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Avanti, per consolidare e rafforzare il (nuovo)Partito comunista italiano!


L’instaurazione del socialismo nei paesi imperialisti

Nell’ultimo periodo il Partito ha dedicato molta attenzione alla messa a punto della strategia della rivoluzione socialista nei paesi imperialisti e in particolare nel nostro paese. Non a caso questo è coinciso con la fondazione del Partito, decisa circa un anno fa nella riunione allargata della Commissione preparatoria del Congresso di fondazione. Il partito comunista è la principale tra tutte le organizzazioni della classe operaia. È quindi, per eccellenza, l’orga-nizzazione che elabora la strategia della classe operaia per la instaurazione del socialismo ed è il principale responsabile della sua attuazione.

La prima ondata della rivoluzione proletaria mondiale si è svolta nella prima parte del secolo XX. Essa ha creato i primi paesi socialisti. Ma la classe operaia non è riuscita a prendere il potere e a instaurare il socialismo in nessuno dei paesi imperialisti.(1) Eppure questi sono i paesi capitalisticamente più avanzati. Sono i paesi dove il capitalismo è da più tempo il modo di produzione dominante; i paesi dove più alta è la parte dell’attività economica direttamente nelle mani dei capitalisti, svolta in aziende di loro proprietà; i paesi dove il modo di produzione capitalista ha più ampiamente e più profondamente rivoluzionato le attività, le relazioni, le idee, i sentimenti e i comportamenti tradizionali e li ha, nel bene e nel male, rimodellati a uso e consumo del nuovo modo di produzione;(2) i paesi che hanno imposto nel resto del mondo il modo di produzione capitalista. Sono anche i paesi dove quasi 200 anni fa è iniziato il movimento comunista;(3) i paesi dai quali, giunto a un certo sviluppo, il movimento comunista si è irradiato nei paesi coloniali e semicoloniali, ha fecondato e trasformato la loro resistenza alla penetrazione e oppressione dei gruppi e degli Stati capitalisti e ha accelerato il tramonto dei modi di produzione tradizionali. Sono i paesi che ancora dominano, sfruttano, opprimono e dettano legge nel resto del mondo, benché i primi paesi socialisti siano riusciti a sottrarre per alcuni decenni all’azione diretta dei gruppi imperialisti e dei loro Stati fino a un terzo dell’umanità. L’instau-razione del socialismo negli attuali paesi imperialisti costituirebbe un passo avanti irreversibile della rivoluzione socialista a livello mondiale.

Il movimento comunista nel corso della sua ancora breve vita ha compiuto grandi ed evidenti progressi in ogni angolo del mondo.(4) Ma il fatto che la classe operaia non sia riuscita a instaurare il socialismo in nessuno dei paesi imperialisti pone un interrogativo. I nostri nemici non hanno mancato di indicarlo e di sottolinearlo come la smentita pratica della nostra concezione del mondo: “non è vero che il comunismo è lo sbocco inevitabile della società capitalista”; “il comunismo si è imposto solo in paesi arretrati”. Noi comunisti dobbiamo dare risposta esauriente a questo interrogativo. È un fatto che noi comunisti dobbiamo esaminare alla luce della nostra concezione del mondo con il nostro metodo di ricerca, il materialismo dialettico. L’at-teggiamento di un partito che si dice comunista verso i fatti che sembrano contraddire la sua dottrina, verso le obiezioni che vengono avanzate dagli avversari e dagli amici alle sue tesi, è uno dei criteri più importanti e sicuri per valutare se esso è un partito serio, se esso adempie di fatto al suo dovere verso la classe operaia e verso le masse popolari. Esaminare le obiezioni fino a elaborare risposte esaurenti e pratiche (operative) è indizio della serietà di un partito. Questo si chiama fare il proprio dovere, assicurare la continuità della propria azione, educare e istruire la classe operaia e quindi le masse popolari e prepararle ai loro compiti rivoluzionari.

Il fatto che la classe operaia non sia riuscita a instaurare il socialismo in nessun paese imperialista riguarda il bilancio del movimento comunista. Infatti è stato una componente importante delle difficoltà che i primi paesi socialisti hanno dovuto affrontare. Ogni volta che cerchiamo di capire più a fondo i motivi della deriva revisionista, borghese, dei primi paesi socialisti, non dobbiamo mai trascurare questo aspetto della situazione che certamente ha facilitato l’avvento del revisionismo moderno. Essi erano la base rossa della rivoluzione proletaria mondiale, come indicato da Stalin già nel 1924 (Principi del leninismo). Concepirli avulsi da questo ruolo è venir meno all’internazionalismo, peccare di ristrettezza nazionalista. Era possibile instaurare il socialismo dapprima e a partire da uno o da alcuni paesi arretrati. Infatti così sono andate le cose. Ma, per affermarsi in modo irreversibile, la rivoluzione socialista doveva trionfare anche nei maggiori paesi imperialisti, che ancora dominavano il mondo.

Quel fatto non riguarda però solo il bilancio del passato, la comprensione delle cause del declino dei primi paesi socialisti fino al crollo. Riguarda anche il presente e il futuro.

Riguarda la relazione tra la rivoluzione nei paesi imperialisti e la rivoluzione nei paesi oppressi nell’ambito della seconda ondata della rivoluzione proletaria mondiale che matura nell’ambito della seconda crisi generale del capitalismo, pur tenendo conto del ruolo maggiore che, grazie all’opera della prima ondata della rivoluzione proletaria, i paesi oppressi hanno assunto nel movimento dell’umanità; pur tenendo conto che, malgrado l’abisso che separa le masse popolari dei due tipi di paesi sul piano delle condizioni di vita, le loro differenze quanto ai rapporti sociali sono diminuite.

Ma quel fatto riguarda soprattutto l’attività di noi comunisti dei paesi imperialisti. Infatti la risposta che diamo a quell’inter-rogativo deve essere giusta nel senso in cui una risposta è giusta per noi comunisti. Quindi deve implicare l’indicazione di cosa la classe operaia deve fare per vincere.

Alcuni che pur si proclamano comunisti non sentono il bisogno di dare una risposta esauriente e costruttiva a questo interrogativo pratico, a una obiezione così fondata alla nostra concezione. È evidente che essi hanno una concezione movimentista, spontaneista. Consapevolmente o solo spontaneamente condividono la tesi del fondatore del revisionismo e dirigente di primo piano del movimento comunista tedesco tra il 1880 e il 1914 E. Bernstein (1850-1932): “il movimento è tutto, il fine, lo scopo finale del movimento comunista, nulla”. Hanno una concezione che riduce il movimento comunista a lotta per miglioramenti, a movimento rivendicativo. Una concezione che, spontaneamente se non anche consapevolmente, è il fondamento dell’attività di tutti quei compagni che chiamano alla lotta, sollecitano a lottare, ma omettono sistematicamente di indicare, illustrare, chiarire che il fine ultimo e comune della lotta della classe operaia, della lotta a cui la classe operaia chiama e guida il resto delle masse popolari, di tutta la lotta che la classe operaia conduce, è l’instaurazione del socialismo per marciare verso il comunismo.

Contro la tesi revisionista di Bernstein (deviazione di destra) e contro le tesi di fautori di varie deviazioni di sinistra (anarco-sindacalisti, militaristi e altri), i marxisti hanno affermato e affermano che l’essenza del carattere rivoluzionario del movimento comunista non sta nelle sue forme di lotta (che sono e devono essere molteplici, e cambiano – come la pratica ha mostrato e confermato – secondo le circostanze concrete). Essa sta nel suo fine. Questo è il ribaltamento radicale dell’attuale ordinamento sociale; la instaurazione, sui presupposti creati dal capitalismo, di un nuovo ordinamento sociale che implica l’estinzione della plurimillenaria divisione dell’umanità in classi sociali. È questa concezione marxista della preminenza del fine sulle forme di lotta che portava Lenin a dire dei Socialisti-Rivoluzionari russi del suo tempo: “Come socialisti non sono rivoluzionari, come rivoluzionari non sono socialisti”.(5)

Non essere riusciti a instaurare il socialismo in alcun paese imperialista nel corso della prima ondata della rivoluzione proletaria, pone un interrogativo sulla validità della nostra concezione. Infatti era ed è opinione unanime di tutti i grandi teorici del marxismo che negli attuali paesi imperialisti (con l’eccezione del Giappone) le condizioni oggettive e soggettive del comunismo (dell’instaurazione del socialismo) esistono dalla seconda metà del secolo XIX.(6) Il fatto che noi affermiamo che da più di 100 anni esistono nei paesi imperialisti le condizioni oggettive e soggettive per l’instaurazione del socialismo e non siamo ancora riusciti a instaurarlo in neanche un paese imperialista, pone un interrogativo sulla validità delle nostre tesi, pone quindi un problema a tutti i comunisti che usano la testa per lottare per il comunismo, per i quali le tesi dei quadri teorici del movimento comunista internazionale (da Marx-Engels, a Lenin-Stalin, a Mao) non sono giaculatorie con cui sciacquarsi la bocca e imbrattare carte, ma una guida per l’azione, quindi verità che devono trovare riscontro nei risultati dell’attività condotta in coerenza con esse.

Per noi comunisti il vero problema non sta nel fatto che i primi paesi socialisti sono sorti in paesi capitalisticamente arretrati. Questo evento ha fatto scandalo tra quelli che avevano assimilato come marxismo le formule dogmatiche pseudomarxiste di Karl Kautsky (1854-1938). Questi fu il principale teorico del movimento comunista tedesco nel periodo della Seconda Internazionale (1889-1914), e godette lungo tutto questo periodo di grande prestigio in tutto il movimento comunista internazionale. Egli sosteneva che ogni paese doveva necessariamente percorrere ordinatamente la successione di modi di produzione (primitivo, schiavistico, feudale, capitalista) che Marx aveva mostrato costituire l’ossatura della storia europea e la chiave di una lettura razionale di essa. Sosteneva inoltre che era impossibile instaurare il socialismo in un paese in cui lo sviluppo del capitalismo non fosse arrivato a un punto tale da spingere la maggior parte della popolazione dalla parte dei comunisti.(6)

Né Marx né Engels avevano mai né annunciato né condiviso schemi dottrinari e metafisici del genere.(7) Anzi! Basti dire che nella prefazione della traduzione russa del Manifesto del partito comunista (pubblicata a Ginevra nel 1882) Marx aveva detto che “la Russia era oramai diventata l’avan-guardia del movimento rivoluzionario in Europa” e che “se la rivoluzione russa servirà da segnale a una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che le due si completino, allora l’odierna proprietà comune contadina russa potrà servire da punto di partenza per una rivoluzione comunista”. Tanto poco Marx condivideva le “dottrine marxiste” di Kautsky! Quanto a Lenin e Stalin poi, “Europa arretrata, Asia avanzata”, il ruolo della rivoluzione antimperialista e antifeudale dei popoli dei paesi coloniali e semicoloniali, l’alleanza operai-contadini, lo sviluppo diseguale del capitalismo e la vittoria della classe operaia anzitutto nell’anello debole del sistema imperialista mondiale, ecc. sono tesi cardinali della loro concezione e della loro azione, tanto note che non è il caso di richiamarle qui in maggiore dettaglio.(8)

Il problema che noi comunisti dobbiamo spiegarci e spiegare non consiste quindi nel fatto che i primi paesi socialisti sono stati instaurati in paesi in cui il capitalismo era ancora poco o per niente affermato (in paesi capitalisticamente arretrati), che la classe operaia ha vinto prima nell’anello debole della catena di paesi che opprimevano il mondo (l’impero russo) e si è quindi estesa in paesi oppressi ancora più arretrati (in particolare la Cina). Ciò era conforme alla correlazione di forze che lo sviluppo ineguale del capitalismo aveva creato nel mondo, al tipo di unificazione del mondo (mondializzazione) che la borghesia poteva creare stante la sua natura e che in effetti ha creato. Le contraddizioni sociali che per una causa o per l’altra nelle metropoli dove il capitalismo le produceva non potevano essere risolte e neanche esplodere in guerre civili dispiegate, producevano i loro effetti laceranti nei paese oppressi dove l’ege-monia e il potere politico della borghesia erano più deboli. Da qui quindi iniziava la loro soluzione rivoluzionaria per il mondo intero. Allora come oggi l’attività condotta dai gruppi e Stati imperialisti nei paesi oppressi (la loro politica estera) metteva allo scoperto, per chi aveva imparato a vedere, le contraddizioni che si generavano nei paesi metropolitani ed era dettata dalle contraddizioni proprie di questi paesi che per varie ragioni non trovavano ancora espressione aperta e, meno ancora, soluzione al loro interno (nella politica interna). Alla luce della nostra concezione del mondo e di quanto fin qui esposto, le difficoltà incontrare dai primi paesi socialisti a proseguire da soli, senza il concorso di paesi socialisti creati nei paesi capitalisticamente più avanzati e nonostante l’assedio dei gruppi e Stati imperialisti, non pongono problemi di comprensione ma principalmente problemi pratici. Infatti la soluzione di quelle difficoltà riposava principalmente sulla instaurazione del socialismo nei principali o almeno in alcuni paesi imperialisti, quindi su un movimento pratico. Kruscev, da autentico istrione qual era, nel 1962 promise l’attuazione del comunismo in Unione Sovietica nel giro di vent’anni (Piano ventennale di passaggio al comunismo). Al contrario, Stalin nei suoi scritti del 1951 e 1952 (Problemi economici del socialismo in Unione Sovietica) aveva sostenuto che in Unione Sovietica erano all’opera contraddizioni che, se non trattate adeguatamente, sarebbero diventate antagoniste, e non a caso, nello stesso contesto, trattò della situazione nei paesi imperialisti e delle relazioni internazionali. Vero è che il Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) non arrivò a tracciare la linea da seguire, né nel trattamento delle contraddizioni interne né nelle relazioni internazionali, per far fronte con successo alla nuova situazione. Al contrario, ben presto i revisionisti moderni, guidati appunto da Kruscev, ne presero la direzione. Con la Grande Rivoluzione Culturale (1966-1976) il Partito Comunista Cinese (PCC) guidato da Mao Tse-tung cercò di assicurare lo sviluppo del movimento comunista internazionale. Ma proprio la mancanza di una risposta adeguata nel PCUS e nei paesi imperialisti segnò il declino del movimento comunista fino al crollo di gran parte dei paesi socialisti e la dissoluzione di gran parte delle istituzioni create dalla prima ondata della rivoluzione proletaria. Segnò anche la sconfitta della Grande Rivoluzione Culturale del popolo cinese. Questa occupa nella storia del movimento comunista un posto analogo a quello occupato dalla Comune di Parigi (1871). La Cina era un paese troppo arretrato economicamente e quanto alle relazioni sociali per prendere il posto occupato dall’URSS, e la situazione internazionale non era favorevole a che essa agisse direttamente come innesco di un movimento rivoluzionario in URSS o nel reso del mondo.

In conclusione, pur essendo gravi gli effetti politici del declino e del crollo di gran parte dei primi paesi socialisti sul movimento comunista, il loro declino e il loro crollo non pongono una obiezione seria alla nostra concezione del mondo. L’obiezione seria è posta dalla mancata instaurazione del socialismo nei paesi imperialisti nel corso della prima ondata della rivoluzione proletaria.

Tanto più è seria questa obiezione perché l’evoluzione dei rapporti sociali nei paesi imperialisti ha a grandi linee confermato le previsioni che Marx aveva tratto dallo studio della natura del modo di produzione capitalista. Vediamo brevemente le principali.

1. La concentrazione del capitale. Il capitale si è concentrato prima a livello di singoli paesi e regioni e poi a livello mondiale in pochi grandi gruppi monopolistici in lotta tra loro a livello finanziario. Ognuno di essi ha strettamente in pugno interi settori produttivi a livello mondiale. Il monopolio produttivo e commerciale si combina con la concorrenza finanziaria. Le Società per Azioni, l’azionariato popolare, il sistema delle obbligazioni, i fondi finanziari e assicurativi e altre analoghe istituzioni da alcuni vengono indicate come manifestazione della “diffusione della proprietà del capitale tra milioni di piccoli e medi capitalisti”. Sarebbe quindi una smentita della tesi marxista della concentrazione del capitale. In realtà quelle istituzioni concentrano nelle mani di pochi grandi gruppi finanziari i risparmi volontari e obbligatori (pensioni, assicurazioni, ecc.) di lavoratori e il capitale liquido del resto della borghesia. E i pescicani della finanza se li mangiano, a bocconi più o meno grandi, in occasione di crisi congiunturali, crac di borsa e “scandali finanziari” (come quelli ben noti in Italia della Parmalat, della Cirio, del debito argentino).

2. La scomparsa delle classi intermedie tra la grande borghesia e il proletariato. È un fatto incontestabile che nelle società imperialiste la piccola-borghesia ha perso la sua autonomia economica, politica e culturale dalla grande borghesia. In ogni paese imperialista le piccole e medie aziende sono molto numerose. In Italia nella nostra analisi di classe valutiamo a 6 milioni i lavoratori autonomi.(9) Sulla base di questi numeri, da buoni empiristi alieni dall’analisi scientifica della realtà, borghesi e revisionisti di ieri e di oggi, hanno gridato che la realtà smentiva le previsioni di Marx. Ma consideriamo il ruolo reale che questi milioni di lavoratori autonomi, di finte cooperative, di aziende familiari, di piccole e medie aziende capitaliste hanno nel sistema economico della nostra società. Consideriamo le loro relazioni con le banche, con le assicurazioni, con i loro clienti, con i loro fornitori di materie prime, con i loro fornitori di mezzi di produzione, di licenze, di autorizzazioni e di tecniche produttive, con la Pubblica Amministrazione. Vedremo allora che, quali per alcuni versi quali per altri, l’enorme maggioranza di esse più che imprese autonome sono in realtà reparti distaccati, officine esterne, filiali, ditte che lavorano in appalto, su commissione o in concessione. In molti casi sono più simili a “lavoratori a domicilio” che a imprese realmente autonome: proprietarie del loro capitale, dei propri mezzi di produzione e della propria tecnologia, che trattano da pari a pari con una moltitudine di clienti e di fornitori. Esse occupano le nicchie che i monopoli disdegnano o lavorano per loro conto. Sono le prime vittime dei loro movimenti e sommovimenti. Tutte le chiacchiere e le dotte trattazioni sui “signor Brambilla”, sul “piccolo è bello” si sono sgonfiate. Solo le grandi società fanno ricerca e sviluppo, si muovono con autonomia. Le piccole e medie imprese sono asservite ai monopoli e alle loro Autorità. La proletarizzazione della popolazione è largamente compiuta. Solo che un terzo di essa è formalmente autonoma e realmente dipendente dai grandi gruppi capitalisti che decidono su che musica devono ballare, quando incominciare e quando finire, con alcuni vantaggi ma anche molti svantaggi per gli autonomi rispetto ai dipendenti.

3. La caduta del saggio di profitto. Tra le principali previsioni di Marx riguardo allo sviluppo del capitalismo questa è la meno contestata. Essa è andata tanto avanti da non essere più compensata dall’aumento della massa del capitale. La diminuzione della massa del profitto è evitata solo lasciando inoperosa una parte del capitale, con la connessa cronica sovrapproduzione di merci, disoccupazione (sovrappopolazione) e lotta antagonista tra gruppi capitalisti.(10) Le privatizzazioni, delocalizzazioni (in Cina, negli altri paesei ex-socialisti e nei paesi semifeudali e semicoloniali) e l’eliminazione delle conquiste spostano in là nel tempo, ma non eliminano il problema né i suoi effetti. È confermato che il modo di produzione capitalista ha in se stesso i suoi limiti. Vero però è che le grandi distruzioni delle due guerre mondiali e gli sconvolgimenti rivoluzionari avevano prodotto una crescita del saggio di profitto, che si è però venuta esaurendo nel corso dei “trent’anni gloriosi” (1945-1975). Borghesi e revisionisti moderni si erano basati su questa effimera ripresa per sciogliere i loro canti all’eterna giovinezza del capitalismo. Ora hanno da tempo riposto i loro strumenti mestamente.

4. La tendenza alla miseria crescente del proletariato. La prima ondata della rivoluzione proletaria ha prodotto nei paesi imperialisti un miglioramento generale delle condizioni di vita del proletariato e del resto delle masse popolari: “capitalismo dal volto umano”, Welfare State, società del benessere, consumismo, ecc. Borghesi e revisionisti moderni hanno gridato anche per questo aspetto che i fatti smentivano la teoria della base economica della società borghese che Marx ha elaborato. Il declino del movimento comunista e in particolare il crollo dei primi paesi socialisti hanno nuovamente lasciato, in misura crescente, la corda libera ai capitalisti per comportarsi secondo la loro natura, e di mostrare liberamente le loro inclinazioni e le loro vergogne. E si vedono gli effetti, tanto più mostruosi perché nel frattempo la proletarizzazione della popolazione è cresciuta, il proletariato è diventato in misura ben maggiore che cento anni fa dipendente in modo diretto e immediato per la sopravvivenza elementare dalla borghesia (lavoro), dai sistemi di previdenza e sicurezza sociale o dalle opere di beneficenza. La massa della popolazione è priva di ogni proprietà, esclusa da ogni autonomia economica individuale, dalle attività economiche di sussistenza che la minore separazione tra città e campagna permetteva. Le fila dei poveri e degli emarginati ingrossano a partire dai paesi imperialisti più ricchi e più avanzati: i paesi anglosassoni. La maggiore libertà della borghesia dal movimento comunista si traduce in tutti i paesi imperialisti in riduzione dei redditi dei lavoratori, aumento della precarietà, della povertà, della disoccupazione, eliminazione o nei casi migliori restrizione delle conquiste di civiltà e di benessere che il movimento comunista aveva strappato per tutte le masse popolari: istruzione gratuita, assistenza sanitaria universale, pensioni di vecchiaia, anzianità e invalidità, formazione non solo professionale ma anzitutto culturale, servizi di base universali, garanzie dell’occupazione, diritti dei lavoratori nelle aziende, ecc.

Insomma, abbiamo sotto il naso la conferma pratica e su grande scala della tendenza dei capitalisti. Essa si esplica liberamente ora che il movimento comunista non è in grado, per motivi propri della sua storia, di contrastarla efficacemente. È la guerra di sterminio non dichiarata.

Certo, le quattro leggi del capitalismo che abbiamo richiamato, come tutte le altre e come anche tutte le leggi delle scienze naturali, vanno intese nel senso del materialismo dialettico. Ogni legge considerata a se stante, da sola, è un’astrazione che noi dobbiamo compiere sulla via per conoscere la realtà. Noi dobbiamo isolare un aspetto della realtà: facciamo mentalmente quello che a volte si fa in laboratorio, nella sperimentazione scientifica; quello che si fa nell’analisi matematica, quando si muove solo una variabile di una funzione che dipende da più variabili. Nella realtà ogni legge è solo un aspetto della cosa. La realtà è concreta, ogni singolo aspetto è combinato con altri e il concreto è la loro combinazione, la loro azione reciproca.(11) Ogni aspetto e il tutto si trasformano continuamente. Il materialista dialettico formula una legge che esprime un aspetto (e uno solo) della realtà. Il metafisico (idealista o materialista volgare qui non importa) prende quella legge come se fosse tutta la realtà, la prende cioè unilateralmente: astratta dalle sue relazioni con altre leggi e prescindendo dal divenire del tutto. Allora ovviamente scopre che la realtà non è conforme a quella legge così unilateralmente considerata, assunta nella sua astrazione da tutto il resto. Ma assunta unilateralmente, astratta da tutto il resto, anche la legge della gravitazione universale è smentita dalla realtà: infatti esistono tanti corpi distanti l’uno dall’altro. “Quindi non è vero che si attirano”, dice il nostro metafisico, se è coerente! Si dice che una volta una pecora, che sentiva per la prima volta un leone ruggire, esclamò con disprezzo: “Ma come bela male quella pecora!”. Non ebbe per sua disgrazia l’occasione di sentire il leone “belare male” una seconda volta. Ogni metafisico si trova prima o poi alle prese con il fatto che la realtà contrasta con questa o quella delle leggi che lui ha in testa. Nel 1916 Lenin annotava che era impossibile comprendere Il Capitale di Marx senza aver assimilato il metodo dialettico di pensare. Non a caso, oltre ai “demolitori di Marx”, si moltiplicano negli stessi periodi anche gli irrazionalisti e i soggettivisti: la realtà è inconoscibile, nella realtà non esistono leggi, ecc. ecc. Ogni circonferenza a volerla misurare col suo diametro è incommensurabile, eppure ogni circonferenza è misurabile.(12)

Detto questo, resta però che noi marxisti dobbiamo spiegarci e spiegare, in coerenza con la nostra concezione del mondo, e con il nostro metodo di conoscenza, perché la classe operaia non è ancora riuscita a instaurare il socialismo in nessun paese imperialista.

La riunione allargata della Commissione Preparatoria del 3 ottobre 2004 ha deciso la fondazione del (nuovo)PCI confortata dal fatto che abbiamo dato risposta all’inter-rogativo principale posto dall’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria che ho fin qui illustrato. Essa è esposta nell’articolo del compagno Nicola P. Il nuovo partito comunista pubblicato nel n. 19 di La Voce. “Ma quella è solo una teoria!” esclamerà deluso qualche lettore. Certo! Di fronte a un problema pratico (l’instaurazione del socialismo nei paesi imperialisti e, per quanto ci riguarda direttamente, in Italia), o si agisce alla cieca, sia pure con molto zelo e buona volontà, o si usa tutta la conoscenza e l’esperienza disponibili per analizzare il problema pratico, capirne la natura (che non è in generale la sua apparenza, l’impressione che dà) e tracciare una linea per risolverlo e quindi la si mette in pratica: pratica-teoria-pratica. Questo è il modo scientifico di affrontare un problema pratico. La verità della nostra teoria in definitiva sarà confermata solo dal successo della sua applicazione, nella pratica. Ma chi rifiutasse di applicarla solo perché non è ancora confortata dal successo nella pratica, o non fa nulla o agisce alla cieca. Non esiste altro modo per arrivare alla verità che elaborare l’esperienza con i migliori strumenti a disposizione.(13)

Giustappunto dall’elaborazione dell’espe-rienza del movimento comunista abbiamo tratto la risposta all’interrogativo posto all’inizio di questo articolo. Da quella esperienza vengono la linea di massa, la lotta tra le due linee nel partito e la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata, e gli altri apporti fondamentali del maoismo. Certamente anche nel pensiero dei teorici del movimento comunista antecedenti a Mao questi insegnamenti si trovano qua e là, come osservazioni accidentali suggerite dall’esperienza che esaminano, che però non vengono ulteriormente svolte in tutte le loro feconde conseguenze e connessioni.(14)

Resta da dire che la verità della nostra risposta e di ognuna delle sue parti, finora è confortata oltre che dall’esperienza passata del movimento comunista, anche dalla sua fecondità di risposte operative ai problemi presenti della lotta di classe: come succede per ogni teoria scientifica al momento della sua formulazione. Alla luce di essa, elementi dell’esperienza passata che sembravano casuali, caotici, inspiegabili, mostrano invece le loro connessioni e il loro significato. Ognuno di essi si inserisce in una catena genetica di causa ed effetto. Non più il caso, il destino, la fatalità e la forza del nemico; ma le potenzialità che le nostre fila non avevano ancora sviluppato, i limiti della nostra comprensione delle condizioni, delle forme e dei risultati della lotta di classe hanno reso in larga misura vano l’eroismo delle nostre fila, l’hanno via via smorzato e hanno in definitiva aperto la strada all’influenza della borghesia, di cui gli opportunisti, i riformisti, i revisionisti, i disfattisti furono i portatori.

Ma questa sistemazione e comprensione del passato è la parte minore, per importante e salutare che sia politicamente. Ci fa capire che abbiamo perso una battaglia solo perché non eravamo armati adeguatamente sul piano della comprensione delle condizioni, delle forme e dei risultati della lotta di classe. Ed è già molto. Ma non è la parte decisiva. La cosa più importante è che la risposta data a quell’interrogativo apre la strada all’elaborazione delle linee particolari in ogni campo e permette il dispiegamento di molteplici operazioni tattiche. La strategia della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata permette, ad esempio, di promuovere e valorizzare in tutta la loro potenzialità iniziative che in assenza di una strategia sono spesso state, ognuna di esse, fonte o componente di deviazioni, fautrice di illusioni e prodromo di sconfitte. L’impegno sul terreno della lotta politica borghese, la lotta sindacale e rivendicativa, il movimento cooperativistico sono i tre esempi più significativi di linee di costruzione che hanno, ognuna di esse, avuto un ruolo importante nel movimento comunista. Ognuna di esse, assunta e praticata unilateralmente, ha caratterizzato altrettante deviazioni. Ma ognuna di esse, per il suo aspetto positivo, ha contribuito alla costruzione del movimento comunista cosciente e organizzato. Ha dato un contributo all’emancipazione del proletariato dalla borghesia, ma, nello stesso tempo, proprio perché assunta unilateralmente, come espressione unica o principale, oppure combinata ecletticamente con la altre, è stata il veicolo dell’intervento della borghesia nel movimento comunista: un intervento teso a ostacolarne il cammino e a deviarlo in un vicolo cieco.

Il Piano Generale di Lavoro del Partito per la fase di accumulazione delle forze, per la prima fase della guerra popolare rivoluzionaria, assegna a ognuna di queste tre lotte il ruolo che esse possono svolgere, valorizza il lato positivo di ognuna di esse. Ponendo ognuna di esse come componente di un piano strategico, abbiamo posto la premessa necessaria per non assumere nessuna di esse isolatamente, come strategia; quindi per impedire che l’inevitabile lato negativo, quello che fa gridare alcuni compagni al rischio che corriamo praticandola, prevalga. Ogni linea particolare è principalmente positiva se è promossa come componente della strategia. Ogni organizzazione e organismo che la attua come suo compito principale, svolge un lavoro utile e necessario se il Partito è capace di dirigerlo: la linea di massa è il principale metodo di lavoro e di direzione, che permette al Partito di svolgere questo compito.

Occorre aggiungere che una strategia giusta è indispensabile per vincere, ma non è garanzia di vittoria. È la combinazione dei sette aspetti illustrati nel citato articolo di Nicola P. che ci assicura la vittoria. La strategia deve articolarsi in linee via via più particolari per ogni campo della vita e dell’attività della classe operaia e del resto delle masse popolari. E ogni linea viene posta in atto attraverso molteplici operazioni tattiche. Ognuno di questi passaggi è il risultato della combinazione della linea da attuare e dell’inchiesta sulla situazione concreta in cui attuarla. Sono due cose che devono ad ogni passaggio fondersi in una. Quindi sono ovvie e molteplici le possibilità di errori che possono compromettere il successo e causare sconfitte particolari e temporanee. Attuare una linea giusta alla cieca, senza inchiesta adeguata della situazione concreta, è anche un modo per sabotarne l’applicazione. L’inchiesta sulla situazione concreta è una componente indispensabile per il successo.

Agendo con questo giusto metodo, se la linea che presiede è giusta e se le nostre forze persistono nella lotta, ogni sconfitta particolare sarà recuperata.

L’instaurazione del socialismo non solo è possibile: essa è l’unica soluzione realistica delle molteplici contraddizioni in cui l’ordinamento sociale borghese ci ha precipitato, inestricabili nel suo ambito. Di fronte alla distruzione della coesione sociale che le sue misure anticrisi producono, con toni diversi tutti i partiti borghesi hanno una sola risposta: repressione. Più polizia, più controlli, più carceri, più divieti. Tutte cose che, se il Partito lavora bene, spingono in realtà in avanti la rivoluzione, perché non lasciano altra via di sviluppo alle masse popolari. La borghesia con le sue misure mostra che non può convivere con la classe senza della quale essa non può vivere. Di fronte alla crisi economica tutti i partiti borghesi auspicano lo sviluppo dei consumi delle famiglie e nello stesso tempo riducono i redditi delle famiglie delle masse popolari. Di fronte al disastro ambientale auspicano la riduzione dei consumi, predicano l’austerità e sviluppano nuove industrie. Il serpente si morde la coda. Noi comunisti non siamo riusciti a instaurare il socialismo nei paesi imperialisti durante la prima ondata delle rivoluzione proletaria. Ma lo studio di quella esperienza mostra chiaramente quali limiti del nostro movimento ci hanno impedito di compiere quell’opera decisiva. Sono tutti limiti che, armati ora del marxismo-leninismo-maoismo, possiamo superare sul terreno pratico, dopo aver compreso la loro soluzione teorica. Le lotte di oggi, la resistenza della classe operaia e delle masse popolari al procedere della crisi generale del capitalismo, giorno dopo giorno generano ed educano le nuove leve di comunisti che compiranno questa opera storica, l’opera che aprirà la nuova fase della storia dell’umanità.

 

Umberto C.

 

Note

1. Qui e nel seguito chiamo socialismo la fase inferiore della società comunista, seguendo l’uso introdotto da K. Marx (Critica del programma di Gotha, 1875). Il socialismo è l’ordinamento sociale frutto diretto e immediato della vittoria della classe operaia sulla borghesia, basato sul potere politico della classe operaia che reprime i tentativi di rivincita delle vecchie classi dominanti, vinte ma non estinte, e guida le masse popolari a riorganizzare le loro attività in modo che siano dirette alla soddisfazione dei loro bisogni materiali e spirituali, individuali e collettivi e a prendere sempre più direttamente in mano la loro gestione.

La società socialista si distingue da quella che sarà la futura società comunista perché essa porta ancora in sé l’eredità della vecchia società da cui nasce e dei modi di produzione che vivevano in questa, con le rispettive classi, divisioni (tra dirigenti e diretti, tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, tra uomini e donne, tra nazioni, razze, regioni e settori avanzati e arretrati, tra città e campagna, ecc.), idee, comportamenti e sentimenti. La società socialista è una società di transizione sotto la direzione della classe operaia e si libera per tappe dall’eredità della vecchia società. Le Dieci Misure Immediate (v. La Voce n. 15) mostrano a grandi linee come potrebbe essere, al suo inizio, la società socialista nel nostro paese.

2. Nel linguaggio marxista questo ultimo processo si chiama “sussunzione reale della società nel capitale” ed è contrapposto alla “sussunzione formale”. Questa sta ad indicare che i capitalisti hanno solo preso in mano le attività tradizionali e le fanno svolgere a lavoratori salariati per valorizzare (aumentare) il proprio capitale. Il contenuto delle attività (tipo di lavoro e oggetti prodotti) è quello di prima. È solo cambiata la forma: il rapporto nell’ambito del quale quelle attività sono compiute.

3. Qui e nel seguito, seguendo l’uso introdotto da K. Marx e F. Engels (L’ideologia tedesca, 1846), chiamo “movimento comunista” il movimento pratico di trasformazione e superamento della società borghese (dello stato attuale delle cose). Chiamo “movimento comunista cosciente e organizzato” l’insieme delle scuole di pensiero e delle organizzazioni proletarie che si pongono il compito di eliminare la soggezione degli operai ai capitalisti (l’emancipazione del proletariato dalla borghesia), quali che siano stati i limiti con cui hanno concepito le condizioni, le forme e i risultati della loro attività, e quale che sia stata la denominazione che esse stesse si sono date (socialiste, socialdemocratiche, sindacaliste, ecc.). Da quasi 160 anni, dal 1848, quando venne pubblicato il Manifesto del partito comunista, nel movimento comunista cosciente e organizzato il marxismo è venuto gradualmente assumendo il ruolo di concezione dominante.

4. Per l’illustrazione di questo punto rimando all’articolo di Tonia N., Le due vie al comunismo, in La Voce n. 15, novembre 2003.

5. Con ciò Lenin intendeva dire che la concezione che avevano i Socialisti-Rivoluzionari del socialismo non comportava un effettivo rovesciamento e superamento del capitalismo: era un socialismo utopistico che raffigurava un capitalismo senza i lati negativi del capitalismo. Nella misura in cui erano rivoluzionari, la rivoluzione per cui i Socialisti-Rivoluzionari lavoravano non portava alla instaurazione del socialismo, ma alla eliminazione dei residui feudali della società russa, e quindi sgombrava la via ad un maggiore sviluppo del capitalismo. In sostanza i Socialisti-Rivoluzionari non distinguevano la rivoluzione democratico borghese dalla rivoluzione socialista.

6. Parafrasando le espressioni usate da Lenin nel 1905, per condizioni oggettive del comunismo intendiamo un grado di sviluppo economico tale che non più l’esito della lotta degli uomini contro la natura (per strapparle quanto necessario alla loro vita), ma l’ordinamento sociale è diventato l’ostacolo principale a che tutti i membri della società (quindi in particolare la massa dei lavoratori) dispongano delle condizioni necessarie per una vita civile (già nel secolo XIX le crisi periodiche di sovrapproduzione di merci evidenziano che l’ostacolo principale era l’ordinamento sociale). Per condizioni soggettive del comunismo intendiamo un certo grado di organizzazione e un certo livello di coscienza della massa del proletariato (si badi bene: della massa del proletariato, non dei membri del partito) che rendano il proletariato capace di operare come classe distinta dal resto della società e contrapposta alla classe dominante: condizione che in Gran Bretagna fu raggiunta col movimento cartista (1838-1850) e nel resto degli attuali paesi imperialisti (eccettuato il Giappone) nella seconda metà del secolo XIX.

7. Queste dottrine di Kautsky erano a tal punto diventate “luoghi comuni marxisti” che persino un giovane colto di sentimenti rivoluzionari come A. Gramsci nel 1917, a 26 anni, in un articolo pubblicato con grande evidenza da G. M. Serrati sull’Avanti! di Milano del 24 dicembre, salutò con entusiasmo la Rivoluzione d’Ottobre come La rivoluzione contro “Il Capitale” (intendendo che la realtà contraddiceva la concezione del mondo che Marx aveva esposto nella sua opera, che quindi, così intesa, “stava stretta” al giovane di sentimenti rivoluzionari).

Trotzkj, Parvus e gli altri seguaci della versione trotzkista della “rivoluzione permanente”, quanto a loro ammettevano che la rivoluzione come fatto militare poteva incominciare in un paese capitalisticamente arretrato, ma essa doveva immediatamente estendersi ai paesi capitalisticamente avanzati perché i contadini per loro natura erano ostili al socialismo. Essi non si rendevano cioè conto delle trasformazione che il passaggio alla fase imperialista comportava nella posizione sociale dei contadini e, a livello internazionale, nella posizione dei popoli oppressi. E inoltre avevano una visione schematica dei rapporti di classe negli stessi paesi capitalisti: erano, in sostanza, kautskyani di sinistra. Persino per la Germania, la Francia e l’Italia Marx ed Engels avevano sempre prospettato una classe operaia che trascina al suo seguito o si mette alla testa dei contadini contro i grandi agrari e la borghesia, non una guerra della classe operaia contro i contadini!

8. La dottrina di Kautsky, a ben considerarla, implica infatti che il mondo reale si sviluppi secondo un percorso che non è determinato dalle forze che agiscono in esso. Ad es. l’avvento del capitalismo in un paese è un fattore che influisce sul percorso di tutti gli altri paesi che sono in rapporto con esso; le idee, i sentimenti e i comportamenti che nascono nel primo producano anch’essi determinati effetti negli altri paesi e viceversa; ne risulta che in generale le cose non vanno negli altri paesi come sono andate nel primo. Viceversa, per alcuni decenni l’impero feudale russo fu il bastione della reazione nei paesi dell’Europa occidentale contro la borghesia. La dottrina di Kautsky implica invece una legge e un ordine a cui tutti i paesi si conformano nonostante le loro diverse condizioni. In sostanza qualcosa di analogo ai comandamenti di Dio o all’“ordine naturale” che Dio avrebbe stabilito. Si tratta quindi di una dottrina che implica l’esistenza di un altro mondo, esteriore e superiore a quello in cui noi viviamo, metafisico, a cui quello in cui noi viviamo, fisico, è subordinato.

9. Per l’illustrazione di queste tesi rimando a Principi del leninismo (1924) di Stalin.

10. In proposito si veda il Progetto di Manifesto Programma (PMP) del 1998, cap. 3.2.

11. Questi aspetti della situazione attuale sono illustrati in dettaglio nel n. 17/18 della rivista Rapporti Sociali (1996), nell’articolo Per il dibattito sulle cause e sulla natura della crisi attuale e negli scritti ivi citati.

12. Questa parte del materialismo dialettico è ben illustrata da K. Marx in Il metodo dell’economia politica (nei Grundrisse).

13. Una legge coglie un aspetto della realtà e lo separa, nella nostra testa, dagli altri. Con essa affermiamo che nella realtà è presente un elemento che spinge nella direzione che indichiamo. Ma è possibile spingere in una direzione perché nella realtà vi è anche un elemento che resiste ad andare in quella direzione: non c’è azione dove non c’è reazione. Enunciare una legge vera, non equivale a dire che in una specifica circostanza concreta le cose vanno nel senso indicato da quella legge. La realtà non è un esperimento di laboratorio.

14. Questi sono i compiti e le caratteristiche dei comunisti, che li distinguono dagli altri proletari, secondo K. Marx e F. Engels (v. cap. 2 del Manifesto del partito comunista, 1848).

15. Tutta la nostra conoscenza viene dall’esperienza, anche se raggiunge tempi e spazi molto lontani dalla nostra esperienza e aspetti della realtà assolutamente inaccessibili ai nostri sensi. Il maoismo è il risultato dell’elaborazione dell’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria. Alcuni compagni pensano che quella grande esperienza non abbia insegnato nulla di importante ai comunisti, né in positivo né in negativo. Le obiezioni ad adottare il maoismo come terza superiore tappa del pensiero comunista (vedasi in Italia la redazione della rivista Teoria & Prassi e, all’estero, il PCE(r) con la sua rivista Antorcha) si basano su questo assunto.

Noi al contrario sosteniamo che la prima ondata della rivoluzione proletaria è ricca, in positivo e in negativo, di insegnamenti assolutamente necessari per la vittoria della seconda ondata. “La linea di massa, di cui parla così spesso il nostro Partito, è tratta dall’es-perienza dell’Unione Sovietica in quel periodo [della Rivoluzione d’Ottobre e della guerra civile che la seguì]” sostiene Mao (Ancora a proposito dell’espe-rienza storica della dittatura del proletariato, 1956). Alcuni dicono che noi copiamo la strategia della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata dalla Cina. Ma non è vero. La ricaviamo dall’intera esperienza del movimento comunista cosciente e organizzato, in particolare dall’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria in singoli paesi e a livello mondiale. Già Mao ammoniva i comunisti sudamericani: “L’esperienza della rivoluzione cinese, cioè creare basi di appoggio nelle campagne, accerchiare le città partendo dalle campagne e infine conquistare le città, in molti dei vostri paesi probabilmente non è completamente applicabile” (Alcune esperienze storiche del nostro Partito, 1956). Bisogna distinguere leggi universali e leggi particolare della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata è intitolato un articolo in La Voce n. 17. Bisogna rielaborare le esperienze del passato ed elaborare le esperienze presenti alla luce della teoria della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata è intitolato un articolo in La Voce n. 18.

16. Basti un esempio tratto da I nostri compiti e il Soviet dei deputati operai (novembre 1905) di Lenin. “Il governo zarista è già impotente a schiacciare la rivoluzione e la rivoluzione non è ancora tanto forte da spazzare via il governo dei centoneri”. Cosi Lenin descrive l’equilibrio raggiunto dalle forze della rivoluzione rispetto a quelle della controrivoluzione alla vigilia degli scontri che decisero l’esito della rivoluzione del 1905. Di conseguenza consigliava di guadagnare tempo prima di affrontare uno scontro decisivo. La coesistenza pacifica di paesi a regimi sociali diversi su cui i governi dei primi paesi socialisti, a incominciare dall’Unione Sovietica, impostarono le loro relazioni con i paesi imperialisti fu un’espres-sione politica dell’equilibrio strategico tra rivoluzione e controrivoluzione che la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre aveva creato a livello mondiale.