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Con queste note vogliamo raggiungere tre obiettivi.

1. Offrire una guida ai compagni che saranno chiamati a insegnare e spiegare questo MP ai candidati e al pubblico.

2. Offrire riflessioni e riferimenti ai compagni che nelle scuole per quadri dirigenti dovranno approfondire le tesi esposte nel MP.

3. Mostrare che la nostra concezione è basata sul patrimonio teorico del movimento comunista, il marxismo-leninismo-maoismo e lo sviluppa.

 

1. (pag. 5)

K. Marx (1818-1883) e F. Engels (1820-1895) hanno raccolto ed elaborato l’esperienza delle lotte della classe operaia. A questo fine hanno usato i più avanzati strumenti di conoscenza accumulati dall’umanità fino ai loro tempi:

la filosofia dialettica di G. W. F. Hegel (1770-1831),

l’economia politica di A. Smith (1723-1790) e di D. Ricardo (1778-1823),

il materialismo degli illuministi francesi del secolo XVIII.

Riferimenti:

V. I. Lenin, Tre fonti e tre parti integranti del marxismo (1913), in Opere vol. 19.

V. I. Lenin, Karl Marx (1914), in Opere vol. 21.

F. Engels, Anti-Dühring (1878), in Opere complete vol. 25.

F. Engels, Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca (1883).

 

2. (pagg. 5, 6, 19, 50, 51, 61, 85, 103, 160)

Un processo di storia naturale

Con questa affermazione vogliamo indicare un processo che ha in se stesso e nelle circostanze le ragioni del suo farsi. Il suo svolgimento non è frutto di interventi metafisici, misteriosi, divini. Ogni trasformazione è frutto dell’azione di forze interne alla cosa che si trasforma e di forze (condizioni, circostanze) esterne. Le une e le altre, come anche le reciproche relazioni, gli uomini le possono conoscere e comprendere tramite una ricerca adeguata. Le ragioni del sorgere e della natura di ogni nuovo stadio del processo le possono rinvenire nello stadio che lo ha preceduto e nelle circostanze in cui il nuovo stadio è sorto.

Secondo il materialismo dialettico, ogni fenomeno e avvenimento, quelli che cadono direttamente sotto i nostri sensi come quelli che conosciamo per altre vie, quelli che sono oggetto delle scienze naturali tradizionali o comunque costituite e riconosciute e gli altri, ivi compresi i pensieri, i comportamenti, i sentimenti, ecc. vanno studiati come processi di storia naturale che si sviluppano ognuno secondo leggi sue proprie. Queste leggi noi le possiamo scoprire tramite l’osservazione empirica, la sperimentazione e l’elaborazione dei dati dell’una e dell’altra. Molte cose sono ancora ignote e di molti fenomeni non abbiamo ancora scoperto la fonte e le leggi di sviluppo, ma niente è per sua natura inconoscibile. Ciò che è propriamente umano, che distingue la specie umana dalle altre specie animali, è 1. la capacità di conoscere e di verificare e usare la conoscenza nell’azione che trasforma il mondo e l’uomo stesso, 2. la capacità di elaborare dalle relazioni con la natura e dalle relazioni tra gruppi sociali e tra individui regole e criteri di comportamento che trasformano la società e gli individui. Queste capacità hanno prodotto il lato spirituale della specie umana: un insieme di realtà e di attività che nel corso della storia dell’umanità via via sopravanza e condiziona il suo lato animale. Queste sono le attività “specificamente umane” che le classi dominanti hanno in gran parte precluso e ancora precludono alle classi sfruttate e oppresse: ne fanno un mondo a sé, riservato alle classi dirigenti e dominanti. Il comunismo sarà la società costruita dalle classi finora sfruttate e oppresse che hanno finalmente accesso in massa a queste attività specificamente umane.

 

3. (pagg. 5, 21)

Il materialismo storico

La conoscenza della società umana e degli individui che la compongono riguarda e deve riguardare numerosi aspetti che esulano dall’ambito dell’attività economica: la politica, la morale, la psicologia, le scienze, le arti, le religioni, ecc. Lo sviluppo nel tempo di questi aspetti cessa di apparire come una successione più o meno casuale e arbitraria di fatti (in cui il caso e l’arbitrio vengono moderati o addirittura mascherati ricorrendo all’intervento divino) e la interna concatenazione di essi diventa invece comprensibile se lo sviluppo viene studiato combinandolo con la storia dei modi di produzione. La teoria del materialismo storico ha avuto per le scienze sociali e umane un’importanza analoga a quella che la teoria dell’evoluzione delle specie ha avuto per le scienze biologiche.

Riferimenti:

K. Marx, Introduzione a Critica dell’economia politica (1859).

F. Engels, Anti-Dühring (1878), in Opere complete vol. 25.

F. Engels, Lettera a K. Schmidt del 27 ottobre 1980, in Opere complete vol. 48.

 V. I. Lenin, Cosa sono gli “amici del popolo” e come lottano contro i socialdemocratici? (1894), in Opere vol. 2.

 

4. (pag. 5)

Le classi

Attualmente chi cerca di capire a grandi linee come funziona la società, trova che in ogni paese essa è divisa in grandi insiemi chiamati classi. Ogni classe occupa nel sistema dell’attività economica della società un posto determinato e distinto e svolge un ruolo suo proprio. A grandi linee le caratteristiche di ogni classe e le sue relazioni con le altre dipendono dalla sua relazione con i mezzi di produzione e le altre forze produttive (possesso o proprietà), dal suo ruolo nella divisione sociale del lavoro, dalla parte che riceve nella divisione del prodotto sociale (i tre aspetti dei rapporti di produzione – vedere anche la nota 20 Rapporti di produzione).

Secondo la classica definizione di Lenin, “si chiamano classi quei grandi gruppi di persone che si differenziano per il posto che occupano nel sistema storicamente determinato della produzione sociale, per i loro rapporti (per lo più sanciti e fissati da leggi) con i mezzi di produzione, per la loro funzione nell’organizzazione sociale del lavoro e, quindi, per la misura della parte di ricchezza sociale di cui dispongono e per il modo in cui lo ricevono e ne godono. Le classi sono gruppi di persone, dei quali l’uno può appropriarsi del lavoro dell’altro, a seconda del differente posto da esso occupato in un determinato sistema di economia sociale”.

V. I. Lenin, La grande iniziativa (1919), in Opere vol. 29.

Vedere anche il cap. 1.2. di questo MP.

 

5. (pagg. 5, 21)

Le forze produttive della società comprendono:

la capacità lavorativa degli individui lavoratori (forza-lavoro),

gli animali, i vegetali, i minerali e le altre risorse naturali impiegate nella produzione,

l’organizzazione sociale e le conoscenze impiegate nel processo lavorativo (la professionalità, la tecnica e la scienza),

gli utensili, le macchine, gli impianti e le installazioni che i lavoratori usano nel processo produttivo,

le infrastrutture (porti, canali, strade, ecc.) e le reti (linee elettriche, oleodotti, ecc.) usate per la produzione.

 

6. (pagg. 5, 21)

La divisione della società in classi

La divisione della società in classi di sfruttati e sfruttatori da una parte costrinse ed abituò gli uomini a lavorare e a produrre più di quanto era necessario alla loro immediata sopravvivenza (pluslavoro e plusprodotto) e a produrre per individui che non appartengono alla propria famiglia né al proprio branco: insomma fu un decisivo passo avanti nel processo di distinzione della specie umana dalle altre specie animali. Dall’altra permise che alcuni di loro si dedicassero ad attività non necessarie all’immediata sopravvivenza, in misura tale da dare luogo ad attività qualitativamente superiori (quantità-qualità). Il patrimonio culturale, scientifico ed artistico e in generale la ricchezza della società sono stati per millenni il risultato del pluslavoro e del plusprodotto imposti dalla divisione della società in classi di sfruttati e sfruttatori, di oppressi e oppressori e sono state patrimonio esclusivo degli sfruttatori e degli oppressori.


7.
(pagg. 5, 23)

Lo Stato

Nel corso della storia, in ogni società si sono sviluppate attività, funzioni e organi per la difesa dei suoi interessi comuni dagli attacchi interni ed esterni. Con lo sviluppo della divisione della società in classi, questi sono diventati un potere indipendente dalla società, nelle mani della classe che dominava l’intera società. Esso è lo Stato.

Lo Stato ha compiuto un processo storico di sviluppo. A grandi linee le tappe fondamentali sono state: 1. lo Stato come organo-funzione della società (il popolo in armi, la violenza come funzione sociale), 2. Lo Stato come organo-funzione della classe dominante (lo Stato corporativo), 3. Lo Stato come organo-funzione “al di sopra delle classi”, distinto anche dalla classe dominante, non direttamente coincidente con essa, a sé stante, ma avente come compito supremo la difesa del suo ordinamento sociale. Tale è lo Stato capitalista, lo Stato moderno. Sull’argomento vedere anche il cap. V – Obiezione 8 di questo MP.

 

8. (pag. 6)

Produttività del lavoro umano

La quantità di beni o servizi prodotti da un lavoratore nell’unità di tempo è la produttività del suo lavoro. Quando il lavoro diventa collettivo, come nelle fabbriche e aziende moderne, è in generale impossibile distinguere il contributo di ogni singolo lavoratore alla produzione. La parola d’ordine “A ognuno il frutto del suo lavoro” perde di significato. In questi casi la produttività del lavoro è data dalla quantità di beni o servizi prodotti da un dato collettivo di lavoratori nell’unità di tempo.

 

9. (pagg. 6, 86)

Carattere collettivo delle forze produttive

 Per accrescere la produttività del lavoro dei suoi operai, la borghesia ha dovuto rendere le forze produttive sempre più collettive, cioè tali che la quantità e qualità delle ricchezze prodotte dipendono sempre meno dalle capacità, qualità e caratteristiche del singolo lavoratore e dai suoi sforzi personali (la sua dedizione al lavoro, la durata del suo lavoro, la sua intelligenza, la sua forza, ecc.). Esse dipendono invece sempre più dall’insieme organizzato dei lavoratori (il collettivo di produzione), dal collettivo nell’ambito del quale l’individuo lavora, dai mezzi di produzione di cui questo dispone, dalle condizioni in cui lavora, dalla combinazione dei vari collettivi di lavoratori, dal patrimonio scientifico e tecnico che la società impiega nella produzione e da altri elementi sociali. In conseguenza di ciò il lavoratore isolato è ridotto all’impotenza: egli può produrre solo se è inserito in un collettivo di produzione (azienda, unità produttiva). Ma nello stesso tempo si sono create le condizioni perché crescano la produttività del lavoro, la coscienza della massa dei lavoratori, la loro capacità ed attitudine a organizzarsi, cioè a costituirsi in collettivo e a dirigersi, la loro attitudine a svolgere attività umane intellettualmente e moralmente superiori, le attività specificamente umane (vedere la nota 2).

 

10. (pag. 7)

Le condizioni oggettive e soggettive del comunismo

Le condizioni oggettive per l’instaurazione del socialismo, fase inferiore del comunismo, consistono in un certo grado di sviluppo economico. Quindi un certo grado di concentrazione del capitale (e quindi anche dei lavoratori) e di proletarizzazione dei lavoratori e, conseguentemente, un certo livello della produttività del lavoro e della produzione dei mezzi necessari all’esistenza. Da sempre gli uomini hanno lottato contro la natura per strapparle quanto necessario per vivere. Per secoli quello che una società riusciva a produrre non bastava a soddisfare tutti i membri della società secondo i criteri più avanzati della società stessa. Solo le classi sfruttatrici e dominanti vivevano a questo superiore livello. Nel capitalismo questo ostacolo è stato gradualmente eliminato. Già nel secolo XIX le periodiche crisi di sovrapproduzione di merci hanno mostrato che quell’ostacolo era oramai superato. Oramai era l’ordinamento sociale che impediva che tutti i membri della società disponessero delle condizioni e dei mezzi necessari per una vita conforme ai criteri più avanzati della società stessa.

Le condizioni soggettive del socialismo consistono in un grado di organizzazione e un livello di coscienza della massa del proletariato tali che esso sia capace di operare come classe distinta dal resto della società e contrapposta alla classe dominante. Queste condizioni in Gran Bretagna furono raggiunte col movimento cartista (1838-1850). Nel resto degli attuali paesi imperialisti (a parte il Giappone – vedere la nota 43) furono raggiunte nella seconda metà del secolo XIX.

 

11. (pag. 7)

La dittatura del proletariato

Gli Stati che governano i paesi capitalisti sono organi della direzione della borghesia imperialista sull’intera società. Questa classe ha il monopolio del potere (vedere la nota 7). È economicamente impossibile (vedere la nota 26) che i paesi imperialisti siano governati da altre classi, quali che siano le forme (democratiche o autoritarie, monarchiche o repubblicane) con cui la classe dominante regola i rapporti tra i gruppi che la compongono e i suoi rapporti con le altre classi. In questo senso e per questo tutti gli Stati dei paesi capitalisti sono dittature della borghesia. In definitiva in questi paesi un governo può funzionare solo se ha il sostegno della parte decisiva della borghesia e se perpetua e asseconda il suo ordinamento sociale.

Analogamente, nei paesi socialisti il potere sarà monopolio della classe operaia. Quindi lo Stato dei paesi socialisti sarà lo Stato della dittatura della classe operaia (dittatura del proletariato). Ma, per la natura propria del socialismo, la stragrande maggioranza della popolazione gradualmente acquisirà ed eserciterà una libertà e un potere quali i lavoratori non hanno mai avuto in nessuna altra società, neppure nella più democratica delle società borghesi mai esistita. La loro coscienza, la loro organizzazione e il loro ruolo nella vita politica e culturale, e in generale nella vita sociale, aumenteranno continuamente tramite la crescita del movimento comunista cosciente e organizzato (vedere la nota 13) col graduale ingresso in esso dell’intera popolazione. Per questa via si arriverà all’estinzione dello Stato. Sull’argomento vedere anche il cap. 3.1. – punto 2 di questo MP.

Riferimenti:

K. Marx, Per la critica del programma di Gotha (1875).

V. I. Lenin, Stato e rivoluzione (1917), in Opere vol. 25,

M. Martinengo, I primi paesi socialisti (2003), edizioni Rapporti Sociali.

 

12. (pagg. 7, 11, 31)

Gli ordinamenti sociali

Gli idealisti delle varie scuole sostengono tutti, benché con argomenti diversi, che gli ordinamenti sociali sono stati prima pensati e poi creati. Ciò vale per le varie leggende del tempo antico che chiamano in causa Dei o personaggi legislatori (Mosè, Solone, ecc.). Vale per Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) e la sua teoria del “contratto sociale” che gli individui avrebbero stipulato per costituire la società (teoria che però ebbe il merito di affermare che l’ordinamento sociale è creato dagli uomini per soddisfare le loro necessità). Vale per le varie “robinsonate” (dal romanzo Robinson Crosuè), teorie secondo cui la società borghese sarebbe costruita a sua immagine da ogni individuo sensato (perché  “naturale”). Tutte queste teorie si rifanno ognuna a suo modo alla teoria religiosa di Dio che avrebbe creato l’uomo, dello spirito che crea il mondo, del pensiero che precede l’azione.

Nella storia dell’umanità, il primo ordinamento sociale prima pensato e poi creato sarà il comunismo. Sarà l’inizio di una nuova fase della storia dell’umanità, in cui il rapporto tra la coscienza e l’essere sociale assumerà un contenuto diverso da quello che ha avuto finora nella storia dell’umanità.

 

13. (pag. 8)

Il comunismo

“II comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente”.

Noi quindi distinguiamo il movimento comunista come processo oggettivo (la trasformazione dei rapporti sociali) verso il comunismo che la società capitalista sta compiendo e che si completerà durante il socialismo, dal movimento comunista cosciente e organizzato(*): l’insieme dei partiti e delle organizzazioni che si propongono la marcia verso il comunismo come loro obiettivo, con il rispettivo patrimonio di concezioni, analisi, linee e metodi per realizzare il proprio obiettivo, con un complesso di relazioni e con la corrispondente divisione dei compiti (organizzazioni di massa e partito comunista).

Riferimenti:

K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca (1845-1846), cap. 1 (Feuerbach), parte 2, in Opere complete vol. 5.

Tonia N., Le due vie al comunismo (2003), in La Voce n. 15.

 

14. (pag. 10)

Il valore è un rapporto sociale

Qui noi, tra i molti significati che la parola valore ha nella lingua italiana, consideriamo quello che essa ha quando si tratta delle attività economiche di compravendita. In questo contesto essa indica una ben determinata qualità delle cose oggetto della compravendita. Per capire l’origine e la natura di questa qualità, delle cose, consideriamo la più semplice, la più elementare e la più primitiva delle operazioni di compravendita in cui essa entra in gioco.

Nel baratto (scambio di prodotti contro prodotti), i due attori dello scambio raggiungono un accordo sulla base del fatto che ognuno dà volontariamente all’altro qualcosa che è prodotto del proprio lavoro. Con ciò ognuno riconosce che il lavoro dell’altro è a lui necessario quanto il suo è necessario all’altro, cioè attribuisce pari dignità sociale al suo lavoro e a quello dell’altro. È questa la base del loro rapporto, non il legame naturale (di sangue, di parentela, di clan, di vicinato, ecc.) o il rapporto sociale di venerazione o sottomissione personale, per cui un individuo consegna il prodotto del suo lavoro a un altro. Ma tutto ciò avviene implicitamente e inconsapevolmente. Come è successo e succede in tanti altri campi della vita, prima si fa e poi un po’ alla volta le azioni modificano quelli che le compiono, i loro comportamenti, i loro gusti, le loro aspirazioni, i loro sentimenti: in breve la loro natura. Infine essi comprendono quello che da tempo stanno facendo. Prima o poi nasce in essi anche la coscienza di quello che fanno.

Tutto quello di cui i protagonisti dello scambio ragionano, sono consapevoli e di cui espressamente si occupano, riguarda la comune volontà di scambiare e l’accordo sulle quantità delle due merci da scambiare (sul valore di scambio dei loro prodotti). Un aspetto costitutivo essenziale del loro rapporto è che non vi è tra essi né reciproca intesa, preliminare alla produzione, né comprensione della natura del rapporto in corso. Quindi non vi può essere governo consapevole del rapporto. Se per qualunque motivo l’uno o l’altro non ha quanto necessario per scambiare alla pari, il rapporto non avviene, con danno di entrambi. Ognuno è proprietario del prodotto del suo lavoro, cioè ne dispone a sua volontà. Scambiandolo, ottiene un prodotto di eguale valore. Proprio perché, sia pure inconsapevolmente, la quantità (il tempo) di lavoro impiegato per la sua produzione è la misura del valore della cosa scambiata, il principio “A ognuno secondo il suo lavoro” appare come un aspetto implicito, ovvio, giusto nella produzione mercantile. I socialisti utopisti (alla Proudhon) volevano elevare questo principio a regolamento della società borghese: non tenevano conto che esso nasce ed esprime relazioni che per loro natura escludono ogni regolamento a priori dello scambio. Questo principio verrà elevato a criterio consapevole della distribuzione (uno degli aspetti dei rapporti di produzione: vedere la nota 20) solo all’inizio della società socialista e in un senso ad essa specifico. Per arrivare a tanto saranno state però necessarie condizioni sociali molto differenti sia da quelle in cui nacque la produzione mercantile sia da quelle dettate dalla sua universalizzazione come produzione mercantile capitalista. Condizioni oggettive (un contesto sociale costituito dalla produzione pianificata diretta dalla classe operaia, invece che dalla produzione schiavista, feudale, asiatica, ecc. di cui la produzione mercantile alla sua nascita è ausiliaria) e condizioni soggettive (un livello relativamente alto di coscienza e di organizzazione delle grandi masse del proletariato e della popolazione).

 

15. (pag. 11)

Valore e valore di scambio

II valore sta a un prodotto del lavoro in modo analogo a quello in cui il peso sta ad una massa. Questa è un grave, ha cioè un peso, solo se si trova in un campo gravitazionale. Analogamente la regalità è una qualità che un individuo ha perché i suoi sudditi gliela riconoscono, vivono in un regime monarchico; la sacralità è una qualità che un prete ha perché i suoi fedeli gliela riconoscono: cioè sono religiosi; ecc. Al di fuori dei loro contesti, un re, un prete, ecc. non si  distinguono in nulla dagli altri uomini. Qui noi consideriamo il lavoro compiuto come attività necessaria per sopravvivere (lavoro forzato). Ogni prodotto di tale lavoro serve quindi a qualcosa: detto in altre parole, serve per l’uso, ha un valore d’uso. Ma esso ha un valore (intendendo ora questa parola nel significato che essa ha quando ci si riferisce alle operazioni di compravendita, di scambio) solo nell’ambito di operazioni di scambio. In questo senso un prodotto del lavoro è quindi un valore solo nell’ambito di una società che pratica un’economia mercantile.

Il lavoro socialmente necessario per produrre una merce è il tempo e il tipo di lavoro che deve essere impiegato per produrla, in base alla normale produttività del lavoro nella società in esame. Esso è il valore di scambio di quella merce. Esso può variare significativamente da un paese a un altro, a causa delle condizioni naturali e dello sviluppo raggiunto dalle forze produttive. Quindi lo stesso prodotto può avere in un paese un valore di scambio diverso da quello che ha in un altro. Così come la stessa massa ha pesi diversi a seconda della forza dei campi gravitazionali in cui si trova e la sacralità di un prete, o di un re, varia a secondo della forza della fede rispettivamente dei fedeli e dei sudditi, della stabilità della religione e della monarchia, ecc.

 

16. (pag. 11)

Valore di scambio e prezzo

I critici sciocchi o fraudolenti della teoria del valore-lavoro confondono il valore di scambio con il prezzo corrente (il prezzo di mercato, ecc.). La coincidenza tra i due, secondo la concezione marxista, è un caso e un’eccezione. A definire il prezzo corrente concorrono numerosi fattori, oltre al valore di scambio: il saggio medio del profitto, la rendita, la domanda e l’offerta, il monopolio, i brevetti, la pubblicità e altri ancora.

Ma negare il valore e il valore di scambio, perché quest’ultimo non coincide col prezzo, è sensato come negare la teoria atomica, gli elettroni, la forza di gravità, i campi elettromagnetici e mille altre cose che sono alla base dei fenomeni naturali e delle scienze naturali, solo perché si tratta di cose che non cadono direttamente sotto nessuno dei nostri sensi.

 

17. (pag. 12)

La forza-lavoro

La forza-lavoro è l’insieme di doti e risorse fisiche e spirituali che appartengono alla personalità vivente di un individuo e che questi mette in moto per produrre beni o servizi: prodotti di qualunque tipo.

 

18. (pag. 12)

“In che cosa il proletario si distingue dallo schiavo?

Lo schiavo è venduto una volta per sempre; il proletario deve vendere se stesso giorno per giorno, ora per ora. II singolo schiavo, proprietà di un solo padrone, ha l’esistenza – per miserabile che possa essere – assicurata dall’interesse di questo padrone. Il singolo proletario, proprietà per così dire dell’intera classe dei borghesi e il cui lavoro viene acquistato solo se qualcuno ne ha bisogno, non ha l’esistenza assicurata. Questa esistenza è assicurata solo alla classe dei proletari nel suo insieme. Lo schiavo si trova al di fuori della concorrenza; il proletario si trova nel suo mezzo e ne risente tutte le oscillazioni. Lo schiavo è considerato un oggetto, non un membro della società civile; il proletario è riconosciuto come persona, come membro della società civile. Lo schiavo può quindi avere un’esistenza migliore del proletario, ma il proletario appartiene a uno stadio superiore di sviluppo della società e si trova egli stesso a un grado di sviluppo superiore a quello dello schiavo. Lo schiavo si emancipa abolendo, fra tutti i rapporti di proprietà privata, solo il rapporto della schiavitù e divenendo così, dapprima, egli stesso proletario; il proletario si può emancipare solo abolendo la proprietà privata [dei mezzi di produzione] in generale”.

F. Engels, Principi del comunismo (1847), in Opere complete vol. 6.

 

19. (pag. 13)

Il capitale di Karl Marx

La natura e le leggi del modo di produzione capitalista sono state esposte da K. Marx nella sua opera maggiore Il capitale. Il primo volume venne pubblicato nel 1867, il secondo e il terzo vennero pubblicati postumi da F. Engels rispettivamente nel 1885 e nel 1894 elaborando per la stampa scritti che Marx aveva per lo più steso, sia pure in modo sommario, già prima della elaborazione definitiva del primo volume. In quest’opera Marx descrisse anche la nascita del modo di produzione capitalista e lo sviluppo della società borghese fino alla metà del secolo XIX.

 

20. (pagg. 16, 21)

Rapporti di produzione

Per produrre, gli uomini e le donne entrano in determinati rapporti tra loro: i rapporti di produzione. Per comprendere le questioni relative al passaggio dal capitalismo al comunismo, bisogna distinguere nei rapporti di produzione tre aspetti:

la proprietà (o anche il semplice possesso, la libertà di disporre) dei mezzi e delle condizioni della produzione, cioè delle forze produttive ivi compresa la forza-lavoro (vedere la nota 5 e la nota 17);

i rapporti tra gli uomini nel lavoro (nel processo lavorativo): la divisione tra lavoro manuale e lavoro  intellettuale, uomini e donne, adulti e giovani, lavoro di direzione e lavoro esecutivo, città e campagna, paesi, regioni e settori avanzati e paesi, regioni e settori arretrati, ecc.;

la distribuzione del prodotto.

Riferimenti:

V. I. Lenin, La grande iniziativa (1919), in Opere vol. 29.

Mao Tse-tung, Note di lettura del “Manuale di economia politica” (1960), in Opere di Mao Tse-tung vol. 18.

 

21. (pag. 17)

La prima società operaia inglese che conosciamo venne fondata dal calzolaio Thomas Hardy (1752-1832). Essa, oltre a fare agitazione politica, promosse numerose rivolte tra la popolazione industriale di Londra e delle Midlands. Lo Stato la soppresse nel 1799, nel quadro di generali misure repressive. Ma i movimenti si estesero nell’illegalità e con lotte sanguinose fino al 1824-1825. Alla fine lo Stato dovette cedere e attenuò le disposizioni che vietavano agli operai di organizzarsi.

Nel 1811 attorno a Nottingham e nei vicini distretti, gruppi di operai cominciarono a distruggere le nuove macchine (luddismo). Il movimento dopo il 1814 si estese a tutti i distretti industriali inglesi e venne represso dallo Stato con misure terroristiche.

A partire dagli anni attorno al 1830 gli operai inglesi parteciparono attivamente, accanto alla borghesia, alle lotte per la riforma del Parlamento, avanzando proprie richieste (cartismo) e nel 1847 strapparono la legge che limitava a 10 ore la durata legale della giornata lavorativa.

 

22. (pag. 18)

Nel periodo della sua ascesa la borghesia produsse una teoria dei rapporti economici e in generale dei rapporti sociali, scientifica per quanto l’orizzonte degli interessi borghesi lo permetteva: l’economia politica classica. I maggiori esponenti furono Adam Smith (1723-1790), David Ricardo (1778-1823), Thomas Robert Malthus (1766-1834). Quando la borghesia entrò nella fase del suo declino e dovette lottare non più contro le forze feudali superstiti, ma contro la classe operaia in ascesa, la sua produzione nel campo delle scienze sociali si inaridì. La sua “scienza sociale” si ridusse a descrizione empirica, a teoria della gestione delle aziende e dei mercati, ad esaltazione o deplorazione della società esistente e a mascheramento dei reali rapporti sociali: economia politica volgare, economia politica marginalista, sociologia, ecc. La borghesia non poteva più andare a fondo nel chiedersi il perché dello stato delle cose esistente.

 

23. (pag. 21)

La ricerca scientifica

La ricerca scientifica e tecnologica si è costituita oramai come settore di attività specifiche, condotte sistematicamente e mirate ad accrescere le conoscenze e le loro applicazioni. Esse costituiscono un settore nuovo di attività, la cui espansione è potenzialmente illimitata. La conservazione del modo di produzione capitalista pone però restrizioni economiche, culturali e morali al loro sviluppo. Esse costituiranno una parte crescente dell’attività umana del futuro: sono una parte delle “attività specificamente umane” (vedere la nota 2) che costituiranno il grosso dell’attività dell’umanità del futuro.

Karl Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (Grundrisse), quaderno VII, in Opere complete vol. 30 (pag. 716 e segg. della edizione Einaudi (1976)).

 

24. (pag. 22)

La divisione sociale del lavoro e la produzione mercantile

La divisione del lavoro tra gruppi e tra individui, la divisione sociale del lavoro, è di gran lunga anteriore alla divisione in classi e a maggior ragione anteriore allo scambio (economia mercantile). Essa è un presupposto dell’una e dell’altro. Ma solo in particolari condizioni si trasforma in divisione in classi e nello scambio. Questi sono forme sociali più evolute. In particolare lo scambio appartiene solo all’economia mercantile. Individui di una famiglia, di una comunità o di un villaggio che consumano in comune, anche se permanentemente dediti a lavori distinti non scambiano tra loro i prodotti del rispettivo lavoro. Analogamente non esiste scambio tra reparti della stessa azienda uno dei quali passa il suo prodotto ad un altro per una lavorazione successiva.

La scomparsa della divisione in classi non è assolutamente legata alla scomparsa della divisione sociale del lavoro e tanto meno alla scomparsa della divisione tecnica del lavoro (la divisione delle mansioni all’interno di una unità produttiva o di una squadra di lavoratori). Ciò che scomparirà con la divisione in classi è l’asservimento degli individui alla divisione sociale o tecnica del lavoro. Questo asservimento lega indissolubilmente e limita un individuo ad una mansione, quindi lo deforma fisicamente, intellettualmente e moralmente conformandolo al mestiere che svolge. Esso è un aspetto della costrizione generale a cui le limitate forze produttive hanno finora condannato gli uomini e le donne e a cui continua a condannarli la permanenza del modo di produzione capitalista.

 

25. (pag. 23)

Monopolio statale della violenza

 Ridurre la violenza a monopolio pubblico, della società, sottraendo l’uso della violenza ai singoli individui, costituì, nelle società primitive, un enorme progresso materiale, intellettuale e morale. La violenza cessò di essere un aspetto arbitrario dei rapporti tra individui, manifestazione degli stati d’animo e delle necessità individuali. Il suo uso divenne oggetto di riflessioni, della morale, di leggi quanto si voglia primitive, ma che costituirono comunque un avanzamento e fecero esplicitamente della violenza una funzione della vita sociale.

 

26. (pag. 23)

“Economicamente irrealizzabili” sono quelle rivendicazioni, quelle istituzioni e quelle concezioni che sono incompatibili con la natura del modo di produzione dominante.

V. I. Lenin, Intorno a una caricatura del marxismo e all’economicismo imperialista (1916), in Opere vol. 23.

 

27. (pag. 23)

L’origine dello Stato e la divisione in classi

L’essenza dello Stato è il monopolio della violenza che la classe sfruttatrice avoca a sé. Lo Stato è fondamentalmente costituito dall’insieme degli organi deputati ad esercitarla (forze armate, polizie, servizi segreti, sistemi di controllo, magistrature, carceri, codici, leggi e processi, apparati e servizi speciali, ecc.). Tuttavia la classe sfruttatrice non si costituisce come tale grazie alla violenza, ma grazie al ruolo che i suoi membri svolgono nella vita sociale. Come ben spiega F. Engels nell'AntiDühring, (Opere complete vol. 25), la classe dominante non mantiene il suo dominio solo grazie al monopolio della violenza. La stabilità e la forza del suo potere poggiano sul fatto che essa risolve i problemi della vita materiale e spirituale della società, sul fatto che le classi sfruttate non hanno e non concepiscono altro modo di risolverli, sul fatto che essa personifica la coesione dell’intera società, presiede ad essa e la tutela e sul suo predominio ideologico. Il monopolio della violenza è la sua ultima ed estrema risorsa. Questa diventa tanto più decisiva quanto più il suo ruolo è diventato superfluo o addirittura negativo, quanto più quindi si è sviluppato l’antagonismo delle classi sfruttate e il suo diritto a sfruttare è contestato. La controrivoluzione preventiva(*) è l’asse centrale dell’attività politica della borghesia imperialista: è anche la dimostrazione e la conferma che il suo ordinamento sociale è storicamente sorpassato.

L’esposizione più sistematica della teoria marxista dello Stato è nell’opuscolo di V. I. Lenin, Stato e rivoluzione (1917), in Opere vol. 25. Le concezioni dello Stato che gli opportunisti e i revisionisti hanno avanzato dopo Lenin, fino allo “Stato di tutto il popolo” proposto da Kruscev nel 1961 al ventiduesimo congresso del PCUS, non presentano novità teoriche rispetto a quelle smascherate e confutate da Lenin.

L’origine dello Stato è descritta nell’opera F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884). A. Gramsci ha messo in luce in varie sue opere le fonti non statali della stabilità e della forza della borghesia nel nostro paese.

 

28. (pag. 24)

La non-violenza

Chi attribuisce il successo di Gandhi (1869-1948) nella lotta per la fine del dominio britannico sull’India (culminata con l’indipendenza nel 1947) alla non-violenza anziché al movimento comunista e alla prima ondata della rivoluzione proletaria, non solo travisa la realtà, ma contribuisce a mantenere l’asservimento delle masse popolari alla borghesia imperialista. Lo stesso vale per ogni esaltazione della non-violenza e ogni condanna della violenza che non sia condanna della violenza che le classi dominanti e le loro Autorità esercitano sulle classi e sui popoli oppressi e che fanno dominare nelle relazioni interne e internazionali. L’uso della violenza da parte delle classi oppresse per emanciparsi è il fattore decisivo dello sviluppo della civiltà: “La violenza è la levatrice della storia” hanno proclamato Marx ed Engels.

 

29. (pag. 24)

Proletari e operai

Nei primi secoli della vita del modo di produzione capitalista, il proletariato era composto praticamente solo dei lavoratori manuali di alcuni settori dell’industria, perché solo la produzione di quei settori era stata assorbita (sussunta, vedere la nota 34) nel modo di produzione capitalista. Da qui l’abitudine, che si trascina per inerzia presso alcuni autori (in particolare presso gli autori che proclamano la “scomparsa della classe operaia”), di considerare operai solo i lavoratori manuali dell’industria. In realtà un po’ alla volta il modo di produzione capitalista si è esteso anche agli altri settori produttivi, ne ha creato di nuovi e ha approfondito la divisione del lavoro all’interno delle aziende e nella società. Nelle moderne società capitaliste la produzione capitalista di servizi ha in generale sopravanzato la produzione capitalista di beni, per numero di lavoratori impiegati. Di conseguenza anche i lavoratori di altri settori e lavoratori non manuali sono entrati a far parte della classe operaia: sono lavoratori che vendono la propria forza-lavoro ai capitalisti che l’acquistano per valorizzare il loro capitale producendo merci. La percentuale di operai tra i lavoratori è quindi fortemente aumentata. I sostenitori della “scomparsa della classe operaia” o sono dogmatici (“solo gli operai dei tradizionali settori industriali sono veri operai”), o confondono lo stato sociale di operaio con il livello di coscienza e il grado di organizzazione che gli operai dei settori tradizionali hanno già raggiunto con l’esperienza della lotta di classe e  che gli operai dei nuovi settori devono ancora raggiungere, o sono semplicemente degli imbonitori degli operai per conto della borghesia.

Fino alla seconda metà del secolo XIX, classe operaia e proletariato erano tuttavia grossomodo ancora la stessa cosa. “Per proletariato si intende la classe degli operai salariati moderni che, non possedendo alcun mezzo di produzione, sono costretti a vendere la loro forza-lavoro per vivere” (Engels). Nella fase imperialista della società borghese, la proletarizzazione della società si è estesa oltre gli operai. Attualmente la classe operaia è solo una componente del proletariato. Altri lavoratori sono stati ridotti allo stato di proletari (cioè di lavoratori che per vivere devono vendere la loro forza-lavoro), pur non lavorando alle dipendenze di un capitalista per valorizzare il suo capitale. Sono così sorte nuove classi proletarie, diverse dalla classe operaia: i dipendenti pubblici (dello Stato, degli enti locali, dei servizi pubblici) e di enti non aventi fine di lucro, i dipendenti di aziende non capitaliste (artigiane, familiari, cooperative, ecc.), i dipendenti assunti per il servizio personale dei ricchi. Per una migliore comprensione di questo argomento, rinviamo al capitolo 2.2. di questo Manifesto Programma.

 

30. (pagg. 27, 174, 185)

Scuola di comunismo

Ogni lotta concreta riguarda un problema particolare, è uno scontro su un aspetto particolare dell’ordinamento sociale ed ha come promotori e protagonisti un determinato gruppo sociale. Ogni lotta concreta è quindi unilaterale. Essa è comunque già di per se stessa una scuola di comunismo per chi vi partecipa. Insegna a organizzarsi, a stabilire e rafforzare relazioni, a individuare i nemici, a lottare, a scoprire e arricchire i mezzi e le forme di lotta, alimenta la coscienza e la conoscenza. Educa in massa i lavoratori a condurre una lotta comune, e, a questo fine, a organizzarsi. Essa è tanto più efficace e in senso tanto più elevato diventa scuola di comunismo, quanto più è condotta con metodi e criteri non unilaterali, non corporativi; quanto più unisce i protagonisti diretti agli altri lavoratori e li porta a comprendere il sostegno che il loro diretto sfruttatore riceve dalla sua classe, dallo Stato, dal clero e dalle altre istituzioni sociali; quanto più porta i protagonisti diretti a comprendere le condizioni sociali della loro condizione particolare e a unirsi agli altri lavoratori per instaurare un nuovo e superiore ordinamento sociale; quanto più educa e seleziona gli individui più generosi ed energici e li avvia a diventare comunisti. L’azione dei comunisti potenzia questo carattere, fa e deve fare di ogni lotta una scuola di comunismo di livello e di efficacia superiori. Scuola di comunismo non vuol dire solo e a volte non vuole dire del tutto reclutamento al Partito, condivisione del programma e della concezione dei comunisti, simpatia per i comunisti. Questi sono risultati che maturano in tempi e in modi diversi a secondo delle classi, degli ambienti e degli individui. Scuola di comunismo vuol dire anzitutto portare un orientamento giusto sulla lotta in corso e su ogni aspetto della vita sociale e individuale che la lotta fa emergere; in ogni scontro mobilitare la sinistra perché unisca il centro e isoli la destra; trattare, imparare e insegnare a trattare le contraddizioni in seno al popolo in modo da unire le masse e mobilitarle contro la borghesia imperialista; favorire i legami della lotta in corso con le altre lotte; allargare e mobilitare la solidarietà oltre la cerchia dei protagonisti diretti della lotta in corso; sfruttare ogni appiglio e aspetto che la lotta presenta per favorire l’elevamento della coscienza di classe; mobilitare tutti i fattori favorevoli e neutralizzare quelli sfavorevoli alla vittoria della lotta in corso; favorire la massima partecipazione possibile a ogni livello di ideazione, progettazione, direzione e bilancio; individuare gli elementi più avanzati e spingerli in avanti; favorire la crescita di ogni elemento avanzato al livello massimo che ognuno può raggiungere; far emergere il legame tra le varie lotte e i vari aspetti della lotta; insegnare il materialismo dialettico nell’azione; insegnare a diventare comunisti; ecc. ecc. In ogni organizzazione di massa già esistente si tratta di migliorare il suo orientamento, rafforzare l’autonomia dalla borghesia del suo orientamento e dei suoi obiettivi, mettere a tacere ed emarginare i dirigenti corrotti e succubi della borghesia, rafforzare l’autonomia degli altri dalla borghesia. E su questa base creare e rafforzare i rapporti del partito comunista con gli elementi che più avanzano, fino reclutare quelli capaci di fare un lavoro di partito.

 

31. (pagg. 29, 57, 83)

Il capitalismo monopolistico di Stato

Il capitalismo monopolistico di Stato è la combinazione dei monopoli e del capitale finanziario (quindi non genericamente dell’intera classe borghese – come già era, ma dei monopolisti e dei re della finanza) con lo Stato. Questa combinazione sorse nell’epoca imperialista, è una delle sue caratteristiche e dei suoi fattori costitutivi. Ebbe una crescita particolarmente rapida con la Prima Guerra Mondiale. Nelle società a capitalismo monopolistico di Stato, lo Stato e la Pubblica Amministrazione assumono direttamente un ruolo determinante nella vita economica per imporre gli interessi della ristretta oligarchia dei capitalisti monopolisti e dei re della finanza a tutto il resto della società, compreso il resto della borghesia (ha quindi fine la democrazia borghese anche nei rapporti interni alla borghesia). Il capitalismo monopolistico di Stato è il massimo risultato degli sforzi della borghesia per regolare il movimento economico della società pur restando nell’ambito della proprietà privata e della libera iniziativa individuale dei capitalisti (FAUS vedere nota 46).

32. (pag. 33)

Leggi socialmente oggettive

La trasformazione della società è regolata da leggi oggettive nel senso che l’esperienza pratica, comune a un vasto numero di individui, genera in ognuno di essi sensazioni, sentimenti e concezioni che li muovono in massa a compiere le azioni necessarie a realizzare quella trasformazione di cui la società è gravida. In questo modo gli uomini e le donne  attuano le leggi oggettive dello sviluppo della società di loro propria iniziativa, per loro volontà, liberamente, anche se non le conoscono. In questo senso una legge sociale è una legge oggettiva. Non nel senso caricaturale che a volte alcuni nostri avversari e alcuni nostri pericolosi amici (i dogmatici, i deterministi, ecc.) danno alla nostra affermazione: cioè non nel senso di una legge che si attuerebbe senza l’attività delle masse e degli uomini in genere (teoria del crollo del capitalismo e altre affini). La libera attività di milioni di individui e di loro organizzazioni dà luogo a un processo che si svolge secondo leggi sue proprie, così come la libera ricerca di numerosi scienziati dà luogo ad un’unica scienza che si sviluppa secondo i criteri propri del suo oggetto. L’attuazione delle leggi oggettive si presenta come realizzazione delle aspirazioni degli uomini perché le loro aspirazioni riflettono quelle leggi oggettive, come ben dice F. Engels (AntiDühring, in Opere complete vol. 25). Quindi la coscienza della classe operaia e il suo orientamento ideologico e politico costituiscono un fattore decisivo per la vittoria della rivoluzione socialista: per cambiare la società bisogna anzitutto cambiare l’opinione pubblica della sua classe decisiva, bisogna far sorgere un orientamento rivoluzionario nella classe operaia e organizzarla in forza politica rivoluzionaria (accumulazione delle forze rivoluzionarie) in vista della conquista del potere.

La trasformazione della società capitalista in società comunista è, come ogni trasformazione, un salto di qualità. La società cambia natura, alla società capitalista subentra una società con caratteristiche e leggi di sviluppo sostanzialmente diverse. Come ogni salto di qualità, anche questo è lo sbocco dell’accumulazione quantitativa di trasformazioni elementari. Gradualmente, una dopo l’altra, in ogni settore le componenti elementari della società si trasformano. Ad esempio, alcuni operai diventano comunisti, aderiscono al partito comunista. Queste piccole trasformazioni elementari, operai che diventano comunisti e svolgono la loro attività di comunisti, dapprima non alterano in misura percettibile la natura della società capitalista e non turbano il suo funzionamento. Ma prima o poi il numero degli operai comunisti raggiunge un certo livello e, in concomitanza con altre circostanze, l’effetto della loro attività sugli altri operai e sul resto delle masse popolari diventa tale che la società capitalista non riesce più o ha sempre più difficoltà a funzionare come prima. È maturata una crisi rivoluzionaria: o il movimento comunista sopprime la direzione della borghesia e instaura il socialismo o la borghesia stronca temporaneamente il movimento comunista.

Un processo analogo di accumulazione di trasformazioni elementari avviene in ogni settore della società: centralizzazione dell’attività economica in poche grandi aziende, unificazione e standardizzazione dei mercati, disponibilità universale di servizi, istruzione e cultura generale, organizzazione delle masse, ecc. Queste piccole trasformazioni le possiamo osservare e studiare analiticamente settore per settore della società, con una precisione affine a quella con cui osserviamo e studiamo i processi naturali che riguardano il mondo minerale, vegetale o animale. In ogni settore aumenta il numero di costituenti elementari cambiati: cresce il livello medio della concentrazione produttiva, dell’istruzione, ecc. Queste crescite quantitative nei singoli settori confluiscono tra loro e si influenzano a vicenda. Assieme costituiscono l’avanzamento quantitativo verso la trasformazione qualitativa della società. Giunte ad un certo grado di sviluppo, sboccano nella trasformazione qualitativa della società rompendo il vecchio involucro in cui fino ad allora sono cresciute.

Astraendo dai particolari e dal concreto, si tratta del passaggio dalla quantità alla qualità, della combinazione tra cause interne e cause esterne, della relazione che lega ogni cosa a tutte le altre, ecc.: le leggi che si osservano in ogni trasformazione naturale e sociale. Lo studio delle leggi più generali delle trasformazioni naturali e sociali è oggetto del materialismo dialettico. Il materialismo dialettico offre ai comunisti strumenti importanti per comprendere e condurre coscientemente la trasformazione della società capitalista in società comunista. Esso è stato ed è alimentato dal bilancio dell’esperienza di questa trasformazione. Il materialismo dialettico è la filosofia del partito comunista.

 

33. (pagg. 37, 173)

Le prime immediate misure del proletariato vittorioso in campo economico riordinano razionalmente le forze produttive esistenti in modo che siano usate il più efficacemente possibile per soddisfare i bisogni della massa della popolazione e regolano l’attività lavorativa in modo che si svolga nel modo più efficace per la soddisfazione dei bisogni individuali e collettivi dei lavoratori stessi e nel modo più dignitoso per essi.

Vedere in proposito:

K. Marx, La guerra civile in Francia, le misure prese dalla Comune di Parigi (1871);

nelle Opere di Lenin, i primi decreti del governo sovietico a cavallo tra il 1917 e il 1918.

A proposito di questo tema, vedere anche

Marco Martinengo e Elvira Mensi, Un futuro possibile (2006), Edizioni Rapporti Sociali.

 

34. (pagg. 37, 81, 86)

Sussunzione formale e sussunzione reale nel capitale

La borghesia dapprima si impadronì delle attività produttive che erano state sviluppate in seno alla vecchia società e sviluppò le relazioni sociali sue proprie negli spazi che la vecchia società consentiva. I marxisti chiamano questo processo “sussunzione formale nel capitale”: cambiano i rapporti nell’ambito dei quali un’attività lavorativa viene svolta, ma l’attività e la società che fa da contesto restano sostanzialmente eguali a quelli che la borghesia ha trovato. In un secondo tempo la borghesia modifica il contenuto dell’attività, in modo da renderla più produttiva, più adatta all’estrazione del plusvalore assoluto (allungamento della giornata lavorativa) e del plusvalore relativo (riduzione del lavoro necessario, messa al lavoro di donne e minori). Contemporaneamente modifica il complesso dei rapporti sociali,  onde renderli più favorevoli alla valorizzazione del capitale. I marxisti chiamano questo processo”sussunzione reale della società nel capitale”.

Con l’espressione “capitalizzazione dell’attività economica” si intende la sussunzione (non importa se formale o reale) dell’attività economica nel capitale, il passaggio dell’attività economica nelle mani dei capitalisti.

 

35. (pagg. 38, 131)

I limiti della rivoluzione borghese in Europa

Il bilancio esauriente dei risultati delle rivoluzioni borghesi in Europa Occidentale è stato compiuto da Lenin in vista della rivoluzione borghese nell’Impero russo negli anni 1905-1906. Esso è esposto in vari scritti del vol. 9 delle sue Opere, come Due linee della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica, A rimorchio della borghesia monarchica, ecc.

 

36. (pag. 40)

Riferimenti:

K. Marx, F. Engels, Indirizzo al CC della Lega dei comunisti (marzo 1850), in Opere complete vol. 10.

K. Marx, Discorso dell’Aja (1872).

F. Engels, Introduzione (1895) a Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, in Opere complete vol. 10.

 

37. (pagg. 40, 173)

Le leggi secondo il materialismo dialettico

Come le leggi delle scienze naturali, anche le leggi delle scienze sociali vanno intese nel senso del materialismo dialettico. Ogni legge, considerata da sola, è un’astrazione, considera un aspetto della realtà in modo unilaterale, lo separa dagli altri a cui invece nella realtà concreta è indissolubilmente connesso. Essa considera il fenomeno quale si cerca di riprodurlo negli esperimenti di laboratorio, escludendo cioè l’interferenza dei molteplici fattori che nella realtà condizionano il suo svolgimento. Considerata da sola, alla maniera in cui la considerano i metafisici, ogni legge, anche la legge della gravitazione universale, è smentita dalla realtà: molti corpi del nostro universo restano distanti tra loro benché si attirino da tempo immemorabile. È impossibile conoscere la realtà senza analizzarla, senza separare l’uno dall’altro i suoi vari aspetti. È impossibile formulare e considerare le sue leggi senza astrarre dal contesto. Ogni legge (prendiamo ad esempio la legge della pauperizzazione crescente degli operai nel capitalismo) è quindi un’astrazione che noi dobbiamo fare per conoscere la realtà. Nella realtà nessuna legge agisce da sola, incontrastata. Una legge che nella realtà potesse agire incontrastata, avrebbe da tempo esaurito il suo ruolo. Ogni legge è vigente proprio perché la sua azione è contrastata da altre leggi, che spingono la realtà in senso opposto, proprio perché non si realizza in modo assoluto. Nella realtà naturale e sociale, ogni legge agisce combinata con altre, che ne contrastano l’azione. Nella ricerca scientifica, per dimostrare una legge, si creano in laboratorio condizioni artificiose, in cui si elimina in tutto o in parte l’influenza delle leggi che nella realtà contrastano l’azione di quella che si vuole mettere in evidenza. Per sua natura il capitalismo spinge all’impoverimento crescente degli operai. Infatti, a parità di altre condizioni, ogni capitalista quanto meno paga i suoi operai tanto maggiori profitti intasca e tanto più facilmente fa le scarpe ai capitalisti suoi concorrenti. A chi nega questa legge, molti fenomeni della storia degli ultimi tre secoli restano misteriosi e per spiegarli deve ricorrere a forze occulte. Ma a questa legge si oppone la lotta della classe operaia e si oppongono persino le lotte di altre classi (non a caso è esistito – vedi Manifesto del partito comunista, 1848 – un “socialismo feudale”, un “socialismo conservatore borghese” e vari altri movimenti che hanno contrastato l’azione della legge della pauperizzazione crescente della classe operaia). Nella prima parte del secolo XX la classe operaia dei paesi imperialisti con la sua lotta e grazie al più generale sviluppo del movimento comunista ha strappato alla borghesia molti miglioramenti (riduzione del tempo di lavoro, legislazione del lavoro, previdenza sociale, assicurazioni e assistenza pubblica, miglioramenti salariali, servizi pubblici, ecc.). La borghesia cerca di limitare o liquidare ognuna di queste conquiste ogni volta che i rapporti di forza le sono favorevoli, come sta succedendo dalla metà degli anni ‘70 in qua. Questa come tutte le altre leggi del modo di produzione capitalista messe in luce da Marx sono state confermate dalla storia, a condizione che le si consideri e si consideri la storia secondo la concezione del materialismo dialettico.

Riferimenti:

V. I. Lenin, Il socialismo e i contadini (1905), in Opere vol. 9.

Umberto C., L’instaurazione del socialismo nei paesi imperialisti (2005), in La Voce n. 21.

 

38. (pag. 42)

Riferimenti:

Tonia N., Le due vie al comunismo (2003), in La Voce n. 15.

CP, Che i comunisti dei paesi imperialisti uniscano le loro forze per la rinascita del movimento comunista!, in La Voce n. 12 (2002).

39. (pag. 42)

Rivoluzione di nuova democrazia

Dopo che il capitalismo è entrato nella sua fase imperialista, la borghesia è diventata incapace di dirigere la  rivoluzione democratico-borghese (il cui contenuto è il superamento dei rapporti di dipendenza personale: patriarcali, schiavisti, feudali, religiosi, ecc.) che si svolgeva o doveva ancora svolgersi nei paesi arretrati. Questa rivoluzione dovette essere diretta dalla classe operaia tramite il suo partito comunista. Essa è quindi chiamata rivoluzione di nuova democrazia per distinguerla dalla vecchia rivoluzione democratico-borghese diretta dalla borghesia. La teoria della rivoluzione di nuova democrazia è uno degli apporti del maoismo al pensiero comunista.

I paesi dove la rivoluzione di nuova democrazia ha vinto, se si voleva consolidare o anche solo preservare le conquiste della rivoluzione democratica e l’indipendenza dal sistema imperialista mondiale, dovettero per forza di cose nazionalizzare il commercio estero, pianificare l’attività economica, collettivizzare le principali forze produttive, combattere senza esitazioni e riserve le forze interne alleate dell’imperialismo (le vecchie classi dominanti e la borghesia compradora e burocratica) e sostenute dall’imperialismo con ogni mezzo e in ogni campo. Detto in altre parole, dovettero prendere la via del socialismo. La rivoluzione di nuova democrazia trapassa in rivoluzione socialista. Cioè avvenne non solo in Russia, ma in modo ancora più esemplare in Cina.

Riferimenti:

V. I. Lenin, Due linee della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica (1905), in Opere vol. 9.

Mao Tse-tung, Sulla nuova democrazia (1940), in Opere di Mao Tse-tung vol. 7.

 

40. (pagg. 42, 209)

Gli apporti principali del leninismo al pensiero comunista riguardano:

la natura del partito comunista e il suo ruolo nel preparare e condurre la rivoluzione proletaria,

le caratteristiche economiche e politiche dell’imperialismo e la rivoluzione proletaria,

la direzione della classe operaia sul resto delle masse popolari nella rivoluzione socialista e l’alleanza del proletariato dei paesi imperialisti con i popoli oppressi dall’imperialismo.

J. V. Stalin, Principi del leninismo (1924).

 

41. (pag. 43)

Caduta tendenziale del saggio del profitto e sovrapproduzione assoluta di capitale

Per valorizzare di più il suo capitale il capitalista tra le altre misure aumenta la produttività del lavoro dei suoi operai. A questo fine aumenta la composizione organica del capitale. Detto con altre parole, man mano che il capitale cresce, il valore dei mezzi e delle condizioni della produzione (detto capitale costante) cresce più rapidamente del valore della forza-lavoro impiegata nella produzione (detto capitale variabile). In questo modo si esprime nel “linguaggio del capitale” il fatto che la quantità dei mezzi di produzione cresce più rapidamente del numero dei lavoratori impiegati nella produzione, cioè per mettere in moto quei mezzi. La quantità del pluslavoro a cui i capitalisti costringono gli operai, per quanto grande e crescente, aumenta meno velocemente della quantità di lavoro passato (“lavoro morto”) oggettivato nei mezzi e nelle condizioni (materiali e spirituali) della produzione che essi utilizzano e che i capitalisti hanno accumulato come capitale.

Nell’ambito del modo di produzione capitalista la ricchezza della società si presenta come capitale: valore che deve essere valorizzato, cioè che deve accrescersi. Quindi quanto più ricca diventa la società borghese, tanto maggiore diventa la quantità di capitale che deve essere valorizzata. Quindi tanto maggiore diventa il plusvalore che gli operai dovrebbero produrre per valorizzarlo. Quindi tanto maggiore è il pluslavoro che i capitalisti cercano di far compiere agli operai (allungamento della giornata lavorativa, straordinari, innalzamento dell’età della pensione, riduzione delle festività e delle ferie, ecc.). Ma la quantità di plusvalore che i capitalisti estorcono a un operaio è limitata oggettivamente al pluslavoro che essi riescono a costringerlo a compiere, dalle lotte degli operai e da altri fattori sociali (culturali, politici, ecc.). Il numero dei lavoratori che i capitalisti impiegano è limitato dalle condizioni fisiche e sociali del loro impiego (risorse naturali, limiti ambientali, legislazione, dimensioni del mercato, ecc.), dalle lotte degli operai e da altri fattori sociali.

Il contrasto tra questi due elementi (aumento illimitato del capitale, limiti fisici e sociali del pluslavoro) crea la tendenza del saggio del profitto (rapporto tra la massa del plusvalore estorto e la massa del capitale impiegato nella produzione) a diminuire: la caduta tendenziale del saggio del profitto.

Quando il capitale accumulato è cresciuto oltre certi limiti (determinati dalle condizioni di valorizzazione), quel contrasto porta addirittura alla diminuzione della massa del plusvalore che i capitalisti estorcerebbero se impiegassero come capitale produttivo o come capitale finanziario (vedere la nota 42) tutto il capitale accumulato: in queste condizioni si ha sovrapproduzione assoluta di capitale. I capitalisti non impiegano nella produzione o al suo diretto servizio tutto il capitale accumulato. Si crea allora una massa crescente di ricchezza che non può esistere né come capitale produttivo né come capitale finanziario. Essa assume la forma di capitale speculativo.

Riferimenti:

K. Marx, Il capitale, libro III, cap. 13, 14, 15.

La crisi attuale: crisi per sovrapproduzione di capitale, in Rapporti Sociali n. 0 (1985),

 Crack di borsa e capitale finanziario, in Rapporti Sociali n. 1 (1987).

Ancora sulla crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale, in Rapporti Sociali n. 5/6 (1990).

Marx e la crisi per sovrapproduzione di capitale, in Rapporti Sociali n. 8 (1990).

Sulla situazione rivoluzionaria in sviluppo, in Rapporti Sociali n. 9/10 (1991).

La seconda crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale, in Rapporti Sociali n. 12/13 (1992).

La situazione attuale e i nostri compiti, in Rapporti Sociali n. 16 (1994-1995).

Per il dibattito sulla causa e la natura della crisi attuale, in Rapporti Sociali n. 17/18 (1996).

 

42. (pagg. 43, 57, 60)

Capitale produttivo, capitale finanziario, capitale speculativo

Queste tre forme del capitale costituiscono sia una successione storica delle forme dominanti (dirigenti) che epoca dopo epoca ha assunto il capitale, sia tre figure diverse di capitalisti operanti contemporaneamente, sia tre anime diverse dello stesso capitalista. Bisogna quindi considerare sia ognuna di esse nella sua forma pura, sia la genesi storica di una forma dall’altra, sia la combinazione delle varie forme tra loro.

Il capitale produttivo è il capitale che si accresce percorrendo e ripercorrendo il processo Denaro – Merci (mezzi di produzione, materie prime, forza-lavoro degli operai) – Lavorazione – Nuove Merci – Più Denaro (D – M – L – M’ – D’). Questo processo è la base del modo di produzione capitalista, su cui poggia la società capitalista. Le forme dominanti successive del capitale nascono e si sviluppano come escrescenze di questa base, sono sia uno degli sfoghi salutari, ausiliari e necessari di essa, sia una sovrastruttura che la soffoca. Questa base riemerge ogni volta che la sovrastruttura si sgretola, come argomentò in modo conclusivo Lenin nel 1919, all’ottavo congresso del Partito comunista (bolscevico) russo, contro Bukharin e altri che sostenevano che l’imperialismo costituiva un nuovo modo di produzione, anziché una sovrastruttura del capitalismo (vedere nota 73). Il suo ambiente è la produzione, detta anche economia reale.

Il capitalista impegnato nella produzione (l’imprenditore) opera in un’economia mercantile. Egli compera con denaro le costruzioni, i macchinari e gli impianti della sua azienda, gli operai, le materie prime e ausiliarie. Egli quindi immobilizza denaro in “capitale fisso” (impianti fissi e macchinari) e in “capitale circolante” (materie prime e ausiliarie, merci in corso di vendita e salari). Il denaro gli ritorna solo un po’ alla volta tramite la vendita delle merci prodotte. Inoltre egli alle scadenze pattuite paga rendite ai proprietari della terra e delle altre condizioni naturali della produzione (miniere, foreste, ecc.) e periodicamente versa imposte allo Stato e alle altre pubbliche Autorità. Egli ha quindi bisogno di denaro sia come mezzo di scambio sia come mezzo di pagamento.

A parte il denaro che possiede egli stesso, il capitalista imprenditore ricorre al prestito (banche, ricchi, risparmiatori individuali) e paga il relativo interesse, oltre che restituire il prestito alla scadenza. Fin dall’inizio del modo di produzione capitalista, i capitalisti imprenditori hanno preso in prestito denaro dalle banche. Queste prestavano denaro proprio e contemporaneamente agivano come intermediarie tra proprietari di denaro e imprenditori. Questi con il denaro preso in prestito costituivano parte o tutto il loro capitale produttivo. Con la circolazione del denaro, nacque il denaro fiduciario: denaro non più costituito da una merce avente un valore intrinseco (oro, argento, ecc.), ma da un impegno scritto (cartamoneta, lettera di deposito, cambiale, lettera di credito, ecc.) assunto da persona o istituzione che riscuote fiducia, a trasformare su richiesta la carta in una quantità definita di denaro a valore intrinseco. Con la nascita del denaro fiduciario, la massa del denaro in circolazione non fu più soggetta ai limiti propri dell’industria mineraria e metallurgica e della zecca. Essa era regolata dalle banche (dal sistema creditizio) nelle forme e nella misura dettate dalle sue proprie leggi e dalle leggi dello Stato. Il denaro fiduciario moltiplicò i mezzi a disposizione delle banche e il loro ruolo sociale. Il suo sviluppo fu quindi di grande aiuto al capitale produttivo.

Un altro modo con cui fin dall’inizio del modo di produzione capitalista gli imprenditori si procuravano denaro, era cedere ad altri possessori di denaro una partecipazione al profitto che l’azienda avrebbe prodotto o persino una partecipazione alla proprietà (ed eventualmente anche alla gestione) dell’azienda. Nacquero così i titoli finanziari a reddito variabile (titoli di partecipazione agli eventuali utili e titoli di proprietà delle aziende) e le società per azioni.

In questo contesto nacquero e si svilupparono anche i titoli finanziari a reddito fisso (obbligazioni, cambiali, altri titoli di credito), il mercato dei titoli finanziari, il corso dei titoli finanziari (ogni titolo finanziario viene venduto e comperato a un prezzo diverso dal suo valore nominale, un prezzo che varia a secondo del profitto che si presume renderà), le borse dei titoli finanziari (organismi per il commercio di titoli finanziari). Le borse nacquero come istituzioni in cui i capitalisti combinavano il loro denaro per fare affari in comune. Nel corso del tempo le borse divennero istituzioni che direttamente, o indirettamente tramite le banche e altre istituzioni finanziarie, assorbivano i risparmi e la ricchezza in denaro di tutte le classi e li mettevano come capitale nelle mani dei maggiori imprenditori e dei pescicani della finanza.

Il mercato dei titoli finanziari e le borse fino alla metà del secolo XIX si erano sviluppati come ausiliari del capitale produttivo. Essi procuravano denaro ai capitalisti impegnati nella produzione e rendevano più liquido (più facilmente e rapidamente trasformabile in denaro) il loro stesso capitale immobilizzato in merci, mezzi di produzione, aziende. Costituivano una massa di capitale non impiegato direttamente nella produzione, ma al servizio del capitale produttivo.

In questo contesto sorsero e si svilupparono anche le borse merci (organismi per il commercio di titoli di proprietà di partite di merci già in stoccaggio di riserva o ancora da produrre) e il mercato speculativo delle merci, il mercato delle  valute, le borse valute e la speculazione sulle valute. In questi mercati e nel mercato dei titoli finanziari i singoli capitalisti e altri ricchi lottano tra loro ognuno per aumentare la propria ricchezza. Questi mercati hanno caratteristiche e funzionano secondo leggi diverse da quelle dei mercati in cui i produttori scambiano tra loro merci (nella produzione mercantile semplice o nel mercato tra capitalisti imprenditori).

Nel corso della seconda metà del secolo XIX la combinazione tra il capitale bancario, le borse, i mercati sopra indicati e il capitale produttivo divenne così stretta che prese grande sviluppo una nuova forma di capitale, il capitale finanziario. Nell’epoca imperialista il capitale finanziario prese il sopravvento sul capitale produttivo. La proprietà di un’azienda si divise in due: la proprietà delle azioni che rappresentano il suo capitale e la direzione dell’azienda. La proprietà delle aziende si frantumò nelle mani degli acquirenti delle azioni che rappresentano il suo capitale. La direzione dell’azienda si separò dalla proprietà delle azioni dell’azienda. Il prezzo di acquisto di un’azienda venne a dipendere dalla combinazione del profitto e del tasso di interesse che capitalizza (attualizza) il profitto (se un’azienda rende 100 e il tasso di interesse corrente è 5%, la sua capitalizzazione è 100/0.05 = 2.000). In un secondo tempo a determinare il suo prezzo di acquisto subentrò la previsione del profitto che avrebbe reso. In un terzo tempo la previsione del corso (del prezzo di vendita) delle sue azioni. L’obiettivo dell’acquirente di azioni e di altri titoli finanziari non era più il profitto che sarebbe stato distribuito ai proprietari dei titoli, ma la plusvalenza del titolo, cioè l’incremento del prezzo (del corso) del titolo.

Giunti a questo punto, la produzione era diventata un’appendice e uno strumento del capitale finanziario: un’azienda è gestita, venduta e comperata in funzione del corso delle sue azioni. Quindi il capitale finanziario dettava legge alla produzione, benché si reggesse su di essa. Il capitale produttivo aveva svolto il ruolo dell’apprendista stregone. Il demone che esso aveva evocato non obbediva più ai suoi ordini e anzi lo comandava, ma nello stesso tempo non aveva vita propria: non poteva vivere che grazie all’esistenza dello stregone.

Sul capitale finanziario nel corso del tempo sono cresciuti i castelli delle società per azioni (le “scatole cinesi”), della speculazione finanziaria e del parassitismo imperialista che soffocano la produzione e danno luogo alle crisi finanziarie. La speculazione sui titoli finanziari, sulle merci, sulle valute è diventata per i capitalisti finanziari una via a sé stante per aumentare il proprio capitale. La produzione era diventata un’appendice del capitale finanziario. Questo a sua volta è diventato un’appendice del capitale speculativo.

La sovrapproduzione di capitale ha via via ampliato la massa di danaro vagante, nelle mani degli speculatori (cioè dei capitalisti che cercano di aumentare la loro ricchezza speculando sul futuro prezzo delle merci, sul futuro corso dei titoli finanziari, ecc.). Questa massa, con i suoi movimenti arbitrari e scomposti, sconvolge la produzione: le condizioni del credito, del commercio, ecc. da cui nella società capitalista dipende la produzione, che è detta anche “economia reale”.

Su questo tema il testo fondamentale è V. I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916), in Opere vol. 22. Vedere anche i riferimenti bibliografici della nota 41.

 

43. (pag. 44)

Il caso singolare del Giappone

Per un insieme di circostanze particolari, la società giapponese anziché sottomettersi a un rapporto coloniale o semicoloniale, reagì alla pressione della borghesia europea e americana assimilando e sviluppando a sua maniera il modo di produzione capitalista. Negli ultimi decenni del secolo XIX il Giappone ricuperò il suo ritardo storico ed entrò a far parte del ristretto gruppo delle potenze imperialiste mondiali.

 

44. (pag. 45)

La Comune di Parigi

Sulla Comune di Parigi (1871), Karl Marx espose il suo bilancio nell’Indirizzo all’Internazionale intitolato La guerra civile in Francia (1871).

Lenin ha esaminato ripetutamente l’esperienza della Comune di Parigi per trarne insegnamenti (vedere le sue Opere).

 

45. (pag. 45)

La II Internazionale

I partiti della II Internazionale (1889-1914) si chiamarono socialdemocratici perché si assegnavano il compito di portare a fondo la trasformazione democratica dell’ordinamento politico borghese e su questo terreno portare la coscienza e l’organizzazione della classe operaia al livello necessario per instaurare il socialismo.

Per il bilancio dell’opera della II Internazionale, vedere J. V. Stalin, Principi del leninismo (1924).

 

46. (pagg. 46, 57, 79)

Forme Antitetiche dell’Unità Sociale (FAUS)

Le FAUS sono istituzioni e procedure con cui la borghesia cerca di far fronte al carattere collettivo oramai assunto dalle forze produttive, restando però sul terreno della proprietà e dell’iniziativa individuali dei capitalisti. Per farvi  fronte crea istituzioni e procedure che sono in contraddizione con i rapporti di produzione capitalisti. Sono mediazioni tra il carattere collettivo delle forze produttive e i rapporti di produzione che ancora sopravvivono. Sono ad esempio FAUS le banche centrali, il denaro fiduciario, la contrattazione collettiva dei rapporti di lavoro salariato, la politica economica dello Stato, i sistemi previdenziali, ecc.

Particolare importanza ha la creazione di un sistema monetario fiduciario mondiale. (vedere la nota 42) Essa fu completata nel 1971, quando il governo federale USA annunciò che non avrebbe più proceduto a cambiare dollari in oro (al tasso fisso di 1 oncia (31.103 g) d’oro per 35$) come con gli Accordi di Bretton Woods (per maggiori dettagli vedere Rapporti Sociali n. 1 (1987) e n. 2 (1988)) si era impegnato a fare quando le Banche Centrali degli altri paesi contraenti dell’Accordo lo chiedevano. Da allora gli scambi internazionali avvengono a mezzo di denaro convenzionale senza copertura aurea, in sostanza un buono emesso a suo giudizio dalla Banca Federale USA che viene correntemente accettato come mezzo di pagamento e tesaurizzato da privati e dalle Banche Centrali dei paesi più importanti. Ciò conferisce agli USA una posizione economicamente privilegiata e alimenta la fiducia di una parte dei capitalisti e dei loro esperti di possedere il mezzo di impedire una crisi finanziaria delle dimensioni di quella del 1929.

Riferimenti:

K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (Grundrisse). Il capitolo del denaro, in Opere complete vol. 29.

Le forme antitetiche dell’unità sociale, in Rapporti Sociali n. 4 (1989).

 

47. (pag. 56)

Plinio M., Il futuro del Vaticano (2006), in La Voce n. 23.

 

48. (pag. 56)

La riforma Gentile della scuola italiana

Con la sua riforma (1924), Giovanni Gentile (1875-1944) introdusse ufficialmente nella scuola pubblica l’insegnamento della religione sotto la direzione del clero cattolico. La religione cattolica venne proclamata fondamento e coronamento dell’educazione dei giovani delle classi oppresse. La concezione scientifica del mondo venne riservata ai rampolli delle classi dominanti che accedevano ai livelli superiori dell’istruzione.

 

49. (pag. 57)

Piano del capitale

A partire dalla seconda metà del secolo XIX vari teorici e uomini politici, borghesi e marxisti-revisionisti, hanno sostenuto che oramai la borghesia aveva raggiunto la capacità di governare il movimento economico della società secondo un suo piano. Alcuni sostenevano che lo avrebbero governato le banche, altri che lo avrebbero governato gli Stati. Tutte queste pretese si sono rivelate o illusioni o imbrogli.

In proposito vedere Don Chisciotte e i mulini a vento – A proposito della parola d’ordine “lotta contro il piano della borghesia per uscire dalla crisi”, in Rapporti Sociali n. 0 (1985).

 

50. (pag. 59)

V. I. Lenin, L’opportunismo e il fallimento della II Internazionale (1916), in Opere vol. 22.


51.
(pag. 60)

La vittoria sul revisionismo

Verso la fine del secolo XIX scoppiò la prima “crisi del marxismo”. La società capitalista era entrata nell’epoca imperialista. Il movimento comunista si era fortemente sviluppato ed era sempre più impellente che facesse fronte ai compiti della rivoluzione socialista per i quali però le concezioni e i metodi di azione elaborati fino allora da Marx ed Engels non erano sufficienti. Attraverso questa fessura si insinuò e dilagò l’influenza ideologica della borghesia che inquinò il movimento comunista sotto la veste della revisione del marxismo, di cui Eduard Bernstein (1850-1932) fu il principale fautore. A nulla valsero la difesa dogmatica del marxismo fatta da K. Kautsky (1854-1938). Inutile fu anche il tentativo di Rosa Luxemburg (1870-1919) di contrastare le conseguenze riformiste del revisionismo di Bernstein in campo politico sulla base di una sua propria revisione del marxismo.

La “crisi del marxismo” fu risolta solo grazie all’opera di V. I. Lenin (1870-1924) che sviluppò il marxismo in campo teorico e su questa base diede soluzioni rivoluzionarie ai compiti politici nuovi dell’epoca: con la teoria dell’imperialismo, dell’egemonia della classe operaia sulle masse popolari dei paesi imperialisti e sui popoli e le nazioni dei paesi oppressi, della natura e del ruolo del partito comunista dell’epoca della rivoluzione proletaria.

Riferimenti:

V. I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916), in Opere vol. 22.

V. I. Lenin, Due linee della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica (1905), in Opere vol. 9.

V. I. Lenin, Che fare? (1902), in Opere vol. 5.

J. V. Stalin, Principi del leninismo (1924).

 

52. (pag. 61)

Relazioni sociali di denaro

Nell’attuale società, quando la civiltà borghese ha compiuto già il suo corso storico ed è oramai nella fase del suo declino, il denaro assolve a molteplici e contraddittori ruoli: mezzo di scambio (nelle transazioni di compra-vendita), materia dei prezzi (che sono fissati in denaro), mezzo di pagamento (per assolvere a scadenze fissate ad obblighi verso terzi: salari, pensioni, imposte, rendite, interessi, affitti, ecc.), mezzo di risparmio (per far fronte a spese future), mezzo di tesaurizzazione (per accumulare ricchezza), capitale fruttifero di interessi (prestiti, obbligazioni, assicurazioni, ecc.), capitale produttivo (investimenti diretti, azioni, ecc.), titolo finanziario (oggetto di speculazione), valuta per scambi internazionali. A ognuno di questi ruoli corrispondono specifiche relazioni sociali, specifici attori con i relativi comportamenti, specifiche leggi socialmente oggettive. Questi ruoli interferiscono tra loro: il denaro impiegato per un ruolo subisce gli effetti delle vicende determinati dagli altri ruoli. Di questi ruoli di gran lunga prevalente nell’epoca attuale è quello di titolo finanziario. La conseguenza che ne risulta è che il denaro si trasforma ripetutamente, ora qui ora là, da mezzo delle relazioni sociali in loro ostacolo e blocco. La massa della popolazione, che è costituita dal proletariato, riceve denaro con il pagamento a scadenze fisse dei salari, delle pensioni, con sussidi di vario genere e con prestiti e mutui e lo spende per l’acquisto corrente dei beni di consumo correnti, per acquisti straordinari saltuari e per il pagamento periodico di imposte, affitti, rate di mutui, assicurazioni, ecc. In ognuno di queste transazioni subisce gli effetti prodotti dai molteplici ruoli del denaro (inflazione, oscillazione dei cambi, speculazione, ecc.), a cui è completamente estranea e di fronte ai quali è impotente, a meno che impugni la lotta politica rivoluzionaria.

Tra le misure di razionalizzazione dell’esistente che il proletariato dovrà imporre una volta preso il potere (vedere la nota 33 e il testo a cui la nota si riferisce), una delle più importanti è l’abolizione della molteplicità dei ruoli del denaro e la sua riduzione a strumento di regolazione del consumo individuale. Una simile misura va ovviamente di pari passo con l’abolizione della proprietà privata delle principali forze produttive, con la pianificazione delle principali attività economiche e la fissazione amministrativa dei prezzi.

In proposito, vedere Marco Martinengo e Elvira Mensi, Un futuro possibile (2006), edizioni Rapporti Sociali.

 

53. (pagg. 62, 86)

La situazione rivoluzionaria in sviluppo

La teoria della situazione rivoluzionaria in sviluppo o di lungo periodo è uno degli apporti del maoismo al pensiero comunista ed è strettamente connessa alla strategia della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata. Si ha una situazione rivoluzionaria quando le azioni delle varie classi, delle forze organizzate e degli individui per motivi oggettivi sono tali che, se assecondate dall’azione del partito comunista, portano le classi verso la guerra civile e portano le masse popolari a sviluppare la stima di se stesse, l’eroismo e la forza morale che sono le armi più importanti per la loro vittoria contro gli oppressori e gli sfruttatori.

In una situazione rivoluzionaria sta al partito comunista trovare e compiere le operazioni sistematiche, coordinate e pratiche, realizzabili dal partito quali che sia la velocità alla quale matura la crisi rivoluzionaria, che assecondano il corso della rivoluzione.

Riferimenti:

V. I. Lenin, Il fallimento della II Internazionale (1915), in Opere vol. 21.

V. I. Lenin, A proposito dell’opuscolo di Junius (1916), in Opere vol. 22.

Mao Tse-tung, Una scintilla può dar fuoco all’intera prateria, in Opere di Mao Tse-tung vol. 2.

Sulla situazione rivoluzionaria in sviluppo, in Rapporti Sociali n. 9/10 (1991).

 

54. (pag. 63)

Il movimento di resistenza delle masse popolari al procedere della crisi della società borghese e i compiti delle Forze Soggettive della Rivoluzione Socialista, in Rapporti Sociali n. 12/13 (1992).

 

55. (pag. 65)

Riferimenti:

V. I. Lenin, Tempi nuovi, errori vecchi in forme nuove (1921), in Opere vol. 33.

Anna M., Il 90° anniversario della Rivoluzione d’Ottobre (2007), in La Voce n. 25.

 

56. (pag. 68)

Umberto C., Un libro e alcune lezioni (2006), in La Voce n. 24.

 

57. (pag. 69)

“Il progresso rivoluzionario non si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate, ma, al contrario, facendo sorgere una controrivoluzione serrata, potente, facendo sorgere un avversario, soltanto combattendo il quale il partito dell’insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario”.

K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (1850), in Opere complete vol. 10.

 “È necessario demolire e buttare a mare la putrida teoria secondo la quale ad ogni passo in avanti che facciamo, la lotta di classe da noi dovrebbe affievolirsi sempre di più; secondo la quale, nella misura in cui otteniamo dei successi, il nemico di classe diventerebbe sempre più mansueto […] Al contrario, quanto più andremo avanti, quanti più successi avremo, tanto più i residui delle vecchie classi sfruttatrici distrutte diventeranno feroci, tanto più rapidamente essi ricorreranno a forme di lotta più acute, tanto più essi cercheranno di colpire lo Stato sovietico, tanto più essi ricorreranno ai mezzi di lotta più disperati come ultimi mezzi di chi è condannato a morire. Bisogna tener conto del fatto che i residui delle classi distrutte nell’URSS non sono isolati. Essi hanno l’appoggio diretto dei nostri nemici al di là delle frontiere dell’URSS. Sarebbe errato pensare che a sfera della lotta di classe sia racchiusa entro le frontiere dell’URSS. Se la lotta di classe si svolge per una parte nel quadro dell’URSS, per un’altra parte essa si estende entro i confini degli Stati borghesi che ci circondano”.

J. V. Stalin, Sulle deficienze del lavoro (1937).

Sui limiti dell’Internazionale Comunista:

Umberto C., L’attività della prima Internazionale Comunista in Europa e il maoismo, in La Voce n. 10 (2002).

Ernesto V., Il ruolo storico dell’Internazionale Comunista. Le conquiste e i limiti, in La Voce n. 2 (1999).

 

 

58. (pag. 73)

Borghesia burocratica e borghesia compradora

Per la sua penetrazione nei paesi oppressi e il loro sfruttamento, i gruppi imperialisti hanno usato sia le Autorità a cui hanno concesso prestiti “per lo sviluppo del paese” (borghesia burocratica), sia intermediari tra le vecchie forme di sfruttamento proprie del paese e i gruppi imperialisti stessi (borghesia compradora).

 

59. (pag. 76)

Nicola P., L’ottava discriminante (2002), in La Voce n. 10.

L’esperienza della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria è esposta nei volumi 23, 24, 25 delle Opere di Mao Tse-tung, edizioni Rapporti Sociali.

 

60. (pag. 81)

Il movimento di resistenza delle masse popolari al procedere della crisi della società borghese e i compiti delle Forze Soggettive della Rivoluzione Socialista, in Rapporti Sociali n. 12/13 (1992).

 

61. (pag. 82)

“Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata in eterno, come l’araldo glorioso di una nuova società. I suoi martiri hanno per urna il cuore della classe operaia. I suoi sterminatori, la storia li ha già inchiodati a quella gogna eterna dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti”.

K. Marx, La guerra civile in Francia (1871).

 

62. (pag. 82)

K. Marx, Per la critica del programma di Gotha (1875).

 

63. (pag. 83)

V. I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916), in Opere vol. 22.

 

64. (pag. 85)

K. Marx, Per la critica del programma di Gotha (1875).

 

65. (pag. 87)

Sulla lotta di classe nei paesi socialisti:

Opere di Mao Tse-tung, vol. 23, 24, 25.

Sull’esperienza dei paesi socialisti:

Il crollo del revisionismo moderno e Per il bilancio dell’esperienza dei paesi socialisti, in Rapporti Sociali n. 5/6 (1990).

Ancora sull’esperienza dei paesi socialisti, in Rapporti Sociali n. 7 (1990).

La restaurazione del modo di produzione capitalista in Unione Sovietica, in Rapporti Sociali n. 8 (1990).

Sull’esperienza storica dei paesi socialisti, in Rapporti Sociali n. 11 (1991).

 

66. (pag. 87)

Nuova Politica Economica (NEP)

 Politica economica messa in atto dallo Stato sovietico tra il 1921 e il 1929 e consistente nel lasciare sviluppare l’economia mercantile e l’economia capitalista entro limiti fissati dallo Stato sovietico, cioè lasciare operare liberamente i lavoratori autonomi (in pratica i contadini) e i capitalisti entro margini fissati dallo Stato proletario.

Riferimenti:

V. I. Lenin, Sull’imposta in natura (1921), in Opere vol. 32.

J. V. Stalin, Un anno di grande svolta (1929), in Opere di Stalin vol. 12.

 

67. (pag. 89)

F. Engels, Lettera a Conrad Schmidt del 5 agosto 1890, in Opere complete vol. 48.

 

68. (pag. 93)

V. I. Lenin, Stato e rivoluzione (1917), in Opere vol. 25.

 

69. (pag. 94)

“In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro e quindi anche il contrasto tra lavoro intellettuale e lavoro manuale; dopo che il lavoro è diventato non soltanto mezzo di vita, ma anche il bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo omnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato e la società può scrivere sulle sue bandiere: ‘Da ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni’”.

K. Marx, Per la critica del programma di Gotha (1875).

 

70. (pag. 94)

Chang Chun-chiao, La dittatura completa sulla borghesia in Opere di Mao Tse-tung vol. 25.

 

71. (pag. 95)

Leninismo o socialimperialismo (1970), in Opere di Mao Tse-tung vol. 24.

 

72. (pagg. 97, 241)

“È stato obiettato che con l’abolizione della proprietà privata cesserebbe ogni attività, si diffonderebbe una neghittosità generale.

Se così fosse, la società borghese sarebbe da molto tempo andata in rovina per pigrizia, giacché in essa chi lavora non guadagna e chi guadagna non lavora. Tutta l’obiezione sbocca in questa tautologia: che non c’è più lavoro salariato quando non c’è più capitale”.

K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista (1848), in Opere complete vol. 6.

Vedere anche il cap. V – Obiezione 6 di questo MP.

 

73. (pag. 101)

L’imperialismo è una sovrastruttura del capitalismo

“L’imperialismo puro, senza il fondamento del capitalismo, non è mai esistito, non esiste in nessun luogo e non potrà mai esistere. Si è generalizzato in modo errato tutto ciò che è stato detto sui consorzi, i cartelli, i trust, il capitalismo finanziario, quando si è voluto presentare quest’ultimo come se esso non poggiasse affatto sulle basi del vecchio capitalismo. ... Se Marx diceva della manifattura che essa è una sovrastruttura della piccola produzione di massa, l’imperialismo e il capitalismo finanziario sono una sovrastruttura del vecchio capitalismo. Sostenere che esiste un imperialismo integrale senza il vecchio capitalismo, significa prendere i propri desideri per realtà. ... L’imperialismo è una sovrastruttura del capitalismo. Quando crolla, ci si trova di fronte alla cima distrutta e alla base messa a nudo”.

V. I. Lenin, Rapporto sul programma del partito (1919), in Opere vol. 29.

 

74. (pag. 102)

Operaisti

Corrente culturale e politica sorta in Italia all’inizio degli anni ‘60, che ha fatto propria, propagandato e cercato di attuare in campo politico la concezione della Scuola di Francoforte. I suoi esponenti ponevano al centro della loro inchiesta il contenuto del lavoro, la tecnica produttiva e le forme organizzative del lavoro, anziché i rapporti di produzione nel loro insieme. Un tratto tipico degli operaisti fu la tesi che le conquiste che le masse popolari hanno strappato alla borghesia imperialista grazie al movimento comunista, sarebbero in realtà astute riforme concepite e messe in opera dalla borghesia imperialista per “integrare” la classe operaia nel sistema capitalista e creare un nuovo spazio all’espansione del modo di produzione capitalista. Insomma gli operaisti negavano la tesi marxista che il capitale tende ad aumentare la miseria, l’oppressione, l’asservimento, l’abbrutimento e lo sfruttamento delle masse popolari, tendenza che si traduce in realtà tanto più quanto meno forte è la lotta di classe del proletariato contro di essa.

 Le concezioni degli operaisti hanno avuto larga influenza sui gruppi dirigenti di Potere operaio, Lotta continua e Autonomia Operaia. Principali esponenti dell’operaismo furono Renato Panzieri (con la rivista Quaderni rossi), Mario Tronti, Asor Rosa, Toni Negri.

75. (pagg. 102, 146, 149)

Scuola di Francoforte

Concezione del mondo elaborata da intellettuali organizzati dall’Istituto per le Scienze Sociali di Francoforte, istituzione fondata negli anni ‘20 di questo secolo grazie ai fondi messi a disposizione da alcuni gruppi imperialisti tedeschi per contrastare l’influenza ideologica dell’Internazionale Comunista.

Le tesi principali della Scuola di Francoforte sono le seguenti.

I rapporti di produzione capitalisti sono incorporati nelle forze produttive: nel macchinario, nell’organizzazione del lavoro, nelle strutture produttive. Quindi non esiste contraddizione tra le forze produttive collettive generate dal capitalismo e i rapporti di produzione capitalisti, contraddizione che secondo il marxismo è la contraddizione fondamentale del capitalismo, che ne determinerà inevitabilmente la fine.

La borghesia imperialista è in grado di governare le contraddizioni della società borghese e di integrare in essa la classe operaia. Quindi il capitale elabora un suo piano (il piano del capitale) in base al quale dirige la società intera.

Il capitalismo è un modo di produzione distruttivo e pervertitore; la sua sostituzione con il comunismo è auspicabile e moralmente necessaria, ma non è un processo storico oggettivo e inevitabile che fa inevitabilmente sorgere nella società le forze che lo attuano.

Promotori della lotta per sostituire il comunismo al capitalismo sono gli intellettuali critici e in generale tutti quelli che sono in grado di comprendere il carattere negativo del capitalismo (i critici del capitalismo).

I più noti esponenti della Scuola di Francoforte sono stati T. W. Adorno (1903-1969), M. Horkheimer (1895-1973), H. Marcuse (1898-1979), F. Pollock (1894-1970). Essa ha raggiunto una grande influenza nel mondo universitario europeo e americano nel periodo del “capitalismo dal volto umano” (1945-1975) e, assieme al revisionismo moderno, ha contribuito a rendere difficile la vita del movimento comunista nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale. Come il revisionismo moderno, la Scuola di Francoforte nega che il capitalismo produce inevitabilmente crisi e guerre, nega il ruolo rivoluzionario della classe operaia, nega che il bilancio del movimento comunista è principalmente positivo. La Scuola di Francoforte ha sempre preteso di essere marxista e i suoi esponenti di essere continuatori critici del marxismo.

 

76. (pagg. 103, 104, 139, 144, 179, 243)

Con l’espressione “disuguaglianze aventi carattere di classe” si indicano quelle disuguaglianze e contraddizioni (ogni disuguaglianza in determinate condizioni dà luogo a una contraddizione) che, pur non essendo direttamente disuguaglianze tra classi distinte, sono legate alla divisione della società in classi: o perché derivano dai contrasti di classe esistenti nella società e dall’ordinamento sociale classista di essa, o perché la loro eliminazione è impedita od ostacolata dal carattere classista della società, o perché il loro trattamento è fortemente influenzato o addirittura determinato dal carattere classista della società. Tali sono ad esempio nella società borghese le disuguaglianze tra uomini e donne, tra adulti e giovani, tra adulti e anziani, tra le razze, tra le nazioni e paesi a diverso grado di sviluppo economico, intellettuale o morale, tra città e campagna. Carattere di classe nello stesso senso hanno anche fenomeni come l’abbandono delle campagne, il saccheggio delle risorse naturali, la devastazione del pianeta, ecc. In questi ultimi casi si tratta di fenomeni che sono effetti collaterali dell’ordinamento sociale borghese della società. I primi invece sono eredità di un passato in cui ebbero la loro ragion d’essere e che sopravvivono alla scomparsa di essa perché la borghesia oramai non è più in condizioni di porvi fine. Ognuno di essi potrà essere eliminato tramite un intervento specifico, ma solo a partire dal cambiamento dell’ordinamento sociale.

In proposito vedere anche il cap. V – Obiezione 7 di questo MP.

 

77. (pag. 104)

Il movimento di resistenza delle masse popolari al procedere della crisi della società borghese e i compiti delle Forze Soggettive della Rivoluzione Socialista, in Rapporti Sociali n. 12/13 (1992).

 

78. (pag. 107)

Alcuni, in campo borghese ma anche nel movimento comunista, hanno dato e danno una spiegazione razziale, geografica, climatica e comunque “naturale” dell’arretratezza e della “anomalia” del nostro paese rispetto agli altri paesi capitalisti europei. Queste spiegazioni, varie e apparentemente scientifiche, di un fatto reale, sono tutte disfattiste rispetto al movimento comunista che propone alle masse popolari di mettere fine alle piaghe storiche del nostro paese. Esse sono prive di ogni fondamento scientifico. Esse sono smentite dal ruolo universale di avanguardia che per la seconda volta nella sua storia il nostro paese ha avuto nel Rinascimento e dalla spiegazione scientifica dei fattori sociali della sua successiva decadenza.

 

 79. (pag. 107)

Plinio M., Il futuro del Vaticano (2006), in La Voce n. 23.

 

80. (pag. 108)

Il Papa e la sua corte non concepivano se stessi come responsabili delle condizioni del paese che governavano e della sorte della popolazione che lo abitava. Al contrario concepivano lo Stato Pontificio solo come condizione necessaria e strumento per esercitare la loro “missione divina in terra” e la sua popolazione come sudditi tenuti a fornire le risorse necessarie alla magnificenza della Chiesa e a vivere in modo da creare le condizioni più propizie alla sua “missione divina in terra”. Motivo per cui lo Stato Pontificio era nel secolo XIX il più arretrato della penisola e la ribellione contro il Papa e il suo governo cresceva a vista d’occhio.

 

81. (pag. 109)

Il signore feudale sfruttava economicamente i contadini, ma nel suo feudo era anche l’autorità politica. Di essa egli rispondeva al suo signore e a Dio. Egli era investito dal suo signore e, tramite questo, da Dio. L’agrario borghese che ne prese il posto non pretendeva di avere alcuna investitura divina, se non quella del “diritto naturale” a usare la proprietà che aveva acquistato col suo denaro, anche se questa comportava ancora la servitù e la dipendenza personale dei contadini. L’autorità divina poteva quindi essere assunta per intero dal clero.

 

82. (pagg. 109, 114)

La borghesia tipicamente usa la ricchezza che estorce ai lavoratori e concentra nelle sue mani, non principalmente per il suo consumo e lusso come facevano le classi sfruttatrici che l’hanno preceduta, ma principalmente per aumentare ulteriormente la ricchezza che i lavoratori produrranno. Nel linguaggio borghese ciò si chiama valorizzare il capitale. Le classi dominanti fissate dalla Controriforma invece usavano la ricchezza che estorcevano ai lavoratori per il loro consumo, per il loro lusso, per affermare il loro prestigio sociale, per mantenere il loro potere. Questo s’intende quando si parla di parassitismo. La Chiesa e la corte pontificia erano l’incarnazione più piena e soddisfatta del parassitismo: tutta la ricchezza estorta ai lavoratori era incamerata “per la gloria di Dio e dei suoi servi”.

 

83. (pag. 110)

“La storia di ogni società finora esistita è storia di lotte tra classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta”.

K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista (1848), cap. 1, in Opere complete vol. 6.

 

84. (pag. 113)

“Per comprendere la natura del rapporto tra la mafia siciliana (e organismi affini) e lo Stato centrale, bisogna pensare alla relazione che si instaurò nelle colonie tra le forze armate dei signori locali e le potenze dominanti, a quello tra le forze armate della Repubblica Sociale Italiana (Repubblica di Salò) e la Germania nazista. È un rapporto in cui la potenza dominante delega alla forza locale determinati compiti, la forza locale cerca di allargare la sua attività, la potenza dominante fa valere i suoi diritti: insomma la divisione dei compiti, un rapporto di complementarità che non esclude contrasti e frizioni.”

Cenni sulla questione della mafia, in Rapporti Sociali n. 28 (2001).

 

85. (pag. 114)

Dal 1860 al 1880 il nuovo Stato dovette condurre una vera e propria guerra nell’Italia meridionale contro le bande di contadini insorti. La storia ufficiale ha chiamato “guerra al brigantaggio” quella guerra, come la pubblicistica borghese oggi chiama “guerra al terrorismo” la guerra che la borghesia imperialista conduce contro la rivoluzione democratica dei popoli arabi e musulmani. Le forze armate dello Stato ebbero più caduti nella guerra contro i contadini che nelle tre guerre di indipendenza. I caduti di parte contadini non vennero mai recensiti.

Per maggiori informazioni, vedere

Adriana Chiaia, Il proletariato non si è pentito (1984), Edizioni Rapporti Sociali

Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione, Edizioni Oriente e Savelli.

Il Papa e altre case regnanti spossessate continuarono per anni ad agitare la minaccia di mettersi alla testa di rivolte contadine, come avevano fatto i Borboni nel 1799 contro la Repubblica Partenopea. In realtà erano minacce campate in aria, come quella che lo Zar agitava contro i nobili polacchi o quella che l’Imperatore d’Austria aveva agitato contro gli aristocratici lombardi: avevano più da perdere che da guadagnare da una sollevazione di contadini. Agitare la minaccia era invece utile per ricattare chi era disposto a mercanteggiare.

 

86. (pag. 114)

 Fino all’avvento del modo di produzione capitalista la terra era stata la condizione materiale principale dell’esistenza: da essa e dai suoi frutti naturali i lavoratori traevano quanto necessario alla produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza per tutta la società. Anche per i signori feudali e per i proprietari agrari borghesi semifeudali un numero abbondante di lavoratori era la condizione necessaria di un prodotto abbondante. Per il capitalista agrario invece la terra, in proprietà o in affitto, è un capitale. Questo deve dare un profitto almeno eguale a quello di ogni altro capitale di pari entità. Il contadino si trasforma in manodopera salariata. A parità di altre condizioni, minore è il numero di lavoratori necessari, maggiore è il profitto.

 

87. (pag. 115)

La quarta delle Tesi di Lione, approvate dal terzo congresso del vecchio PCI (gennaio 1926) e redatte sotto la direzione di A. Gramsci, afferma: “Il capitalismo è l’elemento predominante nella società italiana e la forza che prevale nel determinare lo sviluppo di essa. Da questo dato fondamentale deriva la conseguenza che non esiste in Italia possibilità di una rivoluzione che non sia la rivoluzione socialista”. I revisionisti guidati da Togliatti (1893-1964) misero nel cassetto questa tesi durante e dopo la Resistenza. Non a caso i sostenitori del “completamento della rivoluzione borghese” hanno sistematicamente dimenticato di porre all’ordine del giorno la misura principale dell’effettivo completamento della rivoluzione borghese che restava da fare in Italia: l’abolizione del Papato.

 

88. (pag. 116)

“I rapporti tra industria e agricoltura ... hanno in Italia una base territoriale. Nel Nord prevalgono la produzione e la popolazione industriale, nel Sud e nelle isole la produzione e la popolazione agricola. In conseguenza di ciò, tutti i contrasti inerenti alla struttura sociale del paese contengono in sé un elemento che tocca l’unità dello Stato e la mette in pericolo”.

Tesi di Lione (1926), cap. 4, tesi 8.

 

89. (pag. 117)

La mancanza di una riforma intellettuale e morale fu lamentata da vari esponenti della borghesia italiana, da Francesco De Sanctis (1817-1883), a Giosuè Carducci (1835-1907) fino a Benedetto Croce (1866-1952). Testimoni di tentativi idealisti di attuare una simile riforma sono le celebri opere Pinocchio di Collodi (Carlo Lorenzini 1826-1890) e Cuore di Edmondo De Amicis (1846-1908).

 

90. (pag. 117)

Altamente istruttive della indifferenza di G. Mazzini (1805-1872) ai problemi della rivoluzione agraria sono le sue lettere alle Società Operaie Italiane. Vedere di contro la critica della posizione di Mazzini fatta da K. Marx nella sua lettera a F. Engels del 13 settembre 1851 e in quella a J. Weydemeyer dell’11 settembre 1851.

 

91. (pag. 119)

Una delle differenze importanti tra lo sfruttamento capitalista dei lavoratori e le forme precedenti di sfruttamento, consiste nel fatto che il capitalista interviene direttamente nell’organizzare e dirigere il lavoro. Egli quindi porta nella scelta e nella messa a punto dei mezzi di produzione, nell’organizzazione dell’attività lavorativa, nella progettazione dei prodotti e in tutta l’attività che circonda la produzione intesa in senso stretto, tutto il patrimonio sociale di conoscenze e di arti di cui dispone la classe dominante. L’intellettuale tipico e specifico del capitalismo è l’organizzatore della produzione, intesa in senso lato. Una classe dirigente parassitaria invece si limita ad estorcere alle classi produttive “il pizzo”, quale che sia il nome che viene dato alla parte di cui si appropria. Ovviamente diventa però essenziale capire perché la borghesia produttiva italiana ha accettato e accetta di pagare “il pizzo” a quelle classi parassitarie, e in particolare alla Chiesa. Essa accetta di condividere il frutto dello sfruttamento, perché le classi parassitarie danno un contributo a tener buoni i lavoratori, cosa che le è essenziale e che è incapace di fare da sola. Le vecchie forme parassitarie di sfruttamento si confondono poi oggi con le forme più moderne di sfruttamento: anche la borghesia tipica dell’epoca imperialista riscuote cedole sulle sue azioni e sui suoi titoli, senza intervenire direttamente nel processo lavorativo.

 

92. (pag. 120)

E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne 1860-1900, ed. Einaudi 1968.

 

93. (pag. 121)

In questo contesto “certo” sta a indicare che i confini dei poteri dell’uno e dell’altro erano e sono mobili e fluidi, e oggetto di controversie. Vedere in proposito anche la nota 84.

 

94. (pag. 122)

La legge delle Guarentigie (1871) prevedeva che lo Stato avrebbe smesso di versare annualmente la somma sull’apposito conto bancario aperto a disposizione insindacabile del Papa se questi entro 5 anni dall’approvazione della  legge non avesse incominciato a ritirare quanto versato. Il Papa si guardò bene dall’attingere al fondo: avrebbe significato il riconoscimento del nuovo Stato e della fine dello Stato Pontificio di fronte agli altri Stati europei, in particolare di fronte all’Impero Austro-Ungarico con cui intrigava contro l’Unità d’Italia e ricattava lo Stato Italiano. Lo Stato Italiano, nonostante questo, continuò a versare annualmente la somma fino a tutto il 1928. Alla luce di questi fatti è ancora più indicativo dei reali rapporti il fatto che lo stesso Stato tollerò ogni licenza, speculazione e reato in campo immobiliare e finanziario da parte della Chiesa e della “aristocrazia nera” romana e tolse così esso stesso ogni necessità per il Vaticano di accettare il generoso contributo dello Stato italiano. Questi, nello stesso tempo, spellava i contadini e gli altri lavoratori con le imposte ... anche per accantonare i 50 milioni di cui il Vaticano non sapeva che farsene grazie alle speculazioni finanziarie e immobiliari che lo stesso Stato tollerava e favoriva!

 

95. (pag. 125)

Il “non expedit” è la formula con cui Pio IX vietò ai cattolici di collaborare ufficialmente con il nuovo Stato. Ma anche questa “non partecipazione dei cattolici” va intesa nel senso che la classe dirigente, dal governo all’alta burocrazia, era composta per la grande maggioranza di persone devote al Vaticano fino al servilismo, ma partecipavano “a titolo personale”: il Vaticano chiedeva a loro e otteneva servizi d’ogni genere, ma non assumeva alcuna responsabilità per le direttive che impartiva in cucina. Insomma un esempio di doppia morale dei più vistosi. Nelle amministrazioni comunali, dove controllare le cose in cucina e manovrare tutti in modo occulto era meno facile (donde la comune ostilità alle “autonomie locali” dello Stato borghese e del Vaticano), il Vaticano non esitò a far creare coalizioni di cattolici, come la Unione Romana per le elezioni amministrative creata già nel novembre 1871.

 

96. (pag. 132)

Per un lungo periodo dopo l’unificazione della penisola, i movimenti delle masse contadine, sebbene per il loro contenuto sociale fossero democratici e progressisti (gli obiettivi erano il possesso della terra e l’eliminazione delle residue angherie feudali), erano stati diretti da forze reazionarie antiunitarie. Cosa che oggi rende facile a noi comunisti italiani capire come la rivoluzione democratica dei popoli arabi e musulmani e di altri popoli coloniali possa essere diretta da forze per loro natura feudali.

I movimenti del 1893-1898 (dai Fasci Siciliani alla rivolta di Milano) furono invece movimenti operai-contadini. Le residue forze feudali erano ridotte, come la borghesia, sulla difensiva e si allearono con la borghesia: la crisi del 1893-1898 segna la fine di fatto dell’armistizio tra il Regno d’Italia e la Chiesa Cattolica, la fine di fatto del non expedit e l’inizio della loro collaborazione programmatica e sistematica contro il movimento comunista.

La crisi del 1943-1947 costituisce una fase ancora superiore rispetto alle precedenti. L’unità operai-contadini non è più solo una unità nei fatti e negli ideali. È anche assunta, promossa e diretta dal movimento comunista cosciente e organizzato, il primo PCI. Questo non fu all’altezza del suo compito, non seppe guidare le masse popolari alla vittoria, all’instaurazione di un paese socialista. Ma quello che riuscì a fare, lo fece tenendo ferma l’unità operai-contadini.

A proposito del rapporto tra il movimento comunista cosciente e organizzato e i movimenti contadini, vedere Gramsci, Note sulla questione meridionale, reperibile sul sito Internet del (n)PCI, sezione Classici del movimento comunista.

 

97. (pag. 132)

Riferimenti: Gramsci, Rapporto della sezione torinese del PSI (1920), reperibile sul sito Internet del (n)PCI, sezione Classici del movimento comunista.

Il Biennio Rosso mostra come in un paese imperialista si possano creare condizioni (condizioni diverse ma altrettanto adeguate si sono presentate in altri paesi e anche in Italia, in particolare nel 1943 e negli anni ’70) per il passaggio dalla prima alla seconda fase della guerra popolare rivoluzionaria e in particolare come si possano creare le condizioni adeguate alla creazione delle forze armate rivoluzionarie, facendo leva sia sulla disponibilità degli operai e di altri elementi delle masse popolare a combattere sia sulle oscillazioni che si manifestano nelle forze armate della reazione e che rendono possibile il passaggio di una parte di esse alla rivoluzione o almeno la loro neutralizzazione. Da questo punto di vista il Biennio Rosso è una fonte di insegnamenti di inestimabile valore, in particolare a proposito della qualità dell’accumulazione di forze rivoluzionarie da compiere nella prima fase della guerra popolare. A causa della qualità inadeguata dell’accumulazione delle forze rivoluzionarie che l’aveva preceduto, il Biennio Rosso ebbe nella storia del movimento comunista italiano il ruolo positivo di mostrare i limiti del riformismo e di dare impulso alla creazione del PCI.

 

98. (pag. 133)

Con la lotta politica rivoluzionaria la classe operaia assurge a un altro livello rispetto a quello a cui si trova con la lotta rivendicativa. Questa resta nell’orizzonte della società borghese e della sua economia mercantile. Tramite la sua avanguardia rivoluzionaria, il suo partito comunista, con la lotta politica rivoluzionaria la classe operaia compie un salto di qualità che gli economicismi e gli spontaneisti non comprendono. Questo salto di qualità implica un livello superiore di coscienza e di organizzazione, il partito comunista conforme agli insegnamenti del leninismo. Grazie ad esso la  classe operaia assume la direzione di tutte le masse popolari e, grazie a una concezione superiore del mondo e a un metodo di lavoro superiore, le dirige a condurre con successo la guerra popolare rivoluzionaria contro la borghesia imperialista fino all’instaurazione del socialismo.

 

99. (pag. 134)

Antonio Gramsci (1891-1937) è l’unico dirigente del movimento comunista italiano che ha studiato sistematicamente e a fondo, da un punto di vista comunista, materialista-dialettico, marxista-leninista, rivoluzionario la strategia della rivoluzione socialista nel nostro paese. È sulla sua opera (e non sulla deformazione togliattiana di essa) che noi dobbiamo innestare ciò che nella nostra strategia è specifico per l’Italia. La sua opera è esposta in La costruzione del Partito Comunista (1923-1926), Einaudi 1971 e Quaderni dal carcere, Einaudi 1971 e 2001. Queste opere vanno però studiate con l’occhio agli eventi e ai problemi del movimento comunista italiano e internazionale dell’epoca, individuando per ogni riflessione la questione del movimento comunista che l’autore affronta. Non vanno studiate come trattati di “teoria generale”, cosa indegna di un marxista perché “la verità è sempre concreta”. In particolare, i Quaderni, a causa della censura carceraria, sono scritti senza riferimenti espliciti alle questioni concrete che danno luogo alle riflessioni. Leggendoli senza tener conto di questo, è facile trasformare i Quaderni in un manuale idealista, metafisico.

 

100. (pag. 134)

CARC, Il punto più alto raggiunto finora nel nostro paese dalla classe operaia nella sua lotta per il potere (1995), Edizioni Rapporti Sociali.

 

101. (pag. 134)

“La trasformazione dei partiti comunisti, nei quali si raccoglie l’avanguardia della classe operaia, in partiti bolscevichi, si può considerare, nel momento presente, come il compito fondamentale dell’Internazionale Comunista”.

Tesi di Lione (1926), cap. 4, tesi 1.

 

102. (pag. 135)

“Nonostante le origini da una lotta contro degenerazioni di destra e centriste del movimento operaio, il pericolo di deviazioni di destra è presente nel Partito comunista d’Italia. ... Il pericolo che si crei una tendenza di destra è collegato con la situazione generale del paese. La compressione stessa che il fascismo esercita tende ad alimentare l’opinione che, essendo il proletariato nell’impossibilità di rapidamente rovesciare il regime, sia miglior tattica quella che porti, se non a un blocco borghese-proletario per l’eliminazione costituzionale del fascismo, a una passività dell’avanguardia rivoluzionaria, a un non-intervento del partito comunista nella lotta politica immediata, onde permettere alla borghesia di servirsi del proletariato come massa di manovra elettorale contro il fascismo. Questo programma si presenta con la formula che il partito comunista deve essere “l’ala sinistra” di un’opposizione composta da tutte le forze che cospirano all’abbattimento del regime fascista. Esso è espressione di un profondo pessimismo circa le capacità rivoluzionarie della classe lavoratrice”.

Tesi di Lione (1926), cap. 4, tesi 26.

 


103. (pagg. 135, 137, 217)

Pietro Secchia e due importanti lezioni, in La Voce n. 26.

 

104. (pagg. 140, 174)

Su questo argomento vedere A proposito dell’esperienza storica della dittatura del proletariato (1956), in Opere di Mao Tse-tung vol. 13: “Ad esempio, Stalin formulò il giudizio secondo cui in diversi periodi rivoluzionari lo sforzo principale doveva essere diretto a isolare le forze sociali e politiche intermedie di quel periodo. Noi dobbiamo esaminare questa teoria di Stalin adeguandoci alle circostanze da un punto di vista critico marxista. In taluni casi può essere giusto isolare tali forze, ma non è sempre giusto isolarle in ogni circostanza. Basandoci sulla nostra esperienza, lo sforzo maggiore deve essere diretto, durante la rivoluzione, contro il nemico principale per isolarlo. Nei confronti delle forze intermedie noi dobbiamo adottare sia la politica di unirci a loro, sia quella di combatterle, o per lo meno di neutralizzarle, sforzandoci, quando le circostanze lo permettono, di farle passare da una posizione neutrale a una posizione di alleanza con noi, in modo da poter aiutare lo sviluppo della rivoluzione.

Ma c’è stato un periodo (i dieci anni della seconda Guerra civile rivoluzionaria fra il 1927 e il 1936) durante il quale alcuni dei nostri compagni hanno rigidamente applicato questa formula di Stalin alla rivoluzione cinese dirigendo l’offensiva principale contro le forze intermedie, considerandole come il nostro nemico più pericoloso. Il risultato è stato che invece di isolare il vero nemico, noi isolavamo noi stessi e subivamo delle forti perdite, mentre il nemico ne traeva vantaggio. Avendo di mira questo errore dogmatico, per poter sconfiggere gli aggressori giapponesi il Comitato centrale del Partito comunista cinese, durante gli anni della Guerra di resistenza contro il Giappone, sostenne il principio di “sviluppare le forze progressive, guadagnare le forze intermedie e isolare le forze dure a morire”. Le forze  progressive cui ci si riferiva erano le forze degli operai, dei contadini e degli intellettuali rivoluzionari guidate o influenzabili dal Partito comunista cinese. Le forze intermedie erano la borghesia nazionale, tutti i partiti democratici e i senza partito. Le forze dure a morire erano le forze dei compradores e le forze feudali capeggiate da Chiang Kai-shek, che attuavano una resistenza passiva all’aggressione giapponese e di opposizione ai comunisti. L’esperienza nata dalla pratica ha dimostrato che questa politica sostenuta dal Partito comunista cinese si adattava bene alle circostanze della rivoluzione cinese ed era corretta. La realtà è che il dogmatismo è sempre apprezzato soltanto dalle persone pigre. Ben lungi dall’essere di qualche utilità, il dogmatismo reca un danno incalcolabile alla rivoluzione, al popolo e al marxismo-leninismo. Per poter elevare la coscienza delle masse popolari, stimolare il loro dinamico spirito creativo e realizzare il rapido sviluppo del lavoro pratico e teorico, è ancora necessario distruggere la superstiziosa fiducia nel dogmatismo.”

Va ricordato tuttavia ricordato che nella sua opera di direzione del movimento comunista Stalin stesso andò varie volte contro la sua tesi sbagliata. Nel corso della prima ondata della rivoluzione proletaria, il movimento comunista nella pratica utilizzò in più fasi e occasioni i riformisti e la sinistra borghese a favore del movimento comunista: basti pensare alla linea del Fronte popolare antifascista (1935). La mancanza di un consapevole orientamento generale giusto produsse tuttavia incertezze e sbandamenti nell’applicazione: unità senza lotta e lotta senza unità.

 

105. (pag. 140)

Da una parte la classe operaia italiana è essa stessa fortemente indebolita sul piano dell’organizzazione e dell’iniziativa politica, sindacale e culturale. La coesione della società è ancora in forte regressione. Dall’altra tra i lavoratori stranieri che arrivano in Italia il prestigio del movimento comunista è basso. In particolare in quelli che arrivano dai paesi arabi e musulmani è alto il prestigio delle forze feudali che al momento dirigono la resistenza antimperialista. Quelli che vengono dagli ex paesi socialisti non hanno ancora digerito l’esperienza traumatica del revisionismo moderno e del collasso a cui esso ha condotto i loro paesi.

 

106. (pag. 145)

“Sebbene a nostro parere l’attuale linea del Partito comunista italiano sulla questione della rivoluzione socialista sia sbagliata, noi non abbiamo mai cercato d’interferire perché, naturalmente, si tratta di una cosa sulla quale solo i compagni italiani devono decidere. Ma ora il compagno Togliatti proclama che questa teoria delle “riforme di struttura” è una “linea comune all’intero movimento comunista internazionale” e dichiara unilateralmente che la transizione pacifica è “diventata un principio di strategia mondiale del movimento operaio e del movimento comunista”. Questa questione coinvolge non solo la fondamentale teoria marxista-leninista della rivoluzione proletaria e della dittatura proletaria, ma anche il problema fondamentale dell’emancipazione del proletariato e del popolo in tutti i paesi capitalisti. Allora, come membri del movimento comunista internazionale e come marxisti-leninisti, noi non possiamo non esprimere le nostre opinioni al riguardo”.

Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi (1962), in Opere di Mao Tse-tung vol. 19.

Ancora sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi (1963), in Opere di Mao Tse-tung vol. 19.

 

107. (pag. 146)

La prima Internazionale Comunista non ha avuto una concezione chiara e giusta della forma che avrebbe assunto in Europa la rivoluzione socialista. I partiti comunisti oscillarono tra diverse deviazioni di destra e di sinistra. Vedere in proposito i riferimenti dati nella nota 57. Essi dettero un’interpretazione di destra (unità senza lotta con la borghesia di sinistra) alla linea del Fronte Popolare lanciata nel 1935 dall’IC.

Mao Tse-tung il 6 novembre 1938, nel discorso al CC pubblicato col titolo Problemi della guerra e della strategia (vol. 7 delle Opere di Mao Tse-tung, Edizioni Rapporti Sociali), riassume così la strategia seguita dai partiti comunisti europei.

“Il compito centrale e la forma suprema della rivoluzione sono la conquista del potere politico con la lotta armata e la soluzione del problema con la guerra. Questo principio rivoluzionario marxista-leninista è valido ovunque, in Cina come in tutti gli altri paesi. Tuttavia, pur rimanendo immutato il principio, i partiti proletari l’applicano in modo diverso a seconda delle differenti condizioni.

Nei paesi capitalisti, a meno che in questi non regni il fascismo e non ci si trovi in un periodo di guerra, le condizioni sono le seguenti: all’interno esiste una democrazia borghese, non il feudalesimo; nei loro rapporti esterni questi paesi non sono oppressi da altre nazioni, ma opprimono altre nazioni.

Date queste caratteristiche, il compito dei partiti proletari nei paesi capitalisti è quello di educare gli operai, di accumulare forze attraverso una lunga lotta legale e di prepararsi così a rovesciare definitivamente il capitalismo. In questi paesi si tratta di condurre una lunga lotta legale, di servirsi della tribuna parlamentare, di ricorrere agli scioperi economici e politici, di organizzare i sindacati e di educare gli operai. Là, le forme di organizzazione sono legali e le forme di lotta non sono sanguinose (non si ricorre alla guerra).

Riguardo al problema della guerra, ogni partito comunista lotta contro ogni guerra imperialista condotta dal proprio paese. Se una tale guerra scoppia, la sua politica mira alla sconfitta del governo reazionario del suo paese. L’unica guerra che esso vuole è la guerra civile per la quale si sta preparando. Ma non bisogna passare all’insurrezione e alla  guerra fino a quando la borghesia non è veramente ridotta all’impotenza, fino a quando la maggioranza del proletariato non è decisa a condurre un’insurrezione armata e una guerra e fino a quando le masse contadine non si offrono di aiutare il proletariato. Quando poi viene il momento dell’insurrezione e della guerra, bisogna occupare prima le città e poi avanzare nelle campagne, e non il contrario”.

Sempre Mao, nel discorso al CC del giorno prima, il 5 novembre 1938, pubblicato col titolo La questione dell’indipendenza e dell’autonomia nel fronte unito nazionale antigiapponese, aveva detto:

““Tutto attraverso il fronte unito” è una parola d’ordine sbagliata. Il Kuomintang, che è il partito al potere, non ha finora permesso al fronte unito di assumere una forma organizzata. Nelle retrovie del nemico, noi possiamo soltanto agire indipendentemente e in modo autonomo attenendoci a quanto ha approvato il Kuomintang (per esempio il “Programma per la guerra di resistenza e la costruzione nazionale”) e non abbiamo la possibilità di attuare “tutto attraverso il fronte unito”. Oppure, dando per scontato la sua approvazione, possiamo prima agire e poi presentare un rapporto. Per esempio, la nomina di commissari amministrativi e l’invio di truppe nello Shantung non sarebbero stati possibili se avessimo tentato di realizzarli “attraverso il fronte unito”. Il Partito comunista francese, a quanto si dice, ha lanciato la stessa parola d’ordine. Forse era necessario che il Partito comunista francese lanciasse questa parola d’ordine per limitare l’azione del Partito socialista francese perché in Francia esisteva già un comitato congiunto dei partiti e il Partito socialista francese non voleva agire in base al programma stabilito in comune ma continuava ad agire per conto suo. Certamente non la lanciò per legarsi mani e piedi. Per quanto riguarda la situazione in Cina, il Kuomintang ha privato della parità di diritti tutti gli altri partiti e tutti gli altri gruppi politici e cerca di costringerli a sottostare ai suoi ordini. Se lanciamo questa parola d’ordine per esigere che il Kuomintang faccia “tutto” “attraverso” la nostra approvazione, ciò non solo è ridicolo ma irrealizzabile. Se, d’altra parte, dobbiamo ottenere in anticipo l’approvazione del Kuomintang per “tutto” ciò che ci accingiamo a fare, come faremo se non c’è l’accordo?”.

 

108. (pag. 147)

Riferimenti:

CARC, F. Engels/10, 100, 1000 CARC per la ricostruzione del partito comunista (1994), Edizioni Rapporti Sociali.

Pippo Assan, Cristoforo Colombo, ossia di come convinti di navigare verso le Indie approdammo in America (1988), Edizioni della vite, Firenze (reperibile sul sito Internet del (n)PCI, sezione Letteratura comunista).


109.
(pag. 160)

“La rivoluzione in Europa non può essere altro che l’esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi e di tutti i malcontenti. Una parte della piccola borghesia e degli operai arretrati vi parteciperanno inevitabilmente – senza una tale partecipazione non è possibile una lotta di massa, non è possibile nessuna rivoluzione – e porteranno nel movimento, non meno inevitabilmente, i loro pregiudizi, le loro fantasticherie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori. Ma oggettivamente essi attaccheranno il capitale e l’avanguardia cosciente della rivoluzione, il proletariato avanzato, esprimendo questa verità oggettiva della lotta di massa varia e disparata, variopinta ed esteriormente frazionata, potrà unificarla e dirigerla, conquistare il potere, prendere le banche, espropriare i trust odiati da tutti (benché per ragioni diverse!) e attuare altre misure dittatoriali che condurranno in fin dei conti all’abbattimento della borghesia e alla vittoria del socialismo, il quale si ‘epurerà’ dalle scorie piccolo-borghesi tutt’altro che di colpo”.

V. I. Lenin, Risultati della discussione sull’autodecisione (1916), in Opere vol. 22.

 

110. (pag. 166)

Riferimenti per l’analisi di classe della società italiana nella rivista Rapporti Sociali:

n. 3 (1989), L’analisi delle classi in cui è divisa la società borghese;

n. 5/6 (1990), Per un’inchiesta collettiva sulle modificazioni nel processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza;

n. 12/13 (1992), Il campo della rivoluzione socialista: classe operaia, proletariato, masse popolari;

n. 14/15 (1994), Per l’analisi di classe;

n. 20 (1998), La composizione di classe della società italiana.

Ai fini dell’analisi di classe della società italiana è importante anche tener ben presenti le 10 grandi trasformazioni indicate nel capitolo 2.1.2. di questo MP.

 

111. (pagg. 167, 245)

“Il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti”. Ciò significa che gli ordinamenti della società sono tali che ogni individuo sviluppando liberamente le sue capacità contribuisce a che tutti gli altri sviluppino anch’essi le proprie capacità. Il comunismo è un sistema sociale tale per cui il libero sviluppo di un individuo determina il libero sviluppo anche degli altri individui e il singolo è libero nella misura in cui tutti lo sono. Per fare qualche esempio: un individuo respira aria tanto più pulita quanto maggiore è la purezza dell’aria che tutti respirano; in una società in cui i beni di consumo sono distribuiti in maniera eguale tra tutti, il singolo aumenta la quantità di beni di consumo di cui dispone nella misura in cui la quantità di cui dispone ogni membro della società diventa maggiore.

Il sistema capitalista invece per sua natura è tale che la libera iniziativa economica del capitalista implica, per potersi esplicare, che vari individui non possano farlo e che si presentino a lui come venditori della loro forza-lavoro. La libertà  del ricco di oziare, implica che altri debbano lavorare per lui. Il capitalista è libero di licenziare e assumere solo se gli operai sono schiavi del bisogno.

I rapporti sociali (l’ordinamento sociale, l’ordinamento della società) sono tali che l’interesse individuale e l’interesse sociale (l’interesse di un individuo e l’interesse di tutti gli altri individui) o coincidono o devono essere fatti coincidere con la costrizione. È ciò a cui si riferiva K. Marx quando diceva che bisogna plasmare umanamente le circostanze “in cui l’individuo vive e da cui è plasmato”. (Vedere la nota 153 e il cap. V – Obiezione 4)

Nella società mercantile e capitalista i principali rapporti sociali sono antagonisti: a un individuo le cose vanno tanto meglio quanto peggio vanno ad altri individui (i concorrenti, il cliente che ha molto bisogno, ecc.). Educare un individuo alla generosità, mentre vive in una società che lo costringe a rapporti antagonisti con altri, è un lavoro di Sisifo. Educare alla generosità un individuo che non è generoso, che proviene (è stato formato) da una società di rapporti antagonisti, dopo che la società ha mutato il proprio ordinamento sociale e ha reso gli interessi degli individui coincidenti, è impresa fruttuosa. Jeremy Bentham (1748-1832) ben intuiva che l’interesse individuale doveva coincidere con l’interesse sociale e, messo di fronte alla realtà dei rapporti sociali borghesi, concludeva con un atto di fede paradossale: il massimo egoismo è il massimo altruismo, grazie alla mano segreta della Divina Provvidenza.

K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista (1848), cap. 2, in Opere complete vol. 6.

 

112. (pag. 168)

Un patrimonio, quale che sia la sua natura, è fruttifero se dà o può effettivamente dare un reddito corrispondente a quello che dà un patrimonio finanziario di eguale valore. Ciò esclude dalla nostra considerazione ad es. la casa “di inestimabile valore” che un individuo possiede per eredità in una data zona, ma che per lui è un bene di consumo e non un patrimonio fruttifero. Nella nostra analisi il patrimonio è importante perché individua le persone che vivono o possono “vivere bene” anche senza lavorare loro, che possono vivere del lavoro altrui, che quindi sono effettivamente libere di decidere cosa fare nella loro vita, non sono costrette a vendere la propria forza-lavoro per vivere.

Si assume grossolanamente che un individuo che ha un reddito annuo netto di 100 mila euro, quale che sia la fonte da cui gli proviene (quindi anche se all’origine ci fosse una sua prestazione personale, come ad es. nel caso di un calciatore, di un professionista, ecc.), possa nel giro di alcuni anni accumulare un patrimonio per cui non è più costretto a svolgere né quella né altra attività per “vivere bene”. D’altra parte un individuo che percepisce un reddito annuo netto di 100 mila euro ha relazioni sociali tali da consentirgli di accumulare un patrimonio mobiliare o immobiliare che lo fa rientrare rapidamente nella borghesia imperialista.

 

113. (pag. 169)

Tra i familiari sono inclusi i minori (circa il 15% della popolazione ha meno di 16 anni), gli studenti, i conviventi che non ricevono un reddito personale dal lavoro che svolgono (es. le casalinghe) o che non ne svolgono alcuno: in Italia secondo fonti ufficiali almeno 3 milioni di persone, oltre i disoccupati ufficiali, vorrebbero svolgere un lavoro. I pensionati sono classificati in base alla classe cui appartenevano quando lavoravano.

 

114. (pag. 169)

Operaio e lavoratore produttivo di plusvalore

Per comprendere cosa i marxisti intendono per operaio o lavoratore produttivo di plusvalore vedere K. Marx, Il capitale, libro 1 cap. 14. Coloro che riducono gli operai ai lavoratori manuali del settore industriale sostituiscono al marxismo una concezione materialista volgare, confortati in questa operazione dal dogmatismo che resta fermo a una identità che cento anni fa era ancora empiricamente grossomodo valida.

 

115. (pag. 170)

I proletari tipici sono genericamente lavoratori che possono vivere solo vendendo la loro forza-lavoro e che svolgono un’attività che può essere svolta da gran parte degli adulti, previo un periodo relativamente breve di addestramento. Essi di conseguenza vendono la loro forza-lavoro in concorrenza con un gran numero di lavoratori. Le qualifiche e i settori di appartenenza dividono i proletari. Ad un estremo vi sono quelli senza alcuna qualifica, semplice manodopera. All’altro estremo vi sono quelli che per l’abilità acquisita o le doti naturali sono difficilmente rimpiazzabili, hanno un quasi monopolio delle prestazioni che compiono. Questi ultimi sconfinano nelle masse popolari non proletarie. Diventano più venditori di servizi che venditori di forza-lavoro.

 

116. (pag. 178)

Marco Martinengo, I primi paesi socialisti (2003), Edizioni Rapporti Sociali.

 

117. (pag. 183)

Sulle caratteristiche del nuovo partito comunista vedere Nicola P., Il nuovo partito comunista (2005), in La Voce n. 19.

 

118. (pag. 183)

 Nicola P., L’ottava discriminante (2002), in La Voce n. 10.

In questo articolo Nicola P. indica i cinque principali apporti di Mao al pensiero comunista:

la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata come forma universale della rivoluzione proletaria,

la rivoluzione di nuova democrazia nei paesi semifeudali,

la lotta di classe nella società socialista e la natura della borghesia nei paesi socialisti,

la linea di massa come metodo principale di lavoro e di direzione del partito comunista,

la lotta tra le due linee nel partito come metodo principale di difesa del partito comunista dall’influenza della borghesia e di sviluppo del partito.

 

119. (pag. 186)

Linea di massa(*)

È il principali metodo di lavoro e di direzione del partito comunista ed è l’applicazione della teoria marxista della conoscenza all’attività politica. Consiste nell’individuare in ogni situazione le tendenze positive e negative esistenti nelle masse e intervenire per sostenere le tendenze positive e combattere le tendenze negative; nell’individuare in ogni situazione la sinistra, il centro e la destra e intervenire per mobilitare e organizzare la sinistra perché unisca a sé il centro e isoli la destra; nel raccogliere le idee sparse e confuse delle masse, elaborarle tramite il materialismo dialettico e la conoscenza del movimento economico della società, ricavarne un’analisi della situazione, tradurla in linee, criteri e misure e portare quindi queste linee, criteri e misure alle masse perché le riconoscano come proprie e le attuino. La teoria della linea di massa è uno dei principali apporti del maoismo al pensiero comunista.

Riferimenti:

Linea di massa e teoria marxista della conoscenza, in Rapporti Sociali n. 11 (1991).

La linea di massa, in Rapporti Sociali n. 12/13 (1992).

Nicola P., L’ottava discriminante (2002), in La Voce n. 10.

Molti scritti di Mao Tse-tung relativi alla linea di massa sono contenuti nei volumi 8 e 9 delle Opere di Mao Tse-tung.

 

120. (pag. 187)

Il movimento di resistenza delle masse popolari al procedere della crisi della società borghese e i compiti delle Forze Soggettive della Rivoluzione Socialista, in Rapporti Sociali n. 12/13 (1992).

 

121. (pag. 189)

“Non affronteremo il mondo in modo dottrinario, con un nuovo principio: qui è la verità, inginocchiatevi! Attraverso gli stessi principi del mondo noi illustreremo al mondo nuovi principi. Non gli diremo: ‘Abbandona la tua lotta, è una sciocchezza; noi ti grideremo la vera parola d’ordine della lotta’. Gli mostreremo soltanto perché effettivamente combatte, poiché la coscienza è una cosa che deve far propria”.

Lettera di K. Marx ad Arnold Ruge (settembre 1843).

 

122. (pag. 193)

La borghesia imperialista ha sottomesso e sta sottomettendo a uno sfruttamento particolarmente intenso la popolazione dei paesi semicoloniali dove la classe operaia ha ancora scarse capacità di organizzarsi e contrastare con la lotta sindacale e politica l’impoverimento crescente dei lavoratori a cui tende il capitalismo. In alcuni paesi semicoloniali il capitalismo fa estinguere la classe operaia, dando salari sistematicamente inferiori al valore della forza-lavoro, cioè a quanto necessario alla sua riproduzione (capitalismo “arraffa e fuggi”): la distruzione della popolazione e delle risorse naturali sono il risultato del “miracolo economico” di vari paesi semicoloniali. In altri paesi la borghesia imperialista elimina direttamente la popolazione per impadronirsi della terra, delle foreste o delle risorse del sottosuolo (Indios dell’Amazzonia, Ogoni in Nigeria, ecc.).

 

123. (pag. 195)

V. I. Lenin, Intorno a una caricatura del marxismo e all’”economicismo imperialista” (1916), in Opere vol. 23.

 

124. (pag. 195)

F. Engels, Introduzione a “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850” (1895), in Opere complete vol. 10.

 

125. (pag. 196)

Riferimenti:

Democrazia e socialismo, in Rapporti Sociali n. 7 (1990).

La situazione rivoluzionaria in sviluppo, in Rapporti Sociali n. 9/10 (1991).

 A proposito della controrivoluzione preventiva vedere il capitolo 1.3. di questo MP.

 

126. (pag. 196)

Le contraddizioni tra Stati imperialisti nel futuro, in Rapporti Sociali n. 4 (1989).

 

127. (pag. 197)

Sulla forma della rivoluzione proletaria (1999), in La Voce n. 1.

 

128. (pag. 197)

La teoria della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata è esposta in vari scritti di Mao Tse-tung. I principali sono:

Problemi strategici della guerra partigiana antigiapponese (maggio 1938), in Opere di Mao Tse-tung vol. 6,

Sulla guerra di lunga durata (maggio 1938), in Opere di Mao Tse-tung vol. 6,

Problemi della guerra e della strategia (novembre 1938), in Opere di Mao Tse-tung vol. 7.

 

129. (pag. 197)

Nicola P., L’ottava discriminante (2002), in La Voce n. 10.

 

130. (pag. 198)

Umberto C., Bisogna distinguere leggi universali e leggi particolari della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata (2004), in La Voce n. 17.

 

131. (pag. 198)

Su questi temi vedere F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza (1882) , Edizioni Rapporti Sociali.

 

132. (pag. 198)

Lenin, Friedrich Engels (1895), in Opere vol. 2.

 

133. (pag. 199)

K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (1850), in Opere complete vol. 10.

 

134. (pag. 199)

K. Marx, La guerra civile in Francia (1871) e F. Engels, Introduzione (1891).

 

135. (pag. 199)

F. Engels, Introduzione a “K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850” (1895), in Opere complete vol. 10.

 

136. (pag. 199)

I revisionisti dell’inizio del secolo (E. Bernstein & C) e i revisionisti moderni (Kruscev, Togliatti, ecc.) hanno cercato ripetutamente di “tirare dalla loro parte” l’Introduzione del 1895 di Engels. “Accumulo graduale delle forze rivoluzionarie all’interno della società borghese? Certo! Ecco i nostri gruppi parlamentari sempre più numerosi, abili, influenti e ascoltati dal governo, i nostri voti in crescita di elezione in elezione, i nostri sindacati cui sono iscritti milioni di lavoratori e che ministri e industriali ascoltano e interpellano con rispetto, le nostre floride cooperative, le nostre buone case editrici, i nostri giornali e periodici ad alta tiratura, le nostre manifestazioni d’ogni genere sempre affollate, le nostre associazioni culturali che raccolgono il fior fiore dell’intelligenza del paese, la nostra vasta rete di contatti e di presenze in posti che contano, il nostro seguito in tutte le categorie. Ecco l’accumulo delle forze rivoluzionarie che ci rende capaci di governare!”. È una grande violenza far dire queste cose a Engels che, pur non avendo visto tutto quello che è successo nel secolo XX, aveva messo in guardia dal farsi illusioni, aveva avvertito che la progressione elettorale del partito socialdemocratico tedesco, segno del progresso del socialismo nella classe operaia tedesca e della sua crescente egemonia sulle masse popolari, non sarebbe continuata all’infinito, aveva avvertito che la borghesia avrebbe “sovvertito la sua stessa legalità” quando questa l’avrebbe messa in difficoltà. Ma il problema principale non è “quello che Engels ha veramente detto”. Il problema principale è che i fatti, la realtà, gli avvenimenti hanno ripetutamente dimostrato che quelle forze accumulate di cui parlano i revisionisti si sono sciolte come neve al sole in ogni scontro acuto e crisi acuta della società che hanno posto all’ordine del giorno la conquista del potere, in ogni caso in cui erano dirette dai revisionisti ed erano le sole o le principali “forze rivoluzionarie” che la classe operaia aveva accumulato (basti richiamare l’Italia del 1919-1920, l’Indonesia del 1966, il Cile del 1973). Esse hanno potuto servire allo scopo solo quando erano le propaggini legali, il braccio legale di un partito e di una classe operaia che veniva altrimenti accumulando le vere e decisive forze rivoluzionarie (basti citare la Russia del 1917).

  

137. (pag. 200)

La rivoluzione russa del 1905 aveva avuto più la forma di un’esplosione popolare non preceduta dall’accumulo delle forze attorno al partito comunista; ma non a caso non aveva portato alla vittoria. Vedere V. I. Lenin, Rapporto sulla rivoluzione del 1905 (1917), in Opere vol. 23.

 

138. (pag. 201)

Tonia N., Bisogna rielaborare le esperienze del passato ed elaborare le esperienze presenti alla luce della teoria della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata (2004), in La Voce n. 18.

 

139. (pag. 207)

Non è un caso che ripetutamente si vedono pacifisti dichiarati diventare nel corso degli avvenimenti fautori della guerra. Clamoroso il caso di G. Sofri che divenne fautore dell’intervento militare degli imperialisti USA ed europei nei Balcani. Le cose procedono nonostante le volontà dei pacifisti e diventano tali che essi o si schierano contro le cause (l’imperialismo) che determina il corso delle cose o si schierano con una delle parti in guerra, giustificando in qualche modo il venir meno del loro pacifismo. Il loro pacifismo non può trasformare il corso delle cose e quindi è il corso delle cose che trasforma il loro pacifismo. Il pacifismo non è una “terza via”. In alcuni è uno stadio transitorio verso lo schieramento nella guerra, per altri è una politica per impedire che le masse popolari prendano le armi contro la borghesia imperialista: predicano il disarmo e la pace alle masse che non hanno armi in modo da lasciare libero il campo d’azione alla borghesia imperialista che è armata fino ai denti e continua ad armarsi. Esponente tipico di questa seconda specie di “pacifismo” è stato Papa Woityla.

 

140. (pag. 207)

Esemplare al riguardo fu la Seconda Guerra Mondiale. Essa fu contemporaneamente guerra tra gruppi imperialisti e guerra tra classe operaia e borghesia imperialista. La contraddizione tra i due aspetti ha caratterizzato la natura, l’andamento e l’esito della Seconda Guerra Mondiale. Tra quelli che non comprendono questa contraddizione o per opportunità politica la negano, alcuni pongono unilateralmente un aspetto (guerra interimperialista), altri l’altro (guerra di classe), gli uni e gli altri facendo a pugni con i fatti e impelagandosi in un intrico di contraddizioni logiche da cui non riescono a uscire.

Su questa contraddizione che caratterizza la Seconda Guerra Mondiale, vedere:

M. Martinengo Il movimento politico degli anni trenta in Europa (1999), in Rapporti Sociali n. 21,

Rosa L., Dieci tesi sulla Seconda Guerra Mondiale e il movimento comunista (2005), in La Voce n. 20,

Umberto C., Un libro e alcune lezioni (2006), in La Voce n. 24.

 

141. (pag. 211)

Questo concetto è ben illustrato in J. V. Stalin, Principi del leninismo (1924).

 

142. (pag. 214)

V. I. Lenin, Partito illegale e lavoro legale (1912), in Opere vol. 18.

 

143. (pag. 214)

Vedere in proposito Gramsci, Rapporto della sezione torinese del PSI (1920), reperibile sul sito Internet del (n)PCI, sezione Classici del movimento comunista.

 

144. (pag. 215)

V. I. Lenin, A proposito dell’opuscolo di Junius (1916), in Opere vol. 22.

 

145. (pag. 219)

Su questo tema vedere:

CARC, F. Engels/10, 100, 1000 CARC per la ricostruzione del partito comunista (1995), Edizioni Rapporti Sociali,

Pippo Assan, Cristoforo Colombo, ossia di come convinti di navigare verso le Indie approdammo in America (1988), Edizioni della vite, Firenze, reperibile sul sito Internet del (n)PCI, sezione Letteratura comunista,

Martin Lutero, ossia la trascrizione in volgare del Comunicato del 20 maggio 1999, supplemento a La Voce n. 3 con presentazione di Umberto Campi, reperibile sul sito Internet del (n)PCI.


146. (pag. 225)

Sul programma della rivoluzione socialista:

K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista (1848), cap. 2, in Opere complete vol. 6.

K. Marx, Per la critica del programma di Gotha (1875).

V. I. Lenin, Sul progetto di rielaborazione del programma (1917), in Opere vol. 24.

  

147. (pag. 225)

Cosa vuol dire mobilitare le masse su un obiettivo?

In generale e a grandi linee significa:

fare inchiesta e studiare il problema (qual è la situazione tra le masse e quali le loro opinioni rispetto a quel problema?);

individuare situazioni favorevoli, condurre esperienze tipo, correggere gli errori e conquistare successi;

individuare la sinistra, il centro e la destra e definire obiettivi, linee e metodi;

mobilitare e organizzare la sinistra (appello, organizzazione, direzione) perché svolga il suo lavoro verso il centro e la destra;

seguire il lavoro, raccogliere esperienze, fare il bilancio e ridefinire sinistra, centro e destra; obiettivi, linee e metodi.

 

148. (pag. 226)

Marco Martinengo, I primi paesi socialisti (2003), Edizione Rapporti Sociali.

 

149. (pag. 226)

“La socialdemocrazia non ha né può avere una sola parola d’ordine ‘negativa’, che serva soltanto ad ‘acuire la coscienza del proletariato contro l’imperialismo’, senza fornire in pari tempo una risposta positiva sul modo come la socialdemocrazia risolverà il problema in causa, una volta che sia andata al potere. Una parola d’ordine ‘negativa’, non legata a una precisa soluzione positiva, non ‘acuisce’, ma ottunde la coscienza perché è una parola vuota, un puro grido, una declamazione senza contenuto”.

V. I. Lenin, Intorno a una caricatura del marxismo e all’”economicismo imperialista” (1916), in Opere vol. 23.

Riferimenti:

Gramsci, Critica sterile negativa (1925), reperibile sul sito internet del (n)PCI http://lavoce-npci.samizdat.net, sezione Classici del marxismo.

Su questo tema vedere anche

Un programma minimo?Le Dieci Misure Immediate (2000), in La Voce n. 5

Marco Martinengo e Elvira Mensi, Un futuro possibile (2006), Edizioni Rapporti Sociali.

 

 

150. (pag. 232)

F. Engels, La questione delle abitazioni (1872-1887).

 

151. (pag. 238)

“[Occorre] poi delineare la tendenza fondamentale del capitalismo: ... aumento della miseria, dell’oppressione, dell’asservimento, dell’abbrutimento, dello sfruttamento. ... In questi ultimi tempi i critici che si raggruppano attorno a Bernstein si sono scagliati con particolare accanimento proprio contro questo punto, ripetendo le vecchie obiezioni dei liberali e dei socialpolitici borghesi contro la “teoria dell’immiserimento” [enunciata da Marx]. A nostro parere, la polemica svoltasi a questo proposito ha dimostrato in pieno la totale inconsistenza di simile “critica”. Lo stesso Bernstein ha riconosciuto la giustezza di quelle parole di Marx in quanto definiscono una tendenza del capitalismo, tendenza che si tramuta in realtà quando manchi la lotta di classe del proletariato contro di essa, quando la classe operaia non si sia conquistata leggi sulla tutela degli operai”.

V. I. Lenin, Progetto di programma del nostro partito (1899), in Opere vol. 4.

 

152. (pag. 239)

Riferimenti:

CARC, Sul maoismo, terza tappa del pensiero comunista (1993), Edizioni Rapporti Sociali.

Nicola P., L’ottava discriminante (2002), in La Voce n. 10.

 

153. (pag. 240)

K. Marx – F. Engels, La sacra famiglia (1844), cap. 6 parte 3 sezione f, in Opere complete vol. 4.