Cenni sulla questione della mafia

Rapporti Sociali n. 28 - luglio 2001 (versione Open Office / versione MSWord)

 

Commento ad un articolo di Resistenza n°11-12, novembre-dicembre 2000 sulla lotta degli autotrasportatori siciliani

 

L’articolo ha il pregio di presentare ai lettori un caso concreto di lotta dei lavoratori autonomi considerato alla luce della nostra concezione del mondo e della situazione attuale, cioè alla luce di una concezione materialista dialettica.

La cosa è molto importante. La borghesia imperialista e il suo governo colpiscono e continueranno a colpire sempre più profondamente e in vario modo una gran parte dei circa 6 milioni di lavoratori autonomi, cercheranno di eliminare intere categorie di essi perché “obsolete” nel senso che la borghesia imperialista vuole assorbire le loro attività in quelle dei suoi monopoli (es. bottegai, benzinai), romperanno i monopoli di cui alcuni dei lavoratori autonomi godono per legge (es. professionisti degli albi e degli ordini) per instaurare al suo posto il monopolio di fatto fondato sul capitale. Faranno ciò in nome della “lotta contro i privilegi e i monopoli”, approfondendo in seno a queste categorie la divisione in due classi distinte. Aumenteranno il grado di proletarizzazione di tutte le categorie (dipendenza dalla borghesia imperialista per prestiti, acquisti e smercio). La linea della classe operaia e del suo partito verso lavoratori autonomi è già chiaramente indicata nel nostro manifesto - programma e negli articoli comparsi su Resistenza nn. 1- 5 del 2000. Quindi l’articolo si inserisce bene a pieno titolo in tutta la nostra attività.

Bisogna però essere più coerenti con la nostra concezione e più audaci nel rigettare la concezione della borghesia.

1. Che la lotta degli autotrasportatori abbia “messo in ginocchio un’intera regione” è una frase ad effetto presa dalla pubblicistica borghese. Ma è un’affermazione falsa e banale. Falsa perché ad esempio non ha messo in ginocchio gli autotrasportatori, né quelli che hanno cercato di utilizzare la loro lotta. Se ha conseguito dei risultati, ha migliorato le condizioni di un’altra parte della popolazione. Banale perché ogni lotta comporta anche dei sacrifici. Gli avversari di una lotta, cercano di mettere in rilievo solo o principalmente i disagi e gli effetti negativi (in una guerra parleranno solo dei morti che non ci sono più, dei monumenti distrutti e dei beni rovinati). I partigiani e i sostenitori della stessa lotta devono mettere in luce principalmente i vantaggi ottenuti, l’eroismo dei combattenti, la maggiore coscienza dei combattenti sopravvissuti, la maggiore forza sociale acquistata dalla parte che ha vinto. Certo, l’autore dell’articolo usa l’espressione criticata per indicare la forza che i lavoratori autonomi hanno mostrato di avere. Ma bisogna esprimere ciò all’incirca così: “Gli autotrasportatori hanno confermato la forza che i lavoratori autonomi hanno quando sono organizzati, quando non si lasciano legare le mani dai partiti di governo, quando sfruttano le contraddizioni tra i partiti e i gruppi della borghesia imperialista. Per questo il governo non ha osato mobilitare su grande scala le forze di polizia contro di loro. La forza messa in luce dall’agitazione degli autotrasportatori si moltiplicherà per cento quando le lotte dei lavoratori autonomi si salderanno a quelle dei lavoratori dipendenti e in particolare a quelle della classe operaia”. Si dice la stessa cosa, ma in modo più ricco, parlando di classi invece che di entità (regione) interclassiste in realtà divise in parti contrapposte da interessi antagonisti: un modo che fa intravedere altre ulteriori possibilità di sviluppo. Oltretutto in questo periodo la borghesia imperialista criminalizza i lavoratori dipendenti (pensate ai dipendenti dei trasporti in sciopero), ma non osa fare altrettanto con i lavoratori autonomi. Proprio a causa delle divisioni che vi sono al suo interno e delle prove di mobilitazione reazionaria: è un problema di alleanze di classe che è in gioco. Quindi noi dobbiamo parlare di classi e di interessi di classe. Fare una politica di classe, compagni!

2. L’autore dell’articolo confonde la storia reale della Sicilia con l’immagine che la borghesia imperialista dà della Sicilia per giustificare la miseria materiale e spirituale delle masse, l’arretratezza delle forme del suo potere in Sicilia, la criminalità e la speculazione che regolano la vita economica capitalista della regione (in realtà dell’intero paese e di tutto il mondo capitalista). Egli parla di “tradizione della regione Sicilia, da sempre terra dominata dalla chiesa e dalla mafia, dove il clientelismo è diventato, più che in altre parti d’Italia, norma delle relazioni tra le classi”. La reale storia  della Sicilia è invece la storia di una accanita lotta tra classi sociali. In Sicilia vivono più di 5 milioni di abitanti: pensare che in Sicilia esistano solo mafia e clientele è fuorviante. Attenzione che gran parte della letteratura e degli spettacoli viene dall’ambiente di quella borghesia che, una volta arricchitasi, vuole godersi in pace le sue ricchezze o che vuole e può fare soldi senza rischiare la pelle. I membri siciliani di questo ambiente subiscono la mafia e invidiano i loro omologhi delle altre regioni che non subiscono (in realtà: non subivano) gli effetti dell’economia criminale e del connubio tra organizzazioni criminali, pubblica amministrazione e politica. In essi si combinano il malcontento di fronte all’esistenza della vecchia mafia specificamente siciliana con il malcontento di fronte al dilagante carattere criminale dell’economia capitalista nazionale e internazionale. Questi ambienti trasmettono un’immagine deformata della mafia, che ne amplifica la presenza e la forza. Uno che fa l’avocato o apre un bar a Palermo deve pagare il suo tributo alla mafia, uno che fa lo stesso a Brescia probabilmente non deve (o non doveva) pagarlo. Ma per la massa della popolazione le differenze sono meno forti.

Spontaneamente il mondo della cultura, in particolare della cultura di sinistra, amplifica la forza della mafia e terrorizza la popolazione. Un chiaro indizio del fatto che il compagno autore dell’articolo non ha una sua visione della situazione autonoma da quella della borghesia e dai luoghi comuni, è quel “è diventato”; come a dire che il clientelismo, la dipendenza della massa della popolazione dalla classe dominante è ora più forte o ha ora un carattere più personale (clientelismo significa dipendenza personale e in questo si distingue dalla generica dipendenza di ogni salariato dai capitalisti) che nel passato. Cosa chiaramente non vera. La dipendenza ora è più basata su rapporti economici e sulla violenza e meno velata da rapporti patriarcali e paternalistici (cioè clientelari) che nel passato.

La borghesia italiana e i revisionisti italiani hanno sistematicamente giustificato e “spiegato” quello che succedeva in Sicilia come la conseguenza di un destino “atavico”, di caratteristiche la cui origine si perde nella notte dei tempi (“da sempre”) o di caratteri razziali dei siciliani. Tutto ciò è falso e la falsità di queste spiegazioni è chiaramente mostrata dalla storia.

La storia moderna del nostro paese (considerato nel suo complesso) ha alla sua origine la sconfitta (nel Cinquecento) del primo movimento borghese che si è avuto in Europa e nel mondo. Esso fu sconfitto dalle forze feudali guidate dal Papato, uno delle due principali istituzioni feudali in Europa (l’altra è il Sacro Romano Impero Germanico). La Sicilia ha seguito la stessa storia del resto d’Italia, con le sue particolarità regionali. Il tratto comune a tutte le regioni italiane consiste precisamente in questo: la borghesia, stante la sconfitta subita nel Cinquecento, è stata nei secoli successivi troppo debole per prendere la direzione di una nuova rivoluzione borghese fino a quando vi fu costretta dall’evoluzione generale dell’Europa (e in particolare dalla Rivoluzione francese del 1789). La sua debolezza ha avuto due aspetti:

1. la sua ricchezza (quindi il suo potere sociale, la sua influenza, la sua capacità di mobilitare e assoldare le masse) rimase limitata dalla nobiltà e dal clero che avevano rinsaldato il loro potere pur modificandone alcune forme;

2. si era creato un legame, un canale di comunicazione, una zona di comunicazione e di sovrapposizione tra borghesia e nobiltà e ciò contrappose la borghesia ai contadini e la indebolì ulteriormente.

Ciò rese deboli tutti i tentativi, le correnti e le imprese della borghesia in tutte le regioni d’Italia nel periodo successivo al Cinquecento, fino al Risorgimento compreso. Gli storici borghesi hanno quasi tutti attribuito quella debolezza all'arretratezza culturale delle masse (dei contadini e dei poveri delle città), alla loro religiosità, alla loro superstizione e ad altri loro difetti variamente individuati (anche se non si tratta di uno storico, per la sua concezione appartiene a questa schiera anche Angiolo Gracci con l’ultima sua pubblicazione La rivoluzione negata, ed. La città del sole 1999, che tratta della rivoluzione napoletana del 1799 e spazia sul resto della storia moderna dell’Italia senza fare distinzione tra rivoluzione borghese e rivoluzione socialista, senza distinguere le varie classi che, nel corso di ognuna delle due rivoluzioni, compongono le masse popolari).

In realtà ogni volta che la borghesia ha dato luogo a movimenti rivoluzionari, essi non hanno raggiunto grande forza ed  estensione (quindi non hanno raggiunto la piena vittoria) perché è subito emerso il contrasto di interessi tra la borghesia e i contadini (e i poveri delle città) e la borghesia è passata rapidamente a unirsi ai nobili e al clero per reprimere assieme i contadini. Se indichiamo col termine masse popolari il terzo stato della vecchia società feudale, il contrasto tra la borghesia e il resto delle masse popolari è presente in ogni rivoluzione borghese e il grado di sviluppo di questo contrasto condiziona lo sviluppo della rivoluzione borghese in ogni paese. Nel nostro paese questo contrasto è molto forte per il motivo sopra indicato. Tornando alla Sicilia, la mafia è venuta al mondo nelle province occidentali della Sicilia (Palermo, Trapani, Agrigento, Enna e Caltanissetta) come un prodotto originale della combinazione tra la vecchia istituzione feudale dei baroni siciliani con i suoi armigeri (a somiglianza di quello che erano, nel seicento e in Lombardia, i bravi di Don Rodrigo o dell’Innominato descritti dal Manzoni in I promessi sposi) e con le sue compagnie d’armi da una parte e dall’altra la nuova economia borghese. Grazie a questa combinazione, nelle cinque province indicate la cricca dei gabellotti (affittuari dei feudi), dei soprastanti e dei campieri (guardie campestri), dapprima spreme il sangue ai contadini per conto dei baroni dei latifondi (dei feudi), quindi si impadronisce anche delle istituzioni civili pubbliche, necessarie per continuare lo sfruttamento antico nelle nuove condizioni che si determinano con il Risorgimento e subentra in parte ai baroni.

La mafia attuale è la derivata di quella combinazione. La mafia nasce nella Sicilia occidentale con la rivoluzione borghese. Gli storici che fanno risalire la mafia attuale a periodi precedenti la rivoluzione borghese valgono tanto come quegli storici che fanno risalire l’origine del capitale all’impiego di attrezzi da lavoro, come quei sociologi che parlando della prostituzione attuale sentenziano che la prostituzione è “il mestiere più vecchio del mondo”, come quei filosofi (ed es. Einstein, Freud, Papini, ecc.) che parlando della guerra nell’età moderna sostengono che la guerra è una conseguenza degli istinti aggressivi degli individui, ecc. Quegli storici cercano di ridurre il nuovo all’antico e di spiegare il nuovo con atteggiamenti, comportamenti e figure sociali preesistenti, che nel contesto preesistente avevano tuttavia un ruolo sociale completamente diverso.

La mafia nasce con la rivoluzione borghese in Sicilia. L’agricoltura è ancora la fonte di gran lunga maggiore della ricchezza. Nel 1812 lo Stato borbonico abolisce i diritti feudali dei baroni e nel 1822 abolisce le corporazioni in tutta la Sicilia. In sostanza dalla fine del sec. XVIII fino all’inclusione nel regno d’Italia (1860) vi è una lotta acuta tra i contadini che vogliono la terra dei feudi baronali, le terre ecclesiastiche e le terre demaniali, i nobili e il clero che vogliono conservarne la proprietà e la borghesia che vuole abolire gli ordinamenti feudali (compresi gli usi civici puntello indispensabile dell’economia contadina) e appropriarsi della terra. In questo contesto nella zona dei feudi baronali (Sicilia occidentale) la borghesia si costituisce come mafia. Il mafioso è l’affittuario (il gabellotto) delle terre (baronali, demaniali ed ecclesiastiche) con la sua forza armata di guardie campestri e di compagnie d’armi, di cui non può fare a meno stante lo stato di endemica ribellione dei contadini. Lo Stato unitario italiano congela e perpetua la situazione, rendendo la sua evoluzione lenta, dolorosissima e gravida di effetti “collaterali”. Questa evoluzione si compirà solo nel secondo dopoguerra, con il nuovo movimento contadino, la riforma agraria del feudo - legge Gullo-Segni - e soprattutto con la generale trasformazione economica dell’ Italia che fa diventare l’agricoltura una fonte marginale di ricchezza e la sostituisce con altre fonti. Lo Stato unitario costituito nel 1860 non può abolire la vecchia proprietà della terra perché la classe che ne è all’origine aborre dallo scatenare le energie di quelli che anelano al possesso della terra (in primo luogo i contadini), non può nelle zone del feudo baronale assumere direttamente in proprio la difesa della vecchia proprietà contro i contadini perché le forme barbariche necessarie al mantenimento dello sfruttamento barbarico dei contadini contrasterebbe con il carattere generale del nuovo Stato. La borghesia locale si afferma quindi come “Stato nello Stato”: unita allo Stato centrale e ai nobili (e al clero) contro i contadini che vuole mantenere nella condizione servile; in contrasto con i nobili e il clero perché composta da affittuari che vogliono pagare bassi affitti ai nobili e al clero: in contrasto con lo Stato centrale perché incompatibile col suo monopolio della violenza  organizzata.

La mafia attuale proviene dalla borghesia terriera della zona dei feudi baronali delle province occidentali della Sicilia. Essa ha il suo periodo di gestazione negli anni 1790-1860, si forma nel periodo 1860-1876 (governo della Destra), entra nella fase di piena operatività con l’avvento della Sinistra al governo (1876).

Ciò che nelle province occidentali della Sicilia è la mafia, è presente anche in altre regioni con forme (e denominazioni) diverse.

Essa via via si organizza attraverso la connessione dei gruppi locali, espande il suo raggio d'azione in termini di attività che controlla (gli agrumeti della costa, il macello di Palermo, i mercati generali di Palermo, le aree fabbricabili, l’emigrazione, sigarette, droga, edilizia, consorzi di bonifica, lavori pubblici, ecc.) e di aree geografiche in cui opera (Palermo in primo luogo). A cavallo del ‘900 nasce la sua filiazione USA che ha caratteristiche proprie sia come rami di attività in cui si impianta sia come metodi (lo sviluppo capitalista degli USA è a un altro livello rispetto a quello dell’Italia). Dopo la seconda guerra mondiale stante il legame organico con la sua filiazione USA (il gangsterismo americano) stabilito alla fine della guerra con l’invasione americana, il generale sviluppo economico, la lotta della borghesia imperialista contro il movimento comunista, nel contesto del regime DC inizia la sua espansione su tutto il territorio regionale e nazionale e nel mondo. Si combina (si allea e combatte) con altri gruppi imperialisti malavitosi. Diventa un gruppo imperialista internazionale. Mercato delle armi, della droga e poi il riciclaggio nelle attività legali e nel mercato finanziario. La mafia è andata alla scuola di Agnelli e l’allievo ha superato il maestro. Invade i settori legali dell’economia. Man mano che l’economia legale ricorre alla corruzione della pubblica amministrazione e del mondo politico, allo spionaggio, ai complotti e a metodi di concorrenza “non tradizionali”, si attenuano i confini tra gruppi imperialisti tradizionali e la mafia (e le altre associazioni capitaliste di criminalità organizzata). Con il progredire della seconda crisi generale del sistema capitalista la concorrenza tra gruppi imperialisti si trasforma in una guerra civile: tutti i mezzi atti a prevalere sui rivali diventano buoni. Nascono nuovi settori economici non legalizzabili. La vecchia mafia si trova ad avere le caratteristiche e gli strumenti necessari per fare scuola e passa da residuato storico a forma avanzata della nuova economia capitalista. L’economia mafiosa fiorisce in tutto il mondo imperialista.

Questo per quanto riguarda la mafia, a grandi linee. In questi anni la mafia si è fatta una grande pubblicità presentandosi a volte come un gruppo patriarcale e folcloristico, a volte come gruppo onnipotente, onnipresente, terribile e irresistibile. Sono due aspetti della propaganda di regime. La mafia è una specifica organizzazione capitalista (come il Vaticano, i gruppi religiosi, ecc.). La potenza della mafia sta tutta nel fatto che essa era il prodotto, specifico di una zona - la Sicilia occidentale, delle condizioni e dei rapporti sociali su cui si basava il regime nazionale, che quindi non poteva combatterla in modo efficace e quando cercò di combatterla (regime fascista) si ridusse a imporre una camicia di forza all’intera società: combatteva le manifestazioni sgradite senza intaccare la fonte. Un po’ come si avvia a fare oggi il regime borghese (e non solo in Italia) con le “politiche di sicurezza”, con le politiche “ecologiche”, ecc. In realtà, appare, come ha detto senza tirarne le conseguenze lo scienziato Carlo Rubbia dopo il fallimento della conferenza de L’Aja sul clima (26.11.00), “l’incapacità del sistema politico planetario” a gestire i problemi che il sistema economico capitalista crea. La mafia si formò dapprima e poi si conservò perché era il modo in cui in quella zona della Sicilia il regime conservava la proprietà terriera. Sonnino disse alla camera (1875): “Quel che trovammo nel 1860 dura tuttora. La Sicilia lasciata a se stessa troverebbe il rimedio: una trasformazione sociale accadrebbe necessariamente: o col prudente concorso della classe agiata o per effetto di una violenta rivoluzione. Ma noi italiani delle altre province impediamo che ciò avvenga, abbiamo legalizzato l’oppressione esistente e assicuriamo l’impunità dell’oppressore”. Quello che Sonnino non vedeva era che una trasformazione era in corso: nelle campagne al barone e al suo feudo tradizionale si veniva di fatto sostituendo l’economia capitalista mafiosa degli amministratori e dei guardiani del feudo del barone e la loro intraprendenza tracimava dal feudo verso le città e l’amministrazione statale borghese. L’inchiesta  di Franchetti e Sonnino (1875) sul Meridione conferma l’avvenuta trasformazione borghese della mafia e l’instaurazione per opera della mafia di un' economia capitalista sui generis nelle province indicate.

Ma perché la conservazione della proprietà terriera nella Sicilia occidentale ha bisogno della mafia? Perché vi furono grandi lotte da parte dei contadini contro la proprietà terriera dei baroni, contro il latifondo e le condizioni che i baroni imponevano ai contadini. L’espressione usata dall’autore dell’articolo di Resistenza cancella tutto questo patrimonio. Cancella i moti popolari antifeudali del 1812 (che portano alla formale rinuncia dei baroni alle centinaia di diritti feudali più o meno codificati o abitudinari - tra cui l’esenzione dalla tasse - e all’abolizione formale della servitù della gleba), del 1820, del 1848, del 1860. La rivolta di Palermo del 1866, i fasci siciliani del 1893, le lotte per la terra del 1919-21, le lotte per la terra del 1945-47. In quest’ultimo periodo vennero uccisi numerosi sindacalisti, attivisti politici e un numero ancora maggiore di contadini e di pastori. Le stragi di Villalba (16 settembre ‘44) e di Portella delle Ginestre (1° maggio ‘47) sono la riprova della forza del movimento. Esso riesce a spezzare il terrore che la mafia cerca di imporre: nelle elezioni regionali del 20 aprile ‘47 il partito comunista e socialista ottengono più di un terzo dei voti e conquistano gran parte delle amministrazioni locali della zona dei feudi (delle province mafiose). L’esito locale della partita viene però deciso a livello nazionale (come aveva indicato Sonnino). L’instaurazione del regime DC è, nelle province occidentali della Sicilia, il ristabilimento dell’economia agraria della mafia e l’inizio di una sua “irresistibile” espansione regionale, nazionale e mondiale.

In conclusione noi dobbiamo avere chiaro che le masse popolari, instaurando il socialismo, possono cancellare la mafia e ogni genere di malavita organizzata e no. Non dobbiamo avallare la campagna di propaganda della propria forza condotta dalla mafia e dai suoi propagandisti (parallela a quella che il Vaticano conduce per magnificare la sua potenza con le “adunate oceaniche” del Giubileo e la loro diffusione in mondovisione). La mafia è invincibile da parte della borghesia imperialista perché la mafia è una sua creatura e un suo strumento: è uno dei suoi modi di essere e una sua componente. In generale la propaganda borghese contro la mafia è una esaltazione e ingigantimento della potenza della mafia e quindi un aiuto alla mafia. Un po’ come in generale lo sono le denunce borghesi contro l’imperialismo americano, contro il carcere, contro la repressione, ecc. Vedere in proposito i film antimafia recenti, “Cento passi” (Giuseppe Impastato) e “Placido Rizzotto” (segretario della Camera del Lavoro di Corleone ammazzato dalla cosca di Luciano Liggio nel marzo ‘48).

3. Non dobbiamo dare per scontata l’alleanza dei lavoratori autonomi con la classe operaia: non dobbiamo dimenticare che la mobilitazione reazionaria è possibile e lo scontro in corso tra mobilitazione reazionaria e mobilitazione rivoluzionaria.

Dobbiamo dire che la classe operaia può e deve prendere la direzione dei lavoratori autonomi. Che solo sotto la direzione della classe operaia i lavoratori autonomi possono avere un avvenire di progresso e di benessere (questo l’autore lo dice).

 

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