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La Voce 45 del (nuovo)Partito comunista italiano
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Quale partito comunista?
Perché
proponiamo ai nostri lettori di studiare oggi ancora una volta questo
articolo pubblicato su
La Voce del (n)PCI - n° 1 - marzo 1999, quindi ben prima che nel
2007-2008 entrassimo nella fase acuta e terminale della crisi generale del
capitalismo?
1. Perché constatino che la concezione comunista del
mondo (la scienza sperimentale della trasformazione della società
capitalista nel comunismo) permette di capire il corso delle cose (la
questione della situazione rivoluzionaria) e quindi si diano con più energia
ad assimilarla per usarla come guida della loro attività nella GPR che
stiamo conducendo.
2. Perché, confrontando con il presente quanto allora
scritto dalla Commissione Preparatoria del congresso di fondazione del nuovo
PCI, misurino il percorso fatto nella promozione della GPR e nella
costruzione del suo Stato Maggiore, il partito comunista costruito dalla
clandestinità e nella clandestinità e ne traggano lezioni per il cammino che
dobbiamo fare in questi mesi.
Abbiamo corredato il vecchio articolo degli indirizzi Internet dove leggere o prendere i testi citati.
La settima
discriminante
Quale
partito comunista?
Un partito che
sia all’altezza del compito che il procedere della seconda crisi generale
del capitalismo e la conseguente situazione rivoluzionaria in sviluppo
pongono ad esso e che tenga pienamente conto dell’esperienza della prima
ondata della rivoluzione proletaria
Una
introduzione necessaria
Tra le Forze Soggettive della Rivoluzione Socialista (FSRS)
operanti in Italia questa formula è stata posta al centro del dibattito sul
partito già nel 1995, con l’opuscolo pubblicato dai CARC in occasione del
centenario della morte di F. Engels.(1)
Nel dibattito tra le FSRS nessuno ha contestato apertamente e direttamente
questa formulazione. In realtà vi è però una divergenza che pesa nel lavoro
che le FSRS conducono per la ricostruzione del partito comunista e nelle
linee che lo guidano. La divergenza è stata ben espressa nel recente (15
novembre
1998) Coordinamento Nazionale (http://www.laltralombardia.it/public/docs/confed5.html) della CCA
(Confederazione dei Comunisti/e Autorganizzati) da G. Riboldi che ha
affermato: “Noi oggi non siamo in una situazione né rivoluzionaria, né
prerivoluzionaria”. Questa sua affermazione è strettamente connessa al suo
ripetuto richiamo, sempre nello stesso contesto (la relazione che ha
presentato al Coordinamento), alla “stabilità di questo potere
politico”, al “programma della stabilità capitalistica” che sarebbe
impersonato dal governo D’Alema, al “processo di normalizzazione [che]
rischia di affermarsi stabilmente in assenza di opposizione sociale
che ne ostacoli la realizzazione”, alla “concertazione neocorporativa [che]
rischia di funzionare regolarmente e di stabilizzarsi in assenza di
soggetti politici e sindacali che rifiutano e combattono l’accettazione dei
parametri economici, politici e istituzionali imposti dagli accordi di
Maastricht”: in sintesi, alla stabilità che secondo GR hanno gli attuali
regimi borghesi e l’assetto delle loro relazioni internazionali, stabilità
che solo la lotta (delle classi o dei soggetti politici e sindacali: qui la
differenza non ha importanza) potrebbe scuotere.
1.
PCARC , F. Engels/10, 100, 1000 CARC per la ricostruzione del partito
comunista, 1995, Edizioni Rapporti Sociali, pagg. 17 e segg. e pagg. 38
e segg.
http://www.carc.it/index.php?option=com_content&view=article&id=865
Il merito della relazione di GR è di aver posto nettamente e
apertamente un’obiezione che in altri progetti, proposte e relazioni (ad
esempio nella relazione presentata allo stesso Coordinamento da Leonardo
Mazzei) è sottintesa o solo accennata di sfuggita. Facciamo quindi
riferimento alla relazione di GR per esaminare anche le obiezioni di altri.
G. Riboldi fa alcune altre affermazioni preziose per questa
analisi. Dice: “L’aspetto principale della fase ... non è solo la “crisi
ideologica del riformismo”,(2)
ma [anche] la “crisi economica del capitalismo” e l’accentuarsi delle
contraddizioni dei poli imperialisti”. E ancora: “Sarebbe un errore credere
che la crisi e il progressivo peggioramento delle condizioni di vita di per
sé possono condurre a una mobilitazione rivoluzionaria delle masse”.
2.
Di passaggio osserviamo che qualificare di ideologica la crisi del
riformismo è sminuire l’importanza politica del fatto. Da quando a
metà degli anni ‘70 è iniziata la seconda crisi generale del capitalismo, la
borghesia sta eliminando una a una, pezzo a pezzo tutte le conquiste di
civiltà e di benessere, sta cancellando o svuotando tutti i diritti che le
masse popolari avevano strappato nel periodo precedente. Questa inversione
di tendenza è un fatto pratico, è un processo che avviene nella realtà, non
nelle coscienze. Non è venuta meno la fiducia nel riformismo, non si tratta
di “aver cambiato idea”. Si tratta che la borghesia cancella quel tessuto di
civiltà e di diffuso benessere che le masse avevano costruito e via via
esteso (e che i revisionisti moderni assicuravano che sarebbe stato
possibile estendere in continuazione: la linea delle “riforme di struttura”
di Togliatti). Da qui ha origine la crisi del PCI, dei sindacati di regime e
dello stesso regime DC.
Infatti l’egemonia del PCI sulle masse popolari non era principalmente
basata sulle chiacchiere di Togliatti e di Berlinguer sulle “riforme di
struttura” e sul “socialismo sotto l’ombrello della NATO”, ma sul fatto che
sotto la direzione del PCI dal 1945 al 1975 le masse popolari italiane
avevano strappato reali riforme. Queste reali riforme avevano anche dato
stabilità al regime DC, perché avevano attenuato fino a quasi estinguerla la
lotta della classe operaia per il potere. A partire dalla metà degli anni
‘70 la lotta politica in Italia è tra chi vuole eliminare le riforme e chi
le vuole difendere, tra chi le difende a parole e chi le difende con
accanimento, tra chi le difende in maniera inconseguente e chi le difende in
maniera coerente. Classificare la svolta degli anni ‘70 come una svolta
ideologica, è assolutamente sbagliato. Non sono le idee che sono andate in
crisi, ma un regime politico, un corso pratico della società (quello del
capitalismo dal volto umano).
Classificare come ideologica la crisi del riformismo vuol dire
lasciare avvolto nel fumo anche il periodo precedente: non erano le parole e
le idee del PCI sulle riforme ciò che gli ha permesso di mantenere la
direzione del proletariato italiano, ma le effettive reali conquiste
strappate sotto la sua direzione grazie alla forza acquisita dalle masse
popolari nel precedente movimento rivoluzionario e alla forza del movimento
comunista internazionale (a conferma che le riforme non sono il prodotto di
un pensiero riformista, ma il sottoprodotto delle rivoluzioni mancate).
Questo (non la religiosità degli italiani e l’influenza morale del Vaticano)
era anche la base principale su cui fu possibile alla borghesia instaurare
il regime DC (che aveva alla sua testa il Vaticano) e su cui poggiava la
stabilità dello stesso regime.
Va
da sé che quelle riforme erano frutto della lotta delle masse popolari: chi
ha l’età necessaria, si ricorda le lotte, le dimostrazioni, gli scontri, i
feriti, i caduti, la galera, i processi e il resto del corollario da cui
nacquero le riforme (altro che pensiero riformista o piano del capitale per
integrare le masse!). Quelle riforme erano però compatibili con il dominio
della borghesia imperialista perché il capitalismo attraversava un periodo
di ripresa dell’accumulazione e di espansione dell’apparato produttivo, per
cui le lotte rivendicative erano produttive di riforme e conquiste, erano
efficaci. Da qui è chiaro che il periodo del capitalismo dal volto umano (il
periodo delle conquiste) era connesso con la ripresa e che la crisi del
riformismo è connessa con la crisi economica del capitalismo, è un prodotto,
un effetto di essa.
La
crisi del riformismo non è cioè un fenomeno accanto a un altro (la crisi
economica del capitalismo). Vi è tra i due fenomeni una connessione
dialettica (uno genera l’altro) il cui disconoscimento impedisce a G.
Riboldi, e a quanti altri lo condividono, di comprendere il reale processo
pratico in corso su cui si deve fondare ogni linea politica realistica. La
stessa connessione dialettica esiste anche tra crisi economica del
capitalismo e accentuarsi delle contraddizioni tra i gruppi imperialisti. La
crisi economica è madre della crisi del riformismo (cioè della eliminazione
delle riforme già strappate e della inconsistenza dei progetti e delle
promesse di riforme) e dell’accentuarsi delle contraddizioni tra i gruppi
imperialisti. Esse corrispondono ai due tipi di contraddizioni (tra
borghesia imperialista e masse popolari e tra gruppi imperialisti) che la
crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale rende antagoniste, in cui si
esprime e che aggrava e aggraverà continuamente nel suo procedere fino a che
dall’una o dall’altra delle due sorgerà il movimento che porrà fine alla
crisi: la mobilitazione rivoluzionaria o la mobilitazione reazionaria delle
masse.
Le
relazioni presentate al Coordinamento Nazionale della CCA da cui attingiamo
le citazioni sono pubblicate in nuova unità, n. 8/98.
(http://www.laltralombardia.it/confed.html)
Osserviamo ora gli avvenimenti reali alla luce e con lo
strumento del materialismo dialettico. La storia degli ultimi decenni mostra
- che da un certo periodo in qua, all’incirca dalla metà degli
anni ‘70, il meccanismo della valorizzazione del capitale ha incominciato a
perdere colpi;(3)
- che da qui sono nate l’eliminazione delle conquiste di
benessere e di civiltà che le masse popolari avevano strappato nei
trent’anni precedenti (“i gloriosi trenta” della pubblicistica borghese),(4)
la ricolonizzazione dei paesi semicoloniali (piano Brady e simili) e lo
sfruttamento della loro popolazione e delle loro risorse ambientali fino
all’estinzione, il crollo (1989) e la devastazione dei paesi socialisti che
il lungo dominio dei revisionisti moderni aveva reso economicamente,
finanziariamente e culturalmente dipendenti dall’imperialismo, il gonfiarsi
del capitale finanziario fino a sovrastare e schiacciare il capitale
produttivo di merci (beni e servizi) (l’economia reale), la privatizzazione
delle aziende pubbliche, l’eliminazione dei “lacci e lacciuoli” - le regole
di salvaguardia del pubblico interesse,(5)
la corsa alla costituzione di un numero ristretto (poche unità) di monopoli
mondiali nei settori più importanti, le lotte sempre più aspre tra i gruppi
imperialisti, la crescita delle differenze economiche tra paesi, regioni,
gruppi e classi;
- che da qui è nata anche la crisi di tutti i regimi politici
dei paesi imperialisti e del sistema delle loro relazioni internazionali
(cioè la crisi politica);
- che da qui sono venute anche la crisi culturale che
sconvolge miliardi di uomini da un capo all’altro del mondo, l’incertezza
del futuro, l’insicurezza generale, la precarietà, la mancanza di stabilità,
proprio di quella stabilità contro cui G. Riboldi e soci chiamano a lottare
come Don Chisciotte chiamava a lottare contro i mulini a vento.(6)
3.
Vedere in proposito Per il dibattito sulla causa e sulla natura della crisi
attuale, in Rapporti Sociali n. 17/18, 1996 e Le fasi in cui si divide
l’epoca imperialista, in Rapporti Sociali n. 12/13, 1992.
(http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
4.
L’ultima conquista
strappata dalle masse è stato l’accordo del 1975 tra Confindustria
(presidente G. Agnelli) e Sindacati per il punto unico di contingenza che
migliorò molto la dinamica dei salari più bassi. Di lì a poco subentrò la
“linea dell’EUR” (1978).
Sulla eliminazione delle conquiste, vedere CARC, Le conquiste delle masse
popolari, 1997, Edizioni Rapporti Sociali
(http://www.carc.it/index.php?view=article&id=866) e G. Pelazza, Cronache
di diritto del lavoro 1970-1990, Edizioni Rapporti Sociali.
(http://www.carc.it/index.php?view=article&id=1157)
5.
Vedere sulle Forme Antitetiche dell’Unità Sociale (FAUS), Rapporti
Sociali n. 4, pagg. 20-25, 1989. (http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
6.
Sul carattere economico, politico e culturale della crisi in corso, vedere
CARC, La situazione e i nostri compiti, 1994/1995, Edizioni Rapporti
Sociali.
http://www.carc.it/index.php?view=category&id=104
7.
Il movimento di
resistenza delle masse popolari al procedere della crisi della società
borghese e i compiti delle Forze Soggettive della Rivoluzione Socialista,
in Rapporti Sociali n. 12/13, 1992.
(http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
Dove porta questo corso delle cose? Esso accentua la
contraddizione tra borghesia imperialista e masse popolari e le
contraddizioni tra i gruppi imperialisti. Le masse sono costrette a cercare
nuove soluzioni ai loro problemi di vita e di lavoro, dato che la borghesia
imperialista distrugge essa stessa (nei paesi imperialisti, nelle colonie,
negli ex paesi socialisti) le vecchie soluzioni. Sono cioè costrette a
mobilitarsi. Noi abbiamo dato un nome a questa mobilitazione delle masse
indotta dalla crisi generale del capitalismo, l’abbiamo chiamata “resistenza
delle masse popolari al procedere della crisi”.(7)
Che la si chiami come si vuole. È però incontestabile che essa è il fattore
politico più importante del presente, è il terreno su cui si danno battaglia
tutte le classi, le forze e i gruppi che lottano per il potere. Quindi di
per sé “la crisi e il progressivo peggioramento delle condizioni di vita
non producono la mobilitazione rivoluzionaria delle masse”, come
giustamente osserva GR che però omette di aggiungere che di per sé
producono la mobilitazione delle masse che è il fattore principale e
indispensabile della trasformazione della società e quindi la base oggettiva
di ogni progetto politico realistico, di ogni progetto politico che non si
riduca a declamazione e a vaniloquio. Non è forse vero? Chi ha generato e
genera la migrazione di milioni di persone da un continente a un altro? Chi
ha generato e genera la ribellione crescente di milioni di persone a questa
“invasione”? Chi ha generato e genera l’abbandono delle organizzazioni di
regime e delle istituzioni (elezioni, ecc.) del regime? Chi ha generato e
genera l’esplosione di religioni, sette, volontariato, doppio e triplo
lavoro, violenze gratuite, ecc.? Chi ha generato e genera quell’insieme di
fenomeni che si riassumono nell’imbarbarimento: la malavita, l’esplosione
della delinquenza giovanile, gli scandali, l’insofferenza, la
“ingovernabilità delle metropoli”? Quindi la crisi generale produce di
per sé la mobilitazione delle masse: non mobilitazione rivoluzionaria,
ma mobilitazione!
La crisi, proprio perché è crisi generale per sovrapproduzione
assoluta di capitale, genera anche la lotta antagonista tra gruppi
imperialisti perché ognuno deve valorizzare il suo capitale e il capitale
accumulato è troppo e il plusvalore estorto ai lavoratori, per quanto grande
e crescente, non basta a valorizzarlo tutto. Ogni capitalista per
valorizzare il suo capitale oltre a spremere a morte i lavoratori deve anche
“uccidere” un altro capitalista, deve appropriarsi del suo capitale. Questo
rende antagonisti i contrasti tra gruppi imperialisti.
Queste tendenze che ognuno può constatare, creano forse
stabilità? No, di per sé generano instabilità, sconvolgono regimi e
relazioni tra classi, paesi, nazioni e Stati. Non è quello che avviene sotto
i nostri occhi?
Ebbene, a questa situazione la cui comprensione nell’insieme e
nei dettagli è essenziale per ogni attività politica autonoma (cioè che non
sia a rimorchio e al servizio di altri che pensano e decidono al nostro
posto), che nome diamo?
Noi la chiamiamo situazione rivoluzionaria in sviluppo.(8)
È una situazione in cui i vecchi poteri crollano e crolleranno e altri
poteri si affermeranno lottando e imponendosi ai loro avversari: come è
avvenuto nel corso della prima crisi generale del capitalismo (1900-1945).
In questa situazione la mobilitazione delle masse può diventare
rivoluzionaria o diventare reazionaria, ma non una terza cosa!
8.
La situazione
rivoluzionaria in sviluppo, in Rapporti Sociali n. 9/10, 1991.
(http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
L’affermazione di G. Riboldi e altri “non siamo in una situazione
rivoluzionaria né prerivoluzionaria” diventa meno fuori posto se intesa come
“non siamo in una situazione insurrezionale né preinsurrezionale”: cosa che
(a quanto pare) nessuno contesta. Ma così intesa l’affermazione di GR
comporta una concezione schematica e ristretta del lavoro delle FSRS del
tipo: “La rivoluzione si fa con l’insurrezione; finché non c’è
l’insurrezione o non si è nell’imminenza dell’insurrezione, la politica
rivoluzionaria si riduce a fare da “sponda politica” al lavoro sindacale, a
sostenere, promuovere e organizzare le lotte rivendicative dei lavoratori e
a sostenere le loro ragioni presso le autorità, nelle istituzioni”. Che è la
concezione della politica rivoluzionaria che ha dato la triste dimostrazione
della sua impotenza all’inizio di questo secolo, nei partiti della Seconda
Internazionale e, per quel che ci riguarda, nel PSI e nel “biennio rosso”
1919-1920.
La mobilitazione delle masse, che la crisi generale produce
di per sé, deve crescere sotto una direzione, non può crescere senza
direzione: esiste e non può esistere che sotto una direzione. Quale sarà la
direzione che effettivamente si affermerà in un caso concreto, non dipende
dalla crisi, ma da altri fattori: come dire che ogni uccello a primavera fa
il nido e lo deve appoggiare da qualche parte, ma che lo appoggi da una
parte o dall’altra non dipende dalla primavera. Crescerà come mobilitazione
rivoluzionaria, certamente non di per sé, non ineluttabilmente, ma solo se
le FSRS, se il partito comunista della classe operaia (quindi le FSRS oggi e
il partito comunista domani) saranno capaci di far prevalere in essa la
direzione della classe operaia, rispetto a quella di tutti gli altri
pretendenti (i gruppi imperialisti promotori della mobilitazione
reazionaria), quindi se saranno capaci di trasformarla in lotta per il
comunismo, in rivoluzione socialista. In caso contrario la mobilitazione
delle masse crescerà come mobilitazione reazionaria, come mobilitazione
delle masse diretta da qualche gruppo della borghesia imperialista che
mobilita le masse nella sua lotta contro altri gruppi imperialisti che a
loro volta mobilitano altre masse, cioè nelle guerre imperialiste in cui i
gruppi imperialisti e i loro clienti scagliano le masse le une contro le
altre.(9) È stato
anche dimostrato dalla pratica, ed è comprensibile anche teoricamente, che
la mobilitazione reazionaria può essere trasformata in mobilitazione
rivoluzionaria e viceversa. Nel giugno-luglio 1919 la piccola borghesia
urbana italiana portava le chiavi dei negozi alle Camere del lavoro, la
stessa piccola borghesia urbana due anni dopo forniva reclute alle squadre
fasciste che davano la caccia agli operai. Viceversa i soldati che nel 1940
avevano applaudito Mussolini che li chiamava alla guerra, nel 1944 gli
davano la caccia come partigiani. La storia della prima crisi generale è
folta di trasformazioni di questo genere.
9.
Le mille guerre nazionalistiche, interetniche, ecc. che imperversano
dall’Europa all’Asia sono per la maggior parte un esempio di queste guerre
che i gruppi imperialisti conducono tra loro mobilitando ognuno masse al suo
seguito e facendo a tale fine leva su uno dei mille contrasti e differenze
(nazionali, economiche, religiose, ecc.) che la storia ci lascia in eredità.
Sulla natura della mobilitazione reazionaria, v. Rapporti Sociali n.
12/13 pagg. 25-31. (http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
Ma come possono le FSRS essere capaci di far crescere la
mobilitazione delle masse (la resistenza che le masse oppongono al procedere
della crisi generale del capitalismo) come mobilitazione rivoluzionaria
(cioè come lotta per il comunismo, come rivoluzione socialista), se neanche
si accorgono di questa mobilitazione che cresce di per sé, se
continuano a fare i loro chiacchiericci senza rendersi conto di questa
esplosione in arrivo, di questa colata lavica che va montando? Che cosa
significa il fatto che un autorevole esponente di una FSRS nasconde dietro
la negazione di una tesi (la tesi che la crisi produce di per sé
mobilitazione rivoluzionaria delle masse) che, a quanto risulta,
nessuno sostiene, il suo silenzio su una tesi (la crisi produce di per sé
mobilitazione delle masse) che, se è vera come lo è, in questa fase sta alla
base di tutta l’attività politica rivoluzionaria consapevole, di ogni
progetto realistico di politica rivoluzionaria? Stante che la crisi
effettivamente in corso fa mobilitare le masse, ogni piano di politica
rivoluzionaria, ogni concezione del divenire della società, ogni concezione
della rivoluzione socialista che non sono lavoro per far diventare
rivoluzionaria la reale mobilitazione delle masse, quella che effettivamente
si sviluppa, ogni progetto di creare un altro tipo di rivoluzione socialista
sono un proposito sciocco, uno sterile gioco intellettuale e una dispersione
di forze.
Il ragionamento di GR in sintesi è: “La crisi non produce di
per sé la mobilitazione rivoluzionaria delle masse, quindi non
ha senso occuparsi della mobilitazione delle masse che la crisi di
per sé produce e di cosa dobbiamo fare per farla diventare
rivoluzionaria. Passiamo quindi a parlare d’altro”.
Proprio al contrario, le FSRS devono studiare con la massima
cura la reale mobilitazione delle masse che la crisi produce di per sé,
questa colata lavica che monta; devono scoprire le leggi dello sviluppo
della resistenza delle masse al procedere della crisi generale del
capitalismo; devono far leva sulle tendenze positive presenti in questa
resistenza per far prevalere in essa la direzione della classe operaia, cioè
per trasformarla in lotta per il comunismo.
Noi dobbiamo costituire un partito comunista che sia in grado
di adempiere a questo compito, perché questo e non altro è il compito che
gli sta di fronte.
Per chiunque vede la reale connessione tra crisi economica per
sovrapproduzione assoluta di capitale, crisi generale (economica, politica e
culturale), lotte tra gruppi imperialisti, crisi del riformismo (delle
politiche riformiste, dei riformisti, degli illusionisti delle riforme) e
mobilitazione delle masse, per costui è quindi chiaro che la classe operaia,
il proletariato, le masse popolari, la causa del comunismo hanno bisogno di
un partito che sia all’altezza del compito che il procedere della seconda
crisi generale del capitalismo e la conseguente situazione rivoluzionaria in
sviluppo pongono ad esso e che tenga pienamente conto dell’esperienza della
prima ondata della rivoluzione proletaria, perché siamo proprio in una
situazione rivoluzionaria in sviluppo, una situazione di grande instabilità
e precarietà degli attuali regimi politici borghesi, che va di per sé
verso la mobilitazione delle masse che sarà rivoluzionaria o reazionaria a
secondo della capacità delle forze politiche di capire e applicare a proprio
vantaggio le sue leggi di sviluppo.
La seconda crisi generale genera di per sé un
periodo di guerre e di rivoluzioni. Quali guerre, quali rivoluzioni, con
quali esiti provvisori, con quale esito finale? Questo lo “deciderà” lo
scontro tra la mobilitazione rivoluzionaria che le FSRS oggi e il partito
comunista domani promuoveranno e la mobilitazione reazionaria che vari
gruppi imperialisti a loro volta e in concorrenza tra loro promuoveranno.
Ma è chiaro che non abbiamo bisogno di un partito comunista
che si qualifichi principalmente come “sponda politica” del “sindacato di
classe” (per riprendere un’altra affermazione di G. Riboldi), ma di un
partito comunista promotore, organizzatore e dirigente della mobilitazione
delle masse popolari, che solo così diventa mobilitazione rivoluzionaria,
cioè lotta per la conquista del potere da parte della classe operaia e per
l’instaurazione del socialismo.
Posto questo, sono tre le questioni che ne derivano.
1. Cosa significa in concreto, nella nostra situazione, un
partito che sia all’altezza del compito che il procedere della seconda crisi
generale del capitalismo e la conseguente situazione rivoluzionaria in
sviluppo pongono ad esso?
2. Cosa insegna al riguardo l’esperienza della prima ondata
della rivoluzione proletaria (1900-1945)?
3. Quali sono le caratteristiche che rendono un partito quale
lo vogliamo?
Ogni compagno che si pone responsabilmente e concretamente il
compito di ricostruire il partito comunista si pone queste tre domande. Ogni
compagno ha cercato e cerca di dare ad esse delle risposte. Ricavandole da
dove? Dalle sue credenze, dai suoi pregiudizi, dalla cultura correntemente
diffusa dalle università, dai centri studi, dalle fondazioni, dalle case
editrici, dalle riviste di prestigio, dai giornalisti ben pagati, insomma
dalla macchina ideologica della classe dominante? No, le ricava dalla
esperienza passata e presente del movimento comunista internazionale e del
nostro paese e dalle condizioni della lotta di classe che si svolge nel
nostro paese, studiando ed elaborando quelle esperienze con gli strumenti
forniti dal patrimonio teorico del movimento comunista internazionale che è
sintetizzato nel marxismo-leninismo-maoismo. Può darsi che questo
scandalizzi alcuni critici accaniti del “pensiero unico” della borghesia
imperialista che però ad esso si rifanno ogni volta che devono pensare
qualcosa. Ma questa è la strada che noi seguiamo.
Noi vogliamo essere materialisti dialettici, comunisti,
rivoluzionari proletari. Quindi le nostre risposte sono criteri che ci
guideranno nella nostra azione, sottoposti alla verifica della realtà.
Facciamo il bilancio delle esperienze, raccogliamo ed elaboriamo le
esperienze, le sensazioni, le aspirazioni sparse, diffuse e confuse delle
masse che sono effetto della vita che esse conducono e quindi rivelatrici
(indizi) del reale corso delle cose, traduciamo tutto ciò in una linea che
riportiamo alle masse perché diventi guida nell’azione. Dai risultati di
questa azione ripartiremo per ripetere il processo, elaborare una linea più
giusta e più conforme alle leggi oggettive del movimento della società,
della lotta tra le classi sfruttate e la borghesia imperialista. Il successo
nella pratica è, in definitiva, il criterio della verità di ogni nostra
linea e di ogni nostra idea.
In questo articolo vogliamo dimostrare che l’esperienza della
prima ondata della rivoluzione proletaria e l’analisi della società attuale
insegnano concordemente tre cose.
- 1. Che la rivoluzione proletaria che dobbiamo e possiamo
fare ha la forma della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata.
- 2. Che il nuovo partito comunista deve essere costruito in
modo da essere la direzione della guerra popolare rivoluzionaria di lunga
durata che in maniera confusa e dispersa si sta già sviluppando sotto i
nostri occhi, onde renderla una guerra che le masse popolari conducono in
modo via via più organizzato, prendendo l’iniziativa nelle loro mani, sotto
la direzione lungimirante e capace della classe operaia organizzata nel suo
partito comunista, ponendosi l’obiettivo della vittoria e dell’instaurazione
del socialismo (passando insomma da una guerra che ora le masse subiscono
difendendosi alla meno peggio e in ordine sparso, a una guerra che conducono
come si deve condurla per vincere).
- 3. Che esso deve essere costruito dalla clandestinità, come
partito che non basa la sua esistenza sul margine di libertà di azione
politica che la borghesia imperialista reputa le convenga consentire alle
masse popolari, ma sulla sua capacità di esistere e di operare nonostante i
tentativi della borghesia di eliminarlo e che da qui sfrutta al massimo
anche quel margine per la sua azione: solo dalla clandestinità il partito è
in grado di raccogliere le forze rivoluzionarie che il corso della lotta tra
le classi gradualmente genera, di dirigerle a educarsi alla lotta lottando e
di accumularle fino a rovesciare l’iniziale sfavorevole rapporto di forza.
Illustriamo in questo articolo le risposte che noi diamo alle
domande sopra indicate. Pubblicheremo via via nei prossimi numeri della
rivista le risposte che altri compagni daranno ad esse, in modo da
raccogliere e poterci giovare nel lavoro che ci sta davanti, del massimo
dell’esperienza e della elaborazione attualmente disponibile. Le idee giuste
vengono verificate dalla pratica e arricchite dal bilancio delle esperienze;
nel bilancio delle esperienze le idee giuste si affermano contro le idee
sbagliate: per questo sono indispensabili i dibattiti e le lotte
ideologiche.
Sulla forma della rivoluzione proletaria
Incominceremo dalla forma della rivoluzione proletaria, dal
modo in cui la classe operaia prepara e attua la conquista del potere, da
cui parte poi la trasformazione socialista della società.(10)
Alla fine del secolo scorso, cioè all’inizio dell’epoca
imperialista del capitalismo, i partiti socialdemocratici nei paesi più
avanzati avevano già compiuto la loro opera storica di costituire la classe
operaia come classe politicamente autonoma dalle altre. Avevano posto fine
all’epoca in cui molte persone di talento o inette, oneste o disoneste,
attratte dalla lotta per la libertà politica, dalla lotta contro il potere
assoluto dei re, della polizia e dei preti, non vedevano il contrasto fra
gli interessi della borghesia e quelli del proletariato. Quelle persone non
concepivano neanche lontanamente che gli operai potessero essi stessi agire
come una forza sociale autonoma. I partiti socialdemocratici avevano posto
fine all’epoca in cui molti sognatori, a volte geniali, pensavano che
sarebbe bastato convincere i governanti e le classi dominanti
dell’ingiustizia e della precarietà dell’ordine sociale esistente per
stabilire con facilità sulla terra la pace e il benessere universali. Essi
sognavano di realizzare il socialismo senza lotta della classe operaia
contro la borghesia imperialista. I partiti socialdemocratici avevano posto
fine all’epoca in cui quasi tutti i socialisti e in generale gli amici della
classe operaia vedevano nel proletariato solo una piaga sociale e
constatavano con spavento come, con lo sviluppo dell’industria, si
sviluppava anche questa piaga. Perciò pensavano al modo di frenare lo
sviluppo dell’industria e del proletariato, di fermare la “ruota della
storia”.(11)
Grazie alla direzione di Marx ed Engels i partiti socialdemocratici avevano
invece creato nei paesi più avanzati un movimento politico, con alla testa
la classe operaia, che riponeva le sue fortune proprio nella crescita del
proletariato e nella sua lotta per l’instaurazione del socialismo e la
trasformazione socialista dell’intera società. Iniziava l’epoca della
rivoluzione proletaria.(12)
Il movimento politico della classe operaia era il lato soggettivo,
sovrastrutturale della maturazione delle condizioni della rivoluzione
proletaria, mentre il passaggio del capitalismo alla sua fase imperialista
ne era il lato oggettivo, strutturale.
10.
Sulla forma della rivoluzione socialista, vedere pagg. 14-15 e pagg. 38-44
di CARC, F. Engels/10, 100, 1000 CARC per la ricostruzione del partito
comunista, 1995, Edizioni Rapporti Sociali.
http://www.carc.it/index.php?view=article&id=865
11.
Su questi temi vedere F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia
alla scienza, 1882, Edizioni Rapporti Sociali.
http://marxists.anu.edu.au/italiano/marx-engels/1880/evoluzione
12.
Lenin,
Friedrich Engels, 1895, in Opere complete, vol. 2.
http://www.marxists.org/italiano/lenin/1895/biogra-e.htm
La classe operaia aveva già compiuto alcuni tentativi di
impadronirsi del potere: in Francia nel 1848-50
(13) e nel 1871
con la Comune di Parigi,(14)
in Germania con la partecipazione su grande scala alle elezioni politiche.(15)
Era ormai possibile e necessario capire come la classe operaia sarebbe
riuscita a prendere nelle sue mani il potere e avviare la trasformazione
socialista della società. Erano riunite le condizioni per affrontare il
problema della forma della rivoluzione proletaria. Nel
1895, nella Introduzione alla ristampa degli articoli di K. Marx Le lotte
di classe in Francia dal 1848 al 1850, F. Engels (http://www.nuovopci.it/classic/marxengels/prlotfra.html)
fece il bilancio delle esperienze fino allora compiute dalla classe operaia
ed espresse chiaramente la tesi che “la rivoluzione proletaria non ha la
forma di un’insurrezione delle masse popolari che rovescia il governo
esistente e nel corso della quale i comunisti, che partecipano ad essa
assieme agli altri partiti, prendono il potere”. La rivoluzione proletaria
ha la forma di un accumulo graduale delle forze attorno al partito
comunista, fino ad invertire il rapporto di forza: la classe operaia deve
preparare fino ad un certo punto “già all’interno della società borghese gli
strumenti e le condizioni del suo potere”. Lo sviluppo delle rivoluzioni nel
nostro secolo ha confermato, precisato e arricchito la tesi di F. Engels.(16)
13.
K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, 1850, in
Opere, vol. 10.
http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1850/lottecf/
14.
K. Marx, La guerra
civile in Francia, 1871 e F. Engels, Introduzione, 1891. http://marxists.anu.edu.au/italiano/
marx-engels/1871/gcf/introduzioneengels.htm
15.
F. Engels, Introduzione a “K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal
1848 al 1850”, 1895, in Opere, vol. 10.
http://www.nuovopci.it/classic/marxengels/prlotfra.html
16.
I revisionisti dell’inizio del secolo (E. Bernstein & C) e i revisionisti
moderni (Kruscev, Togliatti, ecc.) hanno cercato ripetutamente di “tirare
dalla loro parte” l’Introduzione del 1895 di Engels. “Accumulo graduale
delle forze rivoluzionarie all’interno della società borghese? Certo! Ecco i
nostri gruppi parlamentari sempre più numerosi, abili, influenti e ascoltati
dal governo, i nostri voti in crescita di elezione in elezione, i nostri
sindacati cui sono iscritti milioni di lavoratori e che ministri e
industriali ascoltano e interpellano con rispetto, le nostre floride
cooperative, le nostre buone case editrici, i nostri giornali e periodici ad
alta tiratura, le nostre manifestazioni d’ogni genere sempre affollate, le
nostre associazioni culturali che raccolgono il fior fiore dell’intelligenza
del paese, la nostra vasta rete di contatti e di presenze in posti che
contano, il nostro seguito in tutte le categorie. Ecco l’accumulo delle
forze rivoluzionarie che ci rende capaci di governare!”.
È
una grande violenza far dire queste cose a Engels che, pur non avendo visto
tutto quello che è successo nel secolo XX, aveva messo in guardia dal farsi
illusioni, aveva avvertito che la progressione elettorale del partito
socialdemocratico tedesco, segno del progresso del socialismo nella classe
operaia tedesca e della sua crescente egemonia sulle masse popolari, non
sarebbe continuata all’infinito, aveva avvertito che la borghesia avrebbe
“sovvertito la sua stessa legalità” quando questa l’avrebbe messa in
difficoltà.
Ma
il problema principale non è “quello che Engels ha veramente detto”. Il
problema principale è che i fatti, la realtà, gli avvenimenti hanno
ripetutamente dimostrato che quelle forze accumulate di cui parlano i
revisionisti si sono sciolte come neve al sole in ogni scontro acuto e crisi
acuta della società che hanno posto all’ordine del giorno la conquista del
potere, in ogni caso in cui erano dirette dai revisionisti ed erano le sole
o le principali “forze rivoluzionarie” che la classe operaia aveva
accumulato (basti richiamare l’Italia del 1919-1920, la Germania del 1914 e
del 1933, l’Indonesia del 1966, il Cile del 1973). Esse hanno potuto servire
allo scopo solo quando erano le propaggini legali, il braccio legale di un
partito e di una classe operaia che veniva altrimenti accumulando le vere e
decisive forze rivoluzionarie (basti citare la Russia del 1917).
Il processo della rivoluzione socialista è complesso, ha le
sue leggi, si svolge nel corso di un certo tempo.
Chi dice che la classe operaia non può vincere,
rovesciare la borghesia imperialista e prendere il potere, sbaglia (i
pessimisti e gli opportunisti sbagliano). I successi raggiunti dal movimento
comunista nella prima ondata della rivoluzione proletaria (1914-1949) hanno
confermato praticamente ciò che Marx ed Engels avevano dedotto teoricamente
dall’analisi della società borghese.
Chi dice che la classe operaia può facilmente e in breve
tempo vincere, rovesciare la borghesia imperialista e prendere il
potere, sbaglia (gli avventuristi sbagliano: da noi abbiamo visto all’opera
i soggettivisti e i militaristi). Le sconfitte subite dal movimento
comunista nella prima ondata della rivoluzione proletaria (tra cui in Italia
quella del “biennio rosso” 1919-1920 di cui ricorre quest’anno lo 80°
anniversario), le rovine prodotte dal revisionismo moderno dopo che negli
anni ‘50 ha preso la direzione del movimento comunista e la sconfitta subita
in Italia dalle Brigate Rosse all’inizio degli anni ‘80 hanno confermato
praticamente anche questa tesi.
La classe operaia può vincere, rovesciare la borghesia
imperialista e prendere il potere, ma attraverso un lungo periodo di
apprendistato, di dure lotte, di lotte dei tipi più svariati e di
accumulazione di ogni genere di forze rivoluzionarie, nel corso del processo
di guerre civili e di guerre imperialiste che durante la crisi generale del
capitalismo comunque (inevitabilmente, indipendentemente dalle teorie e
dalle decisioni di uomini e partiti) sconvolgono il mondo fino a
trasformarlo. Per condurre con successo questa lotta, per ridurre gli errori
che si compiono, bisogna capire la natura del processo, le contraddizioni
che lo determinano, le leggi secondo cui si sviluppa.
Non per nostra scelta ma per le caratteristiche proprie del
capitalismo, il processo di sviluppo dell’umanità si è posto in questi
termini: o guerre tra masse popolari dirette da gruppi imperialisti o guerre
tra classe operaia e borghesia imperialista. È un dato di fatto, un fatto a
cui non possiamo sfuggire per forza dei nostri desideri o della nostra
volontà se non ponendo fine all’epoca dell’imperialismo;(17) è un fatto reso evidente dallo studio dei 100
anni dell’epoca imperialista già trascorsi e dallo studio delle tendenze
attuali della società. La situazione è resa ancora più complessa dal fatto
che nella sua guerra contro la borghesia imperialista la classe operaia deve
sfruttare le contraddizioni tra gruppi imperialisti. I due tipi di guerre
(la guerra della classe operaia contro la borghesia imperialista e le guerre
tra gruppi imperialisti) in sostanza si sviluppano entrambi e si
intrecciano.(18)
Il problema è quale prevale. I comunisti devono fare in modo che gli
antagonisti nella guerra siano la classe operaia e la borghesia imperialista
in modo che alla sua conclusione la classe operaia emerga come nuova classe
dirigente, come la classe che ha vinto la guerra. D’altra parte devono
condurre la guerra in modo tale che i gruppi imperialisti si azzuffino tra
loro onde non uniscano e concentrino le loro forze, all’inizio prevalenti,
contro la classe operaia. Questo è un problema della relazione tra strategia
e tattica nella rivoluzione proletaria.
17.
Non è un caso che ripetutamente
si vedono pacifisti dichiarati diventare nel corso degli avvenimenti fautori
della guerra. Clamoroso il caso di A. Sofri che divenne fautore
dell’intervento militare degli imperialisti USA ed europei nei Balcani. Le
cose procedono nonostante le volontà dei pacifisti e diventano tali che essi
o si schierano contro la causa (l’imperialismo) che determina il corso delle
cose o si schierano con una delle parti in guerra, giustificando in qualche
modo il venir meno del loro pacifismo.
Il
loro pacifismo non può trasformare il corso delle cose e quindi è il corso
delle cose che trasforma il loro pacifismo. Il pacifismo non è una “terza
via”. In alcuni è uno stadio transitorio verso lo schieramento nella guerra,
per altri è una politica per impedire che le masse popolari prendano le armi
contro la borghesia imperialista: predicano il disarmo e la pace alle masse
che non hanno armi in modo da lasciare libero il campo d’azione alla
borghesia imperialista che è armata fino ai denti e continua ad armarsi.
Esponente tipico di questa seconda specie di “pacifismo” è Papa Woityla.
18.
Esemplare al riguardo fu
la Seconda guerra mondiale. Essa fu contemporaneamente guerra tra gruppi
imperialisti e guerra tra classe operaia e borghesia imperialista. La
contraddizione tra i due aspetti ha caratterizzato la natura, l’andamento e
l’esito della Seconda guerra mondiale. Tra quelli che non comprendono questa
contraddizione o per opportunità politica la negano, alcuni pongono
unilateralmente un aspetto (guerra interimperialista), altri l’altro (guerra
di classe), gli uni e gli altri facendo a pugni con i fatti e impelagandosi
in un intrico di contraddizioni logiche da cui non riescono a uscire.
Su
questa contraddizione che caratterizza la Seconda guerra mondiale, vedere
l’articolo di M. Martinengo Il movimento politico degli anni trenta in
Europa, in Rapporti Sociali n. 21, 1999.
(http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
Vedere anche Un libro e alcune lezioni di Umberto C. in La Voce
n. 24 (novembre 2006). http://www.nuovopci.it/voce/voce24/librlez.html
In contrasto con la tesi di Engels (che la classe operaia può
arrivare alla conquista del potere solo attraverso un graduale accumulo
delle forze rivoluzionarie), alcuni presentano la rivoluzione russa del 1917
come un’insurrezione popolare (“assalto al Palazzo d’Inverno”) nel corso
della quale i bolscevichi hanno preso il potere. In realtà l’instaurazione
del governo sovietico nel novembre del 1917
1. è stata preceduta da un lavoro sistematico di accumulazione
delle forze diretto dal partito che a partire dal 1903 si era costituito
come forza politica libera, che esisteva e operava con continuità in vista
della conquista del potere nonostante che l’avversario mirasse a
distruggerla e quindi come forza politica indistruttibile dall’avversario;
2. è stata preceduta dal lavoro più specifico fatto tra il
febbraio e l’ottobre 1917;
3. è stata seguita da una guerra civile e contro l’aggressione
imperialista conclusa nel 1921 e conclusa solo in un certo senso perché lo
sforzo della borghesia imperialista per soffocare l’Unione Sovietica è
proseguito nelle lunghe e molteplici manovre antisovietiche degli anni ‘20 e
‘30 e nell’aggressione nazista del 1941-1945.
La rivoluzione russa del 1905 quella sì aveva avuto più la
forma di un’esplosione popolare non preceduta dall’accumulo delle forze
attorno al partito comunista; ma non a caso non aveva portato alla vittoria.(19)
19.
Lenin, Rapporto sulla rivoluzione del 1905, 22.1.1917, in
Opere complete, vol. 23. http://www.nuovopci.it/classic/lenin/raprivol.htm
Una conferma esemplare della giustezza e della profondità
della teoria di Engels è data dalla storia del “biennio rosso” (1919-1920)
in Italia. La mancata accumulazione delle forze rivoluzionarie nel periodo
precedente, la “insufficienza rivoluzionaria” del PSI come venne chiamata,
impedirono di trasformare in rivoluzione socialista la mobilitazione delle
masse che pure erano in larga misura orientate dal PSI (aderente alla
Internazionale Comunista) e dalla Rivoluzione d’Ottobre e nelle quali molti
erano gli uomini che nel corso della Prima guerra mondiale, appena finita,
erano stati addestrati all’uso delle armi e alla guerra.
Alcuni sostengono che la colpa del mancato successo va
attribuita ai capi riformisti (Turati, Treves, Modigliani, D’Aragona, ecc.)
presenti nel PSI e alla testa della CGL. Altri sostengono che in generale
mancarono i capi rivoluzionari. Altri ancora sostengono che la mobilitazione
delle masse non era sufficientemente ampia e rivoluzionaria ... da poter
fare a meno di capi.
Il problema è un altro.
Il movimento socialista e sindacale italiano si era sviluppato
solo nei campi parlamentare, sindacale, cooperativo ed educativo. Gran parte
dei partiti della Seconda Internazionale avevano di fatto ridotto il loro
lavoro socialista a questi soli campi. I revisionisti e i riformisti avevano
addirittura rivendicato e giustificato teoricamente questa limitazione. Il
movimento italiano non si era distinto dal grosso della Seconda
Internazionale. Negli altri campi aveva fatto solo magniloquenti
dichiarazioni e appelli e alimentato generose aspirazioni, ma nulla di più.
Era un movimento capace di moltiplicare e migliorare i voti
nelle elezioni, il numero dei rappresentanti eletti, i periodici, le
cooperative, le organizzazioni sindacali, le associazioni culturali, ecc. ma
incapace di avere anche un solo distaccamento di uomini armati o alcuni
degli altri strumenti di potere di cui la classe dominante si avvale per il
suo dominio e di cui tutela per legge il monopolio. Tutto il
movimento socialista e sindacale italiano era ricco di esperienze nelle
lotte rivendicative e nelle iniziative consentite dalla legge dello Stato
borghese, ma incapace di accumulare qualsiasi esperienza nei campi di cui la
classe dominante si riservava il monopolio. Esso fuoriusciva dai limiti
delle leggi dello Stato borghese solo per iniziative episodiche,
estemporanee, istintive e circoscritte, nei tumulti e negli scontri di
piazza prodotti dall’indignazione delle masse o dalle provocazioni delle
forze della repressione, episodi che coinvolgevano parti più o meno ampie
del movimento socialista, ma a cui restava estranea la sua direzione che
così non veniva educata a svolgere il suo compito specifico né sul piano
strategico né sul piano tattico. I riformisti non volevano la
rivoluzione e cercavano di evitarla con tutte le loro forze e i
massimalisti (G. Menotti Serrati, ecc.) non sapevano cosa fare per
passare dalla rivendicazione alla rivoluzione e più volte si mostrarono
disposti a farsi da parte. Ma neanche i comunisti (Gramsci, Bordiga,
Terracini, Tasca, ecc.) sapevano cosa fare. Questi alimentavano e spingevano
avanti il movimento delle masse e chiedevano che “il partito”, che essi non
dirigevano né cercavano di dirigere, desse il via a una rivoluzione di cui
nessuno aveva mai pensato e tanto meno sperimentato i passaggi attraverso i
quali doveva svolgersi e di cui nessuno aveva approntato gli strumenti.(20) Quando nella riunione del 9-10 settembre
1920 a Milano della Direzione del PSI e del Consiglio Generale della CGL
venne chiesto a Tasca e a Togliatti (che vi partecipavano come
rappresentanti degli operai torinesi che occupavano le fabbriche) se i
torinesi erano in grado di incominciare con una sortita offensiva dalle
fabbriche, essi dovettero convenire che no, non erano in grado. In modo
analogo erano andate le cose anche durante lo sciopero generale e la serrata
nell’aprile 1920 quando al Consiglio Nazionale del PSI riunito a Milano il
20-21 aprile come portavoce degli operai torinesi avevano partecipato Tasca
e Terracini. Più volte negli anni successivi A. Gramsci dovette riconoscere
che essi non erano in alcun modo preparati a una offensiva che avesse
probabilità di successo, non sapevano da dove incominciare un’azione per la
conquista del potere e chiedevano ... che lo facesse “il partito”.
20.
Da notare che gli stessi erano invece sicuramente sperimentati e capaci di
predisporre un piano per uno sciopero generale, per la fondazione di una
cooperativa, per organizzare una casa editrice, per condurre una campagna
elettorale, ecc. Insomma per tutti quei campi in cui si era svolta fino
allora l’attività del movimento socialista e sindacale italiano e quella di
gran parte dei partiti della Seconda Internazionale.
Tutto il movimento socialista
italiano si connotava da una parte per l’estremismo e il massimalismo
sul piano tattico, nelle iniziative singole spesso frutto
dell’improvvisazione e dell’indignazione di individui e gruppi a cui il
partito non dedicava né addestramento pratico né orientamento politico e
ideologico e tanto meno direzione e dall’altra parte per il
riformismo nella strategia per cui gli obiettivi generali del movimento si
configuravano sempre come richieste che la direzione rivolgeva al governo o
allo Stato borghesi che per loro natura né volevano né potevano soddisfarle.
Non vi erano nel PSI alcuna iniziativa di partito né alcuna
direzione relativa all’armamento e all’addestramento all’uso delle armi e ad
operazioni militari: tutto quanto fu fatto sul piano dell’armamento era
frutto di iniziative individuali e l’addestramento o era frutto di
iniziative individuali o derivava dal servizio militare che i lavoratori
prestavano nelle forze armate della borghesia: ciò tra l’altro comportava
che il partito non svolgeva alcuna elaborazione di concezioni militari
tattiche e strategiche appropriate al carattere della classe operaia e delle
altre classi popolari, distinte da quelle della borghesia e derivate
dall’elaborazione della esperienza militare che le masse facevano nel corso
dei tumulti, delle rivolte, degli scontri di strada.
Giova infine ricordare che entrambe le maggiori prove di forza
del biennio (lo sciopero di aprile e l’occupazione di settembre 1920)
iniziarono per iniziativa dei padroni e che la risposta alla loro iniziativa
venne decisa dagli organismi dirigenti della FIOM, a conferma della
impreparazione del PSI a ogni azione rivoluzionaria.(21)
21.
Vedere in proposito: le due lettere (10 gennaio e 2 aprile 1924) di A.
Gramsci a Z. Zini pubblicate in Rinascita n. 17, 25 aprile 1964; il
capitolo 6 della Storia del Partito comunista italiano di P. Spriano
vol. 1; i capitoli 14 e 15 di R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione.
La mancanza di una accumulazione delle forze rivoluzionarie,
di un processo nel corso del quale la classe operaia avesse preparato fino
ad un certo punto già all’interno della società borghese gli strumenti e le
condizioni del suo potere, risalta evidente come causa della sconfitta anche
nelle rivoluzioni tedesca, austriaca, finlandese, ungherese del 1918-1919:
rivoluzioni popolari che portano alla dissoluzione del vecchio Stato, ma non
portano all’instaurazione di un nuovo Stato fino a quando non lo fa la
borghesia. Lo stesso confermano le vicende delle altre acute crisi politiche
(Polonia, Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Turchia, USA,
Inghilterra, Francia, ecc.) che segnano la fine della Prima guerra mondiale
e gli anni immediatamente successivi.
Anche la successiva storia europea di questo secolo conferma
l’indicazione di Engels. Fondamentalmente è la storia della guerra tra
classe operaia e borghesia imperialista. Tutte le crisi politiche borghesi e
i contrasti tra gruppi e Stati imperialisti sono condizionati da questa
guerra sottostante. Ma i partiti comunisti non affrontano la situazione in
questi termini.
Negli anni ‘30 e ‘40 “meglio Hitler che i comunisti” fu la
parola d’ordine dei gruppi imperialisti francesi di fronte al sorgere del
nazismo in Germania e alla sua espansione in Spagna, in Cecoslovacchia, ecc.
“Meglio Hitler che il bolscevismo”, “meglio i giapponesi che i comunisti” fu
la regola dei gruppi imperialisti inglesi e americani. Lo schieramento degli
“Stati democratici” (USA, Inghilterra, Francia) contro il governo
repubblicano durante la guerra civile spagnola (1936-1939) fu determinato
dallo stesso motivo.
La borghesia imperialista infine, nonostante la guerra in
corso tra gruppi imperialisti, condusse la Seconda guerra mondiale in
funzione anticomunista, con l’obiettivo di stroncare il movimento comunista
in Europa e il movimento antimperialista di liberazione nazionale nelle
colonie e nelle semicolonie e di soffocare l’Unione Sovietica.
Strategicamente la contraddizione tra la borghesia imperialista e la classe
operaia era antagonista, la contraddizione tra gruppi imperialisti era
secondaria benché anch’essa antagonista. Sul piano tattico il rapporto tra
le due contraddizioni fu variabile durante l’intera Seconda guerra mondiale.
Se cerchiamo oggi una risposta alla domanda: “Perché durante
la prima crisi generale del capitalismo i partiti comunisti dei paesi
imperialisti non sono riusciti a guidare le masse popolari fino alla
conquista del potere e all’instaurazione del socialismo?”, la risposta che
ci viene dal bilancio dell’esperienza è: “Perché non compresero che la forma
della rivoluzione socialista era la guerra popolare rivoluzionaria di lunga
durata”. A causa di questa incomprensione essi o dispersero le loro forze in
insurrezioni sconfitte (Amburgo - ottobre 1923, Tallin - dicembre 1924,
Canton - dicembre 1926, Shangai - ottobre 1926, febbraio 1927, marzo 1927) o
subirono l’iniziativa della borghesia e le sue provocazioni (Germania 1919,
Ungheria 1919, Italia 1920, Austria 1934, Asturie 1934) o ebbero una linea
incerta e contraddittoria (Germania 1933, Spagna 1936-1939, Francia
1936-1939).
I limiti dei partiti comunisti nei paesi imperialisti durante
la prima crisi generale (1900-1945) in sintesi si riducono alla
incomprensione della forma della rivoluzione socialista, a non aver compreso
(e tradotto in azione politica la comprensione) che la guerra civile tra
classe operaia e borghesia imperialista era la forma principale assunta
dalla lotta di classe in quegli anni. I partiti comunisti dei paesi
imperialisti non si posero mai su questo terreno come loro terreno
strategico principale, dal quale e in funzione del quale sviluppare tutto il
loro lavoro, anche quello pacifico e legale. Affrontarono con forza e con
eroismo la clandestinità e la guerra quando l’avversario le impose (in
Italia e in Jugoslavia nel 1926, in Portogallo nel 1933, in Germania nel
1933, ecc.), ma come un evento straordinario, una pausa in un processo che
“doveva” svolgersi altrimenti. Allora anche i comunisti ritenevano che la
rivoluzione proletaria assumeva la forma principale della guerra nelle
colonie e nelle semicolonie, non nei “civili” paesi imperialisti, benché la
borghesia nei “civili” paesi imperialisti avesse a più riprese mostrato che
era capace di radere al suolo città e paesi, di passare per le armi decine
di migliaia di uomini disarmati (a Parigi nel 1871 le forze reazionarie
dopo la resa avevano passato per le armi circa 30.000 comunardi o
supposti tali), di ricorrere a ogni mezzo pur di conservare il proprio
potere, di preferire l’occupazione straniera (“meglio Hitler che il
comunismo”) al potere della classe operaia. La storia della Francia nel
1935-1940 è esemplare. Eppure J. Duclos, uno dei maggiori esponenti del PCF
di quegli anni assieme a M. Thorez, riassume così i compiti del partito
comunista nel 1935 in Francia “porre come obiettivo del movimento operaio la
lotta per la difesa e l’ampliamento delle libertà democratiche di fronte al
fascismo”.(22) La linea del Fronte unico proletario e del
Fronte popolare antifascista (approvata dal VII Congresso
dell’Internazionale Comunista, agosto 1935) nei paesi imperialisti fu
applicata come linea di alleanza con forze politiche e sindacali e con
classi senza l’autonomia del partito e senza la direzione del
partito comunista nel Fronte. Quindi portò il partito comunista a essere
continuamente ricattato dai partiti socialdemocratici e borghesi; a
dipendere, in una certa misura e in certi periodi, nella sua azione verso le
masse popolari dalla collaborazione dei dirigenti e dei partiti
socialdemocratici e riformisti; a subordinare al loro consenso la sua
iniziativa; a porsi compiti la cui attuazione dipendeva dal loro concorso; a
non assumere in prima persona la direzione e a non concepire il movimento
come guerra.
22.
Dalla Prefazione di J. Duclos del 1972 a G. Dimitrov, Oeuvres Choisies,
Editions Sociales, pag. XXI/XXII.
Sulla forma della rivoluzione socialista il Centro dell’Internazionale
Comunista ebbe una posizione non definita. Per un certo periodo esso attese
che in alcuni paesi dell’Europa occidentale (in particolare Italia e
Germania) la classe operaia riuscisse a prendere il potere con partiti
comunisti improvvisati o con partiti, come il PSI, che avevano aderito
all’Internazionale Comunista solo formalmente, come ci si iscrive a un club.
In
un secondo tempo cercò di promuovere movimenti insurrezionali regolarmente
falliti: espressione di questa tendenza è la pubblicazione A. Neuberg,
L’insurrezione armata.(http://scintillarossa.forumcommunity.net/?t=53107085)
In
un terzo tempo (1935 - VII Congresso) lanciò la linea dei Fronti popolari
antifascisti di cui i singoli partiti diedero interpretazioni molto diverse.
La
concezione della rivoluzione socialista come insurrezione (come conquista
del potere in un’azione di breve durata - cosa diversa è l’insurrezione come
operazione tattica nell’ambito di una guerra, come le insurrezioni della
primavera del 1945 in Italia), ingabbia il partito comunista in una
condizione in cui la conquista del potere da parte della classe operaia
diventa impossibile, salvo casi eccezionali. Infatti nel periodo precedente
l’insurrezione il partito e le forze rivoluzionarie compiono grandi
esperienze ma in campi che con la conquista del potere hanno direttamente
poco a che fare. Esse escono dalle attività legali, che appunto hanno poco
da vedere direttamente con la conquista del potere e con l’instaurazione di
uno Stato, solo in casi circoscritti e occasionali, sulla spinta
dell’emozione, nei tumulti o negli scontri di piazza, con azioni autonome di
individui o di piccoli gruppi, sulla spinta di provocazioni delle forze
della repressione, come frutto dell’indignazione. Non si tratta mai di
operazioni coordinate e combinate di una guerra di cui il partito tira le
fila e che dirige, di operazioni tattiche di un piano di guerra predisposto
dal partito, in cui le nostre forze hanno l’iniziativa e di cui raccolgono
con cura i risultati e gli insegnamenti.
Questo partito e le forze rivoluzionarie raccolte attorno ad esso, che non
hanno alcuna esperienza di guerra e che non sono state formate da alcuna
esperienza pratica alle arti dell’attacco, della guerra, dell’organizzazione
e della direzione degli uomini in azioni militari, dovrebbero improvvisarsi
come forze capaci di un’azione rapida ed energica il cui esito si decide in
pochi giorni, se non in poche ore come un’insurrezione!
Il crollo dello Stato francese del maggio-giugno 1940, la
liquefazione di vari Stati nazionali davanti all’avanzata di Hitler dopo il
1938 (Cecoslovacchia, Austria, Polonia, Belgio, Olanda, Danimarca, Norvegia,
Jugoslavia, Grecia, ecc.), il crollo del fascismo nel luglio 1943 in Italia,
ecc. non solo non portarono all’instaurazione della dittatura del
proletariato, ma il partito comunista non fu neanche in grado di dare una
direzione alle forze popolari che il crollo del vecchio Stato liberava:
perché non si era posto in condizioni tali da poter prendere la testa del
movimento politico nella nuova situazione; non si era preparato e non aveva
accumulato esperienza e strutture per dirigere la guerra; non aveva
concepito la forma della rivoluzione proletaria secondo la sua reale natura;
non si era abbastanza liberato, nella realtà e non solo nelle dichiarazioni,
dalla concezione valida al tempo della Seconda Internazionale (di partito
più a sinistra tra i partiti della società borghese, di partito che lotta
per far valere gli interessi della classe operaia nella società borghese, di
portavoce nella società borghese della sua parte più avanzata). Sarà solo
successivamente, nel corso della Seconda guerra mondiale che un po’ alla
volta i partiti comunisti assumeranno in una certa misura la direzione delle
masse popolari nella guerra contro il nazifascismo, nella Resistenza.
Persino nel settembre 1943 in Italia manca ancora una linea di
partito per spostare l’attività sul piano della guerra. Dalle caserme che
restano per alcuni giorni abbandonate o scarsamente presidiate, i singoli
comunisti recuperano armi ma per iniziativa individuale; ai soldati, che a
causa della vergognosa diserzione del re e di gran parte degli ufficiali
superiori, si sbandano, il partito per alcune settimane non dà direttive né
fornisce organizzazione e direzione. Solo nel corso del mese il partito
incomincia a svolgere il suo compito di promotore, organizzatore e dirigente
della guerra antifascista con i grandi risultati che conosciamo. Per la
prima volta nella loro storia le masse popolari italiane vedono all’opera un
partito comunista che dirige sul piano strategico e sul piano tattico una
vasta azione politica (che comprende anche il suo aspetto militare): per
questo giustamente abbiamo detto che la Resistenza è stata a tutt’oggi “il
punto più alto raggiunto finora nel nostro paese dalla classe operaia
italiana nella sua lotta per il potere”.
(http://www.carc.it/index.php?view=article&id=869)
Facendo il bilancio dell’esperienza della guerra civile
spagnola (1936-1939), il Partito Comunista di Spagna (ricostruito) è
arrivato alla conclusione di “indicare la via della guerra popolare
rivoluzionaria di lunga durata come la via verso la quale conduceva
l’esperienza del PCE, ma che il PCE non scoprì”. E in questo limite, che il
PCE non riuscì a superare, il PCE(r) vede la causa principale della
sconfitta delle masse popolari spagnole.(23)
Perché il crollo di uno Stato porti all’instaurazione della
dittatura del proletariato, occorre che essa sia preceduta da un periodo di
“accumulazione delle forze rivoluzionarie attorno al partito comunista” e
che il crollo dello Stato borghese avvenga nel corso di un movimento diretto
dal partito (l’avanzata dell’Armata Rossa in Europa Orientale nel 1944-45;
la Cina del 1949; Cuba nel 1959; i tre paesi dell’Indocina nel 1975).
Mao Tse-tung ha sviluppato in modo approfondito gli aspetti
universalmente validi dell’accumulazione delle forze rivoluzionarie attorno
al partito comunista nel partito stesso, nel fronte delle classi
rivoluzionarie e nelle forze armate rivoluzionarie e ha chiamato guerra
popolare rivoluzionaria di lunga durata questo processo in cui le forze che
il corso della vita sociale gradualmente suscita, vengono via via
raccolte dal partito comunista che le educa impiegandole nella lotta
(secondo il principio di “imparare a combattere combattendo”), le organizza,
le unisce in modo che crescano fino a prevalere sulle forze della borghesia
imperialista.(24)
23.
PCE(r), La guerra di Spagna, il PCE e l’Internazionale comunista,
1993-1995, Edizioni Rapporti Sociali.
http://www.carc.it/index.php?view=article&id=1126
24.
Mao Tse-tung, Sulla guerra di lunga durata, 1938, in Opere di Mao
Tse-tung, Edizioni Rapporti Sociali, vol. 6.
http://www.nuovopci.it/arcspip/articleab67.html
Mao ha studiato e indicato anche le grandi fasi attraverso cui
si sviluppa la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata.
La fase della difensiva strategica: le forze della borghesia
sono preponderanti, le forze rivoluzionarie deboli; il compito del partito è
quello di raccogliere, addestrare e organizzare forze impiegandole nella
lotta evitando però di essere costretto a uno scontro frontale e decisivo e
mirare a preservare e accumulare le sue forze; la borghesia cerca lo scontro
risolutivo, il partito lo evita tenendo in pugno l’iniziativa sul piano
tattico.
La fase dell’equilibrio strategico: le forze rivoluzionarie
hanno raggiunto le forze della borghesia imperialista.
La fase dell’offensiva strategica: le forze rivoluzionarie
hanno raggiunto la superiorità rispetto alle forze della borghesia; il
compito del partito è quello di lanciare le forze rivoluzionarie all’attacco
per eliminare definitivamente le forze della borghesia, distruggere il
potere della borghesia e instaurare il nuovo potere in tutto il paese.
Ovviamente sta a noi comunisti italiani trovare, con la
riflessione e con la verifica nella pratica, i passaggi e le leggi concrete
della rivoluzione nel nostro paese. Ma noi troviamo illustrate nelle opere
di Mao Tse-tung le leggi universali della guerra popolare rivoluzionaria di
lunga durata, elaborate sulla base dell’esperienza della prima ondata della
rivoluzione proletaria e confermate dai vari episodi che la compongono.
Il maoismo non è il marxismo-leninismo applicato alla Cina o
alle semicolonie o alle colonie e semicolonie. È la terza superiore tappa
del pensiero comunista, dopo il marxismo (Marx-Engels) e il leninismo
(Lenin-Stalin). Giustamente Stalin in Principi del leninismo (1924)
(http://www.bibliotecamarxista.org/stalin/prindellen.htm) aveva mostrato che
il leninismo non era l’applicazione del marxismo alla Russia o ai paesi
arretrati, ma era il marxismo dell’epoca in cui la rivoluzione proletaria
incominciava. Non era più possibile essere marxisti senza essere leninisti.
Analogamente oggi non si può più essere marxisti-leninisti senza essere
maoisti: vorrebbe dire non tenere conto dell’esperienza della prima ondata
della rivoluzione proletaria, di cui ovviamente Lenin non ha potuto fare il
bilancio. Ma tutti i tentativi di affermare il maoismo come terza superiore
tappa del pensiero comunista si impantanano in discorsi e riflessioni fumosi
se non poggiano sulla tesi che “la guerra popolare rivoluzionaria di lunga
durata è la forma universale della rivoluzione proletaria”. Questa tesi
emerge chiaramente dagli articoli Per il marxismo-leninismo-maoismo. Per
il maoismo e Sulla situazione rivoluzionaria in sviluppo pubblicati in
Rapporti Sociali n. 9/10 (1991) a cui rimandiamo per alcuni sviluppi
particolari (http://www.nuovopci.it/scritti/RS).
Mao Tse-tung non ha criticato negli anni ‘30 e ‘40 la
concezione della rivoluzione proletaria prevalente nei partiti comunisti dei
paesi imperialisti, anzi ha indicato la loro linea di “allargamento della
democrazia” (per la quale rimandiamo all’affermazione di J. Duclos sopra
riportata) come linea normale nelle loro circostanze (salvo criticare quei
comunisti cinesi che volevano adottare anche in Cina la parola d’ordine del
PCF “Tutto attraverso il Fronte” negando così l’autonomia del Partito
comunista cinese nel Fronte antigiapponese). Ciò attiene allo stesso ordine
di questioni per cui Lenin ha difeso l’organizzazione strategica clandestina
del partito russo in nome della particolarità russa fino a quando il crollo
della Seconda Internazionale nel 1914 dimostrò praticamente la necessità
universale di essa. Il marxista trae dalla pratica gli insegnamenti che essa
contiene, non inventa teorie. Le idee devono dar prova di sé nella pratica,
al negativo e al positivo, prima di poter essere rigettate le une e
valorizzate le altre. I partiti comunisti dei paesi imperialisti durante la
prima crisi generale del capitalismo hanno compiuto grandi opere, hanno
mobilitato grandi masse e hanno dato un contributo importante alla vittoria
contro il nazifascismo. Bisognava che i limiti di tutto questo grande lavoro
fossero mostrati dall’incapacità di valorizzare i frutti della vittoria sul
nazifascismo e di assumere il potere, perché essi potessero essere compresi
e criticati e la teoria maoista sulla forma universale della rivoluzione
proletaria assurgesse a parte del patrimonio teorico del movimento
comunista.
La realtà dello svolgimento della rivoluzione proletaria nel
periodo 1900-1945 ha mostrato, anche nei paesi imperialisti, che i partiti
comunisti hanno unito la classe operaia e hanno affermato la direzione della
classe operaia sulle altre classi popolari quando e nella misura in cui
hanno saputo organizzare le masse popolari nella guerra contro l’esistente
regime della borghesia imperialista. Finché la loro azione aveva al centro
il tentativo di convincere socialdemocratici, cattolici, ecc. a costituire
un comune fronte di opposizione legale, un comune fronte rivendicativo, un
comune fronte antifascista, la loro azione ha avuto scarsi risultati. Essi
hanno diretto lavoratori cattolici, socialisti, senza partito ecc. e hanno
costretto anche i loro dirigenti a seguirli, quando si sono messi alla testa
della guerra cui le condizioni pratiche costringevano le masse.
Ma allora forse che noi comunisti dobbiamo proclamare una
guerra che non esiste, per affermare nel corso di essa la direzione della
classe operaia? Quando noi diciamo che la crisi generale attuale ha la sua
soluzione nello scontro tra mobilitazione rivoluzionaria e mobilitazione
reazionaria delle masse, noi diciamo che lo scontro tra le classi e lo
scontro tra i gruppi imperialisti si spostano sempre più sul terreno della
guerra. Oltre alle guerre dichiarate, è in corso una guerra non
dichiarata tra da una parte la borghesia imperialista che vuole e deve
valorizzare il suo capitale e che a questo fine deve schiacciare e torturare
milioni di uomini e donne e dall’altra le masse popolari che si difendono
come possono e in ordine sparso. La borghesia la combatte a suo modo, usando
gli strumenti di cui dispone (il denaro, le leggi “oggettive” dell’economia,
i “normali” rapporti sociali, l’autorità morale dei padroni e dei preti, la
pressione delle abitudini e della cultura corrente, le armi, i corpi
ufficiali dello Stato, i corpi extralegali, le istituzioni dello Stato,
ecc.) per cacciare milioni di uomini e donne nello stato di “esuberi”, per
privare delle condizioni elementari di vita - il cibo, la casa, il
vestiario, l’istruzione, le cure mediche, ecc. - milioni di uomini, per
spogliare milioni di uomini di quanto avevano conquistato, per stroncare i
loro tentativi di emanciparsi e di organizzarsi, per eliminare quei loro
dirigenti che cercano di promuovere, organizzare e dirigere la resistenza. A
livello mondiale le vittime di questa guerra diffusa e non dichiarata sono
innumerevoli, maggiori di quelle di tutte le guerre dichiarate che si
svolgono nello stesso tempo, se è vero che solo i morti per fame sono
dell’ordine di 30 milioni all’anno. Anche nei ricchi paesi imperialisti le
vittime di questa guerra sono i milioni di uomini e donne emarginati come
esuberi, distrutti moralmente e fisicamente, abbrutiti, depravati,
prostituiti, in mille modi angariati e umiliati. È la famosa “lotta di
classe che non esiste più” nelle interessate dichiarazioni della borghesia
imperialista e dei suoi portavoce. Una lotta che noi comunisti dobbiamo
assumere come nostra, riconoscere, scoprirne le leggi, attrezzarci per
combatterla con successo portando sul campo di battaglia le forze che il
corso della vita sociale e lo sviluppo stesso della lotta suscitano. A
nostra volta dobbiamo combatterla a nostro modo: in conformità alla classe
che la deve dirigere, alle classi che la devono combattere e da cui
provengono le nostre forze, alle condizioni complessive dei rapporti tra le
classi del nostro campo e alle influenze reciproche tra il nostro campo e il
campo nemico.
Il problema quindi è di essere presenti e protagonisti sul
terreno di questa guerra, di non farsi sorprendere dagli eventi ma
prevenirli, di orientare il nostro lavoro di oggi in vista di questo corso
inevitabile, di avere l’iniziativa in mano anche se il rapporto delle forze
oggi è largamente a favore dei nostri avversari e di capire le leggi
particolari di questa guerra (che non sono quelle della guerra in generale
né quelle delle guerre passate né quelle della guerra imperialista). Questo
è il terreno di scontro reale. Su questo terreno si decidono le sorti. In
funzione di questo terreno vanno decise e condotte tutte le campagne, tutte
le battaglie e ogni operazione. Occorre stabilire una giusta gerarchia
strategica tra le nostre campagne e battaglie e poi di passaggio in
passaggio definire la gerarchia tattica. Non si tratta oggi principalmente
di propagandare la guerra, di convincere con la nostra propaganda la classe
operaia e le masse popolari a prepararsi alla guerra. Non si tratta
principalmente di “elevare la coscienza” delle masse con la nostra
propaganda. Si tratta principalmente di creare un partito che lavori e sia
capace di lavorare in funzione della guerra e che da questa posizione diriga
e promuova anche la lotta delle masse a favore della pace contro la guerra
imperialista verso cui la borghesia imperialista, con tutte le sue misure
concrete, ci sta trascinando anche se la teme e se ne ritrae, resa timorosa
dalle esperienze passate. Ovviamente per riuscire in questo compito bisogna
tra l’altro che noi impariamo a vedere che effettivamente la borghesia
imperialista, con le sue misure concrete in campo economico, politico e
culturale, 1. sta portando verso la guerra imperialista (la mobilitazione
reazionaria delle masse) e 2. sta conducendo una guerra di sterminio contro
le masse popolari. Chi non vede questo chiaramente, o ripiega su illusioni
opportuniste e conciliatorie (“non ci sarà alcuna guerra”) o “proclama lui
la guerra” .
A scanso di equivoci e visti i precedenti delle Brigate Rosse
che dalla propaganda armata per riunire le condizioni per la ricostruzione
del partito comunista sono passate a una “guerra dispiegata” che esisteva
solo nella fantasia dei militaristi (dove quindi si sono trovate sole,
abbandonate dalle masse, fino alla disgregazione e alla corruzione anche
delle forze che avevano già accumulato), occorre dire che la guerra, in
quanto forma principale della rivoluzione proletaria, è una guerra
particolare, differente dalle guerre che l’umanità ha conosciuto nei secoli
precedenti. Essa è una guerra di tipo nuovo perché ha un obiettivo diverso
da tutte le guerre precedenti: la conquista da parte della classe operaia
della direzione delle masse popolari nella loro mobilitazione contro la
borghesia imperialista per l’instaurazione del potere della classe operaia e
del socialismo. Essa si svolge in forme sue proprie. La comprensione delle
forme particolari di questa guerra nel nostro paese, l’elaborazione e
l’applicazione di linee e metodi conformi ad esse e la sua direzione
costituiscono il compito specifico del nuovo partito comunista.
Sulla natura del nuovo partito comunista.
La classe operaia ha bisogno di un partito comunista che,
1. abbia una linea giusta, cioè una linea che raccolga e
sintetizzi la tendenza positiva delle masse popolari nella fase attuale (la
seconda crisi generale del capitalismo),
2. abbia una forma organizzativa adeguata alla attuazione
della sua linea.
È sbagliato discutere della forma organizzativa prima e senza
avere risolto il problema della linea. L’organizzazione nasce per attuare la
linea.
L’organizzazione deve essere adeguata alla linea. È la linea
che determina l’organizzazione, benché ovviamente l’organizzazione sia la
condizione necessaria per attuare la linea. È la linea che decide di quale
organizzazione abbiamo bisogno oggi, non viceversa.
La classe operaia ha bisogno di un partito comunista. Questa è
la prima lezione che ci deve essere chiara e che deriva sia dall’esperienza
storica sia dall’analisi della società capitalista. La classe operaia ha
bisogno di un partito comunista perché il ruolo del partito comunista non
può essere assolto dalla classe nel suo complesso. Solo l’avanguardia della
classe operaia si organizza nel partito. La crisi della forma-partito di cui
tanto parlano i sociologi e i politologi borghesi e i loro seguaci della
sinistra borghese (Negri e negrini in testa), è la crisi dei partiti
riformisti e borghesi del vecchio regime. La crisi di quei partiti non è la
causa dei mali, l’evento da piangere, il guasto a cui porre rimedio: è un
aspetto della crisi del vecchio regime. Il riformismo è in crisi perché la
crisi generale impedisce che le masse possano strappare nuove riforme se non
in un movimento rivoluzionario per il quale i partiti riformisti sono
inadatti: da qui la crisi dei partiti riformisti che hanno perso il terreno
oggettivo (le riforme reali che nel periodo del capitalismo dal volto umano
venivano effettivamente strappate) su cui erano costruite le loro fortune. I
partiti del regime DC sono in crisi perché tutto il regime è in crisi. Esso
era il regime della conciliazione degli interessi
(25) ed è in
crisi come in tutti i paesi imperialisti sono in crisi i regimi che avevano
ben impersonato il dominio della borghesia nel periodo della ripresa e dello
sviluppo, i regimi impostisi alla fine della Seconda guerra mondiale. Oggi
sono all’ordine del giorno le forze borghesi che si candidano a promotrici
della mobilitazione reazionaria delle masse, benché alle loro fortune si
oppongano ancora sia l’arretratezza delle forze rivoluzionarie sia la paura
che tutta la borghesia ha della mobilitazione reazionaria, avendo
ripetutamente sperimentato che essa può trasformarsi in mobilitazione
rivoluzionaria.
La linea generale del futuro partito comunista deriva
dall’analisi della situazione che sopra abbiamo richiamato trattando della
forma della rivoluzione proletaria e che nella rivista Rapporti Sociali
è stata da più lati illustrata e che i CARC hanno ampiamente propagandato.(26)
Essa può essere formulata nel modo seguente: “Unirsi strettamente e senza
riserve alla resistenza che le masse popolari oppongono e opporranno al
progredire della crisi, comprendere e applicare le leggi secondo cui questa
resistenza si sviluppa, appoggiarla, promuoverla, organizzarla e far
prevalere in essa la direzione della classe operaia fino a trasformarla in
lotta per il socialismo, adottando come metodo principale di lavoro e di
direzione la linea di massa”.(27)
25.
Sulla natura del regime DC rimandiamo a Il fiasco del 27 marzo ‘94,
in Rapporti Sociali n. 16,
inverno 1994-1995. (http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
26.
La linea generale del
partito, in
F. Engels/10, 100, 1000 CARC per la ricostruzione del partito comunista,
1995, Edizioni Rapporti Sociali.
http://www.carc.it/index.php?view=article&id=865
27.
Da Lo Statuto dei CARC, 1997, Edizioni Rapporti Sociali, pag. 9.
(http://www.carc.it)
28.
Le formule esprimono il concetto, ma il concetto non è interamente in
nessuna formula. Se rendiamo la formula autonoma dal concetto, facciamo
quello che fanno i giuristi borghesi rispetto alle formule delle
Costituzioni, dei Codici, ecc., con il risultato che ogni giurista e ogni
organismo fa dire cose diverse a una stessa formula. Se si scorrono le
pubblicazioni dei CARC, si trovano via via formulazioni un po’ diverse della
linea generale del partito comunista, usate per esprimere lo stesso
concetto. Con esse via via si cerca di esprimere meglio il concetto, di
tenere meglio conto nella formula di un aspetto del concetto che è diventato
nella pratica importante, si pone cura ad elaborare ogni volta una formula
comprensiva di più aspetti, più esatta, più esauriente.
Questa linea è stata formulata anni fa, la prima formulazione
risale al 1992 (28)
e non ha finora incontrato serie obiezioni da parte di nessuna delle FSRS
del nostro paese. Possiamo ritenere che sia universalmente accettata, o si
tratta di uno di questi casi in cui si continua da una parte a dire che
“bisogna fare un serio dibattito teorico e politico” e dall’altra ci si
guarda bene sia dal produrre qualcosa sia dall’entrare in merito a quanto da
altri prodotto? È comunque certo che nessuna FSRS ha avanzato altre proposte
di linea generale per il futuro partito comunista.
Abbiamo anche ripetutamente detto che nessuna FSRS, e in
particolare nemmeno i CARC che questa linea hanno formulato e propagandano,
erano in grado di attuare questa linea stante la qualità, la natura delle
forze in questione (quindi a prescindere da fattori quantitativi che possono
per un tempo più o meno lungo valere anche per il nuovo partito comunista).
In cosa consiste la qualità che, mancando alle FSRS, impedisce loro di
applicare la linea generale del futuro partito comunista se non in limiti
ristretti e monchi? Non è la composizione di classe, perché il partito
comunista lotterà per organizzare nelle sue file la parte d’avanguardia
della classe operaia, ma la composizione di classe del partito alla sua
fondazione avrà sicuramente dei limiti che solo con la lotta verranno
superati.(29)
29.
Tra le FSRS italiane vi sono alcuni che sostengono che il nuovo partito
comunista deve fin dall’inizio avere tra i suoi membri folti e
rappresentativi gruppi di operai dei maggiori centri produttivi del paese.
Se
questi compagni pensano che il nuovo partito comunista debba nascere dal
confluire e dal mandato di varie organizzazioni operaie attuali (come
“sponda politica” di COBAS, SLAI-COBAS, ecc.), come all’inizio del secolo il
partito laburista inglese nacque per mandato e come “braccio politico” delle
Trade Unions e come nell’ultimo quarto del secolo scorso alcuni partiti
socialisti, compreso il PSI, nacquero dalle società operaie di mutuo
soccorso e da altri organismi di difesa della classe operaia, essi “vogliono
riportare indietro l’orologio della storia”.
Se
invece vogliono che si formino folti e rappresentativi gruppi di operai
comunisti prima che si costituisca il partito comunista, la loro è una
pretesa arbitraria, simile a quella dei compagni che vogliono un partito che
nasca già riconosciuto dalle masse come loro direzione. Questa pretesa
contrasta sia con l’esperienza del movimento comunista internazionale sia
con il concreto sviluppo del movimento comunista nel nostro paese. È una
pretesa arbitraria che porta a rinviare a tempo indeterminato la
costituzione del partito comunista che è oggi necessaria e possibile.
Noi
condividiamo invece pienamente la tesi che la formazione di folti e
rappresentativi gruppi di operai comunisti trasformerà il nuovo partito
comunista e lo porterà a un livello al cui raggiungimento i nostri attuali
modesti inizi avranno contribuito.
Noi riteniamo che la qualità che distingue il partito
comunista dalle FSRS è un insieme di caratteristiche la principale delle
quali consiste in questo: il partito comunista è un partito clandestino, ma
non è una società segreta. Vedremo di spiegare nel seguito il senso e le
ragioni di questa nostra tesi.
Il nuovo partito comunista ha il compito strategico di essere
il centro dell’accumulazione delle forze rivoluzionarie: partito, fronte,
esercito. Il suo compito è la raccolta e l’impiego delle forze proletarie
nella corsa alla mobilitazione rivoluzionaria perché sopravanzi la
mobilitazione reazionaria (o nella trasformazione della mobilitazione
reazionaria in mobilitazione rivoluzionaria), nella guerra popolare
rivoluzionaria di lunga durata, nella guerra civile che è la sintesi della
lotta delle masse popolari contro la borghesia imperialista. La classe
operaia per porsi come classe che lotta in proprio per il potere deve porsi
come contendente, forza politica sul terreno della guerra civile (sia che la
situazione che dovremo affrontare abbia per intero la forma di una guerra
civile, sia che abbia anche la forma di una guerra tra gruppi e Stati
imperialisti).(30)
30.
In proposito v. Rapporti Sociali n. 4, 1989, pagg. 26-31.
(http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
Per condurre alla vittoria l’accumulazione delle forze
rivoluzionarie abbiamo bisogno di un partito che sia fondato sulla classe
operaia, che abbia come suo obiettivo l’instaurazione del potere della
classe operaia e l’eliminazione di quello della borghesia imperialista, che
subordini tutto a questo obiettivo, che selezioni e formi i suoi membri, i
suoi dirigenti, le sue organizzazioni e le sue relazioni con le masse in
funzione di questo obiettivo, che sia capace di resistere alla
controrivoluzione preventiva e all’aggressione scatenati dalla borghesia,
che faccia tesoro dell’esperienza dei 150 anni di storia del movimento
comunista, che impari dai successi e dalle sconfitte della rivoluzione
proletaria, che abbia quindi come teoria guida il
marxismo-leninismo-maoismo.
Il partito deve quindi essere libero dal controllo della
borghesia. Non può vivere e operare nei limiti che la borghesia consente,
come un altro tra i partiti della società borghese. I rapporti tra i gruppi
imperialisti (e tra le rispettive forze politiche) appartengono a una
categoria diversa da quella a cui appartengono i rapporti tra le masse
popolari (e la classe operaia che ne è la sola potenziale classe dirigente)
e la borghesia imperialista: sono rapporti che si sviluppano secondo leggi
diverse. Quelli che in un modo o in un altro si ostinano a considerare
questi rapporti come rapporti dello stesso ordine, soggetti alle stesse
leggi, o cadono nel politicantismo borghese (parlamentare o affine) o nel
militarismo, infatti l’accordo alle spalle delle masse e la guerra
imperialista sono le due forme alterne con cui i gruppi imperialisti
trattano i rapporti tra loro.
Questo vuol dire che la classe operaia (e la sua espressione
politica, il partito comunista) non è comunque condizionata dalla borghesia?
No. Vuol dire che il partito comunista non poggia la sua possibilità di
operare sulla tolleranza della borghesia, che il partito assicura la propria
possibilità di esistere e operare nonostante la borghesia faccia
ricorso alla controrivoluzione preventiva, che il partito, grazie alla sua
analisi materialista dialettica della situazione e ai suoi legami con le
masse, precede le misure della controrivoluzione preventiva volgendole a
proprio favore. Vuol dire che il partito è condizionato dalla borghesia come
in una guerra ognuno dei contendenti è condizionato dall’altro e
condizionato in ogni fase della guerra secondo il rapporto delle forze in
quella fase (difensiva strategica, equilibrio strategico, offensiva
strategica), ma non soggetto alle sue leggi e al suo Stato, come lo sono le
masse in condizioni normali.
Fin dal suo inizio il movimento comunista
(31) ha
chiaramente indicato che la classe operaia avrebbe preso il potere solo
tramite una rivoluzione.
Successivamente tutte le affermazioni dei socialisti e dei
revisionisti sulla via pacifica, democratica, parlamentare al socialismo
sono state nei fatti smentiti dalla borghesia stessa che, come F. Engels già
nel 1895 aveva ben indicato, non ha avuto alcuno scrupolo a “sovvertire la
sua legalità”, ogni volta che questa non assicurava la continuità del suo
potere. La partecipazione alle elezioni e in generale a una serie di altre
normali attività della società borghese, cui le organizzazioni operaie
partecipano in quanto libere associazioni tra le altre, sono stati strumenti
utili per affermare l’autonomia della classe operaia, ma da quando è
iniziata l’epoca della rivoluzione proletaria si sono trasformati in catene
controrivoluzionarie ogni volta che sono stati presi per strumenti per la
conquista del potere.(32)
31.
K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, 1845-1846, in Opere, vol. 5.
http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1846/ideologia
32.
Questo concetto è ben illustrato in Stalin, Principi del leninismo,
1924.
http://www.bibliotecamarxista.org/stalin/prindellen.htm
L’instaurazione della controrivoluzione preventiva come cuore
dello Stato borghese moderno
(http://www.nuovopci.it/scritti/mpnpci/01_03_03_contrivol_prev.html) rende
sistematico l’impegno della borghesia a prevenire e impedire lo sviluppo del
movimento comunista, prima di doverne reprimere il successo. Che quindi la
conquista del potere da parte della classe operaia debba realizzarsi per via
rivoluzionaria, non è una novità. Ciò che è nuovo, è che da quando la
conquista del potere da parte della classe operaia è storicamente all’ordine
del giorno, la direzione della sua lotta per il potere, cioè il partito
comunista, deve essere una struttura libera dal controllo della borghesia e
dei suoi sistemi di controrivoluzione preventiva, cioè deve essere un
partito clandestino.
La classe operaia non può combattere vittoriosamente la
borghesia imperialista, non può porsi come suo contendente nella lotta per
il potere, non può condurre l’accumulazione delle forze rivoluzionarie fino
a rovesciare l’attuale sfavorevole rapporto di forza con le forze della
reazione, se ha una direzione che sottostà alle leggi e al potere della
borghesia.
Non si tratta solo di avere un apparato illegale. Questo lo
avevano già tutti i partiti della Terza Internazionale: faceva parte delle
condizioni per essere ammessi nell’Internazionale Comunista, era la terza
delle 21 condizioni, approvate dal II Congresso (17 luglio - 7 agosto 1920).
Essa diceva: “In quasi tutti i paesi d’Europa e d’America la lotta di classe
entra in un periodo di guerra civile. In queste condizioni i comunisti non
possono fidarsi della legalità borghese. Essi devono creare ovunque, accanto
all’organizzazione legale, un organismo clandestino, capace di assolvere nel
momento decisivo al suo dovere verso la rivoluzione. In tutti i paesi in
cui, a causa dello stato d’assedio o di leggi d’eccezione, i comunisti non
possono svolgere legalmente tutto il loro lavoro, essi devono senza
alcuna esitazione combinare l’attività legale con l’attività illegale”.
L’esperienza della rivoluzione proletaria durante la prima
crisi generale del capitalismo (1900-1945) ha mostrato che i paesi in cui i
partiti comunisti possono svolgere tutto il loro lavoro legalmente,
se il loro lavoro ha successo nonostante la controrivoluzione preventiva, si
trasformano in paesi in cui i partiti comunisti non possono svolgere il loro
lavoro legalmente. Nei paesi dove la borghesia imperialista non aveva la
forza per operare autonomamente questa trasformazione (ad es. la Francia
degli anni ‘30), essa ha preferito l’aggressione e l’occupazione straniera
purché questa trasformazione si attuasse. La lotta di classe è entrata in un
periodo di guerra civile dovunque la classe operaia non ha rinunciato alla
lotta per il potere, quindi essa deve condurre la sua lotta per il potere
come una guerra civile e i partiti comunisti, dovunque vogliono restare
tali, non possono e non devono “fidarsi della legalità borghese”. I partiti
comunisti hanno potuto svolgere legalmente, alla luce del sole tutto
il loro lavoro solo dove la classe operaia deteneva già il potere: nei paesi
socialisti e nelle basi rosse.
L’esperienza ha mostrato che avere un organismo clandestino
che entri in azione “nel momento decisivo” non basta a rendere i partiti
comunisti capaci di dirigere con successo le masse e nemmeno a evitare la
loro decapitazione e decimazione. L’accumulazione e la formazione delle
forze rivoluzionarie deve avvenire “in seno alla società borghese”, ma per
forza di cose avviene gradualmente. Essa quindi non può avvenire legalmente.
Il partito deve evitare, con una conduzione tattica adeguata, di essere
costretto a uno scontro decisivo finché le forze rivoluzionarie non sono
state accumulate fino ad avere raggiunto la superiorità su quelle della
borghesia imperialista. Non basta quindi creare un organismo clandestino
“accanto all’organizzazione legale”. È il partito che deve essere
clandestino, è l’organizzazione clandestina che deve dirigere
l’organizzazione legale e assicurare comunque la continuità e la libertà
d’azione del partito. Il partito comunista deve essere un partito
clandestino e dalla clandestinità muovere tutti i movimenti legali che sono
necessari e utili alla classe operaia, al proletariato e alle masse: questa
è la lezione della prima ondata della rivoluzione proletaria.
L’esperienza ha dimostrato che i partiti comunisti per
adempiere con successo al loro compito devono “combinare l’attività legale
con l’attività illegale” nel senso preciso
che l’attività illegale dirige ed è fondamento e direzione
dell’attività legale,
che l’attività illegale è principale e l’attività legale è ad
essa subordinata,
che l’attività illegale è assoluta e l’attività legale
condizionata, relativa al rapporto delle forze tra classe operaia e
borghesia imperialista, relativa alle decisioni che la classe dominante
reputa convenienti per se stessa.
L’esperienza ha altresì dimostrato che questo preciso genere
di combinazione di attività illegale con l’attività legale non deve essere
fatta dai partiti comunisti solo nei paesi in cui “a causa dello stato
d’assedio o di leggi d’eccezione” la borghesia ha limitato l’attività
legale, ma deve essere fatta in ogni paese, prima che la borghesia metta in
atto stati d’assedio o leggi d’eccezione, prima che imponga all’attività
politica del proletariato limiti legali più ristretti di quelli che impone
ai singoli gruppi della classe dominante o comunque imponga limiti più
ristretti di quelli vigenti. La borghesia imperialista impone in ogni caso
all’attività politica della classe operaia, del proletariato, delle masse
popolari limiti di fatto che i membri della classe dominante non hanno
(limiti di tempo, di danaro, di spazi, di cultura, accesso alle armi, ecc.)
e che fanno sì che per la stragrande maggioranza delle masse popolari anche
gran parte dei diritti riconosciuti legalmente restino una presa in giro,
diritti sulla carta.
La terza delle 21 condizioni di ammissione alla Terza
Internazionale era stata formulata per avviare la trasformazione in partiti
bolscevichi (bolscevizzazione) dei vecchi partiti socialisti che, come il
PSI, avevano aderito all’Internazionale Comunista perché così lo comportava
il vento che tirava tra le masse, ma restavano assolutamente inadeguati a
svolgere la funzione di direzione delle masse nel movimento rivoluzionario
del loro paese.(33)
Era stata introdotta per correggere la “insufficienza rivoluzionaria” dei
vecchi partiti socialisti che facevano la fila per aderire alla Terza
Internazionale. Ma era stata formulata in termini concilianti, con
concessioni alle resistenze presenti in questi partiti a trasformarsi in
partiti adeguati ai compiti dell’epoca. In conclusione l’esperienza ha
dimostrato che la terza condizione per l’ammissione alla Internazionale
Comunista era inadeguata. Nei paesi imperialisti i partiti comunisti che
nacquero facendola propria si dimostrarono incapaci di far fronte ai propri
compiti, anche per la concezione riduttiva, subordinata dell’azione
clandestina che in essi permase e che la terza condizione recepisce.(34)
33.
Si veda in proposito il Programma de L’Ordine Nuovo e della
sezione socialista torinese, aprile 1920.
http://www.nuovopci.it/classic/gramsci/perinps.htm
34.
Basta che un partito comunista sia clandestino perché possa svolgere con
successo il suo compito? Ovviamente no. Il fattore principale del successo
di un partito comunista è la sua linea politica. Se la linea politica è
sbagliata, la struttura clandestina non salverà il partito dalla sconfitta.
Tuttavia la struttura clandestina renderà meno difficile al partito tirare
la lezione delle sconfitta e correggere la linea.
Il
successo del partito comunista in definitiva dipende dal suo legame con le
masse: una linea giusta sviluppa il legame con le masse, una linea sbagliata
riduce il legame con le masse, lo ostacola. Se un partito comunista
clandestino mantiene una linea sbagliata, alla lunga non riuscirà neanche a
conservarsi come partito clandestino e sarà sconfitto anche su questo
terreno, perché la clandestinità del partito comunista non è principalmente
il frutto della applicazione di una tecnica, ma può essere conservata solo
grazie al legame con le masse, al sostegno che il partito riceve dalle
masse, cioè alla linea giusta del partito.
35.
Parliamo del Partito comunista cinese fino al 1927.
Ne segue che concepire l’azione del partito comunista come
un’azione strategicamente legale, considerare la legalità come la regola e
la clandestinità come l’eccezione che entra in azione nei momenti
d’emergenza, non prevenire il momento in cui la borghesia cerca di stroncare
il partito, non costruire il partito in vista e in funzione della guerra
civile, è non conformarsi alle leggi della rivoluzione proletaria. I partiti
comunisti che si sono comportati in questa maniera (da quello italiano a
quello cinese,(35) tedesco, spagnolo, indonesiano, cileno,
ecc. ecc.) hanno pagato dure lezioni.
La clandestinità non impedisce di sviluppare un’ampia azione
legale nella misura in cui le condizioni lo comportano, anzi rende possibile
ogni genere di azione legale, anche le attività meno “rivoluzionarie”, che
diventano strumento per legare organizzativamente al campo della rivoluzione
le parti più arretrate delle masse popolari e influenzarle. D’altra parte la
clandestinità non si improvvisa e un partito costruito per l’attività legale
o principalmente per l’attività legale e che subisce l’iniziativa della
borghesia, difficilmente è in grado di reagire efficacemente all’azione
della borghesia che lo mette fuori legge, che lo perseguita. Un partito
legale non è inoltre in grado di resistere efficacemente alla persecuzione,
all’infiltrazione, alla corruzione, all’intimidazione, ai ricatti, alle
azioni terroristiche della controrivoluzione preventiva, della “guerra
sporca”, della “guerra di bassa intensità” e del resto dell’arsenale di cui
si è munita la borghesia imperialista per opporsi all’avanzata della
rivoluzione proletaria. Un partito legale non è in grado di raccogliere e
formare le forze rivoluzionarie che il movimento della società genera
gradualmente e di impegnarle via via nella lotta per aprire l’ulteriore
strada al processo rivoluzionario, in questo modo addestrandole e
formandole.
Il partito comunista deve quindi essere una direzione
clandestina, deve essere un partito che si costruisce dalla clandestinità e
che dalla clandestinità tesse la sua “tela di ragno” e muove la sua azione
di ogni genere in ogni campo. Deve essere un partito che è strategicamente
clandestino (quindi ha sempre il suo retroterra strategico clandestino), ma
destina una parte dei suoi membri a svolgere compiti nella lotta politica
legale, nel lavoro legale di mobilitazione delle masse e crea tutte le
strutture legali che la situazione consente di creare. Il rapporto numerico
tra le due parti varia a secondo delle situazioni concrete; attualmente e
per un tempo ancora indeterminato nel nostro paese sarà decisamente a favore
della parte legale.
Il nuovo partito comunista italiano deve avere una direzione
strategica clandestina, ma attualmente la classe operaia e le masse svolgono
la stragrande maggioranza della loro attività politica, economica e
culturale non clandestinamente e sono pochi i lavoratori disposti a
impegnarsi in un lavoro clandestino. L’attività di difesa e di attacco dei
lavoratori si svolge oggi in gran parte alla luce del sole, con attività
legalmente tollerate dalla borghesia, scoraggiate e ostacolate ma non
vietate. È del tutto inconsistente ogni tentativo (fatto con l’esempio e/o
con la propaganda) di indurre gli operai e le masse popolari ad abbandonare
questo terreno (in questo vano tentativo consistette la deviazione
militarista delle Brigate Rosse). Ogni tentativo in questo senso porta solo
a lasciare campo libero ai revisionisti, agli economicisti, ai borghesi.
Solo man mano che la borghesia impedirà lo svolgimento legale delle attività
politiche e culturali che le masse sono abituate a svolgere legalmente,
metterà fuori legge, perseguiterà, ecc. (ed è sicuro che arriverà a tanto:
basta vedere i “progressi” che già ha fatto su questa strada per quanto
riguarda la libertà di sciopero, l’espressione del pensiero e la propaganda,
la rappresentanza nelle assemblee elettive; la borghesia non ha altra
strada, benché per esperienza ne conosca i pericoli e faccia mille sforzi
per non imboccarla), solo man mano che i progressi dell’azione del partito
comunista, della classe operaia e delle masse popolari, la loro resistenza
organizzata al procedere della crisi e alla guerra di sterminio che la
borghesia imperialista conduce contro di esse, avrà suscitato una
controrivoluzione potente alla quale però il partito saprà tener testa, solo
allora, sulla base della loro esperienza, la classe operaia, il proletariato
e le masse popolari sposteranno una parte crescente delle loro lotte e delle
loro forze nella guerra, che solo allora diventerà la forma principale in
cui esse potranno esprimersi e nella quale il partito sarà in grado di
dirigerle vittoriosamente.
Il PCd’I nei primi anni venti aveva un apparato clandestino,
ma non la direzione clandestina; nel 1926 subì la messa fuori legge; divenne
clandestino perché costretto; perdette la direzione (Antonio Gramsci);
ancora nel luglio ‘43 non approfittò del crollo del fascismo per costruire
un esercito; si basò sull’alleanza con i partiti democratici per un
passaggio pacifico dal fascismo ad un nuovo regime borghese; nel settembre
‘43 lasciò disperdere il grosso dell’esercito costituito da proletari in
armi perché non era ancora in grado di dare ad essi una direzione concreta e
non approfittò del vuoto di potere e del materiale militare che la fuga del
re e di gran parte degli alti ufficiali aveva messo a disposizione di chi
sapeva approfittarne. Solo nei mesi successivi metterà la guerra al primo
posto, creerà le proprie formazioni armate antifasciste e antinaziste e
costringerà a seguirlo su questo terreno tutte le altre forze politiche che
non vogliono perdere i contatti con le masse e vogliono avere un ruolo nel
dopoguerra.
Il KPD (Partito comunista tedesco) nel corso degli anni ‘20
tentò varie insurrezioni (non casualmente fallite) e nel 1933 lasciò
arrestare la direzione (Ernst Thaelmann); mantenne organizzazioni
clandestine, ma non riuscì a mobilitare sul piano della guerra né gli operai
comunisti (benché il KPD avesse avuto 5 milioni di voti alle ultime elezioni
nel 1933), né gli operai socialdemocratici, né gli ebrei e le altre parti
della popolazione che pure erano perseguitati a morte dai nazisti.
Il PCF (Partito comunista francese) nel 1939 (il governo
francese dichiarò guerra alla Germania il 1° settembre) si trovò in
condizioni tali che migliaia di suoi membri vennero arrestati dal governo
francese assieme a migliaia di altri antifascisti e l’organizzazione del
partito saltò quasi interamente. M. Thorez, segretario del PCF, rispose alla
chiamata alle armi! All’inizio del giugno 1940 il PCF “chiese” al governo
Reynaud di armare il popolo contro le armate naziste che dal 10 maggio
dilagavano in Francia e ovviamente la risposta fu il decreto del governo
“francese” che intimava a ogni “francese” che possedeva armi da fuoco di
consegnarle ai commissariati. Solo dal luglio 1940 in avanti, dopo che i
contrasti tra i gruppi imperialisti francesi erano sfociati in guerra civile
tra essi (il Proclama di De Gaulle da Londra è del 18 giugno 1940), il PCF
ricostruirà con eroismo e tenacia la sua organizzazione e solo a partire dal
1941 un po’ alla volta assumerà la guerra rivoluzionaria come forma
principale di attività.
Da tutta questa esperienza storica, che lezione dobbiamo
trarre? Che oggi dobbiamo costruire il nuovo partito comunista a partire
dalla clandestinità. La clandestinità è una questione strategica, non
tattica. È una decisione che dobbiamo prendere oggi per essere in grado di
far fronte ai nostri compiti di oggi e a quelli di domani. La guerra
popolare rivoluzionaria di lunga durata è la strategia del nostro movimento
comunista e oggi è l’aspetto dirigente della nostra attività. Le lotte
pacifiche sono un aspetto della tattica del movimento comunista e oggi sono
l’aspetto più diffuso dell’attività delle masse. Non dobbiamo subire
l’iniziativa della borghesia, né aspettare che la mobilitazione delle masse
ci abbia preceduto. Dobbiamo prendere l’iniziativa, precedere la borghesia e
predisporre le nostre attuali piccole forze in modo che siano in grado di
accogliere, organizzare e dirigere alla lotta le forze che il corso della
crisi generale del capitalismo produce di per sé tra le masse, ma con
fertilità che sarà accresciuta dalla giusta attività del partito comunista.
Lenin creò un centro stabile e inattaccabile dalla polizia
zarista per l’attività del partito nell’impero russo, venendo in Europa
quando ancora poteva viaggiare. Non attese di essere costretto alla
clandestinità dall’avversario. Dal punto di vista operativo, è meno
difficile impiantarsi nella clandestinità quando si è ancora legali, che
quando si ha già la polizia alle calcagna e si è stati sorpresi
dall’iniziativa dell’avversario.
Dobbiamo iniziare dall’esempio del
grande Lenin di cui la storia ha confermato la giustezza e adattarlo alla
nostra condizione.
Quanto abbiamo fin qui detto dovrebbe bastare a tracciare
chiaramente la discriminante tra da una parte l’impresa a cui lavoriamo e a
cui chiamiamo tutte le FSRS a lavorare e dall’altra tutti i progetti di
“partiti rivoluzionari nei limiti della legge”.
Dovrebbe bastare anche a tracciare una discriminante tra
questa impresa e le varie società segrete che vivono e operano nel
nostro paese. Vale tuttavia la pena aggiungere qualche parola su questo
argomento. Dopo le sconfitte subite dalle Brigate Rosse all’inizio degli
anni ‘80, la linea della “ritirata strategica” non ha portato alla
autocritica della deviazione militarista che aveva generato la sconfitta e
alla raccolta delle forze per la ricostruzione del partito comunista,(36)
ma alla nascita di un certo numero di “società segrete”. In quell’epoca la
borghesia cercava di consolidare la sua vittoria e la destra del “movimento”
con alla testa Negri e negrini, che ne rappresenta gli interessi, era per la
liquidazione dell’organizzazione rivoluzionaria e il ritorno alla “lotta
legale”. Ciò che la borghesia cercava di ottenere con le persecuzioni, con
le torture, con il regime carcerario speciale e con i premi a delatori
(“pentiti” o “dissociati”), la destra costituita dai vari promotori della
dissociazione, lo rafforzava con la linea della liquidazione dell’attività e
dell’organizzazione clandestina. Va dato atto ai compagni che hanno
costituito le società segrete di essersi opposti alla destra e alla
liquidazione dell’organizzazione rivoluzionaria. Questo è il lato positivo
della loro azione. Il lato negativo è comprovato praticamente dalla generale
sterilità della loro attività: questa deriva dal fatto che il movimento
comunista ha bisogno del partito comunista, non della società segreta. Già
Marx ed Engels negli anni ‘40 del secolo scorso avevano affrontato e risolto
questo problema su cui ora bisogna tornare. La critica di Marx ed Engels
alla società segreta come forma organizzativa è riassunta nella conclusione
del Manifesto del partito comunista: “I comunisti disdegnano di
nascondere le loro opinioni. Essi dichiarano apertamente che i loro scopi
non possono essere raggiunti che con l’abbattimento violento di ogni
ordinamento sociale esistente”. I tratti caratteristici e distintivi della
società segreta sono che la sua esistenza è nota solo ai membri, che i
membri stessi sono iniziati per livelli (livelli di iniziazione) alla
conoscenza degli obiettivi, delle concezioni, dei metodi, della struttura e
della direzione della società. Una struttura di questo genere è stata ed è
adatta ad aggregare attorno a un capo o a un gruppo ristretto una cerchia di
persone ognuna delle quali ha un interesse personale alla protezione e in
generale ai vantaggi che la società segreta offre ai suoi membri. Che una
struttura del genere fosse adatta alla borghesia per la concorrenza cui deve
partecipare e che fosse adeguata anche alla protezione degli addetti ad
alcuni mestieri finché restavano un gruppo ristretto i cui membri si
assicuravano mutua protezione, è un dato dell’esperienza storica oltre che
un risultato a cui si può pervenire riflettendo sui rapporti sociali reali
(sulle “costituzioni materiali”) nelle due situazioni indicate. È però
altrettanto evidente che non è una forma adatta a raccogliere e formare le
forze rivoluzionarie che si conteranno, e si dovranno contare, a milioni e a
sollevare alla lotta politica una classe che i correnti rapporti sociali
della società borghese escludono dalla attività politica. Va ricordato che i
rapporti sociali materiali (effettivi) della tarda società feudale europea
non escludevano la borghesia dall’attività politica, per la quale infatti la
borghesia disponeva di tempo, di risorse materiali e di cultura. La
escludevano le leggi e le consuetudini del mondo politico che riservavano le
attività politiche ai nobili e al clero, non la escludevano le relazioni
sociali, la società civile. Nella società borghese invece i rapporti sociali
reali escludono dall’attività politica, legalmente dichiarata accessibile a
tutti, proprio gli operai e il grosso del resto delle masse popolari, perché
li privano del tempo, dei mezzi e della cultura necessari a prendervi
effettivamente parte: la partecipazione è limitata agli individui capaci
individualmente di uno sforzo particolare come i membri del partito
comunista. Quindi il partito comunista è un partito del tutto particolare.
36.
Su questo tema vedere CARC, F. Engels/10, 100, 1000 CARC per la
ricostruzione del partito comunista, 1995, Edizioni Rapporti Sociali
(http://www.carc.it/index.php?option=com_content&view=article&id=865) e
Pippo Assan, Cristoforo Colombo, Edizioni della vite, 1988 Firenze.
(http://www.nuovopci.it/scritti/cristof/indlibr.htm)
Marx ed Engels entrarono nella Lega dei Giusti (che poi
divenne Lega dei Comunisti) all’inizio del 1847 dopo che i suoi membri si
convinsero ad eliminare i tratti della società segreta. La lotta contro le
società segrete è stata una costante di Marx ed Engels anche negli anni
successivi. Nella lettera a F. Bolte del 23 novembre 1871, nel pieno della
lotta contro la società segreta fondata da Bakunin nell’Internazionale, Marx
arriva ad affermare “L’Internazionale fu fondata per mettere al posto delle
sette socialiste o semisocialiste, la vera organizzazione di lotta della
classe operaia. ... Lo sviluppo delle sette socialiste e quello del vero
movimento operaio sono sempre in proporzione inversa. Sino a che le sette
hanno una giustificazione (storica), la classe operaia non è ancora matura
per un movimento storico indipendente. Non appena essa giunge a questa
maturità, tutte le sette diventano essenzialmente reazionarie. ... La storia
dell’Internazionale è stata una costante lotta del Consiglio generale contro
le sette ...”. La struttura della società segreta è inconciliabile con la
raccolta ampia delle forze della classe operaia, del proletariato, delle
masse popolari attorno al partito comunista, è inconciliabile con il
centralismo democratico come principio organizzativo del partito. Il partito
comunista è vitalmente interessato a far conoscere alle masse più ampie
possibile la sua esistenza, il suo programma, il suo statuto, i suoi
orientamenti, le sue linee particolari: esso non lotta per prendere in mano
il potere esso stesso, lotta perché la classe operaia prenda il potere e per
costruire uno Stato “in via di estinzione”, cioè in cui il governo delle
masse da parte delle masse popolari stesse abbia la massima estensione
possibile. Nel libro Che fare? Lenin difende la necessità di un
partito clandestino di cui i rivoluzionari di professione sono una
componente essenziale: ma il progetto che egli delinea non ha nulla a che
vedere con una società segreta.
Noi possiamo e dobbiamo riconoscere i meriti che le società
segrete hanno avuto negli anni ‘80 come raccolta provvisoria di compagni che
la sconfitta aveva lasciato senza orientamento e in condizioni
organizzativamente molto deboli. Ma proprio la mancanza di risultati di
rilievo dell’attività da esse svolta da allora a questa parte conferma a
ogni compagno l’incompatibilità delle società segrete con il movimento
comunista e, quello che più ci importa chiarire, la differenza tra il
partito comunista clandestino e una qualunque società segreta.
Quale è la fonte principale delle forze di un partito
comunista? Le masse. E come possono le masse conferire la loro forza a un
partito di cui ignorano non solo il programma e gli orientamenti, ma
addirittura l’esistenza? La concezione del partito come società segreta
deriva da una concezione del mondo che sottovaluta le potenzialità
rivoluzionarie delle masse (l’attività della società segreta deve sostituire
le masse popolari e compiere l’attività che esse dovrebbero svolgere ma non
svolgono) e sopravvaluta la forza della borghesia (essa sarebbe in grado di
controllare completamente le masse, con i mass media e con i servizi
segreti, di annullare l’effetto dell’esperienza dello sfruttamento come
fonte della coscienza degli operai e dei membri delle altre classi oppresse
e fruttate: le tesi sulla sussunzione reale totale della società nel
capitale espongono questa concezione che legittima le società segrete). La
società segreta deriva da una concezione che, come quella militarista, pone
la tecnica al primo posto; essa porta quindi i rivoluzionari a scontrarsi
con la borghesia sul suo terreno (le tecniche delle operazioni segrete, i
complotti, ecc.) su cui essa è più forte di noi anziché a legarsi alle masse
e a costringere la borghesia a scontrarsi su un terreno che a noi è
favorevole. Di conseguenza alla lunga porta i rivoluzionari alla sconfitta.
Come il militarismo, la società segreta è insomma figlia di
una concezione del mondo interclassista: tutti totalmente sussunti nel
capitale e quindi moltitudine composta di individui. Sul terreno dello
scontro politico, questa concezione interclassista si esprime in questo: la
tecnica è la tecnica, è la stessa per ogni classe. La guerra tutte le classi
la fanno alla stessa maniera, dicono i militaristi; la cospirazione e le
operazioni clandestine tutte le classi le fanno alla stessa maniera, dicono
i seguaci delle società segrete. Noi invece riteniamo che ogni classe
combatte alla propria maniera, se vuole vincere e la classe d’avanguardia,
la classe operaia può costringere la classe reazionaria, la borghesia
imperialista a misurarsi sul suo terreno perché nella guerra popolare
rivoluzionaria non si tratta di un gruppo imperialista che vuole strappare
qualche ricchezza a un altro gruppo imperialista, ma si tratta di
conquistare la direzione delle masse popolari, conquistandone il cuore.
Ci resta da affrontare un’ultima obiezione: è possibile
costituire un partito clandestino?
Noi siamo convinti che la costituzione di un partito comunista
clandestino è necessaria e possibile. La classe operaia ha avuto nel passato
partiti clandestini in varie circostanze: nella Russia zarista, nella Cina
coloniale e nazionalista, nell’Italia fascista, nella Germani nazista e in
molti altri paesi. I revisionisti moderni hanno alimentato e alimentano
l’immagine terroristica della borghesia onnipotente quando hanno voluto
togliere alla classe operaia uno strumento indispensabile per la sua lotta
rivoluzionaria. “Dio è dappertutto”, “Dio vede tutto”, “Dio può tutto”
dicono i preti; i portavoce della borghesia e i revisionisti hanno
sostituito queste vecchie frasi minatorie dei preti con “La CIA vede tutto,
è dappertutto, può tutto”, “Non si muove foglia che la CIA non voglia” e
hanno promosso uno scalcinato carrozzone di assassini, di spioni e di
mercenari assetati di denaro e di carriera al ruolo di Dio onnipotente! Se i
movimenti rivoluzionari negli USA non sono riusciti a svilupparsi, secondo
loro la colpa è della CIA e della FBI. Se le Brigate Rosse sono state
sconfitte, è “merito dello Stato che a un certo punto ha incominciato a
combatterle sul serio”. E così via. L’onnipotenza della classe dominante è
stato sempre un tema della propaganda terroristica della stessa classe
dominante (basti considerare la letteratura sulla Mafia e sulle altre
Organizzazioni Criminali) e una giustificazione sia degli opportunisti sia
degli sconfitti che non vogliono riconoscere i propri errori e fare
autocritica. Se la ferocia e l’intelligenza delle classi dominanti potessero
fermare il movimento di emancipazione delle classi oppresse, la storia
sarebbe ancora ferma allo schiavismo. La società borghese è ricca di
contraddizioni, ha in sé tanti fattori di instabilità, il suo funzionamento
è costituito da un numero illimitato di traffici e di movimenti e per il suo
funzionamento la borghesia è costretta ad avvalersi delle masse che nello
stesso tempo calpesta: insomma è una società che più delle precedenti
società di classe presenta lati favorevoli all’attività delle classi
oppresse, che siano decise a battersi. La possibilità per un partito
comunista di costituirsi e operare clandestinamente dipende in definitiva
dal suo legame con le masse e questo a sua volta dipende dalla linea
politica del partito: se essa è o no conforme alle reali condizioni concrete
dello scontro che le masse stanno vivendo (pur avendone esse una coscienza
limitata). Questa è la chiave del successo o della sconfitta di un partito
comunista. Per quanto feroce e capillare sia la controrivoluzione
preventiva, essa non è mai riuscita a impedire la vita e l’attività di un
partito comunista che aveva una linea giusta e sulla base di questa linea
attingeva all’inesauribile serbatoio di energie e di risorse di ogni genere
costituito dalla classe operaia, dal proletariato e dalle masse popolari. È
quello che con tutte le nostre forze cercheremo che sia anche il nuovo
partito comunista italiano.
Manchette
I sei grandi apporti del maoismo al pensiero comunista
1. la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata, strategia universale
della rivoluzione socialista;
2. la rivoluzione di nuova democrazia nei paesi semifeudali, componente
della rivoluzione proletaria;
3. la lotta di classe nella società socialista, mezzo indispensabile per
condurre avanti la transizione al comunismo;
4. la linea di massa, principale metodo di lavoro e di direzione del Partito
verso le masse popolari;
5. la lotta tra le due linee nel Partito, principio per lo sviluppo del
Partito e la sua difesa dall’influenza della borghesia;
6. il Partito e ogni suo membro è oggetto della rivoluzione (processo di
CAT) oltre che soggetto.
Per un’esposizione di dettaglio vedere L’ottava discriminante in
La Voce n. 9 (novembre 2001), n. 10 (marzo 2002) e n. 41 (luglio 2012).
La settima discriminante è illustrata nell’articolo omonimo di La
Voce n. 1 (marzo 1999) ripubblicato su questo numero della rivista. Le
sei discriminanti del partito comunista rispetto ai revisionisti moderni,
alla sinistra borghese e agli sterili aborti del movimento comunista
(trotzkisti, bordighisti, “comunisti di sinistra”, operaisti, ecc.) sono
illustrate nell’articolo Le sei discriminanti e i quattro problemi di
Rapporti Sociali n. 19 (agosto 1998)
(http://www.nuovopci.it/scritti/RS). Ricordiamo ai nostri lettori che presso
le Edizioni Rapporti Sociali (http://www.carc.it) sono disponibili le
Opere di Mao Tse-tung.