese”, ma per forza di cose avviene gradualmente. Essa quindi non può avvenire legalmente. Il partito deve evitare, con una conduzione tattica adeguata, di essere costretto a uno scontro decisivo finché le forze rivoluzionarie non sono state accumulate fino ad avere raggiunto la superiorità su quelle della borghesia imperialista. Non basta quindi creare un organismo clandestino “accanto all’organizzazione legale”. È il partito che deve essere clandestino, è l’organizzazione clandestina che deve dirigere l’organizzazione legale e assicurare comunque la continuità e la libertà d’azione del partito. Il partito comunista deve essere un partito clandestino e dalla clandestinità muovere tutti i movimenti legali che sono necessari e utili alla classe operaia, al proletariato e alle masse: questa è la lezione della prima ondata della rivoluzione proletaria.

L’esperienza ha dimostrato che i partiti comunisti per adempiere con successo al loro compito devono “combinare l’attività legale con l’attività illegale” nel senso preciso

che l’attività illegale dirige ed è fondamento e direzione dell’attività legale,

che l’attività illegale è principale e l’attività legale è ad essa subordinata,

che l’attività illegale è assoluta e l’attività legale condizionata, relativa al rapporto delle forze tra classe operaia e borghesia imperialista, relativa alle decisioni che la classe dominante reputa convenienti per se stessa.

L’esperienza ha altresì dimostrato che questo preciso genere di combinazione di attività illegale con l’attività legale non deve essere fatta dai partiti comunisti solo nei paesi in cui “a causa dello stato d’assedio o di leggi d’eccezione” la borghesia ha limitato l’attività legale, ma deve essere fatta in ogni paese, prima che la borghesia metta in atto stati d’assedio o leggi d’eccezione, prima che imponga all’attività politica del proletariato limiti legali più ristretti di quelli che impone ai singoli gruppi della classe dominante o comunque imponga limiti più ristretti di quelli vigenti. La borghesia imperialista impone in ogni caso all’attività politica della classe operaia, del proletariato, delle masse popolari limiti di fatto che i membri della classe dominante non hanno (limiti di tempo, di danaro, di spazi, di cultura, accesso alle armi, ecc.) e che fanno sì che per la stragrande maggioranza delle masse popolari anche gran parte dei diritti riconosciuti legalmente restino una presa in giro, diritti sulla carta.

La terza delle 21 condizioni di ammissione alla Terza Internazionale era stata formulata per avviare la trasformazione in partiti bolscevichi (bolscevizzazione) dei vecchi partiti socialisti che, come il PSI, avevano aderito all’Internazionale Comunista perché così lo comportava il vento che tirava tra le masse, ma restavano assolutamente inadeguati a svolgere la funzione di direzione delle masse nel movimento rivoluzionario del loro paese.(33) Era stata introdotta per correggere la “insufficienza rivoluzionaria” dei vecchi partiti socialisti che facevano la fila per aderire alla Terza Internazionale. Ma era stata formulata in termini concilianti, con concessioni alle resistenze presenti in questi partiti a trasformarsi in partiti adeguati ai compiti dell’epoca. In conclusione l’esperienza ha dimostrato che la terza condizione per l’ammissione alla Internazionale Comunista era inadeguata. Nei paesi imperialisti i partiti comunisti che nacquero facendola propria si dimostrarono incapaci di far fronte ai propri compiti, anche per la concezione riduttiva, subordinata dell’azione clandestina che in essi permase e che la terza condizione recepisce.(34)

 

33. Si veda in proposito il Programma de L’Ordine Nuovo e della sezione socialista torinese, aprile 1920. http://www.nuovopci.it/classic/gramsci/perinps.htm

34. Basta che un partito comunista sia clandestino perché possa svolgere con successo il suo compito? Ovviamente no. Il fattore principale del successo di un partito comunista è la sua linea politica. Se la linea politica è sbagliata, la struttura clandestina non salverà il partito dalla sconfitta. Tuttavia la struttura clandestina renderà meno difficile al partito tirare la lezione delle sconfitta e correggere la linea.

Il successo del partito comunista in definitiva dipende dal suo legame con le masse: una linea giusta sviluppa il legame con le masse, una linea sbagliata riduce il legame con le masse, lo ostacola. Se un partito comunista clandestino mantiene una linea sbagliata, alla lunga non riuscirà neanche a conservarsi come partito clandestino e sarà sconfitto anche su questo terreno, perché la clandestinità del partito comunista non è principalmente il frutto della applicazione di una tecnica, ma può essere conservata solo grazie al legame con le masse, al sostegno che il partito riceve dalle masse, cioè alla linea giusta del partito.

35. Parliamo del Partito comunista cinese fino al 1927.

 

Ne segue che concepire l’azione del partito comunista come un’azione strategicamente legale, considerare la legalità come la regola e la clandestinità come l’eccezione che entra in azione nei momenti d’emergenza, non prevenire il momento in cui la borghesia cerca di stroncare il partito, non costruire il partito in vista e in funzione della guerra civile, è non conformarsi alle leggi della rivoluzione proletaria. I partiti comunisti che si sono comportati in questa maniera (da quello italiano a quello cinese,(35) tedesco, spagnolo, indonesiano, cileno, ecc. ecc.) hanno pagato dure lezioni.

La clandestinità non impedisce di sviluppare un’ampia azione legale nella misura in cui le condizioni lo comportano, anzi rende possibile ogni genere di azione legale, anche le attività meno “rivoluzionarie”, che diventano strumento per legare organizzativamente al campo della rivoluzione le parti più arretrate delle masse popolari e influenzarle. D’altra parte la clandestinità non si improvvisa e un partito costruito per l’attività legale o principalmente per l’attività legale e che subisce l’iniziativa della borghesia, difficilmente è in grado di reagire efficacemente all’azione della borghesia che lo mette fuori legge, che lo perseguita. Un partito legale non è inoltre in grado di resistere efficacemente alla persecuzione, all’infiltrazione, alla corruzione, all’intimidazione, ai ricatti, alle azioni terroristiche della controrivoluzione preventiva, della “guerra sporca”, della “guerra di bassa intensità” e del resto dell’arsenale di cui si è munita la borghesia imperialista per opporsi all’avanzata della rivoluzione proletaria. Un partito legale non è in grado di raccogliere e formare le forze rivoluzionarie che il movimento della società genera gradualmente e di impegnarle via via nella lotta per aprire l’ulteriore strada al processo rivoluzionario, in questo modo addestrandole e formandole.

Il partito comunista deve quindi essere una direzione clandestina, deve essere un partito che si costruisce dalla clandestinità e che dalla clandestinità tesse la sua “tela di ragno” e muove la sua azione di ogni genere in ogni campo. Deve essere un partito che è strategicamente clandestino (quindi ha sempre il suo retroterra strategico clandestino), ma destina una parte dei suoi membri a svolgere compiti nella lotta politica legale, nel lavoro legale di mobilitazione delle masse e crea tutte le strutture legali che la situazione consente di creare. Il rapporto numerico tra le due parti varia a secondo delle situazioni concrete; attualmente e per un tempo ancora indeterminato nel nostro paese sarà decisamente a favore della parte legale.

Il nuovo partito comunista italiano deve avere una direzione strategica clandestina, ma attualmente la classe operaia e le masse svolgono la stragrande maggioranza della loro attività politica, economica e culturale non clandestinamente e sono pochi i lavoratori disposti a impegnarsi in un lavoro clandestino. L’attività di difesa e di attacco dei lavoratori si svolge oggi in gran parte alla luce del sole, con attività legalmente tollerate dalla borghesia, scoraggiate e ostacolate ma non vietate. È del tutto inconsistente ogni tentativo (fatto con l’esempio e/o con la propaganda) di indurre gli operai e le masse popolari ad abbandonare questo terreno (in questo vano tentativo consistette la deviazione militarista delle Brigate Rosse). Ogni tentativo in questo senso porta solo a lasciare campo libero ai revisionisti, agli economicisti, ai borghesi. Solo man mano che la borghesia impedirà lo svolgimento legale delle attività politiche e culturali che le masse sono abituate a svolgere legalmente, metterà fuori legge, perseguiterà, ecc. (ed è sicuro che arriverà a tanto: basta vedere i “progressi” che già ha fatto su questa strada per quanto riguarda la libertà di sciopero, l’espressione del pensiero e la propaganda, la rappresentanza nelle assemblee elettive; la borghesia non ha altra strada, benché per esperienza ne conosca i pericoli e faccia mille sforzi per non imboccarla), solo man mano che i progressi dell’azione del partito comunista, della classe operaia e delle masse popolari, la loro resistenza organizzata al procedere della crisi e alla guerra di sterminio che la borghesia imperialista conduce contro di esse, avrà suscitato una controrivoluzione potente alla quale però il partito saprà tener testa, solo allora, sulla base della loro esperienza, la classe operaia, il proletariato e le masse popolari sposteranno una parte crescente delle loro lotte e delle loro forze nella guerra, che solo allora diventerà la forma principale in cui esse potranno esprimersi e nella quale il partito sarà in grado di dirigerle vittoriosamente.

Il PCd’I nei primi anni venti aveva un apparato clandestino, ma non la direzione clandestina; nel 1926 subì la messa fuori legge; divenne clandestino perché costretto; perdette la direzione (Antonio Gramsci); ancora nel luglio ‘43 non approfittò del crollo del fascismo per costruire un esercito; si basò sull’alleanza con i partiti democratici per un passaggio pacifico dal fascismo ad un nuovo regime borghese; nel settembre ‘43 lasciò disperdere il grosso dell’esercito costituito da proletari in armi perché non era ancora in grado di dare ad essi una direzione concreta e non approfittò del vuoto di potere e del materiale militare che la fuga del re e di gran parte degli alti ufficiali aveva messo a disposizione di chi sapeva approfittarne. Solo nei mesi successivi metterà la guerra al primo posto, creerà le proprie formazioni armate antifasciste e antinaziste e costringerà a seguirlo su questo terreno tutte le altre forze politiche che non vogliono perdere i contatti con le masse e vogliono avere un ruolo nel dopoguerra.

Il KPD (Partito comunista tedesco) nel corso degli anni ‘20 tentò varie insurrezioni (non casualmente fallite) e nel 1933 lasciò arrestare la direzione (Ernst Thaelmann); mantenne organizzazioni clandestine, ma non riuscì a mobilitare sul piano della guerra né gli operai comunisti (benché il KPD avesse avuto 5 milioni di voti alle ultime elezioni nel 1933), né gli operai socialdemocratici, né gli ebrei e le altre parti della popolazione che pure erano perseguitati a morte dai nazisti.

Il PCF (Partito comunista francese) nel 1939 (il governo francese dichiarò guerra alla Germania il 1° settembre) si trovò in condizioni tali che migliaia di suoi membri vennero arrestati dal governo francese assieme a migliaia di altri antifascisti e l’organizzazione del partito saltò quasi interamente. M. Thorez, segretario del PCF, rispose alla chiamata alle armi! All’inizio del giugno 1940 il PCF “chiese” al governo Reynaud di armare il popolo contro le armate naziste che dal 10 maggio dilagavano in Francia e ovviamente la risposta fu il decreto del governo “francese” che intimava a ogni “francese” che possedeva armi da fuoco di consegnarle ai commissariati. Solo dal luglio 1940 in avanti, dopo che i contrasti tra i gruppi imperialisti francesi erano sfociati in guerra civile tra essi (il Proclama di De Gaulle da Londra è del 18 giugno 1940), il PCF ricostruirà con eroismo e tenacia la sua organizzazione e solo a partire dal 1941 un po’ alla volta assumerà la guerra rivoluzionaria come forma principale di attività.

Da tutta questa esperienza storica, che lezione dobbiamo trarre? Che oggi dobbiamo costruire il nuovo partito comunista a partire dalla clandestinità. La clandestinità è una questione strategica, non tattica. È una decisione che dobbiamo prendere oggi per essere in grado di far fronte ai nostri compiti di oggi e a quelli di domani. La guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata è la strategia del nostro movimento comunista e oggi è l’aspetto dirigente della nostra attività. Le lotte pacifiche sono un aspetto della tattica del movimento comunista e oggi sono l’aspetto più diffuso dell’attività delle masse. Non dobbiamo subire l’iniziativa della borghesia, né aspettare che la mobilitazione delle masse ci abbia preceduto. Dobbiamo prendere l’iniziativa, precedere la borghesia e predisporre le nostre attuali piccole forze in modo che siano in grado di accogliere, organizzare e dirigere alla lotta le forze che il corso della crisi generale del capitalismo produce di per sé tra le masse, ma con fertilità che sarà accresciuta dalla giusta attività del partito comunista.

Lenin creò un centro stabile e inattaccabile dalla polizia zarista per l’attività del partito nell’impero russo, venendo in Europa quando ancora poteva viaggiare. Non attese di essere costretto alla clandestinità dall’avversario. Dal punto di vista operativo, è meno difficile impiantarsi nella clandestinità quando si è ancora legali, che quando si ha già la polizia alle calcagna e si è stati sorpresi dall’iniziativa dell’avversario.

Dobbiamo iniziare dall’esempio del grande Lenin di cui la storia ha confermato la giustezza e adattarlo alla nostra condizione.

 

Quanto abbiamo fin qui detto dovrebbe bastare a tracciare chiaramente la discriminante tra da una parte l’impresa a cui lavoriamo e a cui chiamiamo tutte le FSRS a lavorare e dall’altra tutti i progetti di “partiti rivoluzionari nei limiti della legge”.

 

Dovrebbe bastare anche a tracciare una discriminante tra questa impresa e le varie società segrete che vivono e operano nel nostro paese. Vale tuttavia la pena aggiungere qualche parola su questo argomento. Dopo le sconfitte subite dalle Brigate Rosse all’inizio degli anni ‘80, la linea della “ritirata strategica” non ha portato alla autocritica della deviazione militarista che aveva generato la sconfitta e alla raccolta delle forze per la ricostruzione del partito comunista,(36) ma alla nascita di un certo numero di “società segrete”. In quell’epoca la borghesia cercava di consolidare la sua vittoria e la destra del “movimento” con alla testa Negri e negrini, che ne rappresenta gli interessi, era per la liquidazione dell’organizzazione rivoluzionaria e il ritorno alla “lotta legale”. Ciò che la borghesia cercava di ottenere con le persecuzioni, con le torture, con il regime carcerario speciale e con i premi a delatori (“pentiti” o “dissociati”), la destra costituita dai vari promotori della dissociazione, lo rafforzava con la linea della liquidazione dell’attività e dell’organizzazione clandestina. Va dato atto ai compagni che hanno costituito le società segrete di essersi opposti alla destra e alla liquidazione dell’organizzazione rivoluzionaria. Questo è il lato positivo della loro azione. Il lato negativo è comprovato praticamente dalla generale sterilità della loro attività: questa deriva dal fatto che il movimento comunista ha bisogno del partito comunista, non della società segreta. Già Marx ed Engels negli anni ‘40 del secolo scorso avevano affrontato e risolto questo problema su cui ora bisogna tornare. La critica di Marx ed Engels alla società segreta come forma organizzativa è riassunta nella conclusione del Manifesto del partito comunista: “I comunisti disdegnano di nascondere le loro opinioni. Essi dichiarano apertamente che i loro scopi non possono essere raggiunti che con l’abbattimento violento di ogni ordinamento sociale esistente”. I tratti caratteristici e distintivi della società segreta sono che la sua esistenza è nota solo ai membri, che i membri stessi sono iniziati per livelli (livelli di iniziazione) alla conoscenza degli obiettivi, delle concezioni, dei metodi, della struttura e della direzione della società. Una struttura di questo genere è stata ed è adatta ad aggregare attorno a un capo o a un gruppo ristretto una cerchia di persone ognuna delle quali ha un interesse personale alla protezione e in generale ai vantaggi che la società segreta offre ai suoi membri. Che una struttura del genere fosse adatta alla borghesia per la concorrenza cui deve partecipare e che fosse adeguata anche alla protezione degli addetti ad alcuni mestieri finché restavano un gruppo ristretto i cui membri si assicuravano mutua protezione, è un dato dell’esperienza storica oltre che un risultato a cui si può pervenire riflettendo sui rapporti sociali reali (sulle “costituzioni materiali”) nelle due situazioni indicate. È però altrettanto evidente che non è una forma adatta a raccogliere e formare le forze rivoluzionarie che si conteranno, e si dovranno contare, a milioni e a sollevare alla lotta politica una classe che i correnti rapporti sociali della società borghese escludono dalla attività politica. Va ricordato che i rapporti sociali materiali (effettivi) della tarda società feudale europea non escludevano la borghesia dall’attività politica, per la quale infatti la borghesia disponeva di tempo, di risorse materiali e di cultura. La escludevano le leggi e le consuetudini del mondo politico che riservavano le attività politiche ai nobili e al clero, non la escludevano le relazioni sociali, la società civile. Nella società borghese invece i rapporti sociali reali escludono dall’attività politica, legalmente dichiarata accessibile a tutti, proprio gli operai e il grosso del resto delle masse popolari, perché li privano del tempo, dei mezzi e della cultura necessari a prendervi effettivamente parte: la partecipazione è limitata agli individui capaci individualmente di uno sforzo particolare come i membri del partito comunista. Quindi il partito comunista è un partito del tutto particolare.

 

36. Su questo tema vedere CARC, F. Engels/10, 100, 1000 CARC per la ricostruzione del partito comunista, 1995, Edizioni Rapporti Sociali (http://www.carc.it/index.php?option=com_content&view=article&id=865) e Pippo Assan, Cristoforo Colombo, Edizioni della vite, 1988 Firenze.

(http://www.nuovopci.it/scritti/cristof/indlibr.htm)

 

Marx ed Engels entrarono nella Lega dei Giusti (che poi divenne Lega dei Comunisti) all’inizio del 1847 dopo che i suoi membri si convinsero ad eliminare i tratti della società segreta. La lotta contro le società segrete è stata una costante di Marx ed Engels anche negli anni successivi. Nella lettera a F. Bolte del 23 novembre 1871, nel pieno della lotta contro la società segreta fondata da Bakunin nell’Internazionale, Marx arriva ad affermare “L’Internazionale fu fondata per mettere al posto delle sette socialiste o semisocialiste, la vera organizzazione di lotta della classe operaia. ... Lo sviluppo delle sette socialiste e quello del vero movimento operaio sono sempre in proporzione inversa. Sino a che le sette hanno una giustificazione (storica), la classe operaia non è ancora matura per un movimento storico indipendente. Non appena essa giunge a questa maturità, tutte le sette diventano essenzialmente reazionarie. ... La storia dell’Internazionale è stata una costante lotta del Consiglio generale contro le sette ...”. La struttura della società segreta è inconciliabile con la raccolta ampia delle forze della classe operaia, del proletariato, delle masse popolari attorno al partito comunista, è inconciliabile con il centralismo democratico come principio organizzativo del partito. Il partito comunista è vitalmente interessato a far conoscere alle masse più ampie possibile la sua esistenza, il suo programma, il suo statuto, i suoi orientamenti, le sue linee particolari: esso non lotta per prendere in mano il potere esso stesso, lotta perché la classe operaia prenda il potere e per costruire uno Stato “in via di estinzione”, cioè in cui il governo delle masse da parte delle masse popolari stesse abbia la massima estensione possibile. Nel libro Che fare? Lenin difende la necessità di un partito clandestino di cui i rivoluzionari di professione sono una componente essenziale: ma il progetto che egli delinea non ha nulla a che vedere con una società segreta.

Noi possiamo e dobbiamo riconoscere i meriti che le società segrete hanno avuto negli anni ‘80 come raccolta provvisoria di compagni che la sconfitta aveva lasciato senza orientamento e in condizioni organizzativamente molto deboli. Ma proprio la mancanza di risultati di rilievo dell’attività da esse svolta da allora a questa parte conferma a ogni compagno l’incompatibilità delle società segrete con il movimento comunista e, quello che più ci importa chiarire, la differenza tra il partito comunista clandestino e una qualunque società segreta.

Quale è la fonte principale delle forze di un partito comunista? Le masse. E come possono le masse conferire la loro forza a un partito di cui ignorano non solo il programma e gli orientamenti, ma addirittura l’esistenza? La concezione del partito come società segreta deriva da una concezione del mondo che sottovaluta le potenzialità rivoluzionarie delle masse (l’attività della società segreta deve sostituire le masse popolari e compiere l’attività che esse dovrebbero svolgere ma non svolgono) e sopravvaluta la forza della borghesia (essa sarebbe in grado di controllare completamente le masse, con i mass media e con i servizi segreti, di annullare l’effetto dell’esperienza dello sfruttamento come fonte della coscienza degli operai e dei membri delle altre classi oppresse e fruttate: le tesi sulla sussunzione reale totale della società nel capitale espongono questa concezione che legittima le società segrete). La società segreta deriva da una concezione che, come quella militarista, pone la tecnica al primo posto; essa porta quindi i rivoluzionari a scontrarsi con la borghesia sul suo terreno (le tecniche delle operazioni segrete, i complotti, ecc.) su cui essa è più forte di noi anziché a legarsi alle masse e a costringere la borghesia a scontrarsi su un terreno che a noi è favorevole. Di conseguenza alla lunga porta i rivoluzionari alla sconfitta.

Come il militarismo, la società segreta è insomma figlia di una concezione del mondo interclassista: tutti totalmente sussunti nel capitale e quindi moltitudine composta di individui. Sul terreno dello scontro politico, questa concezione interclassista si esprime in questo: la tecnica è la tecnica, è la stessa per ogni classe. La guerra tutte le classi la fanno alla stessa maniera, dicono i militaristi; la cospirazione e le operazioni clandestine tutte le classi le fanno alla stessa maniera, dicono i seguaci delle società segrete. Noi invece riteniamo che ogni classe combatte alla propria maniera, se vuole vincere e la classe d’avanguardia, la classe operaia può costringere la classe reazionaria, la borghesia imperialista a misurarsi sul suo terreno perché nella guerra popolare rivoluzionaria non si tratta di un gruppo imperialista che vuole strappare qualche ricchezza a un altro gruppo imperialista, ma si tratta di conquistare la direzione delle masse popolari, conquistandone il cuore.

 

Ci resta da affrontare un’ultima obiezione: è possibile costituire un partito clandestino?

Noi siamo convinti che la costituzione di un partito comunista clandestino è necessaria e possibile. La classe operaia ha avuto nel passato partiti clandestini in varie circostanze: nella Russia zarista, nella Cina coloniale e nazionalista, nell’Italia fascista, nella Germani nazista e in molti altri paesi. I revisionisti moderni hanno alimentato e alimentano l’immagine terroristica della borghesia onnipotente quando hanno voluto togliere alla classe operaia uno strumento indispensabile per la sua lotta rivoluzionaria. “Dio è dappertutto”, “Dio vede tutto”, “Dio può tutto” dicono i preti; i portavoce della borghesia e i revisionisti hanno sostituito queste vecchie frasi minatorie dei preti con “La CIA vede tutto, è dappertutto, può tutto”, “Non si muove foglia che la CIA non voglia” e hanno promosso uno scalcinato carrozzone di assassini, di spioni e di mercenari assetati di denaro e di carriera al ruolo di Dio onnipotente! Se i movimenti rivoluzionari negli USA non sono riusciti a svilupparsi, secondo loro la colpa è della CIA e della FBI. Se le Brigate Rosse sono state sconfitte, è “merito dello Stato che a un certo punto ha incominciato a combatterle sul serio”. E così via. L’onnipotenza della classe dominante è stato sempre un tema della propaganda terroristica della stessa classe dominante (basti considerare la letteratura sulla Mafia e sulle altre Organizzazioni Criminali) e una giustificazione sia degli opportunisti sia degli sconfitti che non vogliono riconoscere i propri errori e fare autocritica. Se la ferocia e l’intelligenza delle classi dominanti potessero fermare il movimento di emancipazione delle classi oppresse, la storia sarebbe ancora ferma allo schiavismo. La società borghese è ricca di contraddizioni, ha in sé tanti fattori di instabilità, il suo funzionamento è costituito da un numero illimitato di traffici e di movimenti e per il suo funzionamento la borghesia è costretta ad avvalersi delle masse che nello stesso tempo calpesta: insomma è una società che più delle precedenti società di classe presenta lati favorevoli all’attività delle classi oppresse, che siano decise a battersi. La possibilità per un partito comunista di costituirsi e operare clandestinamente dipende in definitiva dal suo legame con le masse e questo a sua volta dipende dalla linea politica del partito: se essa è o no conforme alle reali condizioni concrete dello scontro che le masse stanno vivendo (pur avendone esse una coscienza limitata). Questa è la chiave del successo o della sconfitta di un partito comunista. Per quanto feroce e capillare sia la controrivoluzione preventiva, essa non è mai riuscita a impedire la vita e l’attività di un partito comunista che aveva una linea giusta e sulla base di questa linea attingeva all’inesauribile serbatoio di energie e di risorse di ogni genere costituito dalla classe operaia, dal proletariato e dalle masse popolari. È quello che con tutte le nostre forze cercheremo che sia anche il nuovo partito comunista italiano.

 

 

Manchette

I sei grandi apporti del maoismo al pensiero comunista

1. la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata, strategia universale della rivoluzione socialista;

2. la rivoluzione di nuova democrazia nei paesi semifeudali, componente della rivoluzione proletaria;

3. la lotta di classe nella società socialista, mezzo indispensabile per condurre avanti la transizione al comunismo;

4. la linea di massa, principale metodo di lavoro e di direzione del Partito verso le masse popolari;

5. la lotta tra le due linee nel Partito, principio per lo sviluppo del Partito e la sua difesa dall’influenza della borghesia;

6. il Partito e ogni suo membro è oggetto della rivoluzione (processo di CAT) oltre che soggetto.

 

Per un’esposizione di dettaglio vedere L’ottava discriminante in La Voce n. 9 (novembre 2001), n. 10 (marzo 2002) e n. 41 (luglio 2012). La settima discriminante è illustrata nell’articolo omonimo di La Voce n. 1 (marzo 1999) ripubblicato su questo numero della rivista. Le sei discriminanti del partito comunista rispetto ai revisionisti moderni, alla sinistra borghese e agli sterili aborti del movimento comunista (trotzkisti, bordighisti, “comunisti di sinistra”, operaisti, ecc.) sono illustrate nell’articolo Le sei discriminanti e i quattro problemi di Rapporti Sociali n. 19 (agosto 1998) (http://www.nuovopci.it/scritti/RS). Ricordiamo ai nostri lettori che presso le Edizioni Rapporti Sociali (http://www.carc.it) sono disponibili le Opere di Mao Tse-tung.