Tribuna Libera

Rapporti Sociali 23/24 - gennaio 2000 (versione Open Office / versione MSWord )

 

*****Manchette

 

In queste pagine la redazione di Rapporti Sociali ospiterà interventi firmati (se del caso con pseudonimi) di compagni dei CARC, di compagni di altre FSRS, di lettori e in generale di tutti quelli che vorranno portare il loro contributo all’elaborazione del Manifesto Programma del nuovo partito comunista italiano. Riflessioni, critiche e proposte verranno pubblicate integralmente e portate a conoscenza di tutti i lettori, in modo da promuovere un lavoro collettivo per verificare e rafforzare le idee giuste e smascherare ed estirpare le idee sbagliate, migliorare l’analisi della fase, arrivare a una comprensione più profonda della lotta di classe in corso nel nostro paese e nel mondo, tirare le conclusioni più giuste per rafforzare e condurre alla vittoria la lotta della classe operaia e delle masse popolari per il socialismo.

A quasi un anno dalla pubblicazione del Progetto di Manifesto Programma il dibattito si sta sviluppando. Alla SN sono pervenuti diversi interventi che non possono essere pubblicati su questo numero della rivista. Le pagine a disposizione per questo dibattito sono già insufficienti e questo ci costringe a pubblicare solo estratti, a rimandare la pubblicazione di alcuni interventi e alla pubblicazione a puntate.

Per permettere lo sviluppo di un più ampio e immediato dibattito sul Manifesto programma la Segreteria Nazionale dei CARC lancia un appello alle altre FSRS singole e organizzate per la costituzione di una redazione che pubblichi un Bollettino di discussione. Una rivista che ha l’obiettivo di sviluppare il dibattito sul Manifesto Programma del nuovo partito comunista italiano tramite la raccolta e la pubblicazione di interventi di organismi, singole FSRS, rivoluzionari prigionieri (non dissociati), esuli e latitanti (non dissociati).

I singoli compagni e gli organismi interessati a lavorare su questo progetto possono scrivere o telefonare alla SN di Edizioni Rapporti Sociali, via Bruschetti n. 11 - 20125 Milano tel/fax 026701806

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A proposito di alcune posizioni critiche sul Progetto di Manifesto Programma del nuovo partito comunista italiano

Ci sono compagne e compagni convinti che non sia necessario occuparsi di un progetto di Manifesto - Programma del Partito Comunista. Il programma – dicono - sarà fatto dal partito. Oggi, tuttavia, non esiste un partito formato al punto da essere in grado di formulare un programma. Se s’intende formarlo, quali criteri vanno usati, quale sarà il metodo, quali i principi di riferimento? Non troveremo né criteri, né metodo, né principi in un programma, perché tutto questo, secondo questi compagni e queste compagne, è il partito che lo deve fare. Se restiamo alle loro affermazioni siamo di fronte al dilemma dell’uovo e della gallina, chiedendoci quale dei due è nato prima.

Sono compagne e compagni, questi, che hanno criticato il PMP come prodotto dogmatico perché tratterebbe solo della concezione del mondo e non della “via da seguire per la rivoluzione socialista”. La Segreteria Nazionale, dunque, non avrebbe fatto altro che dare alle stampe un’altra delle mille elaborazioni teoriche che le FSRS hanno prodotto in merito al movimento comunista, al suo passato, al suo presente e futuro. Riguardo a questo si sa che la borghesia consente a qualsiasi rivoluzionario di esprimersi solo sul piano teorico e anche qui fino ad un certo punto. Di fronte a questo limite si può scegliere di non esprimersi per niente, e la stessa esistenza dei CARC si dovrebbe concludere. Si tratta di chiedersi se la stessa esistenza dei CARC (e del lavoro che li ha preceduti fino ad oggi) abbia avuto un senso. Tutte queste domande sono implicite nei documenti dei nostri critici e pure le risposte sono implicite.

Questi critici rappresentano assai bene la deviazione movimentista all’interno delle forze soggettive della rivoluzione socialista in Italia. Negano la necessità dello studio, o meglio hanno sempre altre priorità che rimandano il lavoro teorico a data da stabilirsi. Oggi si tratta di scendere in piazza per opporsi all’attacco contro lo stato sociale, di seguito bisogna reagire contro la guerra imperialista e così via. C’è sempre un attacco della borghesia imperialista a cui opporsi e sempre un motivo per rimandare la definizione e lo sviluppo della teoria rivoluzionaria, così come da piccoli si trova più naturale andare a tirare calci ad un pallone o a giocare alla guerra, invece che andare a scuola.

A fronte delle affermazioni dei nostri critici rivendichiamo il diritto allo studio non come intellettuali opportunisti che si vogliono estraniare dallo scontro, ma come rappresentati di una classe operaia cui questo diritto nei secoli è negato. Rivendichiamo questo diritto, in particolare, perché la definizione del programma è passo essenziale per il processo di  ricostruzione del partito e nel processo di ricostruzione del partito si realizza pienamente l’autonomia della classe operaia rispetto al dominio pratico e teorico della borghesia imperialista. L’opposizione alla guerra può essere la più eroica ma non è di per sé espressione dell’autonomia della classe operaia. Infatti sono molti quelli che si oppongono alla guerra imperialista ma tra loro ve ne sono parecchi ai quali non sta per niente a cuore l’autonomia della classe operaia, la ricostruzione del partito e la rivoluzione socialista e parecchi che sono addirittura contro tutto questo.

La guerra è iniziativa promossa dalla borghesia imperialista, la ricostruzione del partito è iniziativa promossa dalla classe operaia. Non intendiamo per nulla chiuderci in una stanza a elaborare il programma del partito mentre fuori infuria la guerra. Affermiamo che la ricostruzione del partito è la questione principale e l’opposizione alla guerra è secondaria, non nel senso che è poco importante, ma che è questione dipendente dalla principale. Oppure dovremmo lasciare lo studio del PMP e gettarci anima e corpo nell’opposizione alla guerra senza alcun risparmio delle energie a disposizione? Perché Lenin si applicò allo studio della Scienza della Logica di Hegel alla vigilia della prima guerra mondiale?

I saggi di Mao Tse-tung Sulla pratica e Sulla contraddizione elaborati sulla base dei corsi tenuti ai quadri del PCC a Yenan furono pubblicati mentre il PCC organizzava la resistenza antigiapponese, creava zone di guerriglia e vinceva battaglie campali. Scrivere di filosofia e combattere una guerra non sono la stessa cosa, sicuramente, ma la storia del movimento comunista c’insegna che un partito può fare l’uno e l’altro. Noi, che siamo relativamente arretrati e che non siamo un partito, possiamo studiare il PMP e opporci alla guerra. O no? Dobbiamo solo espirare o possiamo anche inspirare?

I CARC dicono che bisogna “organizzarsi e organizzare per creare le condizioni per la ricostruzione del partito comunista”. C’è chi vede in ciò una deviazione rispetto alla linea fino a oggi posta e a dimostrazione porta una citazione da un nostro opuscolo: “L’aspetto principale, l’essenza dei comunisti nella fase attuale è volere e saper promuovere e dirigere la resistenza delle masse popolari al procedere della crisi dell’attuale società” Ma “dirigere la resistenza” cosa significa, se non organizzare? E noi per cosa organizziamo, se non per la ricostruzione del partito? Organizzarsi, poi, non significa che dall’alto calano direttive seguite in modo servile e cieco dai diretti. Organizzarsi è nel concreto la famosa trasformazione delle FSRS che fin dal convegno di Viareggio abbiamo considerato uno dei due fini principali. La trasformazione delle FSRS non è un cambiamento d’abito da esporre in passerella ma mutare da cani sciolti o gruppi d’amici quali siamo in organismi, e questo comporta passaggi che non si riducono a dichiarazioni, come abbiamo già appreso a nostre spese già dalla prima Lotta Ideologica Attiva. Comporta, ad esempio, capacità d’applicazione del centralismo democratico, cosa che abbiamo da apprendere ancora. Infine organizzare è un aspetto del legarsi alla resistenza delle masse, quello dove il legame si realizza nel modo più avanzato. Organizzarsi, come s’è detto, significa trasformazione delle FSRS. Legarsi alle masse e trasformazione delle FSRS furono i due punti sui quali si tenne il convegno di costituzione dei CARC e quindi non si vede dove sia la deviazione.

C’è chi dice che i CARC hanno poco da vantarsi, dato che non sono né i primi né gli ultimi ad aver scritto un programma. Chi dice questo è poco preciso e la precisione ci vuole anche nel dibattito politico. Si può anche decidere che i discorsi sono aria fritta e quindi smettere di farne. Se però si fa un discorso bisogna fare in modo che stia in piedi, perché in caso contrario non cammina. Qui sono sbagliati il soggetto e l’oggetto. Chi ha scritto qualcosa non sono i CARC, ma la loro Segreteria e questo non lo diciamo per pignoleria, ma perché proprio su questo fatto (anzi solo su questo fatto, fino all’altro ieri) si sono rivolte le critiche di molti all’interno dell’organizzazione. La Segreteria poi non ha scritto nessun programma, ma un progetto di programma. Tra le due cose c’è la stessa differenza che tra il disegno di una casa e la casa stessa, una differenza, quindi, molto grande, differenza che comporta tempo, lavoro, possibilità di  fallimento. Per qualcuno la differenza non esiste. Quello che manca è il nesso tra pensare una cosa e farla e infine il nesso tra pensiero e realtà. Chi non comprende questo nesso è nient’altro che un idealista, ragiona come i borghesi e tutta la sua pratica si risolve nel migliore dei casi in agitazione, nel senso negativo della parola.

I nostri critici dicono che il programma lo scrivono i comunisti e che i comunisti sono quelli che stanno nel partito comunista. Queste parole sono verissime, com’è vero che l’acqua è l’acqua, che la luna è la luna, eccetera e valgono anche per le cose che non esistono (dire che Dio è Dio vale anche se Dio non esiste). Il partito esiste? Se non esiste ma può esistere, a differenza di Dio, come possiamo costruirlo? Questo c’interessa sapere. Il PMP ammette di non poterci dare particolari concreti in merito ma un’ammissione del genere già ha molti significati interessanti e comunque sempre più di un’affermazione che per quanto categorica è priva di contenuto.

Ci si lamenta del fatto che nel PMP la questione della donna si affronta a partire dal lavoro domestico. Da dove si doveva partire? Il PMP non relega la donna nell’ambito del lavoro domestico. Questo lo fa la borghesia imperialista. Il fatto che la donna sia relegata al lavoro domestico è la contraddizione principale che riguarda le donne delle masse popolari. Non è principale il fatto che la donna lavori in una fabbrica o altrove, è principale il fatto che la donna che lavora poi a casa si trova a occuparsi quasi in toto del lavoro domestico. Se si considera la “questione della donna” a partire, ad esempio, strettamente dal fatto che lavora in fabbrica, tutte le conclusioni che trarremo andranno altrettanto bene per l’uomo che lavora in fabbrica. Se andiamo oltre ciò che troviamo prima di tutto è appunto questo, che l’operaia deve pure occuparsi della casa e ciò qualifica il problema come specifico della condizione femminile. Altrimenti la specificità si perde e parliamo di appartenenti alla classe operaia dove l’essere di genere maschile o femminile è relativamente inessenziale.

Qualcuno dice che il PMP è stato fatto da una persona sola, e cioè dall’ex - segretario nazionale dei CARC, Giuseppe Maj, il quale non sarebbe stato capace di cogliere l’esperienza di altri dirigenti dell’organizzazione. Non è la prima volta che questo compagno viene accusato di varie cose, tra le quali quella di essere dirigente unico che relega gli altri al ruolo di semplici esecutori, attorniato da alcuni fedelissimi che chinano sempre il capo, così come succede in una corte feudale o anche in parecchie forze soggettive della rivoluzione socialista presenti oggi in Italia.

Noi non sappiamo se il PMP stato scritto da uno solo. C’è chi dice di sì e c’è chi dice di no. In generale consideriamo che quando si scrive qualcosa lo si fa da soli, come accaduto per Il capitale, o anche in due, come è successo per il Manifesto del Partito Comunista. Per ciò che riguarda l’ex - segretario nazionale gli riconosciamo una capacità di sintesi che consideriamo patrimonio comune, non solo suo. Non diciamo questo per adulazione, ma per difendere un patrimonio comune.

Nella premessa al PMP sta scritto: “in questo Manifesto Programma noi comunisti italiani dichiariamo che...ecc.” Da tale affermazione lettori superficiali desumono che i comunisti italiani si troverebbero tutti e solo nella SN dei CARC. Desumere una cosa del genere è una forzatura. Da quell’affermazione si desume soltanto che chi fa proprio il Manifesto Programma del Partito Comunista Italiano è un comunista italiano. A parte questo il Progetto è una cosa, il Manifesto Programma un’altra, come s’è detto. La Segreteria dei CARC ha prodotto un Progetto, non un Programma. Quando avremo un partito comunista leggeremo, nel Manifesto Programma, “noi comunisti italiani dichiariamo questo e quello”. Se non abbiamo un partito possiamo leggere lo stesso una cosa del genere soltanto in un Progetto. A spiegare cose del genere si rischia di essere noiosi, perché la cosa sembra abbastanza chiara a patto che si sia disponibili a capirla. La SN scrive qualcosa per i futuri comunisti dove il soggetto non è lei stessa, ma quei futuri comunisti, i quali decideranno se utilizzare o no questo scritto. L’incomprensione di tutto questo, la continua confusione sparsa a piene mani da questi lettori superficiali, posto che non sia deliberata volontà di far passare fischi per fiaschi, esprime il fatto  che per loro e per altri come loro un progetto è inutile, inutile è scriverlo, inutile è studiarlo. L’idea è che il partito nascerà da se e quando sarà nato dedicherà qualche tempo alla redazione del Manifesto Programma, cioè deciderà cosa esso è, cosa fa e come lo fa.

Chi sono gli interlocutori dei CARC? Nel dibattito sul PMP una posizione interna all’organizzazione diceva che “bisogna partire dal fatto che i nostri interlocutori sono compagni interessati alla rivoluzione socialista, già convinti che la contraddizione principale è quella tra borghesia e proletariato, che la società è divisa in classi, che lo Stato esercita per conto della borghesia il monopolio della violenza, ecc.” Questi di cui si parla di chi sono interlocutori? Cosa s’intende con “nostri”? Se s’intende l’organizzazione dei CARC questi di cui si parla sono solo una parte dei nostri interlocutori e neanche la più importante. I CARC indicano come compito principale rafforzare il legame con le masse popolari e queste sono quindi il nostro interlocutore principale. Tra di esse in particolare c’interessa la relazione con lavoratori e lavoratrici avanzati/e, tra i quali pochi se ne trovano “già convinti...che lo Stato esercita per conto della borghesia il monopolio della violenza”.

Ma, a parte tutto questo, torniamo a ripetere che un Manifesto Programma non la è stessa cosa del Progetto, anche a rischio di essere noiosi. Il Manifesto Programma si rivolge (si rivolgerà) a tutte le masse popolari e questo è un elemento essenziale, che va tenuto presente già a livello progettuale. Nel momento in cui qualcuno deciderà di porre in atto tutti i passaggi concreti per la ricostruzione del partito allora è probabile che si trovi di fronte principalmente quegli interlocutori di cui sopra si parla, cioè soggetti che rientrano nel campo delle FSRS. Ma questo non è il caso dei CARC, né della loro Segreteria, che hanno, rispetto al processo di ricostruzione del partito, da compiere solo alcuni dei compiti necessari e stabiliti e che hanno un campo di interlocutori molto più vasto di quello delimitato dalla posizione che abbiamo citato sopra.

Il PMP viene criticato perché ometterebbe una caratteristica essenziale del capitalismo, messa in luce da Lenin, cioè la tendenza alla guerra imperialista come mezzo per superare la crisi capitalistica. Sarebbe grave se così fosse, ma così non è. A pag.26 del PMP sta scritto che “esplose ...la prima crisi generale del capitalismo (1910-1945), che partendo dall’economia si trasformò necessariamente in crisi politica e culturale, in situazione rivoluzionaria di lunga durata, in guerre imperialiste e in rivoluzione proletaria. Essa ebbe fine solo grazie alle distruzioni delle forze produttive e agli sconvolgimenti degli ordinamenti, delle istituzioni e della cultura culminati nella Seconda guerra mondiale.” Di seguito questo viene spiegato con abbondanza di particolari per almeno sei pagine. Chi ha avanzato la critica sopra esposta evidentemente non ha letto ciò che critica, oppure ha letto pensando ad altro.

Parliamo delle cause per cui la borghesia, ad un certo punto, diventa conservatrice e reazionaria. Si critica il PMP perché questo attribuisce tale mutamento al fatto che la borghesia deve fare fronte ad una classe operaia sempre più forte e organizzata e si scrive che la controrivoluzione preventiva viene confusa con il carattere reazionario della fase imperialista del capitalismo. Il passaggio criticato è a pagina 23 del PMP. Se si genera confusione è bene modificarlo. La controrivoluzione preventiva è un aspetto particolare del carattere reazionario dell’imperialismo, che assume una particolare importanza non a caso successivamente alla Rivoluzione d’Ottobre, quando la borghesia si rende conto di quanto pericoloso sia l’avversario che ha di fronte. In generale, invece, l’involuzione reazionaria della borghesia è determinata da ragioni intrinseche allo sviluppo dell’economia capitalistica, cosa che abbiamo ripetuto abbastanza spesso nelle nostre pubblicazioni.

Si critica il PMP perché dice poco del presente, dei partiti che operano in altri paesi, delle indicazioni che il maoismo dà per ciò che riguarda il processo di ricostruzione del partito.

Al riguardo del presente il dire è strettamente connesso con il fare. Se si parla del passato si fa principalmente un  bilancio, se si parla del futuro si fa principalmente un progetto, se si parla del presente la teoria è immediatamente connessa con la pratica. Questo significa che la teoria non è semplicemente bilancio, dichiarazione, esame degli obiettivi possibili, ma principalmente organizzazione. I compiti pratici e teorici relativi al processo di ricostruzione del partito considerati nella loro integrità sono competenza di coloro che si organizzano per la ricostruzione del partito. I CARC collaborano solo ad alcuni dei compiti pratici e teorici necessari perché hanno limiti determinati con precisione.

La questione dei partiti comunisti che operano nel presente in altri paesi ci riguarda per quanto la loro esperienza serve all’organizzazione del partito nel paese nostro e altrettanto vale per gli insegnamenti che il maoismo può darci. Tutte queste sono questioni che vanno trattate entro il processo vero e proprio di organizzazione del partito.

Nel PMP non sarebbero spiegati gli errori della sinistra del partito bolscevico che hanno permesso l’avvento del revisionismo. D’altra parte nel PMP si dice che fonte di quegli errori è l’inesperienza. È poco? Ci si mantiene troppo sul generico? Colmeremo la lacuna con lo studio di quanto successe all’epoca, con lo studio del maoismo e soprattutto con l’esperienza nostra.

Di quegli errori parla Garabombo sul numero 21 di Rapporti Sociali, ma Martinengo considera le sue affermazioni superficiali ed eclettiche. È interessante, in merito alla questione, leggersi quegli articoli.

Riguardo al capitolo tre vengono avanzate varie perplessità sull’analisi delle classi, condivisibili fino a un certo punto. L’analisi esposta nel PMP insegna qualcosa, dà punti di riferimento. Se non va bene non si dica che si può fare di più, ma lo si faccia, anzi si porti un lavoro fatto, migliore del presente.

Quindi si critica il fatto che nel PMP Gramsci sia indicato come “primo e unico grande dirigente che ha cercato di fare di esso il partito rivoluzionario della classe operaia.” Si dice che un partito comunista sicuramente non può dotarsi di un solo e unico grande dirigente bensì è composto da un comitato centrale, insomma che un partito è un organismo collettivo, cosa sulla quale siamo perfettamente d’accordo. Ciò non toglie che Gramsci, a quanto ne sappiamo, tra i dirigenti del PCI fu sicuramente grande e fu il primo e purtroppo l’unico che cercò di fare un partito rivoluzionario. È un fatto che il PMP riferisce e di cui non portiamo responsabilità. Fosse per noi avremmo voluto mille grandi dirigenti, anzi, li vorremmo per i compiti attuali. Il fatto che i grandi dirigenti ci siano, o anche il fatto che ci siano bravi dirigenti, non dipende dal desiderio, ma dal lavoro. I dirigenti sono necessari e senza di essi il lavoro collettivo resta una dichiarazione vuota.

Non si accetta che nel PMP si mettano sullo stesso piano esperienze come quella del PCd’I e quella delle BR, quali organismi che hanno svolto un ruolo rilevante nel tentativo di ricostruzione del partito comunista. Ma entrambi sono sullo stesso piano perché hanno tentato e non sono riusciti. Il PCd’I ha fallito perché era dogmatico, e su questo siamo d’accordo. Le BR perché hanno fallito?

Si dice che le BR sono superiori rispetto al PCd’I come si dice che la pratica è superiore alla teoria? Si dice che le BR furono superiori al PCd’I e a qualsiasi altro organismo politico perché ebbero il coraggio che mancò e che sempre mancherà ai vari opportunisti? Questi discorsi sono il “nuovo” che qualcuno oppone al “vecchio”?

Per noi tutto questo è roba vecchia, materiale che sta al di qua del processo che ha condotto le organizzazioni di cui si parla alla sconfitta. Moltissime forze soggettive della rivoluzione socialista in Italia trattano le questioni teoriche, le questioni di principio, come faccende che nel 90% dei casi hanno valore secondario e chi se ne occupa più di quello che loro reputano necessario è un intellettuale presuntuoso. Quando si dice che senza teoria rivoluzionaria non c’è movimento rivoluzionario secondo loro si intende dire che la teoria serve al movimento. Quell’affermazione invece vuol dire precisamente quello che dice, che senza una teoria scientifica non si va avanti ed è del tutto inutile agitarsi e fare baccano. Per elaborare una teoria rivoluzionaria bisogna lavorare, costruire un sistema che deve rispondere a  norme. Deve essere elaborazione dalla pratica, deve servire alla pratica, deve essere intimamente coerente. Non si può dire una cosa e il suo contrario, cosa che tra le forze soggettive succede spesso.

Tornando alla comparazione tra BR e PCd’I si dice le BR hanno goduto e tuttora godono di ampio riconoscimento nella classe operaia e nel proletariato italiano, cosa che non si verifica per l’esperienza del PCd’I. Bisogna verificare se di riconoscimento si tratta, o di fama. L’unico organismo che ha svolto un lavoro continuato nei decenni a sostegno dei rivoluzionari prigionieri delle OCC italiane è l’Associazione Solidarietà Proletaria. Questo lavoro sarebbe meno faticoso di quel che è se il riconoscimento fosse così ampio come si sostiene, e anzi esisterebbero cento organismi di sostegno ai rivoluzionari prigionieri, se così fosse. Siamo contro quelli che dicono di gestire la questione tra compagni e compagne e anzi lavoriamo per legare la resistenza dei rivoluzionari prigionieri a quella delle masse popolari e viceversa. Ma appunto lavoriamo, il che vuol dire che questo legame oggi è debole e che conseguentemente il riconoscimento di cui si parla non è affatto immediato.

Se poi resta il fatto che le BR sono più famose di molti altri anche oltre i confini d’Italia questo per noi ha scarso significato. Ernesto Che Guevara, ad esempio, è famosissimo, ma la sua esperienza è meno ricca di significato, per ciò che riguarda la ricostruzione del partito comunista italiano, rispetto a quella di Teresa Noce, per dirne una tra le tante.

C’è chi ritiene prematuro anche elaborare un Progetto di Manifesto Programma ed è quindi normale che il tentativo di stabilire un programma per la fase socialista lo faccia sorridere. Tutto questo, egli pensa, verrà da sé, dato che “di regola la teoria segue la pratica”.

Si critica la SN dei CARC perché si è dimenticata di parlare del punto più importante del programma della fase socialista, cioè dell’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Nel capitolo quattro questo punto è implicito ad ogni passo. Evidentemente bisogna inserire una premessa di questo tipo: “Tutte le misure che il partito intende realizzare, e che sono di seguito elencate, o sono direttamente espressione dell’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, seguono da essa e solo con essa sono rese possibili.”

Il PMP viene criticato perché non avrebbe la capacità di analizzare il presente e di sintetizzare la via rivoluzionaria e che questo accade perché si partirebbe dalle idee e non dalla pratica della nostra organizzazione e di altre FSRS interessate a contribuire a questa elaborazione. Questo non è vero e ne abbiamo già parlato abbastanza sopra. Altri sono i motivi per cui la SN non si occupa del presente. Non le compete, né compete ai CARC e infatti lo scrivono i nostri critici, che sono convinti del fatto che per la natura dei CARC essi non possono arrivare alla definizione del programma del futuro partito. Da qui se ne trae la conclusione che il PMP è un testo che ha un’utilità parziale e che comunque non serve allo scopo. Sarebbe da considerarsi un manuale, utile (con alcune modifiche) alla formazione dei compagni e delle compagne. In realtà il PMP è una sintesi: raccoglie l’esperienza dei CARC, il lavoro che ha preceduto la loro formazione e l’esperienza di 150 anni del movimento comunista che attraverso questo lavoro viene vagliata. La sua sottovalutazione è una battuta d’arresto nel processo di ricostruzione del partito e perciò la contrastiamo.

Concludiamo citando un passaggio da Rapporti Sociali (n.1, p.27):

“ È diffuso nell’ambiente rivoluzionario un certo fastidio per la teoria nella convinzione che da noi di teoria se n’è fatta anche troppa e che gli insuccessi sono dovuti alle carenze pratiche. Cosa che sarebbe vera se la teoria fosse un’entità che si misura solo al peso della carta su cui è stampata. Ma quintali di cattiva teoria non coprono il bisogno neanche di un grammo di buona teoria. E le cattive azioni sono state frutto di cattive teorie.”

 

Angelo Crippa.

 

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Sulla questione dell’analisi di classe

 

La questione delle classi è affrontata in diversi punti del Progetto di Manifesto Programma del nuovo partito comunista italiano (PMP) ma in modo specifico nei capitoli 1.2; 2.1; e 3.2 dove si tratta, rispettivamente, della loro nascita e della strutturazione nella società, della classe operaia in relazione al partito e di un abbozzo di analisi di classe della società italiana.

Il tentativo qui svolto di puntualizzare alcuni aspetti non è certo per motivi di dibattito accademico dal quale far discendere l’analisi di classe, ma nasce dal convincimento che questa questione è assolutamente inscindibile dalle questioni di quali siano oggi le forze motrici della rivoluzione socialista, e all’interno di queste quale sia quella dirigente, e quindi, in ultima analisi, dalla questione di quale debba essere la natura del nuovo partito. Sono, infatti, sotto gli occhi di tutti le conseguenze disastrose per alcune Forze Soggettive e per parte significativa del “movimento” derivate dall’utilizzo approssimativo dei criteri di analisi di classe e che ha portato a individuare il cosiddetto “nuovo soggetto rivoluzionario” via via in figure diverse, a partire dall’emarginato per arrivare all’immigrato.

Quindi senza alcuna pretesa di essere esaustivi si vuole semplicemente porre all’attenzione dei compagni alcuni spunti di riflessione nella speranza che possano essere utili a un ulteriore approfondimento della questione.

La complessità dell’articolazione dell’argomento talvolta si scontra con la giusta esigenza di sintesi imposta dalla natura di un documento quale il PMP, tuttavia la questione delle classi è di tale fondamentale importanza nel percorso della ricostruzione del partito che non può non essere adeguatamente approfondita. Perché se vero che a proposito dell’analisi delle classi in Italia “il lavoro di inchiesta del partito permetterà di verificare, raffinare, correggere questa analisi”,(1) è altrettanto vero che la chiarezza sui fondamenti e gli aspetti metodologici non possono essere rimandati.

 

1. PMP, cap. 3.2.3, pag. 93.

 

Va comunque dato merito agli autori del PMP di aver posto la questione in modo organico e di aver prodotto un documento che costituisce anche un percorso di confronto con il quale tutte le Forze Soggettive che si pongono il problema del nuovo partito dovranno, volenti o nolenti, misurarsi.

La definizione di classe operaia data nel capitolo 2.1: “La classe operaia costituita dai collettivi delle unità produttive capitaliste ...”(2) lascia la porta aperta a possibili interpretazioni errate: si potrebbe pensare ad esempio che gli operai di una fabbrica addetti alla gestione del magazzino o alla manutenzione (unità non produttive all’interno di una fabbrica) non facciano parte della classe operaia o peggio che ne facciano parte lavoratori, come ingegneri o tecnici, che sono insieme agli operai all’interno di “collettivi di unità produttive capitaliste”.

 

2. PMP, cap. 2.1, pag. 60.

 

Infatti il concetto di “produttivo” non va riferito tanto al contenuto del lavoro individuale svolto dal lavoratore (ad esempio essere addetto alla catena di montaggio) ma principalmente al fatto che quel lavoro partecipi direttamente al processo di valorizzazione del capitale: “con lo sviluppo della sottomissione reale del lavoro al capitale [...] il vero funzionario del processo lavorativo totale non è il singolo lavoratore, ma una forza-lavoro sempre più socialmente combinata, e le diverse forze lavoro cooperanti che formano la macchina produttiva totale partecipano in modo diverso al processo immediato di produzione delle merci o meglio, qui, dei prodotti - chi lavorando con la mano e chi piuttosto col cervello, chi come direttore, ingegnere, tecnico, ecc.; chi come sorvegliante, chi come manovale [...] un numero crescente di funzioni della forza-lavoro si raggruppa nel concetto immediato di lavoro produttivo, e un numero crescente di persone che le eseguono nel concetto di lavoratori produttivi, direttamente sfruttati dal capitale e sottomessi  al suo processo di produzione e valorizzazione”;(3) da questo punto di vista quindi sono produttivi a pieno titolo anche direttori o ingegneri, figure che tuttavia, per il ruolo di rappresentanti degli interessi del capitalista che svolgono i primi o come organizzatori del processo lavorativo i secondi, non possono certo essere compresi nella classe operaia.

 

3. K. Marx, Il Capitale - Capitolo VI - inedito, La Nuova Italia, Firenze 1968.

 

La definizione di classe operaia data nel capitolo 2.1 non può non essere perciò accompagnata da quegli elementi di qualificazione che precisano ulteriormente l’appartenenza di classe e che sono il ruolo e la funzione assunta nell’organizzazione sociale del lavoro.

Veniamo alla questione della individuazione delle classi nella società e ai criteri con i quali viene definita l’appartenenza di classe, aspetti affrontati nel cap. 3.2.

Prima di tutto va riaffermata la distinzione all’interno della società tra quello che Marx definiva il “vero corpo sociale” che ne costituisce la struttura economica (all’interno del quale opera la dialettica delle classi) e la sovrastruttura di carattere statale (pubblica amministrazione, magistratura, esercito, apparato repressivo, ecc.);(4) vale la pena inoltre ricordare che le due classi principali - borghesia e proletariato - non esauriscono l’articolazione del corpo sociale continuando a esistere altre classi intermedie, seppure senza alcuna sostanziale autonomia economica, strettamente dipendenti dal e indispensabili al funzionamento del sistema capitalistico e seppure esse vadano riducendosi man mano che nuovi settori di attività vengono sussunti nel rapporto di produzione capitalistico.

 

4. K. Marx, Il Diciotto Brumaio di Napoleone Bonaparte, capitolo IV.

 

La distinzione tra struttura economica e sovrastruttura statale, così come quella tra classi principali e classi intermedie, è importante poiché se dimenticata, rischia di portare al tentativo di attribuire qualsiasi ceto sociale “per forza” a qualche classe o peggio solo a una delle due principali.

Ciò che distingue le due classi principali dal resto della società è fondamentalmente il fatto che queste sono interne ai rapporti di produzione capitalistici, partecipano direttamente al processo di produzione capitalistico, ossia dipendono entrambe, inevitabilmente, anche se da posizioni contrapposte, dalle vicissitudini del processo di valorizzazione del capitale. In altre parole le classi principali entrano in rapporto tra loro attraverso lo scambio di forza-lavoro contro capitale.

La sovrastruttura statale costituita invece da ceti sociali che non sono sottoposti al processo di valorizzazione del capitale poiché qui lo scambio che avviene non è di forza-lavoro (cioè di capacità lavorativa) ma bensì direttamente di lavoro contro reddito (banalizzando, gli stipendi dei lavoratori del pubblico impiego sono pagati attingendo dai fondi dello Stato, fondi costituiti principalmente con il prelievo fiscale, e non con capitale da valorizzare attraverso il profitto: in questo senso, un operaio dipendente da un’amministrazione comunale, pur svolgendo mansioni da operaio, non solo non appartiene alla classe operaia, ma nemmeno appartiene al proletariato).

Alla luce di queste considerazioni, parrebbe opportuno approfondire meglio la definizione di proletariato data dal PMP: “Lavoratori il cui reddito proviene almeno per la parte principale dalla vendita della propria forza-lavoro”(5) dalla quale consegue, da una parte, una sorta di “distinguo” tra classe operaia e altre classi proletarie e, dall’altra, la collocazione all’interno del proletariato di lavoratori non sottomessi al processo di valorizzazione del capitale (dipendenti dell’amministrazione pubblica, lavoratori impiegati in aziende non capitalistiche o addetti ai servizi personali).

 

5. PMP, cap. 3.2.2.1, pag. 91.

 

Ai tempi di Marx proletariato e classe operaia sostanzialmente coincidevano: infatti allora l’industria era praticamente  l’unico settore economico della società in cui il lavoro era direttamente sottomesso al capitale. Oggi, man mano che il capitale ha sussunto nuovi settori sottoponendoli al proprio processo di valorizzazione, il proletariato si è di pari passo sviluppato anche in settori diversi dall’industria con nuove figure di salariati sfruttati.

La classe operaia, quindi, oggi non è altro che quella parte di proletariato collocato nel settore industriale, e definirla con una categoria propria non deve servire a distinguerla dal proletariato nel suo insieme - le “altre classi proletarie”(6) - ma bensì a riaffermare il suo carattere, per l’esperienza di organizzazione maturata nella sua storia, per le sue lotte e le conquiste raggiunte, per la coscienza sviluppata, di parte più avanzata del proletariato stesso, riconoscendola cioè come la parte dirigente di un’unica classe proletaria.

 

6. PMP, cap. 3.2.2.1, pag. 92.

 

La definizione data dal PMP per la classe operaia “I lavoratori assunti dai capitalisti per valorizzare il loro capitale producendo merci (beni o servizi)”(7) andrebbe quindi riferita al proletariato nella sua interezza inteso come classe unitaria.

 

7. PMP, cap. 3.2.2.1, pag. 91.

 

Per contro nel proletariato non possono essere compresi quei lavoratori, come quelli impiegati nell’amministrazione pubblica o quelli impiegati in aziende non capitalistiche (inclusi dal PMP nelle “altre classi proletarie”) proprio perché essi non sono sottoposti allo sfruttamento capitalistico, ossia da essi non viene estratto plusvalore. Naturalmente questo non vuole dire che questi lavoratori non siano oppressi o che, soggettivamente, non possano costituire delle avanguardie al fianco del proletariato; tuttavia va ricordato che proprio il fare riferimento alla classe degli sfruttati e non genericamente agli oppressi è ciò che ha sempre distinto i comunisti dai riformisti e dai revisionisti: mettere in secondo piano la differenza tra sfruttati e oppressi rischia di portare prima o poi, come già accade a certa sinistra che si vorrebbe estrema, a parlare di “ceti deboli” o simili amenità, in ultima analisi all’interclassismo.

Infine un’ultima considerazione sulla tendenza a definire l’appartenenza di classe in base al livello di reddito, che pervade tutto il capitolo 3.2.

Sebbene questo metodo sia qualificato dal PMP stesso come indice rozzo e grossolano, andrebbe sottolineato con forza, ribaltando il concetto e riportandolo alla realtà, che le classi non sono in alcun modo definibili in base a una scala di ricchezza o povertà o di gerarchia salariale ma che, invece, è vero proprio l’opposto: le diseguaglianze sociali sono precisamente l’effetto, la conseguenza della divisione in classi della società.

Se si ritiene opportuno utilizzare la categoria del reddito, invece di cercare di definire il livello quantitativo di reddito che costituirebbe la discriminante in base alla quale si viene compresi in una determinata classe (qualsiasi livello di reddito scelto come discriminante sarebbe comunque opinabile e sicuramente non definibile con criteri scientifici), sarebbe molto più utile per l’approfondimento dell’analisi ricorrere alla distinzione tra redditi primari, ossia quelli percepiti dalle classi che sono interne (anche se vi partecipano a diverso titolo) ai rapporti di produzione (ad esempio i profitti degli imprenditori e i salari degli operai) e i redditi secondari, ossia quelli formati al di fuori del processo di produzione e prelevati proprio dai redditi primari (ad esempio gli stipendi dei dipendenti dell’amministrazione pubblica).

D. S.

 

(segue sul prossimo numero)

 

 ***

Osservazioni sul Progetto di Manifesto Programma del nuovo partito comunista (segue dal numero precedente)

 

Altri due limiti del Partito comunista vengono individuati nel documento della Segreteria nazionale dei CARC: “nel fatto che nel 1943 fu sorpreso dagli eventi del 25 luglio e dell’8 settembre, nel fatto che condusse la guerra partigiana più come una campagna militare che come uno strumento per la creazione di un nuovo potere popolare”.(17)

Il 25 luglio rappresentò il tentativo, operato dai padroni e dalla monarchia, di salvare il loro potere sostituendo Mussolini e gli alti gerarchi del fascismo con un governo reazionario che impedisse, a qualunque costo, alle masse popolari di scendere in lotta.

 

17. Cfr. nota n. 1.

 

18. Così lo definiva giustamente Luigi Longo nel suo libro Un popolo alla macchia, Roma, Editori Riuniti, 1941, p. 37.

 

19. Luigi Longo, I Centri dirigenti del PCI nella resistenza, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 175.

 

20. “L’unità d’azione non deve portare allo “embrassons nous” generale, ma ammette - anzi presuppone - la lotta e la differenziazione continua anche con i nostri alleati... Ne l’Unità preparata a Roma, anche dopo il 10 settembre, mai appariva il nome del nostro partito, né il termine comunista, tranne che nel titolo del giornale; e il “noi” che si incontra spesso, se ben si guarda, non alludeva a noi membri del PC, ma a noi membri del FN. Altra prova che si è dimenticato di distinguere il nostro partito nel fronte nazionale e dal fronte nazionale” (Ibidem, pp. 97-98).

 

21. “La prima ed essenziale conseguenza che da tutto ciò deriva nella nostra politica è l’esclusione di ogni compromesso, sul piano politico, con Badoglio e la monarchia... Badoglio e il re, assai prima del 10 settembre, rappresentano oggi i ceti plutocratici reazionari del nostro paese, rappresentano cioè quelle forze alle quali è impossibile fare qualsiasi concessione senza pregiudicare la stessa rivendicazione delle libertà democratiche, e con le quali ogni compromesso significa divenire loro prigionieri... Ammettere oggi possibile il compromesso politico con Badoglio è grave errore: significherebbe perdere il contatto con la realtà, pregiudicare la nostra futura azione politica e la soluzione dell’importante problema della direzione della lotta di liberazione nazionale” (Ibidem, pp. 5758).

 

Il “governo semifascista di Badoglio”(18) svolse con mostruosa efficienza il suo ruolo reazionario: lasciò in carcere per lungo tempo i dirigenti comunisti, mantenne in libertà quasi tutti i gerarchi fascisti, represse ferocemente le manifestazioni popolari, organizzate in massima parte dal Partito comunista subito dopo la caduta del fascismo, facendo sparare più volte sui manifestanti e arrestando numerosi dirigenti comunisti. Il Partito comunista dopo un ventennio di clandestinità, incontrava gravi difficoltà a collegare in modo ottimale i suoi aderenti, a darsi un’organizzazione funzionante in tutto il paese, a liberare e a recuperare alla lotta i compagni detenuti. Un ulteriore problema era rappresentato da quei dirigenti che preferivano assumere una posizione possibilista e attendista nei confronti del governo Badoglio, anziché mobilitare le masse e organizzare la lotta armata contro i nazifascisti. In quella fase storica le posizioni di “destra” all’interno del Partito comunista erano espressione di uno dei due centri di direzione del PCI: quello di Roma. Longo scriverà qualche mese più tardi: “ricordiamo che gli errori più gravi che ci sono rimproverati da organismi autorevoli sono quelli del periodo badogliano, gli errori di collaborazionismo con Badoglio commessi nella nostra attività del commissariato e del fronte nazionale. Evidentemente, più o meno, siamo responsabili di questi errori, ma chi ne è più direttamente e personalmente responsabile? I compagni che spesso all’infuori di ogni controllo della direzione nel suo insieme hanno svolto questo lavoro, più in particolare i compagni Renato (G. Roveda) e Palmieri (G. Amendola). Ora questi compagni fanno parte della direzione di Roma”.(19) Negli scritti di Longo, che erano espressione del centro di Milano, emerge una critica durissima alle posizioni opportuniste della direzione di Roma (20) e, al contempo, una radicale contrapposizione al governo Badoglio.(21) Le posizioni della “destra” vennero sconfitte (sia pur non definitivamente) e il PCI svolse un ruolo determinante per dare l’avvio alle prime formazioni partigiane ed  emarginare, all’interno del CLN, la posizioni filo-badogliane di DC e PLI.(22) Tutto ciò non emerge nel documento della Segreteria Nazionale dei CARC: riteniamo questo un limite che ci auguriamo venga ben presto superato. Ci sembra, inoltre, riduttivo affermare nel documento che: “Il PCI aveva condotto la guerra partigiana più come una campagna militare che come strumento per la creazione di un nuovo potere popolare”. In realtà il Partito comunista aveva una linea ben precisa in ordine alla “creazione di un nuovo potere popolare”. Essa affonda le sue radici nell’analisi del VII Congresso dell’Internazionale comunista [successivamente ripresa da Lo Stato Operaio, da La nostra lotta e da numerosi interventi dello stesso Togliatti (23)] ed in particolare nell’elaborazione strategica e tattica di Dimitrov (24) sulla formazione dei governi di: “fronte unico proletario o di fronte popolare antifascista”. Questo tipo di governo doveva avere connotati di classe ben definiti: “Dev’essere un governo che sorge in conseguenza del movimento del fronte unico e che non limita in alcun modo l’attività del Partito comunista e delle organizzazioni di massa della classe operaia ma, al contrario, prende provvedimenti energici contro i magnati della finanza...che attivi determinate rivendicazioni rivoluzionarie fondamentali rispondenti alla situazione, come, ad esempio, il controllo sulla produzione, il controllo sulle banche, lo scioglimento della polizia e la sua sostituzione con una milizia operaia armata, e così di seguito”.(25)

 

22. Sugli sviluppi successivi al 1943, in particolare sulla “svolta di Salerno”, non ci soffermiamo per evitare di dilungarci e rimandiamo alla lettura del Quaderno del Circolo Lenin L’opposizione comunista alla svolta di Salerno, di prossima pubblicazione.

 

23. La politica del fronte unico, scriveva Togliatti, è “il risultato di una critica e di un inizio di abbandono della politica riformista da parte non solo di singoli operai socialdemocratici, ma di masse intere di operai socialdemocratici e senza partito. Essa contiene quindi in sé il germe di una nuova offensiva rivoluzionaria della classe operaia contro la borghesia, essa contiene in sé il germe di una nuova ondata di lotte le quali avranno la tendenza a svilupparsi come lotte per il potere”, in Togliatti, Opere 1929-1935, Roma, Editori Riuniti, vol. III**, pp. 716-717.

 

24. G. Dimitrov, Rapporto al VII Congresso dell’Internazionale comunista del 2/8/1935, in Dal fronte antifascista alla democrazia popolare, Edizioni Rinascita, Roma, 1950, pp. 59 e segg.

 

25. Scriveva inoltre Dimitrov: “L’entrata dei comunisti nel governo sassone assieme ai socialdemocratici di sinistra (gruppo Zeigner) non era di per sé un errore, tutt’altro: la situazione rivoluzionaria della Germania giustificava pienamente questo passo. Ma i comunisti che partecipavano al governo avrebbero dovuto utilizzare le loro posizioni prima di tutto per armare il proletariato. Essi non fecero questo. Non requisirono neppure un appartamento ai ricchi, quantunque gli operai avessero bisogno di abitazioni, tanto che molti, con le mogli e i bambini, erano senza tetto. Non fecero neppure nulla per organizzare un movimento rivoluzionario di massa degli operai. In generale, si comportarono come dei mediocri ministri parlamentari nei limiti della democrazia borghese. Com’è noto questo fu il risultato della politica opportunistica di Brandler e dei suoi seguaci. Ne conseguì una tale bancarotta che ancor oggi siamo costretti a citare il governo della Sassonia come esempio classico di come i rivoluzionari non devono comportarsi quando sono al governo”, (Ibidem, pp. 63-64)

 

Netta doveva essere la differenza con i governi socialdemocratici: “Mentre il governo socialdemocratico è uno strumento di collaborazione di classe con la borghesia nell’interesse della conservazione del regime capitalistico, il governo del fronte unico è un organo di collaborazione dell’avanguardia rivoluzionaria del proletariato con gli altri partiti antifascisti nell’interesse di tutto il popolo lavoratore (chiaro che sono due cose diverse)”. Il governo dei fronti popolari era da considerarsi una tappa verso la dittatura del proletariato: “Ma noi - proseguiva Dimitrov - diciamo apertamente alle masse: questo governo non può portarvi alla salvezza definitiva. Non è in grado di abbattere il dominio di classe degli sfruttatori e perciò eliminare definitivamente neanche il pericolo della controrivoluzione fascista. È dunque necessario prepararsi alla rivoluzione socialista!

Soltanto e unicamente il potere sovietico porterà alla salvezza”.(26)

 

26. G. Dimitrov, Rapporto al VII Congresso dell’Internazionale comunista del 2/8/1935, in Dal fronte antifascista alla democrazia popolare, Edizioni Rinascita, Roma, 1950, p. 65.

  

L’esperienza della Guerra di Spagna rappresentò, di lì a poco, un importantissimo esempio di governo del fronte popolare, e costituì un fondamentale punto di riferimento per i dirigenti del PCd’I, per quanto riguarda la lotta per il potere dei lavoratori durante il periodo del fascismo.

Ad essa si ispiravano i partigiani comunisti, per i quali riesce davvero difficile pensare che fossero disponibili a rischiare la vita solo per una campagna di liberazione nazionale.(27)

 

27. Ultimata la Liberazione, numerose formazioni partigiane: “Sono palesemente riluttanti ad eseguire l’ordine di scioglimento e di disarmo...Senza dubbio questi elementi, eccitati dalla vittoria conseguita, galvanizzati da una propaganda accorta e lusingatrice, vanno orientandosi verso una trasformazione delle squadre patriottiche a forze armate di partito”. Relazioni dei Prefetti sulle condizioni dell’ordine pubblico in Lombardia, in Archivio centrale dello Stato, P.S 1944-46 46, busta 21, Milano.

 

Rispetto alla politica seguita dal Partito comunista dopo la svolta di Salerno (che rappresentò il rovesciamento della politica del governo dei fronti popolari) si può ritenere ampiamente condivisibile la tesi dei compagni dei CARC: proprio per questo riteniamo opportuno distinguere nettamente la linea politica del partito nel periodo antecedente il marzo 1944 da quella successiva.

In ultimo vogliamo segnalare tre inesattezze, che riteniamo attribuibili a sviste e non a valutazioni politiche: I) l’affermazione secondo cui il regime DC: “governa tuttora” il Paese (pag. 76); 2) la tesi in base alla quale, negli anni 1945-1975, il PCI era: “uno dei partiti della corrente revisionista moderna guidata dal PCUS”, che sembrerebbe significare che, anche in una certa fase del periodo di Stalin (dal 1945 fino alla sua morte) il PCUS era un partito revisionista (pag.76); 3) non si può sostenere che Gramsci sia stato: “l’unico grande dirigente che ha cercato di fare di esso (il PCd’I) il partito rivoluzionario della classe operaia” (pag. 75). Lo sviluppo del partito comunista non sarebbe stato neanche ipotizzabile, durante il ventennio fascista, senza la presenza di tanti altri dirigenti autenticamente rivoluzionari: sostenere, in questo senso una “unicità del ruolo di Gramsci sminuisce, a torto, il ruolo dei compagni che lo affiancarono e che, dopo la sua morte, ne seguirono le orme.

Siamo certi che i compagni dei CARC non mancheranno di correggere questi errori.

L’ultima questione sulla quale vogliamo intervenire è l’esperienza delle Brigate Rosse.

Ci sembra eccessivamente generoso il giudizio espresso dai compagni della Segreteria Nazionale dei CARC (28) nei confronti di quell’esperienza: “Con la loro iniziativa pratica le BR ruppero con la concezione della forma della rivoluzione socialista che aveva predominato tra i partiti comunisti dei paesi imperialisti nel corso della lunga situazione rivoluzionaria 1910-1945”.

 

28. Progetto di Manifesto Programma. Cit., pag.78

 

Questa affermazione, che viene assunta a fondamento dei presunti meriti delle BR, rappresenta la cartina di tornasole dei loro limiti: non aver fatto tesoro delle esperienze del patrimonio teorico dei comunisti ha condannato “l’iniziativa pratica” delle BR all’isolamento e alla sconfitta.

L’impostazione delle BR era già stata oggetto di discussione tra i comunisti italiani nel 1928: allora, nel momento in cui più brutale era la repressione fascista, alcuni dirigenti del Partito proposero di adottare i metodi di lotta utilizzati successivamente dalle BR. Grieco, e con lui tutto il gruppo dirigente del PCd’I, sottoposero a giusta critica quell’impostazione errata, con delle argomentazioni che ci aiutano a capire le ragioni dell’insuccesso delle BR: “Si tratta, insomma, di infondere il coraggio alle masse facendo saltare... una centrale elettrica, o accoppando Tizio o Caio. Ma, realizzano gli atti terroristici uno spostamento delle masse in avanti? No. Noi abbiamo visto che il terrore individuale segna sempre un passo indietro delle masse dalle loro posizioni. L’esperienza del movimento rivoluzionario  lo attesta. Anche in Italia, ogni qual volta che si sono avuti degli attentati, lo stato d’animo delle masse è entrato in uno stato di passività maggiore. Siamo noi, forse contro il terrore? Niente affatto. Non abbiamo delle preoccupazioni contro il terrorismo. Ma quando dobbiamo fare terrorismo? È questo il problema. Non si fa del terrorismo quando si è deboli come noi siamo; noi ci perderemmo; l’avversario ci schiaccerebbe. Possiamo fare del terrorismo quando abbiamo il possesso di solide posizioni avanzate”.(29)

 

Circolo Lenin (Catania)

 

29. R. Greco, Relazione introduttiva della seconda conferenza del PCd’I, 1928, p. 14.

 

***

 

Sulle nazionalità

 

Quanto scriviamo in riferimento al punto 10 del Manifesto-Programma del NPCI è da intendersi esclusivamente come una critica costruttiva fra comunisti e come un tentativo di aprire un dibattito ricco sulla questione nazionale all’interno del movimento comunista.

Noi crediamo che sia necessario lavorare per la liberazione dell’umanità da ogni sfruttamento e condizionamento, per questo mettiamo in conto anche che l’uomo nuovo del futuro avrà una terra, una lingua e un popolo d’appartenenza.

Riguardo alla posizione che difendiamo esprimiamo questi punti fondamentali:

- un internazionalismo che si basa di fatto sull’accettazione degli odierni confini nazionali (creati dalla borghesia) motivando la posizione col pretesto di una inesorabile distruzione degli stati nella società comunista non è da considerarsi internazionalismo. Esso è un residuo borghese nel pensiero di molti compagni sia italiani che sardi.

- L’internazionalismo deve essere necessariamente costruito fra i popoli, e qualora le nazionalità non abbiano il loro stato ma si trovino annesse ad altri stati, i comunisti della nazione senza stato devono condurre la lotta d’indipendenza ed essere aiutati dai comunisti della nazione dominante in questo compito per i seguenti motivi:

Si toglie terreno alle forze nazionaliste della nazione senza stato.

Si viene a creare un ulteriore problema allo stato capitalista già impegnato nella lotta anticomunista.

Viene tolta in anticipo alla borghesia la possibilità di disgregare il futuro stato socialista (se composto da più nazionalità) fomentando aspirazioni indipendentiste.

Nel caso di vittoria indipendentista diretta dai comunisti lo stato ex dominatore si ritrova circondato da paesi a regime socialista, dal momento che quasi sempre le nazionalità assoggettate sono ai confini degli stati dominatori.

Nel nostro caso specifico si dirottano e impegnano ingenti forze repressive in un territorio d’oltremare.

Nel nostro caso specifico, ma non solo, si evita preventivamente la nascita di nuove Taiwan.

Dal punto di vista storico-politico va invece valutato che gli stati esistenti sono stati creati dalle borghesie nazionali giunte a maturazione e ribellatesi ai circuiti borghesi che le assoggettavano precedentemente o/e al sistema ormai putrefatto del feudalesimo. Il nostro popolo si è ritrovato ad appartenere definitivamente allo stato piemontese (e quindi successivamente allo stato italiano) a causa di una votazione dei nobili dell’isola. Il fatto che questo non sia avvenuto per alleanze borghesi sardo-piemontesi se non in minima parte, la dice lunga su quello che era il destino prospettato per questa terra: non sviluppo, non produzione, non rivoluzione borghese, ma magazzino dei rifornimenti materiali e umani per la potenza economica, politica e militare dell’impero coloniale prima piemontese e poi italiano.

  

*****Manchette

 

Sul numero precedente di Rapporti Sociali abbiamo pubblicato la prima parte del Contributo al dibattito sul Progetto di Manifesto Programma del nuovo partito comunista italiano, a firma Albatros, militante comunista prigioniero.

Abbiamo ritenuto di non pubblicare la seconda parte del Contributo, consistente in numerose e dettagliate proposte di modifiche e aggiunte al Progetto di Manifesto Programma, perché più pertinente ad un Bollettino specificatamente dedicato allo sviluppo della discussione sul Manifesto Programma che a questa rivista e in questo spazio così limitato. Chi fosse comunque interessato a ricevere la seconda parte del Contributo, può richiederla alle Ed. Rapporti Sociali. Quando riceveremo la terza parte del Contributo, riguardante la via alla rivoluzione nel nostro paese e la natura e le caratteristiche del nuovo partito comunista italiano, provvederemo a pubblicarla e a darne notizia ai lettori.

 

*****

 

Noi siamo comunisti e siamo sardi, ed è assolutamente consequenziale che se non esiste lo stato sardo dobbiamo assumerci l’onore e l’onere di dirigere la lotta d’indipendenza del nostro popolo per creare la Repubblica Popolare Socialista Sarda.

Noi critichiamo le posizioni espresse al punto 10 del vostro programma non solo in quanto assomigliano spaventosamente alle disposizioni dell’art. 6 della costituzione borghese italiana, ma anche per questi motivi:

1) Si parla di “assoluta libertà di lingua e cultura”, il che già presuppone che il NPCI intende essere non il partito comunista del popolo italiano ma il partito comunista del territorio italiano. Ebbene questa libertà, se anche un organismo la potesse concedere o assicurare, sarebbe superflua se già si fosse rispettato il diritto dei popoli all’autodeterminazione. Come ci rimarreste, compagni, se dopo una annessione dell’Italia da parte della Francia i comunisti rivoluzionari francesi al decimo punto del loro programma vi concedessero l’assoluta libertà di parlare italiano?

Parlare di minoranze nazionali e linguistiche è ammettere implicitamente l’esistenza di stati dove ci sono maggioranze e minoranze nazionali, il che prevede che ci siano dei popoli numericamente inferiori sottomessi all’appartenenza a uno stato nazionale espressione della maggioranza. Accettiamo il discorso su popoli più o meno numerosi solo nel caso che ogni popolo abbia il suo stato e che questi stati siano federati a livello mondiale in uno scenario socialista. Anche in questo caso però il fattore numerico può interessare solo le statistiche, dal momento che gli stati devono essere federati in un rapporto di uguaglianza e pari dignità. Chi vuole uguaglianza, rispetto e libertà fra gli uomini la deve volere anche fra i popoli e viceversa.

Le misure per sviluppare la cultura e per assicurare la vita delle “minoranze” (virgolette nostre) in ogni campo, di cui parla il punto 10, sono espressione di una posizione confutabilissima con questa affermazione: per noi le misure adeguate si riassumono nella conquista dell’indipendenza nazionale e l’instaurazione del socialismo per arrivare alla costruzione della società socialista.

Solo così saremo adeguatamente sicuri che la vita del nostro popolo possa essere tutelata.

Sappiamo bene che non volete ostacolare la nostra lotta per l’indipendenza, anche dal momento che viene condotta da comunisti, ma ciò che non sappiamo bene, e che chiediamo a tutti i comunisti rivoluzionari pur sapendo che per voi ovviamente non potrà essere primaria la nostra lotta d’indipendenza, che motivo ci potrà mai essere per non appoggiarla e difenderla attivamente?

Organizzassione Indipendentista Rivolussionaria

  

*****Manchette

 

Per promuovere e facilitare la partecipazione più ampia possibile al dibattito sulla ricostruzione del partito comunista e sulla definizione del suo programma, le Edizioni Rapporti Sociali mettono a disposizione dei lavoratori avanzati, delle donne e dei giovani delle masse popolari una Guida allo studio del Progetto di Manifesto Programma del nuovo partito comunista italiano (30 pagine, L. 3.500).

La Guida segue il testo del Progetto di Manifesto Programma evidenziando e spiegando capitolo per capitolo, in un linguaggio semplificato e con esempi, gli aspetti più importanti contenuti in ognuno di essi.

 

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Sul Progetto di Manifesto Programma del nuovo partito comunista italiano

 

Questo documento ha un duplice indiscutibile merito: quello di fornire un’analisi e una sintesi organica dello sviluppo della lotta di classe e del movimento comunista internazionale, a partire dalla fondazione di questo, e quello di delineare un programma massimo “per la fase socialista” chiaramente ancorato ai principi dottrinari del marxismo-leninismo e nutrito dei preziosi ammaestramenti dell’esperienza storica proletaria. Ma presenta anche alcuni punti deboli. Un primo punto debole è rappresentato dalla mancanza di un programma minimo o di fase, presumibilmente dovuta a un approccio empirico ai problemi e ai compiti dei comunisti in questa stessa fase, a sua volta derivante, a nostro avviso, da una sostanziale sottovalutazione dell’importanza di un loro approfondimento, inteso a tracciare le linee di forza di un piano d’azione, che, fondandosi sui bisogni immediati del proletariato e delle masse popolari, sia volto a favorire il processo di ricostruzione del partito comunista e, parallelamente, la necessaria ricomposizione e ripresa del movimento di classe. Ora però intendiamo soffermarci anzitutto sul contenuto del paragrafo 2.2./Capitolo II del documento (“Lo Stato della borghesia imperialista e il partito comunista”), giacché ci sembra che in esso emergano le motivazioni che starebbero alla base dell’indirizzo strategico e tattico indicato nel documento stesso, di cui ci occuperemo più avanti, ritenendolo il punto debole più rilevante del Progetto. In detto paragrafo, facendo puntualmente riferimento al pensiero di Lenin e di Engels e alla luce dell’esperienza concreta della lotta di classe, si dichiara giustamente che la democrazia politica e le libertà democratiche borghesi sono ormai storicamente obsolete, in quanto, come disse Lenin, “l’imperialismo sostituisce la democrazia in genere con l’oligarchia” e in quanto l’esperienza ha confermato ciò che Engels aveva già indicato nel 1895, laddove aveva sostenuto che “la borghesia di fronte alla maturazione politica della classe operaia avrebbe violato essa stessa per prima la propria legalità.

E si afferma inoltre che “la realtà ha smentito le illusioni che continuasse l’epoca in cui la borghesia aveva svolto un ruolo progressivo”. Da queste giuste valutazioni di principio viene tratta la giusta e logica conseguenza che “il partito deve combattere tra i suoi membri ogni concezione o tendenza a fondare la sua esistenza e la sua azione sulle libertà (...) che con la vittoria della resistenza sono state in qualche misura introdotte nel nostro paese e che in parte sopravvivono ancora all’eliminazione delle conquiste strappate dalla classe operaia e dalle masse popolari che la borghesia imperialista sta sistematicamente operando dalla metà degli anni ’70 a questa parte” (pagg. 66-67). Ma, d’altra lato, nello stesso paragrafo, gli autori del Progetto, nel condannare fondatamente il parlamentarismo, omettono di distinguere tra “partecipazione” riformistica al parlamento e alle altre istituzioni rappresentative della democrazia borghese e il loro necessario utilizzo, nelle condizioni date, come “tribune rivoluzionarie” - secondo le indicazioni di Lenin -, né considerano l’utilità e la necessità di difendere queste stesse istituzioni, assieme alle libertà democratico-borghesi (fintantoché la maggioranza della popolazione lavoratrice farà ancora affidamento su esse per la salvaguardia dei propri  interessi) contro i tentativi della borghesia imperialista di esautorarle e di sopprimerle. Vorremmo ricordare al riguardo l’appello rivolto da Stalin ai partiti comunisti nel discorso pronunciato nella relazione conclusiva al XIX Congresso del partito comunista dell’URSS (Ottobre 1952), affinché si assumessero il compito di risollevare e portare avanti “la bandiera delle libertà democratico-borghesi, buttate a mare dalla borghesia”, per “raggruppare la maggioranza del popolo” attorno ad essi. Stalin non ignorava dunque certamente, come Lenin, che “l’imperialismo tende a sostituire la democrazia in genere con l’oligarchia”, né che - aggiungiamo noi, citando lo stesso Lenin - “la struttura politica della nuova economia del capitale monopolistico è la svolta dalla democrazia alla reazione politica. Alla libera concorrenza corrisponde la democrazia; al monopolio corrisponde la reazione politica”. Sia Stalin che Lenin non ne deducevano però che i partiti comunisti dovessero in pratica assecondare questa tendenza della borghesia imperialista, rinunciando a combattere per le rivendicazioni della democrazia politica, per il fatto che si trattasse (ieri come oggi) di una democrazia inevitabilmente ristretta e ingannevole, in quanto piegata alle esigenze della classe capitalistica al potere. Al contrario, entrambi erano convinti della necessità “della lotta immediata e decisa per tutte queste rivendicazioni”, pur essendo ben consapevoli che fossero “realizzabili nell’epoca imperialista soltanto in modo incompleto, deformato”. Lenin riteneva inoltre che dette rivendicazioni dovessero essere poste “in modo rivoluzionario e non riformista”, allargando le lotte democratiche “sino all’attacco diretto del proletariato contro la borghesia” (Lenin, La rivoluzione socialista e il diritto di autodecisione delle nazioni - 1916). D’altra parte Lenin, nell’oramai famoso scritto L’estremismo, malattia infantile del comunismo (Aprile 1920), demolisce magistralmente le argomentazioni contro la partecipazione ai parlamenti borghesi addotte dai comunisti “radicali” tedeschi, i quali sostenevano che “bisogna rifiutare assolutamente qualsiasi ritorno alle forme di lotta del parlamentarismo, che sono storicamente e politicamente superate”. Riportiamo qui integralmente le parole di Lenin in merito a questa tesi, da lui testualmente citata: “Il parlamentarismo è ‘storicamente superato’. Ciò è esatto nel senso della propaganda. Ma ognuno sa che da qui a un superamento PRATICO c’è ancora molta distanza. Del capitalismo si poté già molti decenni addietro e con piena ragione dire che esso era ‘storicamente superato’ ma ciò non elimina affatto la necessità di una lotta molto lunga e molto tenace sul TERRENO del capitalismo. Il parlamentarismo è ‘storicamente superato’ nel senso della STORIA MONDIALE, cioè è finita l’epoca del parlamentarismo borghese ed è COMINCIATA l’epoca della dittatura del proletariato. Questo è incontestabile. Ma su scala STORICA mondiale gli anni si contano a decine (...) Ma appunto perciò è un gravissimo errore teorico valersi della scala della storia mondiale nei problemi della politica pratica.

F. G.

(segue sul prossimo numero)

 

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