La Voce del (nuovo)Partito comunista italiano

n° 1 - marzo 1999

 

La settima discriminante

Quale partito comunista?

 

Un partito che sia all’altezza del compito che il procedere della seconda crisi generale del capitalismo e la conseguente situazione rivoluzionaria in sviluppo pongono ad esso e che tenga pienamente conto dell’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria

 

Indice:

 

Una introduzione necessaria

 

Sulla forma della rivoluzione proletaria

 

Sulla natura del nuovo partito comunista.

 

NOTE

 


 

 

NOTE

 

1. CARC, F. Engels/10, 100, 1000 CARC per la ricostruzione del partito comunista, 1995, Edizioni Rapporti Sociali, pagg. 17 e segg. e pagg. 38 e segg.

 

2. Di passaggio osserviamo che qualificare di ideologica la crisi del riformismo è sminuire l’importanza politica del fatto. Da quando a metà degli anni ‘70 è iniziata la seconda crisi generale del capitalismo, la borghesia sta eliminando una a una, pezzo a pezzo tutte le conquiste di civiltà e di benessere, sta cancellando o svuotando tutti i diritti che le masse popolari avevano strappato nel periodo precedente. Questa inversione di tendenza è un fatto pratico, è un processo che avviene nella realtà, non nelle coscienze. Non è venuta meno la fiducia nel riformismo, non si tratta di “aver cambiato idea”. Si tratta che la borghesia cancella quel tessuto di civiltà e di diffuso benessere che le masse avevano costruito e via via esteso (e che i revisionisti moderni assicuravano che sarebbe stato possibile estendere in continuazione). Da qui ha origine la crisi del PCI, dei sindacati di regime e dello stesso regime DC. Infatti l’egemonia del PCI sulle masse popolari non era principalmente basata sulle chiacchiere di Togliatti e di Berlinguer sulle “riforme di struttura” e sul “socialismo sotto l’ombrello della NATO”, ma sul fatto che sotto la direzione del PCI dal 1945 al 1975 le masse popolari italiane avevano strappato reali riforme. Queste reali riforme avevano dato stabilità anche al regime DC, perché avevano attenuato fino a quasi estinguerla la lotta della classe operaia per il potere. A partire dalla metà degli anni ‘70 la lotta politica in Italia è tra chi vuole eliminare le riforme e chi le vuole difendere, tra chi le difende in maniera inconseguente e chi le difende in maniera coerente. Classificare la svolta degli anni ‘70 come una svolta ideologica, è assolutamente sbagliato. Non sono le idee che sono andate in crisi, ma un regime politico, un corso pratico della società (quello del capitalismo dal volto umano).

Classificare come ideologica la crisi del riformismo vuol dire lasciare avvolto nel fumo anche il periodo precedente: non erano le parole e le idee del PCI sulle riforme ciò che gli ha permesso di mantenere la direzione del proletariato italiano, ma le effettive reali conquiste strappate sotto la sua direzione grazie alla forza acquisita dalle masse popolari nel precedente movimento rivoluzionario e alla forza del movimento comunista internazionale (a conferma che le riforme non sono il prodotto di un pensiero riformista, ma il sottoprodotto delle rivoluzioni mancate). Questo (non la religiosità degli italiani e l’influenza morale del Vaticano) era anche la base principale su cui fu possibile alla borghesia instaurare il regime DC (che aveva alla sua testa il Vaticano) e su cui poggiava la stabilità dello stesso regime. Va da sé che quelle riforme erano frutto della lotta delle masse popolari: chi ha l’età necessaria, si ricorda le lotte, le dimostrazioni, gli scontri, i feriti, i caduti, la galera, i processi e il resto del corollario da cui nacquero le riforme (altro che pensiero riformista  o piano del capitale per integrare le masse!). Quelle riforme erano però compatibili con il dominio della borghesia imperialista perché il capitalismo attraversava un periodo di ripresa dell’accumulazione e di espansione dell’apparato produttivo, per cui le lotte rivendicative erano produttive ed efficaci. Da qui è chiaro che il periodo del capitalismo dal volto umano (il periodo delle conquiste) era connesso con la ripresa e che la crisi del riformismo è connessa con la crisi economica del capitalismo, è un prodotto, un effetto di essa.  La crisi del riformismo non è cioè un fenomeno accanto a un altro (la crisi economica del capitalismo). Vi è tra i due fenomeni una connessione dialettica (uno genera l’altro) il cui disconoscimento impedisce a G. Riboldi, e a quanti altri lo condividono, di comprendere il reale processo pratico in corso su cui si deve fondare ogni linea politica realistica. La stessa connessione dialettica esiste anche tra crisi economica del capitalismo e accentuarsi delle contraddizioni tra i gruppi imperialisti. La crisi economica è madre della crisi del riformismo (cioè della eliminazione delle riforme già strappate e della inconsistenza dei progetti e delle promesse di riforme) e dell’accentuarsi delle contraddizioni tra i gruppi imperialisti. Esse corrispondono ai due tipi di contraddizioni (tra borghesia imperialista e masse popolari e tra gruppi imperialisti) che la crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale rende antagoniste, in cui si esprime e che aggrava e aggraverà continuamente nel suo procedere fino a che dall’una o dall’altra delle due sorgerà il movimento che porrà fine alla crisi: la mobilitazione rivoluzionaria o la mobilitazione reazionaria delle masse.

Le relazioni presentate al Coordinamento Nazionale della CCA sono tratte da nuova unità, n. 8/98.

 

3. Vedere in proposito Per il dibattito sulla causa e sulla natura della crisi attuale, in Rapporti Sociali n. 17/18, 1996 e Le fasi in cui si divide l’epoca imperialista, in Rapporti Sociali n. 12/13, 1992.

 

4. L’ultima conquista strappata dalle masse è stato l’accordo del 1975 tra Confindustria (presidente G. Agnelli) e Sindacati per il punto unico di contingenza che migliorò molto la dinamica dei salari più bassi. Di lì a poco subentrò la “linea dell’EUR”.

Sulla eliminazione delle conquiste, vedere CARC, Le conquiste delle masse popolari, 1997, Edizioni Rapporti Sociali e G. Pelazza, Cronache di diritto del lavoro 1970-1990, Edizioni Rapporti Sociali.

 

5. Vedere sulle Forme Antitetiche dell’Unità Sociale (FAUS), Rapporti Sociali n. 4, pagg. 20-25, 1989.

 

6. Sul carattere economico, politico e culturale della crisi in corso, vedere CARC, La situazione e i nostri compiti, 1994/1995, Edizioni Rapporti Sociali.

 

7. Il movimento di resistenza delle masse popolari al procedere della crisi della società borghese e i compiti delle Forze Soggettive della Rivoluzione Socialista, in Rapporti Sociali n. 12/13, 1992.

 

8. La situazione rivoluzionaria in sviluppo, in Rapporti Sociali n. 9/10, 1991.

L’affermazione di G. Riboldi e altri “non siamo in una situazione rivoluzionaria né prerivoluzionaria” diventa meno fuori posto se intesa come “non siamo in una situazione insurrezionale né preinsurrezionale”: cosa che (a quanto pare) nessuno contesta. Ma così intesa l’affermazione di GR comporta una concezione schematica e ristretta del lavoro delle FSRS del tipo: “La rivoluzione si fa con l’insurrezione; finché non c’è l’insurrezione o non si è nell’imminenza dell’insurrezione, la politica rivoluzionaria si riduce a fare da “sponda politica” al lavoro sindacale, a sostenere, promuovere e organizzare le lotte rivendicative dei lavoratori e a sostenere le loro ragioni presso le autorità, nelle istituzioni”. Che è la concezione della politica rivoluzionaria che ha dato la triste dimostrazione della sua impotenza all’inizio di questo secolo, nei partiti della Seconda internazionale e, per quel che ci riguarda, nel PSI e nel “biennio rosso” 1919-1920.

 

9. Le mille guerre nazionalistiche, interetniche, ecc. che imperversano dall’Europa all’Asia sono per la maggior parte un esempio di queste guerre che i gruppi imperialisti conducono tra loro mobilitando ognuno masse al suo seguito e facendo a tale fine leva su uno dei mille contrasti e differenze (nazionali, economiche, religiose, ecc.) che la storia ci lascia in eredità. Sulla natura della mobilitazione reazionaria, v. Rapporti Sociali n. 12/13 pagg. 25-31.

 

10. Sulla forma della rivoluzione socialista, vedere pagg. 14-15 e pagg. 38-44 di CARC, F. Engels/10, 100, 1000 CARC per la ricostruzione del partito comunista, 1995, Edizioni Rapporti Sociali.

 

11. Su questi temi vedere F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, 1882 , Edizioni Rapporti Sociali.

 

12. Lenin, Friedrich Engels, 1895, in Opere complete, vol. 2.

13. K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, 1850, in Opere, vol. 10.

 

14. K. Marx, La guerra civile in Francia, 1871 e F. Engels, Introduzione, 1891.

 

15. F. Engels, Introduzione a “K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850”, 1895, in Opere, vol. 10.

 

16. I revisionisti dell’inizio del secolo (E. Bernstein & C) e i revisionisti moderni (Kruscev, Togliatti, ecc.) hanno cercato ripetutamente di “tirare dalla loro parte” l’Introduzione del 1895 di Engels. “Accumulo graduale delle forze rivoluzionarie all’interno della società borghese? Certo! Ecco i nostri gruppi parlamentari sempre più numerosi, abili, influenti e ascoltati dal governo, i nostri voti in crescita di elezione in elezione, i nostri sindacati cui sono iscritti milioni di lavoratori e che ministri e industriali ascoltano e interpellano con rispetto, le nostre floride cooperative, le nostre buone case editrici, i nostri giornali e periodici ad alta tiratura, le nostre manifestazioni d’ogni genere sempre affollate, le nostre associazioni culturali che raccolgono il fior fiore dell’intelligenza del paese, la nostra vasta rete di contatti e di presenze in posti che contano, il nostro seguito in tutte le categorie. Ecco l’accumulo delle forze rivoluzionarie che ci rende capaci di governare!”. È una grande violenza far dire queste cose a Engels che, pur non avendo visto tutto quello che è successo nel secolo XX, aveva messo in guardia dal farsi illusioni, aveva avvertito che la progressione elettorale del partito socialdemocratico tedesco, segno del progresso del socialismo nella classe operaia tedesca e della sua crescente egemonia sulle masse popolari, non sarebbe continuata all’infinito, aveva avvertito che la borghesia avrebbe “sovvertito la sua stessa legalità” quando questa l’avrebbe messa in difficoltà. Ma il problema principale non è “quello che Engels ha veramente detto”. Il problema principale è che i fatti, la realtà, gli avvenimenti hanno ripetutamente dimostrato che quelle forze accumulate di cui parlano i revisionisti si sono sciolte come neve al sole in ogni scontro acuto e crisi acuta della società che hanno posto all’ordine del giorno la conquista del potere, in ogni caso in cui erano dirette dai revisionisti ed erano le sole o le principali “forze rivoluzionarie” che la classe operaia aveva accumulato  (basti richiamare l’Italia del 1919-1920, l’Indonesia del 1966, il Cile del 1973). Esse hanno potuto servire allo scopo solo quando erano le propaggini legali, il braccio legale di un partito e di una classe operaia che veniva altrimenti accumulando le vere e decisive forze rivoluzionarie (basti citare la Russia del 1917).

 

17. Non è un caso che ripetutamente si vedono pacifisti dichiarati diventare nel corso degli avvenimenti fautori della guerra. Clamoroso il caso di G. Sofri che divenne fautore dell’intervento militare degli imperialisti USA ed europei nei Balcani. Le cose procedono nonostante le volontà dei pacifisti e diventano tali che essi o si schierano contro le cause (l’imperialismo) che determina il corso delle cose o si schierano con una delle parti in guerra, giustificando in qualche modo il venir meno del loro pacifismo. Il loro pacifismo non può trasformare il corso delle cose e quindi è il corso delle cose che trasforma il loro pacifismo. Il pacifismo non è una “terza via”. In alcuni è uno stadio transitorio verso lo schieramento nella guerra, per altri è una politica per impedire che le masse popolari prendano le armi contro la borghesia imperialista: predicano il disarmo e la pace alle masse che non hanno armi in modo da lasciare libero il campo d’azione alla borghesia imperialista che è armata fino ai denti e continua ad armarsi. Esponente tipico di questa seconda specie di “pacifismo” è Papa Woityla.

 

18. Esemplare al riguardo fu la Seconda guerra mondiale. Essa fu contemporaneamente guerra tra gruppi imperialisti e guerra tra classe operaia e borghesia imperialista. La contraddizione tra i due aspetti ha caratterizzato la natura, l’andamento e l’esito della Seconda guerra mondiale. Tra quelli che non comprendono questa contraddizione o per opportunità politica la negano, alcuni pongono unilateralmente un aspetto (guerra interimperialista), altri l’altro (guerra di classe), gli uni e gli altri facendo a pugni con i fatti e impelagandosi in un intrico di contraddizioni logiche da cui non riescono a uscire.

Su questa contraddizione che caratterizza la Seconda guerra mondiale, vedere l’articolo di M. Martinengo Il movimento politico degli anni trenta in Europa, in Rapporti Sociali n. 21, 1999.

 

19. Lenin, Rapporto sulla rivoluzione del 1905, 22.1.1917, in Opere complete, vol. 23.

 

20. Da notare che gli stessi erano invece sicuramente sperimentati e capaci di predisporre un piano per uno sciopero generale, per la fondazione di una cooperativa, per organizzare una casa editrice, per condurre una campagna elettorale, ecc. Insomma per tutti quei campi in cui si era svolta fino allora l’attività del movimento socialista e sindacale italiano e quella di gran parte dei partiti della Seconda internazionale.

 

21. Vedere in proposito: le due lettere (10 gennaio e 2 aprile 1924) di A. Gramsci a Z. Zini pubblicate in Rinascita n. 17, 25 aprile 1964; il capitolo 6 della Storia del Partito comunista italiano di P. Spriano vol. 1; i capitoli 14 e 15 di R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione.

 

22. Dalla Prefazione di J. Duclos del 1972 a G. Dimitrov, Oeuvres Choisies, Editions Sociales, pag. XXI/XXII.

Sulla forma della rivoluzione socialista il Centro dell’Internazionale comunista ebbe una posizione non definita. Per un certo periodo esso attese che in alcuni paesi dell’Europa occidentale (in particolare Italia e Germania) la classe operaia riuscisse a prendere il potere con partiti comunisti improvvisati o con partiti, come il PSI, che avevano aderito all’Internazionale comunista solo formalmente. In un secondo tempo cercò di promuovere movimenti insurrezionali regolarmente falliti: espressione di questa tendenza è la pubblicazione A. Neuberg, L’insurrezione armata. In un terzo tempo (1935 - VII Congresso) lanciò la linea dei Fronti popolari antifascisti di cui i singoli partiti diedero interpretazioni molto diverse.

La concezione della rivoluzione socialista come insurrezione (come conquista del potere in un’azione di breve durata - cosa diversa è l’insurrezione come operazione tattica nell’ambito di una guerra, come le insurrezioni della primavera del 1945 in Italia), ingabbia il partito comunista in una condizione in cui la conquista del potere da parte della classe operaia diventa impossibile, salvo casi eccezionali. Infatti nel periodo precedente l’insurrezione il partito e le forze rivoluzionarie compiono grandi esperienze ma in campi che con la conquista del potere hanno direttamente poco a che fare. Esse escono dalle attività legali, che appunto hanno poco da vedere direttamente con la conquista del potere e con l’instaurazione di uno Stato, solo in casi circoscritti e occasionali, sulla spinta dell’emozione, nei tumulti o negli scontri di piazza, con azioni autonome di individui o di piccoli gruppi, sulla spinta di provocazioni delle forze della repressione, come frutto dell’indignazione. Non si tratta mai di azioni coordinate e combinate di una guerra di cui il partito tira le fila e che dirige, di operazioni tattiche di un piano di guerra predisposto dal partito, in cui le nostre forze hanno l’iniziativa e di cui raccolgono con cura i risultati e gli insegnamenti. Questo partito e le forze rivoluzionarie raccolte attorno ad esso, che non hanno alcuna esperienza di guerra e che non sono state formate da alcuna esperienza pratica alle arti dell’attacco, della guerra, dell’organizzazione e della direzione degli uomini in azioni militari, dovrebbero improvvisarsi come forze capaci di un’azione rapida ed energica il cui esito si decide in pochi giorni, se non in poche ore come un’insurrezione!

 

23. PCE(r), La guerra di Spagna, il PCE e l’Internazionale comunista, 1993-1995, Edizioni Rapporti Sociali.

 

24. Mao Tse-tung, Sulla guerra di lunga durata, 1938, in Opere di Mao Tse-tung, Edizioni Rapporti Sociali, vol. 6.

 

25. Sulla natura del regime DC rimandiamo a Il fiasco del 27 marzo ‘94, in Rapporti Sociali n. 16, inverno 1994-1995.

 

26. La linea generale del partito, in F. Engels/10, 100, 1000 CARC per la ricostruzione del partito comunista, 1995, Edizioni Rapporti Sociali.

 

27. Da Lo Statuto dei CARC, 1997, Edizioni Rapporti Sociali, pag. 9.

 

28. Le formule esprimono il concetto, ma il concetto non è interamente in nessuna formula. Se rendiamo la formula autonoma dal concetto, facciamo quello che fanno i giuristi borghesi rispetto alle formule delle Costituzioni, dei Codici, ecc., con il risultato che ogni giurista e ogni organismo fa dire cose diverse a una stessa formula. Se si scorrono le pubblicazioni dei CARC, si trovano via via formule un po’ diverse della linea generale del partito comunista, usate per esprimere lo stesso concetto. Con esse via via si cerca di esprimere meglio il concetto, di tenere meglio conto nella formula di un aspetto del concetto che è diventato nella pratica importante, si pone cura ad elaborare ogni volta una formula comprensiva di più aspetti, più esatta, più esauriente.

 

29. Tra le FSRS italiane vi sono alcuni che sostengono che il nuovo partito comunista deve fin dall’inizio avere tra i suoi membri folti e rappresentativi gruppi di operai dei maggiori centri produttivi del paese.

Se questi compagni pensano che il nuovo partito comunista debba nascere dal confluire e dal mandato di varie organizzazioni operaie attuali (come “sponda politica” di COBAS, SLAI-COBAS, ecc.), come all’inizio del secolo il partito laburista inglese nacque per mandato e come “braccio politico” delle Trade Unions e come nell’ultimo quarto del secolo scorso alcuni partiti socialisti, compreso il PSI, nacquero dalle società operaie di mutuo soccorso e da altri organismi di difesa della classe operaia, essi “vogliono riportare indietro l’orologio della storia”.

Se invece vogliono che si formino folti e rappresentativi gruppi di operai comunisti prima che si costituisca il partito comunista, la loro è una pretesa arbitraria, simile a quella dei compagni che vogliono un partito che nasca già riconosciuto dalle masse come loro direzione. Questa pretesa contrasta sia con l’esperienza del movimento comunista internazionale sia con il concreto sviluppo del movimento comunista nel nostro paese. È una pretesa arbitraria che porta a rinviare a tempo indeterminato la costituzione del partito comunista che è oggi necessaria  e possibile.

Noi condividiamo invece pienamente la tesi che la formazione di folti e rappresentativi gruppi di operai comunisti trasformerà il nuovo partito comunista e lo porterà a un livello al cui raggiungimento i nostri attuali modesti inizi avranno contribuito.

 

30. In proposito v. Rapporti Sociali n. 4, 1989, pagg. 26-31.

 

31. K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, 1845-1846, in Opere, vol. 5.

 

32. Questo concetto è ben illustrato in Stalin, Principi del leninismo, 1924.

 

33. Si veda in proposito il Programma de L’Ordine Nuovo e della sezione socialista torinese, aprile 1920.

 

34. Basta che un partito comunista sia clandestino perché possa svolgere con successo il suo compito? Ovviamente no. Il fattore principale del successo di un partito comunista è la sua linea politica. Se la linea politica è sbagliata, la struttura clandestina non salverà il partito dalla sconfitta. Tuttavia la struttura clandestina renderà meno difficile al partito tirare la lezione delle sconfitta e correggere la linea. Il successo del partito comunista in definitiva dipende dal suo legame con le masse: una linea giusta sviluppa il legame con le masse, una linea sbagliata riduce il legame con le masse, lo ostacola. Se un partito comunista clandestino mantiene una linea sbagliata, alla lunga non riuscirà neanche a conservarsi come partito clandestino e sarà sconfitto anche su questo terreno, perché la clandestinità del partito comunista non è il frutto della applicazione di una tecnica, ma può essere conservata solo grazie al legame con le masse, al sostegno che il partito riceve dalle masse.

 

35. Parliamo del Partito comunista cinese fino al 1927.

 

36. Su questo tema vedere CARC, F. Engels/10, 100, 1000 CARC per la ricostruzione del partito comunista, 1995, Edizioni Rapporti Sociali e Pippo Assan, Cristoforo Colombo, Edizioni della vite, 1988 Firenze.

 

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