Democrazia e socialismo

Rapporti Sociali n. 7 - maggio 1990  (versione Open Office / versione MSWord )

 

La borghesia nei paesi imperialisti usa il crollo dei suoi amici di ieri, i revisionisti moderni, in generale ai fini della sua lotta contro il comunismo e nell’immediato ai fini dello smantellamento degli istituti del “capitalismo dal volto umano”.(1) “Perfino i lavoratori dei paesi socialisti si ribellano al comunismo”, “anche nei paesi socialisti viene adottata la linea Thatcher: meno Stato più mercato”: sono i due motivi che vengono conditi in ogni salsa.

Nella teoria che fa da retroterra culturale alle campagne di opinione, l’uso che la borghesia fa del crollo dei revisionisti moderni ha due tesi fondanti.

 

(1) A partire dagli anni ’70 il movimento economico e politico delle società imperialiste ha reso sempre meno compatibili con il resto degli ordinamenti sociali gli istituti la cui combinazione costituiva il “capitalismo dal volto umano”: misure di regolazione dell’iniziativa economica individuale dei capitalisti e di limitazione dei suoi effetti più distruttivi, piena occupazione, reddito minimo garantito, assistenza sanitaria gratuita, accesso gratuito all’istruzione, sistema generale di sicurezza sociale, estensione dei diritti individuali e collettivi dei lavoratori sui posti di lavoro, ecc. Man mano che ciò avveniva, davanti a queste società si sono aperte due strade possibili:

- smantellare gli istituti del “capitalismo dal volto umano”, ove necessario dopo averli trasformati all’interno nel loro contrario o averne sabotato il funzionamento al punto da coalizzare le forze necessarie al loro smantellamento e alla repressione delle forze che continuano a difenderli;

- estendere gli istituti del “capitalismo dal volto umano” eliminando gli altri istituti della società borghese incompatibili con la permanenza di quelli (la proprietà individuale delle principali forze produttive, il libero mercato, le libere professioni, le organizzazioni politiche pubbliche e segrete dei capitalisti, l’estraneità della massa dei lavoratori alla direzione della società, la direzione dei capitalisti sull’apparato statale), adottare tutte le misure necessarie per rendere le istituzioni della società coerenti con essi, costituirli in un sistema organico e coerente di nuova società, reprimere le forze che si opponevano a queste misure o le sabotavano: ossia compiere la rivoluzione socialista. Il proletariato per mantenere quello che ha conquistato, deve conquistare e assumere la direzione dell’ intera società.

La lotta tra queste due vie è il substrato delle lotte politiche in corso e quindi la discriminante tra le forze politiche delle due classi antagoniste.

Ciò che invece è diventato oggettivamente impossibile (e quindi politicamente perdente) è il mantenimento della situazione esistente: conservare gli istituti del “capitalismo dal volto umano” già acquisiti e mantenere immutato il resto della società. Da qui l’inevitabile tramonto della via riformista e il passaggio dei suoi sostenitori ad uno dei due fronti che soli hanno possibilità di successo.

 

1. La continuità tra la rivoluzione socialista e il revisionismo moderno, tra il periodo di costruzione del socialismo (di avanzamento nella transizione dal capitalismo al comunismo) e il periodo di graduale eliminazione degli elementi di comunismo nel campo sovrastrutturale e di sabotaggio della struttura socialista: vale a dire, personalizzando, la continuità tra l’Unione Sovietica di Lenin e Stalin e l’Unione Sovietica di Kruscev e Breznev, tra la Repubblica Popolare Cinese di Mao Tse-tung e la Repubblica Popolare Cinese di Teng Siao-ping, tra le democrazie popolari degli anni ’40 e le democrazie popolari degli anni ’60 e ’70.(2) Sulla base di questa supposta continuità, le masse di lavoratori che abbandonano al loro destino o attaccano i regimi dei revisionisti moderni vengono presentate come masse di lavoratori che ripudiano il comunismo.

 

(2) Questo è il significato razionale della reviviscenza degli attacchi a Stalin e allo “stalinismo” a proposito della crisi economica dei paesi socialisti, a 37 anni dalla morte di Stalin, a 34 anni dal XX Congresso del PCUS e con in mezzo un periodo che ha cambiato il volto di tutto il mondo!

 

2. La contrapposizione democrazia - dittatura come contraddizione principale delle società umane nella nostra epoca al posto della contrapposizione capitalismo - comunismo, quasi che nella nostra epoca gli uomini lottassero tra loro non per la trasformazione dell’intero assetto della società, ma per le forme politiche della società, per conquistare o mantenere la democrazia borghese. Applicata al caso concreto questa tesi diventa: il socialismo (o il comunismo) non è stato (non poteva essere) coniugato con la democrazia borghese e quindi è fallito.

 Gli opportunisti al solito condividono la concezione borghese del mondo, cercano di ricavare nel coro borghese una loro nicchia e ne costituiscono una componente con caratteri specifici. A fronte dello scontro in atto nei paesi socialisti gli opportunisti da una parte stendono un velo di silenzio sul revisionismo moderno e sulla contrapposizione tra il periodo storico della sua direzione e il periodo storico della costruzione del socialismo, dall’altra recitano tesi del genere “non può esistere il socialismo senza democrazia, ma né socialismo né vera democrazia possono coesistere con il capitalismo” (Politica e classe, n. 6/7, p. 1). In questa “radicale” e “rivoluzionaria” aggiunta, specifica degli opportunisti, la reale democrazia borghese, il reale socialismo e il reale revisionismo sfumano nella confusione generale di un’immaginaria “vera democrazia” in cui ognuno mette quello che vuole, a tutto vantaggio dello “stato presente delle cose” per la cui trasformazione il proletariato ha bisogno anche di una teoria che sia la comprensione del movimento reale delle cose stesse e quindi ha bisogno di liberarsi da ogni confusione tra le cose e i “veri concetti delle cose”.

Nell’ambito della concezione borghese del mondo di cui condividono la confusione tra democrazia borghese e democrazia in generale, gli opportunisti si distinguono per il rilievo che danno al contrasto tra le cose e il concetto di esse, tra le cose e le vere cose.(3)

Che la “vera democrazia” possa o no coesistere con il capitalismo è un tema su cui demagoghi e accademici si esercitano da tempo e si eserciteranno ancora a lungo visto che ognuno può inventare la sua “vera democrazia” e farla a suo piacere incontrare e scontrare con il vero capitalismo e il vero socialismo.

Dedichiamo questo articolo a

- comprendere il regime politico delle società borghesi che è quello con cui dobbiamo fare i conti;

- comprendere il regime politico delle società in transizione dal capitalismo al comunismo su cui l’esperienza delle rivoluzioni socialiste e l’analisi delle società borghesi ci insegnano qualcosa che ci interessa ai fini della definizione del nostro programma;

- comprendere il regime politico che i revisionisti moderni instaurarono nei paesi socialisti che è ciò che precede l’attuale crollo dei revisionisti moderni e gli sviluppi che si rendono possibili ora nei paesi socialisti.

 

(3) Le “scoperte” degli opportunisti di oggi non sono altro che le vecchie tesi degli epigoni della 2a Internazionale (da Kautsky in giù) e delle varie successive correnti via via contrappostesi al movimento comunista (trotzkisti, bordighisti, ecc.) che denunciavano la dittatura del proletariato, il centralismo democratico, la “mancanza di democrazia”, la “burocratizzazione”, la “dittatura di un solo partito”, la “confusione tra partito comunista e Stato”, le “cinghie di trasmissione”, la “dittatura del Comitato Centrale”, la “dittatura stalinista”, ecc.

In generale le denunce di questi anticomunisti non fanno che presentare in luce sfavorevole, appigliandosi ad aspetti contraddittori considerati unilateralmente e ai limiti che il movimento reale non aveva ancora superato, i tratti distintivi dei regimi politici delle società socialiste, ciò che li distingue dalle democrazie borghesi e in particolare le misure prese per conservare e sviluppare la partecipazione delle masse al potere (lotta contro i dirigenti corrotti o di destra, epurazione ricorrente delle fila del partito comunista, mobilitazione ricorrente delle masse per l’epurazione del partito e dell’apparato statale, ecc.). È significativo dell’anticomunismo di queste correnti il fatto che esse siano in generale più concilianti con i revisionisti moderni che con i comunisti, più con Kruscev che con Stalin (Lenin è un santino venerato e dimenticato), benché i revisionisti moderni in generale abbiano consolidato unilateralmente i limiti non superati e gli aspetti più arretrati delle società socialiste (la permanenza di differenze sostanziali tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e della diseguaglianza sociale tra lavoratori e dirigenti, la concezione dello sviluppo delle forze produttive indipendentemente dallo sviluppo dei rapporti di produzione e dei rapporti sovrastrutturali, ecc.) e in molti casi siano tornati indietro, verso forme e rapporti semplicemente borghesi, peggiorati dalla mancanza di proprietà individuale delle forze produttive.

 

1. Il regime politico delle società borghesi

 

Nel periodo in cui nei paesi europei ha lottato contro il mondo feudale e i suoi residui, la borghesia ha lottato non solo per la libertà dell’iniziativa individuale in campo economico, ma anche per la libertà dell’iniziativa individuale in campo politico. Essa ha lottato per la creazione di uno Stato conforme alle esigenze della libera iniziativa economica  individuale e la cui volontà e il cui indirizzo fossero determinati dal libero concorso delle iniziative individuali. Questa fu la democrazia borghese. Il periodo di ascesa della borghesia fu il periodo della democrazia borghese come regime politico a cui ogni società borghese tendeva.

 

La società borghese si è sviluppata man mano che si sono moltiplicate le imprese individuali produttrici di merci, imprese che diventavano capitaliste quando il proprietario iniziava a produrre merci assumendo lavoratori salariati. È questa impresa individuale che informa di sé la vita economica delle società europee nello sviluppo il cui inizio segna la fine del Medioevo. Essa ha alla base il possesso individuale dei mezzi di produzione e la proprietà individuale del prodotto del proprio lavoro. La libertà ed eguaglianza del venditore e del compratore sono la sostanza del rapporto di valore, della produzione di merci.

Gli individui proprietari delle forze produttive, proprio perché sviluppavano liberamente la loro iniziativa individuale in campo economico e disponevano liberamente del suo risultato, dovevano sviluppare altrettanto liberamente iniziative che concorrevano a determinare l’azione delle pubbliche autorità. Non a caso la sostanza delle prime conquiste politiche della nascente borghesia consistette nel diritto di essere sottoposta a tasse solo se approvate da suoi deputati (“no taxation without representation”).

Come nel mercato i liberi proprietari contrattavano e concorrevano e arrivavano all’equilibrio momentaneo del prezzo, così in campo politico i liberi proprietari cercavano ognuno di far valere le proprie ragioni coordinando i propri interessi con quelli affini e rappresentando ognuno il proprio interesse come interesse generale; gli opposti interessi trovavano l’equilibrio (momentaneo) nell’indirizzo impresso all’attività delle pubbliche autorità.

La democrazia borghese nasce quindi come sovrastruttura politica della produzione mercantile. Ma la produzione mercantile si consolida e si generalizza solo come produzione capitalista. La libera disponibilità della propria capacità lavorativa non è condizione sufficiente per produrre merci. Le altre condizioni della produzione si contrappongono al lavoratore come proprietà del capitalista. Per giovarsi della sua capacità lavorativa il lavoratore deve venderla al capitalista. È quindi il capitalista il produttore di merci, non il lavoratore.(4) È il capitalista, non il lavoratore, il titolare delle prerogative sociali che la produzione mercantile attribuisce al produttore di merci. L’espressione politica della società produttrice di merci si consolida e si generalizza quindi anch’essa come democrazia borghese, come sistema in cui il potere politico è riservato ai capitalisti: come dittatura della borghesia.(5)

 

(4) Una descrizione accurata del meccanismo della trasformazione della produzione semplice di merci in produzione capitalista di merci è data da Rosa Luxemburg in L’accumulazione del capitale, cap. 29 relativamente agli USA e al Sud Africa.

 

(5) Qui e nel seguito con il termine dittatura indichiamo il monopolio del potere politico. Il termine non deve essere inteso nel senso corrente di regime dispotico e terroristico di un individuo o di un piccolo gruppo. Gli strumenti con cui una classe conserva per sé ed esercita il potere politico su tutta la società variano con l’opposizione e la resistenza che incontra e non hanno direttamente nulla a che vedere con l’estensione del gruppo dominante. La democrazia borghese è dittatura della borghesia perché è nell’ambito di questa classe e delle sue organizzazioni e in coerenza ai suoi interessi che vengono elaborate le linee che presiedono all’attività dello Stato, qualunque siano le forme di governo e le istituzioni costituzionali. Nel 1947 in Italia toccò al democristiano A. De Gasperi ricordare al “marxista” P. Togliatti che in Italia esisteva un quarto partito (oltre a DC, PCI e PSI) “che non ha voti, ma senza del quale non si può governare” un paese borghese: i capitalisti.

 

(6) Solo in una fase successiva, e a seguito di un altro ordine di sviluppi, il servizio militare divenne nuovamente prestazione gratuita ma universale.

 

 

Nello stesso tempo, a seguito prima della decadenza degli ordinamenti militari, giudiziari e amministrativi feudali a  fronte della produzione mercantile e poi della loro abolizione, in ogni paese lo Stato si trasformava nel principale acquirente di forza-lavoro e di merci. Le attività pubbliche (le forze armate, la giustizia e l’amministrazione) che in periodo feudale erano alimentate dalle prestazioni feudali, diventavano attività finanziate dalle tasse o dai prestiti e sostenute dall’acquisto di merci.(6) Il controllo dell’imposizione fiscale diventava (e doveva diventare pena la perdita di efficacia) dapprima controllo su tutta la condotta dello Stato e poi, altrettanto necessariamente, assunzione diretta della gestione del potere statale. L’amministrazione pubblica, la politica estera e l’ordine pubblico erano diventati ingredienti e strumenti dell’accumulazione della ricchezza in generale e dell’accumulazione del capitale in particolare. Anche questo portava alla stessa conclusione: “tutto il potere alla borghesia”.

La creazione di associazioni culturali e politiche, dai clubs ai circoli ai partiti, la diffusione pubblica della cultura e della scienza, la formazione di un sistema di istruzione generale, il miglioramento delle condizioni igieniche pubbliche, la creazione di organi di stampa, le campagne di informazione e di denuncia furono istituzioni per la formazione di una volontà comune tra gruppi di borghesi e per far valere questa volontà come volontà popolare nella determinazione dell’indirizzo delle pubbliche autorità.

La regolamentazione dell’attività delle pubbliche autorità, degli individui e delle associazioni tramite leggi e un sistema di diritto, l’attribuzione del potere di stabilire leggi ad assemblee di delegati eletti come loro prerogativa esclusiva, il voto segreto per mettere al riparo da pressioni e ritorsioni, la divisione del potere statale in istituzioni distinte e indipendenti (potere esecutivo, legislativo, giudiziario) furono conquiste con cui la nuova classe sorgente compose il regime politico della nuova società.

Finché la borghesia fu impegnata nella lotta contro il feudalesimo, essa lottò con passione ed energia per estendere la partecipazione alla vita politica, per la diffusione dell’istruzione, della cultura e dell’informazione, per l’abolizione delle istituzioni in cui si concretava il privilegio delle caste, degli ordini e del sangue. Si trattava di conquistare, di contro al vecchio mondo feudale, nuovi e più estesi diritti per i proprietari delle nuove forze produttive. Di contro al privilegio ereditario e di sangue, nell’ardore della lotta contro il feudalesimo, questi diritti vennero persino proclamati diritti universali, di tutti gli uomini. Formulazioni tipiche ne furono la Costituzione degli Stati Uniti d’America del 1776 e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. In realtà il compito che allora si poneva e quello che di fatto si veniva risolvendo era la conquista del potere politico da parte dei proprietari delle nuove forze produttive con l’abolizione dei privilegi politici e civili dei nobili per nascita o nomina regia.

Le lotte erano condotte in nome dei “diritti universali dell’uomo”, ma tutte le misure pratiche cui esse approdarono furono libertà ed eguaglianza civili e politiche per le “persone degne e capaci”, ossia per i proprietari in generale e per i borghesi in particolare. Non erano mai per tutti. Il voto idealmente esprimeva la pari dignità, l’eguaglianza sociale di ogni cittadino. In realtà esprimeva la pari dignità, l’eguaglianza di ogni capitalista e degli altri proprietari ad essi assimilabili. Erano escluse dal potere politico le donne che non erano proprietarie anche se di famiglia ricca. Ne erano esclusi i membri delle classi della vecchia società feudale (servi della gleba, coloni, servi, ecc.) e i membri delle classi della nuova società borghese (proletari e tra essi gli operai,(7) contadini, mezzadri, artigiani, venditori, ecc.) nullatenenti o con proprietà così piccole da non consentire ai titolari autonomia e indipendenza personali sul piano economico. Erano cioè esclusi dal potere politico quelli che non erano individualmente capaci di iniziativa economica autonoma. Queste esclusioni non erano ancora il risultato di un’imposizione contro rivendicazioni di senso contrario. Erano l’ovvia conseguenza dei rapporti economici. Il proletariato non esisteva ancora come classe in sé. Da una parte esso si confondeva con i lavoratori del vecchio sistema (servi, contadini dei feudi e dei possedimenti ecclesiastici e dinastici, garzoni di bottega), dall’altra si confondeva con il produttore autonomo di merci, il lavoratore autonomo che con  altrettanta facilità e frequenza assumeva salariati o diventava lui stesso un salariato. Le altre classi lavoratrici erano composte di individui la cui esistenza restava precaria e che non assursero mai, salvo i contadini in alcuni paesi e per brevi periodi, ad alcun ruolo politico autonomo.

 

(7) Qui e nel seguito

- per operai intendiamo gli individui che vendono la loro capacità lavorativa ai capitalisti che l’acquistano per valorizzare il loro capitale producendo merci;

- per proletari intendiamo gli individui che nelle condizioni della società borghese vendono la loro capacità lavorativa a somiglianza degli operai e come venditori di capacità lavorativa sono in concorrenza con gli operai.

 

 

Il voto attivo e passivo (eleggibilità) secondo il censo (oppure secondo il contributo fiscale dato da ognuno al finanziamento dell’attività statale) fu una forma universale in cui si espresse il nuovo regime politico. Occorrerà aspettare il secolo XIX e l’inizio dell’azione politica autonoma di una delle classi escluse, il proletariato e in esso la classe operaia, perché il voto per tutti (nullatenenti, quasi-nullatenenti e donne) e l’esercizio delle altre attività politiche dell’epoca siano avanzate come rivendicazioni e proposte politiche, cessando l’eguaglianza e la libertà universali di restare confinate nel campo delle enunciazioni filosofiche e delle dichiarazioni di principio per entrare nel campo degli obiettivi politici e delle rivendicazioni politiche.

Man mano che la contraddizione borghesia - proletariato diventerà un fattore rilevante del movimento politico della società borghese, i portavoce della borghesia cercheranno sempre più di elevare, nell’opinione e nella dottrina (ossia nell’immaginazione), gli ordinamenti politici raggiunti a forma assoluta, universale e definitiva di organizzazione sociale, ossia di presentare la democrazia borghese come democrazia in generale, come regno dell’eguaglianza e libertà di tutti, della pari dignità sociale di tutti. Esattamente come cercheranno di presentare la produzione mercantile e la produzione capitalista come la forma definitiva, finalmente raggiunta, della produzione umana.

 

2. Il limite assoluto della democrazia borghese

 

La creazione di un sistema economico basato sulla proprietà individuale e sulla compravendita (libera da limiti imposti dall’autorità) dei prodotti del lavoro, delle forze produttive e della forza-lavoro avente come regola generale la contrattazione tra i rispettivi proprietari fu la base sulla quale furono eretti gli ordinamenti della democrazia borghese. Questa fu il necessario prodotto sovrastrutturale di quel sistema economico e nello stesso tempo la condizione per la generalizzazione di quella sua base. Spezzare gli ordinamenti politici e i vincoli giuridici ed abitudinari preesistenti diventerà per la borghesia lo strumento dell’accumulazione originaria del capitale e la premessa necessaria del proseguimento dell’accumulazione del capitale. Questa rottura verrà realizzata più o meno efficacemente sia nei paesi borghesi sia nei paesi all’interno dei quali non era sorta o non si era imposta per forza propria una borghesia (le “porte aperte” imposte ai vari Stati non borghesi: Turchia, Giappone, Cina, Persia, ecc. e le conquiste coloniali dirette).

 

Quando i borghesi dicono che proprietà individuale delle forze produttive e democrazia (borghese), libera iniziativa economica individuale e democrazia (borghese) vanno di pari passo e sono inseparabili, essi dicono una cosa vera. Essi però indicano così anche il limite assoluto della democrazia borghese. La democrazia borghese è il regime della libertà politica, dell’eguaglianza politica e del potere politico riservati ai depositari dell’iniziativa economica; è il potere politico riservato ai borghesi; è l’esclusione dal potere politico di quelle classi che sono escluse dalla libera iniziativa economica individuale, sono escluse dalla proprietà individuale delle condizioni della produzione. In questo senso la democrazia borghese è il regime della dittatura della borghesia, del potere politico come prerogativa  esclusiva della sola classe borghese.(8)

 

(8) Nella società borghese le funzioni statali sono esercitate, oltre che da esponenti della borghesia, in parte da personale specialistico ed esecutivo che vende la sua capacità lavorativa allo Stato come la venderebbe a qualsiasi altro acquirente e in parte da dirigenti ed “uomini politici” reclutati tra quelle classi della società che forniscono alla borghesia personale dirigente anche per le attività economiche e attraverso gli stessi canali di selezione. Da ciò nasce il pregiudizio che nella società borghese gli intellettuali, i tecnici, i militari e i professionisti partecipino al potere politico al pari dei capitalisti. È nei momenti di crisi politica che appare chiaro che il potere politico è di chi ha il capitale e risalta la dipendenza economica e quindi anche politica della macchina statale dal capitale e quel personale che in periodi tranquilli pare decidere secondo il suo pensiero l’indirizzo dello Stato riconosce, e in questo sta la “grandezza d’uomo politico” di ognuno dei suoi membri, che “esiste un quarto partito che non ha voti, ma senza il quale non si governa” il paese (come nel 1947 De Gasperi spiegò all’“attonito” Togliatti). L’uso di personale esterno alla classe dominante, (avventurieri, uomini “di ventura”, mercenari, arrampicatori sociali, specialisti, grandi intellettuali) per mansioni statali è proprio di tutti i sistemi politici un po’ sviluppati: dai liberti della società romana, agli eunuchi della corte imperiale cinese, al clero nelle società feudali.

La dipendenza economica anche personale di questi uomini politici non borghesi ma solo al servizio della borghesia, venne chiaramente alla luce in ogni paese borghese quando, essendosi ampliato l’apparato dello Stato ed essendo diventato il loro impiego sistematico, si pose il problema della loro remunerazione. Dalla remunerazione dei loro servigi derivò la remunerazione diretta di tutti i servizi statali resi anche da esponenti della borghesia (che nel periodo del suo sorgere poneva invece l’attività politica come prestazione sociale gratuita, onorevole attività patriottica, salvo ricavarne indiretti benefici anche economici). L’assunzione sistematica tra i dirigenti statali e gli uomini politici di individui privi di patrimonio personale adeguato ovviamente ampliò enormemente (e non poteva non ampliare) il campo dell’uso della funzione politica per crearsi un patrimonio personale e della corruzione degli uomini politici da parte dei capitalisti. Ma di questi sviluppi qui non ci occupiamo, salvo precisare che sono propri di tutti i paesi borghesi e che sono inevitabilmente connessi con la struttura sociale di questi: dove non vengono ricorrentemente alla luce in “scandali”, il motivo è la relativa coesione della classe dominante che le permette di lavare i panni sporchi in casa.

È da ricordare che la Comune di Parigi e poi il potere sovietico stabilirono che gli uomini politici e i funzionari dello Stato avessero un reddito non superiore a quello di un operaio specializzato.

 

In nessuna società borghese c’è (né ci può essere) iniziativa economica individuale né autonomia economica individuale per tutti. La condizione preliminare del lavoro salariato (quindi del capitale e della società borghese) è che i lavoratori diretti non possono produrre per conto proprio. Quindi, a parte la sorte dei membri delle altre classi nullatenenti o quasi-nullatenenti (della vecchia società feudale e della nuova società borghese), risulta che i membri di una delle classi fondanti ed ineliminabili della società borghese (il proletariato) sono esclusi dal potere politico. In ogni società borghese è esclusa la partecipazione di tutti al potere politico.

Esclusa un’immaginaria società di produttori autonomi di merci (a cui ritornano ricorrentemente, nelle loro fantasticherie, anarchici ed altri portavoce della resistenza di semiproletari e di piccolo-borghesi alla proletarizzazione), è evidente che allo stadio attuale di sviluppo delle forze produttive, la proprietà delle condizioni del lavoro e l’iniziativa economica possono essere di tutti solo nella forma di proprietà comune, collettiva, sociale alla cui gestione ognuno partecipa come alla gestione di un patrimonio unico ed indivisibile.

L’eguaglianza politica implica l’eguaglianza nel possesso delle condizioni del lavoro, l’eguaglianza nel campo dell’iniziativa economica, l’eguale autonomia economica. Questa eguaglianza può esistere, all’attuale livello di sviluppo delle forze produttive, solo nella forma di universale partecipazione ad una comune ed indivisibile proprietà delle forze produttive, cioè nella forma della proprietà sociale (collettiva) delle forze produttive e dell’abolizione della proprietà individuale di esse. È quindi evidente che la partecipazione di tutti al potere politico ha come premessa necessaria l’abolizione della proprietà individuale delle forze produttive e della libera iniziativa economica individuale.(9) Ma è anche evidente che su questa base i rapporti sociali e le istituzioni della società non possono essere quelli della democrazia borghese.(10)

 

(9) La partecipazione di tutti al potere politico è quella cosa che i marxisti chiamano estinzione dello Stato. L’estinzione dello Stato non è né la fine di ordinamenti sociali e di istituzioni che li oggettivano, né la fine della  repressione o del trattamento sociali di comportamenti individuali incompatibili con la convivenza e la cooperazione sociali. L’estinzione dello Stato è l’estinzione di quegli ordinamenti sociali e delle istituzioni sociali che sono destinate a reprimere le classi escluse dal potere politico, quindi che oggettivano la concentrazione monopolistica della violenza nelle mani della classe dominante, la sua dittatura.

 

(10) Per considerazioni più dettagliate sull’argomento vedasi Rapporti Sociali n. 0 pag. 20 - 28 e Coproco, I fatti e la testa, ed. Giuseppe Maj Editore, pag. 52 - 81.

 

 

Noi qui trattiamo della democrazia borghese più “pura”, quale concretamente non è mai esistita in nessun paese. Trascuriamo le combinazioni che di fatto in ogni paese la democrazia borghese nascente ha realizzato con le vecchie classi dominanti (diritti ereditari, privilegi costituiti, monarchie, chiese, ecc.) che costituiscono i differenti e concreti regimi politici borghesi dei singoli paesi. Tuttavia non parliamo di qualcosa di immaginario (come la “vera democrazia” con cui gli opportunisti velano la realtà), ma parliamo di ciò verso cui hanno teso i regimi politici di una serie di paesi europei nella fase di ascesa della borghesia, per tutto un periodo storico che va dal XV secolo agli inizi del secolo XIX. Si tratta di qualcosa di reale che sta con i concreti regimi politici in un rapporto analogo a quello in cui il lavoro astratto sta ai lavori concreti.(11)

Proprio riferendosi alla democrazia borghese più “pura”, è possibile cogliere il limite insuperabile della democrazia borghese: i membri di una classe fondamentale e ineliminabile della società borghese, il proletariato, sono esclusi dal potere politico perché il loro ruolo nel sistema sociale della produzione esclude che essi vi possano partecipare. Gli istituti proclamati universali, diritti di tutti gli uomini, si rivelano anche storicamente, non appena il proletariato arriva ad uno sviluppo sufficiente per iniziare a rivendicarli anche per sé, diritti solo dei capitalisti e delle classi da essi derivanti (titolari di rendite, banchieri, commercianti all’ingrosso, ecc.). Risulterà subito chiaro, nel concreto del movimento delle società, che non è possibile che gli operai asserviti e comandati nel processo lavorativo e nei rapporti economici della loro vita, abbiano il potere politico (e viceversa non è possibile che una classe che ha il potere politico possa essere asservita e comandata nel processo lavorativo e nei rapporti economici). Man mano che la borghesia sarà costretta ad estendere per legge gli istituti della democrazia borghese (voto passivo, eleggibilità, associazione, ecc.) ai membri delle classi nullatenenti, non solo non saranno create le condizioni materiali e culturali perché tramite quegli istituti essi potessero partecipare al potere politico, ma saranno prese al contrario misure via via più articolate ed efficaci (di cui parleremo più avanti) per impedire, nonostante quegli istituti, la loro partecipazione.

 

(11) Con lavoro concreto intendiamo l’attività lavorativa esercitata su un oggetto specifico e in un modo determinato (ad esempio: l’attività di un operatore di tornio a controllo numerico in un’officina metalmeccanica, l’attività di un autista di autolinee, ecc.).

Con lavoro astratto intendiamo generica attività produttiva umana, che prescinde dall’oggetto su cui si esercita ed è indifferente ad esso.

Nella società borghese il lavoratore è spinto sempre più al lavoro astratto, è reso indifferente al contenuto specifico del suo lavoro. Il lavoro concreto tende cioè al lavoro astratto.

 

 

La democrazia borghese costituì tuttavia in tutti i paesi europei un enorme progresso rispetto ai regimi politici che soppiantò. Non a caso tutti i rivoluzionari comunisti hanno in una certa misura riallacciato i compiti politici delle rivoluzioni proletarie a quelli delle rivoluzioni borghesi. Non a caso i primi movimenti proletari (dal Cartismo in poi) in Europa si svilupparono sulla lotta per la “riforma sociale” ma anche per l’estensione “a tutti” degli istituti della democrazia borghese. I primi partiti nei quali il proletariato si costituì come “classe per sé” furono chiamati socialdemocratici, con una scelta meditata che riuniva in un sol termine i due compiti che essi perseguivano.

Solo degli idealisti, che partono dalla democrazia in generale, dal concetto di democrazia e da altre astrazioni analoghe, anziché dal concreto movimento delle società umane, possono non comprendere l’enorme progresso costituito dalla  democrazia borghese, fermo restando il suo limite di fondo che non nasceva dal campo politico o culturale ma dai reali rapporti economici del modo di produzione capitalista di cui essa era la sovrastruttura politica e fermi restando i concreti limiti storici che di paese in paese essa non superò.

L’estensione a tutti degli istituti della democrazia borghese nell’ambito del rapporto di produzione capitalista (cioè del lavoro salariato) poteva però essere pensato, come obiettivo realizzabile, solo dalla generosa fantasia di individui che, a pari merito, perseguivano assurdità come la produzione mercantile senza denaro, il denaro senza instabilità dei prezzi, la produzione mercantile senza capitale, la piccola azienda capitalista senza la grande, il capitale industriale senza il capitale finanziario, ecc.

 

3. La democrazia borghese si sviluppa nell’autoritarismo imperialista

 

L’ingresso del proletariato nell’area politica come forza autonoma segnò la fine della democrazia borghese. Ma fu lo sviluppo della democrazia borghese, non la sua soppressione, che ne segnò la fine. Man mano che il suffragio divenne universale, il diritto di associazione e propaganda fu riconosciuto a tutti, ecc. la democrazia borghese si tramutò nell’autoritarismo imperialista.

 

Abbiamo visto che il limite assoluto della democrazia borghese proviene dal fatto che i membri di una delle classi fondamentali ed ineliminabili della società borghese, il proletariato, (che nei paesi ad alto grado di capitalizzazione dell’attività economica costituiscono la maggior parte dei cittadini) vendono la propria capacità lavorativa che è l’unica forza produttiva che essi possiedono.

Questo limite intrinseco della democrazia borghese, connaturato alla sua base materiale (il modo di produzione capitalista) divenne politicamente rilevante in un preciso momento storico. Quando la borghesia si avvicinava al suo trionfo definitivo sul mondo feudale e di conseguenza il proletariato era oramai una parte consistente della forza-lavoro della società e ben distinta dalle altre classi nullatenenti o quasi nullatenenti, il proletariato iniziò a rivendicare la partecipazione al potere politico e l’uso di esso per tutelare i propri interessi economici. A partire da quel momento, che per i paesi europei più avanzati si colloca nella prima metà del secolo XIX, la borghesia toccò con mano concretamente l’impossibilità di lasciare partecipare il proletariato al potere politico, l’incompatibilità tra il ruolo che esso svolgeva nel meccanismo sociale della produzione e la sua partecipazione al potere politico.

 

La borghesia divenne conservatrice. Nei programmi di tutti i partiti della borghesia l’elemento costitutivo principale cessò di essere la repressione delle forze feudali; la repressione delle forze proletarie prese il suo posto. È impossibile comprendere gli avvenimenti politici che da allora si sono succeduti nei vari paesi borghesi, se non si parte da questa svolta storica e da questo nuovo elemento costitutivo principale dei programmi di tutte le forze politiche borghesi. A questo nuovo fine la borghesia trovò varie forme di composizione, accordo e integrazione con le residue istituzioni feudali (istituzioni nobiliari, monarchie, chiese, ordini, caste militari, congreghe, ecc.). L’estensione degli istituti della democrazia borghese da allora cessò di essere elemento rilevante dell’azione politica della borghesia e divenne un elemento del programma politico del proletariato.

 

Quando nella maturazione del regime borghese la partecipazione del proletariato al potere politico divenne un obiettivo concreto, emerse un dato costante di ogni società divisa in classe. La gestione degli affari sociali è un ruolo svolto in comune solo da persone a priori economicamente eguali (così vi fu la democrazia dei padroni di schiavi, la democrazia  dei nobili, la democrazia dei capitalisti, ecc.).

Non c’è mai stata, né ci poteva essere una effettiva gestione comune degli affari pubblici da parte di classi che nella struttura economica della società avevano interessi permanentemente antagonisti. Nella società borghese solo la proprietà di mezzi di produzione o di rendite fa gli interessi dell’individuo conflittuali ma non incompatibili con il complesso degli interessi comuni degli altri proprietari e ciò esclude la massa dei lavoratori dal potere politico. Quando le apparenze delle istituzioni politiche di una società borghese sembrano denotare il contrario, cioè la partecipazione universale al potere politico, ciò vuole semplicemente dire che gli effettivi organi del potere sono diversi da quelli apparenti.

Il problema non è la proclamazione di eguaglianza giuridica e politica, ma la creazione dell’eguaglianza, cioè la creazione del possesso universale degli strumenti personali e materiali necessari all’eguaglianza.(12) Nell’ambito della società borghese solo la proprietà di mezzi di produzione o di rendite consente all’individuo di avere le energie e il tempo per acquisire le conoscenze, stabilire le relazioni e promuovere le iniziative necessarie all’esercizio di un effettivo ruolo nell’indirizzo e nella gestione degli affari di Stato. E nessuna società può affidare la sua gestione a persone che non hanno acquisito le attitudini necessarie ad un buon risultato di essa. Cosicché l’esclusione della massa dei lavoratori dal potere politico appare anche, ancora grazie ai rapporti economici, come frutto di un sano comportamento da parte dei borghesi e delle vistose carenze culturali e di carattere dei lavoratori, con buona pace della coscienza di preti e benpensanti.

 

(12) È per questo che l’introduzione delle forme della democrazia borghese in un paese dopo una rivoluzione, o è un imbroglio per coprire il fatto che il potere continua a restare “in mani più capaci” o si risolve rapidamente in un fallimento.

La partecipazione universale alla gestione degli affari della società è una conquista che l’attuale produttività del lavoro ha reso possibile e che il carattere collettivo delle forze produttive rende necessaria. Ma deve essere ancora realizzata, richiede una serie di trasformazioni economiche e culturali, deve ancora trovare le sue forme ed istituzioni appropriate. Se è vero che queste forme ed istituzioni non possono essere inventate da qualche teorico a tavolino, ma solo scoperte nella pratica politica della trasformazione reale, è altrettanto vero che le forme e le istituzioni della democrazia borghese sono indissolubilmente connesse alla proprietà individuale delle forze produttive e non si prestano ad essere usate per la realizzazione del potere politico dei lavoratori.

 

Nelle società borghesi moderne con l’estensione dei diritti politici, la grande maggioranza della popolazione da una parte rimase quindi (e non poteva che rimanere) esclusa dalla gestione degli affari pubblici. Ma l’estensione dei diritti politici non fu priva di effetti. Da una parte essa rafforzò in vario modo la formazione politica e l’autonomia politica del proletariato e con esso delle altre classi lavoratrici. Dall’altra le masse divennero una componente imprescindibile nelle lotte intestine alla classe dominante. La massa dei lavoratori, e in essa in primo luogo gli operai, venne quindi a trovarsi per un verso dentro il sistema politico come oggetto e strumento ineliminabile delle lotte tra i gruppi della classe dominante e per un altro verso fuori dal sistema politico. Esattamente come la massa dei lavoratori da una parte era diventata componente ineliminabile dell’unitario meccanismo della produzione sociale, ma dall’altra restava esclusa dalla sua gestione.

Venne così posto l’inizio per un corso delle cose in cui i contrasti tra le classi che pure si venivano acuendo non potevano esprimersi apertamente nelle istituzioni politiche né essere ivi risolti benché le apparenze dicessero il contrario; tutti gli uomini politici parlavano “a nome del popolo” e agivano “nell’interesse del popolo”, ma il popolo restava accuratamente escluso dagli affari e dalla gestione del “suoi interessi”.(13) La separazione tra paese legale e paese reale divenne un tratto permanente e le forme politiche e le costituzioni politiche assunsero principalmente il compito di mascherare la sostanza dei procedimenti politici reali. La politica divenne un oggetto popolare, ma  misterioso ed indecifrabile.(14)

 

(13) In Italia a cavallo tra gli anni ’40 e ’50 abbiamo avuto un esempio in grande di questi processi ricorrenti nella vita delle società borghesi. La guerra aveva posto alle masse popolari un obiettivo comune, unificante: ricostruire le condizioni materiali della vita che durante la guerra erano state distrutte. “In nome del popolo italiano” condito con la “superiore civiltà occidentale” e la “dottrina sociale cristiana” a più di tre milioni di lavoratori (circa un sesto del totale) venne detto che della loro opera non si sapeva cosa farsene e vennero condannati alla degradazione della disoccupazione, benché essi e le masse attorno ad essi subissero le privazioni e i disagi causati dalla guerra o versassero in condizioni di miseria da tempi più lontani. Agli altri lavoratori cui venne conservato un posto di lavoro, fu imposto di produrre non quello di cui vedevano attorno ad essi il bisogno, ma quello che i loro padroni vendevano con profitto e fu loro predicato che la loro solidarietà e lealtà nazionali e la loro cristiana carità si vedevano da quanto erano disposti a disinteressarsi dei bisogni che urgevano attorno a loro e da quanto assiduamente lavoravano per i compiti indicati dai loro padroni.

Così la Democrazia Cristiana pose le basi per la nuova unità nazionale antifascista e la cristiana fratellanza.

Il processo diverso vissuto da milioni di lavoratori nelle “democrazie popolari” dell’Europa Orientale, benché presto beffato, strumentalizzato e interrotto dal prevalere dei revisionisti moderni, ha lasciato nelle masse dei lavoratori di quei paesi caratteri ed attitudini che avranno un ruolo nel movimento politico che il crollo del revisionismo moderno ha finalmente messo in moto.

 

(14) Tra i politicanti che ammorbano il movimento proletario del nostro paese e veicolano in esso l’influenza culturale della borghesia è venuto di moda negli ultimi anni presentare la “politica-spettacolo” come politica. La tesi è che le iniziative e le misure politiche sono determinate e devono essere determinate dall’imperativo di raccogliere consenso, come le recite teatrali sono determinate dall’imperativo di raccogliere applausi.

Essi presentano così come politica reale, come contenuto reale delle misure che guidano l’azione dello Stato, lo spettacolino che gli agenti pubblicitari dei vari gruppi politici borghesi imbastiscono ad uso del popolo allo scopo privato di rafforzare il proprio gruppo nei confronti degli altri e allo scopo comune di tenere a bada ed occupato il popolino e il suo “interesse per la politica” e la passione degli intellettuali per il “dibattito politico”.

In questo modo quei politicanti “di sinistra”, magari anche “comunisti” e “compagni”, non solo collaborano a velare la reale attività politica, ma veicolano tra le masse la tesi che solo ciò che fa spettacolo, che fa notizia, che fa clamore è politicamente rilevante ed efficace: ossia la negazione e la paralisi dell’avanguardia le cui attività ovviamente non possono iniziare occupando le prime pagine dei giornali e dei programmi TV.

 

Il proletariato (inteso nel senso in cui ne stiamo parlando) compare come classe per sé per la prima volta nelle società europee economicamente più progredite, dopo che la borghesia è diventata la nuova classe dominante e il modo di produzione capitalista è diventato il modo dirigente (anche se non l’unico modo) dell’intero processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza. Nel proletariato sono gli operai che assumono il ruolo di guida politica e culturale sia degli altri proletari sia della massa degli altri lavoratori, ponendo così la propria candidatura alla direzione sia della rivoluzione socialista sia della costruzione del socialismo. Sia gli uni che gli altri entreranno nella società moderna e nella lotta politica o al seguito degli operai o contro di essi al seguito della borghesia. Essi costruiranno le loro associazioni rivendicative economiche e politiche o all’interno di quelle degli operai e sull’esempio di quelle degli operai oppure entreranno in organizzazioni di massa che la borghesia promuoverà contro gli operai.

Nei paesi dell’Europa Occidentale e Centrale l’ingresso degli operai nella lotta politica come forza autonoma avviene a cavallo dei secoli XVIII e XIX. L’affermazione della borghesia come classe dominante, compiuta per l’essenziale nei paesi dell’Europa Occidentale e Centrale nella prima metà del secolo XIX, segnò anche l’apogeo del cammino di questa classe nella storia. Da allora essa cessò di essere la classe più avanzata, cessò di essere principalmente la classe dirigente del processo di rivoluzionamento della società, cessò di essere principalmente una classe rivoluzionaria ed iniziò a trasformarsi in classe conservatrice, le cui energie principali in ognuno dei paesi economicamente più progrediti erano assorbite nel compito di contrastare la strada al proletariato e mantenerlo sottomesso.

 

La democrazia borghese, in quanto tensione ad allargare la partecipazione al potere politico, quindi ad estendere il possesso degli strumenti materiali e personali a ciò necessari, poteva rimanere tale solo fin tanto che la lotta tra le classi della nuova società borghese rimaneva latente o si manifestava solo sporadicamente.

Gli avvenimenti europei del 1830 - 1848 impressero una svolta decisiva. La borghesia aveva conquistato il potere  politico nei due paesi più importanti d’Europa, la Francia e 1’Inghilterra. Da quel momento la lotta tra le classi della nuova società, la borghesia e il proletariato, assunse forme via via più pronunciate e minacciose.

In campo politico, per la borghesia non si trattava più di sottrarre seguito popolare agli aristocratici e di svegliare alla cultura e alla politica le masse popolari per farsene forza contro l’aristocrazia feudale e i suoi governi; si trattava invece oramai di studiare i modi per impedire che la classe operaia acquistasse unità politica e riuscisse a coalizzare le altre masse popolari sotto la sua direzione. Tutti i mezzi efficaci a questo fine, diventano leciti e furono praticati, come vedremo più avanti.

Parallelamente nel campo delle dottrine politiche ed economiche “non si trattava più di vedere se questo o quel teorema era vero o no, ma se era utile o dannoso, comodo o scomodo al capitale, se era accetto o meno alla polizia. Ai ricercatori disinteressati subentrarono pugilatori a pagamento, all’indagine scientifica spregiudicata subentrarono la cattiva coscienza e la malvagia intenzione dell’apologetica”.(15)

 

(15) Sulla svolta avvenuta in Europa in quel periodo vedasi K. Marx, Poscritto alla seconda edizione di Il capitale, 1873 e K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850.

 

Quanto agli altri grandi paesi della stessa Europa, la borghesia non aveva ancora regolato definitivamente i conti con l’aristocrazia feudale, i suoi governi e le sue chiese né li regolò più. Il processo dell’affermazione borghese “giungeva a maturazione troppo tardi, dopo che il suo carattere antagonistico si era fragorosamente rivelato in Francia e in

Inghilterra”. In questi altri paesi la democrazia borghese ebbe quindi uno sviluppo più stentato e limitato che si rifletté negli avvenimenti successivi: l’aristocrazia russa fu spazzata via solo dalla Rivoluzione d’Ottobre, la casta degli Junker prussiani fu eliminata solo con la Seconda Guerra Mondiale e la costituzione della Repubblica Democratica Tedesca, la nobiltà italiana venne assimilata definitivamente alla borghesia solo dopo la Seconda Guerra Mondiale lasciando però in benaccetta eredità sue istituzioni come la mafia, ecc.

 

Il nuovo regime politico che si andò affermando nei paesi borghesi con l’inizio della fase del declino della borghesia non fu tuttavia la soppressione della democrazia borghese, ma il suo sviluppo. Le sue caratteristiche si forgiano nel rapporto conflittuale capitalisti - operai, anche se si estendono a tutta la società. La razionalità di queste caratteristiche emerge quindi solo studiando il rapporto capitalisti - operai.(16)

Lo sviluppo della produzione mercantile in produzione capitalista

- aveva rovesciato lo scambio di prodotti di eguale valore (ossia inglobanti eguali quantità di lavoro) che presuppone la pari dignità sociale, l’eguaglianza di ogni lavoro, nello scambio a prezzi di produzione eguali, che presuppone la pari dignità sociale, l’eguaglianza di ogni capitale;(17)

- aveva rovesciato la legge della proprietà individuale del prodotto del proprio lavoro nel suo diretto opposto, nella legge dell’appropriazione gratuita del lavoro altrui, ossia del suo prodotto.(18)

 

(16) Non è un caso che le relazioni di dipendenza che riguardano il resto del proletariato (dipendenti pubblici, dipendenti di enti non economici, addetti ai servizi personali, ecc.) restano avviluppate a lungo (e in parte sono tuttora avviluppate) da vincoli extraeconomici (dipendenza personale, giuramenti, leggi di lealtà, altri vincoli legali, sanzioni penali, ecc.).

 

(17) In Il capitale, libro III, cap. 9 K. Marx mostra

- che nella società borghese, una volta raggiunto un certo livello di sviluppo, tramite la concorrenza tra capitali tende a crearsi un saggio medio del profitto per ogni capitale impiegato nella produzione

- che questo avviene tramite lo scambio dei prodotti a prezzi che oscillano non attorno al valore di ognuno di essi, ma attorno al prezzo di produzione, definito come la somma del capitale (costante e variabile) anticipato per la produzione e del profitto spettante a questo capitale in base al saggio medio del profitto.

Questa dimostrazione data da K. Marx, assieme alla teoria della rendita fondiaria esposta nei cap. 37 - 47 dello stesso  libro, mostra

- che per K. Marx il valore di un prodotto non è assolutamente una caratteristica del prodotto stesso, della sua vita individuale, ma un segno nel prodotto dei rapporti che intercorrono tra gli uomini e che essi non “osano” ancora contrattare e stabilire esplicitamente, quindi socialmente oggettivi,

- che per K. Marx la legge del valore/lavoro non è la regola della società che abbiamo sotto gli occhi, ma ciò da cui questa società proviene (v. al riguardo Rapporti Sociali n. 2, pag. 11 e segg.)

 

(18) Su questo sviluppo dialettico della legge della proprietà individuale del prodotto del proprio lavoro vedasi K. Marx, Il capitale, Libro I, cap.22

 

Ma la produzione capitalista, che era quindi il rovesciamento dialettico della produzione di merci nel suo contrario, restò fondata sulla produzione di merci come sua larga base continuamente rinnovantesi: i prodotti circolano come merci, il saggio medio del profitto si attua come scontro tra differenti saggi di profitto particolari, accanto alla grande produzione capitalista risorgono continuamente (e continuamente muoiono) produzione semplice di merci e piccola produzione capitalista di merci. Parimenti il regime politico delle società borghesi mantenne (e doveva mantenere) le istituzioni della democrazia borghese come propria base, nonostante che la lotta per l’estensione della partecipazione al potere politico e l’abolizione dei privilegi si fosse rovesciata dialetticamente nel suo contrario, nella lotta per mantenere a sé il monopolio del potere politico ed escludere da esso il proletariato e, con questo, la restante massa dei nullatenenti o quasi-nullatenenti.(19)

 

(19) Il concetto di rovesciamento dialettico (o superamento: quello che nel gergo di Hegel è detto Aufhebung) è importante per comprendere bene il processo reale di cui stiamo parlando. Il traduttore in italiano di Scienza della logica (ed. Laterza) dice: “Qui e in seguito adotto la più consueta traduzione di Aufheben con “togliere” (piuttosto che “risolvere” o “superare”) avvertendo che si tratta di una traduzione di ripiego, inidonea ad esprimere debitamente il duplice significato di “negare” e “conservare”, e inoltre quello di “innalzare”, proprio dell’uso tecnico hegeliano del termine tedesco”.

I moderni teorici del “dominio reale totale”, del “grande fratello”, del “rapporto totale di capitale” ecc. prendono unilateralmente la negazione della democrazia borghese presente nel regime politico delle società imperialiste come prendono unilateralmente la negazione della produzione mercantile presente nella sua struttura economica. Per questo sono interni al campo rivoluzionario, schierati contro lo stato presente delle cose, ma portavoce nello stesso tempo nel movimento rivoluzionario della cultura borghese. Sarebbe utile che arricchissero la loro comprensione del movimento reale delle cose, insomma che studiassero la dialettica.

 

Il meccanismo sociale della produzione creato dal capitale richiede in generale ai lavoratori dipendenti dal capitale (agli operai) prestazioni ben più raffinate di quelle richieste agli schiavi o ai servi della gleba. Se ne accorsero negli USA dove sistema schiavista e sistema capitalista furono a contatto fino a che l’incompatibilità tra i due si risolse nella distruzione di uno di essi; se ne accorgono quanti considerano la lentezza e la ristrettezza con cui si sviluppa il capitale ancora oggi nei paesi dove esso si avvale di schiavi o semischiavi (le zone minerarie africane e sudamericane ad es.).

Queste prestazioni possono essere frutto solo di un grado di collaborazione attiva ben più alto di quello richiesto allo schiavo. Questo fa sì che ogni regime capitalista sviluppato ha bisogno di un certo grado di libero concorso degli operai, un concorso dato da ogni operaio per motivi di sua convenienza economica, sia pure un consenso rassegnato, frutto della convinzione diffusa che non c’è altra possibilità, un consenso al fondo del quale vi sono la necessità, la costrizione e la disperazione. Le prestazioni necessarie al meccanismo sociale della produzione creato dal capitalismo non possono essere estorte, salvo che per brevi periodi di passaggio, con la coercizione amministrativa, con la minaccia della frusta o del fucile.

Le prestazioni lavorative degli operai restano quindi frutto della libera compravendita della capacità lavorativa, i prodotti continuano a circolare come merci. Di conseguenza l’appropriazione capitalista del prodotto del lavoro altrui non sopprime la produzione mercantile e lo scambio di equivalenti ma anzi lo generalizza e la forza-lavoro resta una merce, l’unica merce che la maggioranza dei cittadini di un paese borghese può vendere. Il meccanismo sociale della produzione creato dal capitalismo è un meccanismo collettivo; esso ha bisogno della collaborazione ordinata,  organizzata, attiva e volontaria di masse di lavoratori e nello stesso tempo deve escluderli dalla partecipazione alla sua gestione. Proprio in ciò trovano la loro origine i tratti specifici dell’autoritarismo imperialista.

 

A differenza delle altre merci, la capacità lavorativa è parte della persona del lavoratore. Egli può venderla solo vendendo una parte costitutiva di sé. Quindi ove la capacità lavorativa è merce, una parte costitutiva dell’individuo è prodotta per il mercato, è comperata e venduta, è usata o distrutta dal mercato, come qualsiasi altra merce.

Ne viene

- che una gran parte dei “cittadini” (e per di più la parte politicamente più attiva tra tutti i lavoratori) dispone liberamente di se stessa fino ad un certo punto, ma non dispone più di se stessa oltre quel punto;

- che ogni lavoratore deve seguire solo il suo interesse individuale fin che si tratta di vendere la sua capacità lavorativa, ma deve trascurare ogni suo interesse personale e di gruppo quando si tratta dell’impiego della sua capacità lavorativa;

- che i compratori di forza-lavoro per impiegare liberamente la forza-lavoro che hanno acquistato, devono usare liberamente delle persone di cui questa è elemento costitutivo;

- che la formazione della personalità di una parte dei cittadini (i venditori di forza-lavoro - i proletari) e il loro comportamento sono determinati dalla volontà di altri (i compratori di forza-lavoro), legittimamente proprio come le caratteristiche di ogni merce (ad es. delle scarpe) sono determinate dalla volontà anonima e oggettiva “del mercato”, ossia dalla volontà collettiva degli acquirenti di essa.

Quindi il rapporto di lavoro salariato implica l’intervento crescente dei capitalisti nella formazione della coscienza, del carattere, della cultura, del corpo e delle conoscenze ed esperienze dei proletari.(20) Esso implica anzi un intervento tanto più necessario e profondo quanto più la sussunzione dei proletari è reale (e non solo formale), ossia quanto più ci si allontana dalla fase storica in cui il capitale “usa quello che trova” e ci si è addentrati nella fase in cui il capitale forma, in conformità alla sua propria natura, le forze produttive che usa, le produce egli stesso. La capacità lavorativa dei proletari, quindi le persone dei proletari, sono la prima tra tutte le forze produttive. Ma proprio perché il capitale forma forze produttive, ivi comprese le persone degli operai, in conformità a se stesso, esso, che è la contraddizione in divenire, forma forze produttive che ad un certo punto del loro sviluppo diventano inevitabilmente antagoniste al rapporto di produzione nell’ambito del quale sono cresciute. Esso che è proprietà individuale delle forze produttive crea forze produttive collettive che rendono storicamente sorpassata la proprietà individuale. Il proletariato formato dal capitale ad un certo punto del suo sviluppo diventa antagonista al capitale.

Ogni tendenza all’eguaglianza prodotta dal rapporto mercantile che la implica, trova qui il suo limite invalicabile. La borghesia non può formare al potere un proletariato che le è ostile, essa non può che limitare l’accesso degli operai a tutto ciò che li mette in grado di accrescere la propria capacità di azione politica: la scuola, la cultura, la capacità organizzativa, il carattere, la capacità militare, ecc. La limitazione che il capitale pone all’impiego delle forze produttive, diventa in questo caso direttamente limitazione che il capitale pone all’accesso delle masse al patrimonio culturale e scientifico della società (contro la scolarizzazione di massa, per il numero chiuso, per la selezione economica degli studenti, per la limitazione dell’esperienza organizzativa, politica, militare, statale, ecc.). Le istituzioni in senso contrario che vengono eventualmente strappate, sono sabotate dall’interno al pari di quanto avviene per tutte le istituzioni che diminuiscono l’importanza del salario diretto e quindi lo rendono meno efficace come mezzo di disciplina e organizzazione sociali (assistenza sanitaria, misure previdenziali, politiche della casa, minimi di reddito garantiti, ecc.). La contraddizione che la borghesia vive in campo economico (proprietà individuale di forze produttive collettive), si riproduce negli ordinamenti politici e civili (asservimento di lavoratori liberi). Di fronte a ciò c’è chi si  lamenta e si sfoga nel lamento; chi nega la contraddizione del regime politico e la dà per risolta a favore di un regime terrorista e onnipotente (i teorici della sussunzione reale totale, dello Stato moloch e via estremizzando); chi nega la contraddizione del regime politico e la dà per risolta a favore della partecipazione delle masse al potere politico.(21)

 

(20) Quando negli anni ’50 l’Agip costruì gli impianti di Gela in Sicilia, gli operai assunti nei cantieri arano obbligati a consumare almeno un pasto in mensa a base di carne: i dirigenti erano convinti che vertigini ed altri inconvenienti derivavano dalla alimentazione troppo povera degli operai. Ovviamente erano predisposte misure per impedire agli operai di astenersi dal consumare la propria razione di carne e portarla a casa ai familiari.

Non è che un episodio fra tanti e dei più “materiali”. Ma si pensi alla preoccupazione dei capitalisti per l’aspetto dell’ambiente di lavoro, per le letture e gli spettacoli dei loro dipendenti, per la loro moralità e religiosità, ecc.

 

(21) Ingrao e la sua corrente si sono fatti paladini da anni della “democrazia assembleare”, della “democrazia partecipata”, ovviamente senza risultati apprezzabili. Se il limite della democrazia borghese risiedesse in problemi di ingegneria costituzionale, se il problema non fosse cioè economico e strutturale, ma politico e culturale, se consistesse nel non aver scelto ordinamenti e istituzioni politiche adatti ad un obiettivo tuttavia possibile e comune, risulterebbe incomprensibile la sconfitta permanente di questo prestigioso vegliardo. Ma tutto risulta chiaro se si riflette che egli affronta un problema di potere come se fosse un problema costituzionale. Egli suggerisce metodi via via più elaborati per far partecipare al potere politico le masse, a una classe dominante che è impegnata con ogni mezzo (comprese le stragi di Stato e l’eliminazione dei dirigenti comunisti) a tenerle lontane. È solo miopia individuale del personaggio?

 

Negare la democrazia borghese come tratto specifico delle società borghesi e il progresso che essa ha rappresentato rispetto ai regimi che ha soppiantato, equivale a negare lo sviluppo delle società umane e quindi negare la prospettiva del comunismo: in campo teorico significa abbandonare il principio dialettico “l’essere è il non essere e il non essere è l’essere” per il principio metafisico “ciò che è, è sempre stato e sempre sarà”, “c’è sempre chi è sotto e chi è sopra”, ecc.

Negare il limite assoluto della democrazia borghese (anche se si ammettono i limiti concreti) e non prendere atto che il regime politico delle società borghesi ha subito nell’epoca imperialista una trasformazione sostanziale equivale a fare nel campo politico quello che gli economisti borghesi fanno nel campo della teoria economica: contrabbandare per naturale, definitivo ed eterno il sistema finalmente raggiunto, ossia ancora una volta negare che “l’essere è il non essere e il non essere è l’essere” e trovarsi di conseguenza costretti a fare i “pugilatori a pagamento” a favore dell’ordine esistente.

 

Il regime politico delle società imperialiste è contraddittorio come lo è la loro struttura economica. Non può prescindere dalla collaborazione delle masse e nello stesso tempo deve mantenere le masse fuori dal potere. Da questa contraddizione la società borghese non esce! Essa è un suo elemento costitutivo. Le “ideologie” illiberali e liberali presenti nella società borghese, sono il riflesso nella mente e nella psiche degli uomini di questa contraddizione; il controllo sociale, la militarizzazione dell’attività statale, la controrivoluzione preventiva, la demagogia, la politica-spettacolo e la redistribuzione dei redditi sono i riflessi sovrastrutturali che mediano i due termini della contraddizione.

 

4. Il regime politico delle società imperialiste

 

I modi in cui la borghesia tratta la contraddizione insita nel suo regime sono vari secondo le caratteristiche peculiari di ogni formazione economico-sociale e secondo l’andamento dello scontro tra le classi. Dall’inizio della fase imperialista si sviluppano e succedono l’uno all’altro

- regimi terroristici che fanno fronte a situazioni d’emergenza e hanno durata relativamente breve scomparendo (il “ritorno alla democrazia”) quando hanno assolto al loro compito storico.(22)

 - regimi “democratici” in cui il suffragio universale e il riconoscimento legale dei diritti di organizzazione, associazione, propaganda, ecc. per i proletari e il resto dei lavoratori si accompagna all’esautoramento sostanziale delle assemblee elettive, alla crescita del ruolo di quegli organismi dell’attività statale che sono sottratti agli occhi indiscreti delle assemblee elettive e degli individui non amici (la diplomazia segreta, servizi segreti di polizia, le operazioni sporche, le operazioni extra-legali, lo squadrismo, il complesso militare-industriale, ecc.), alla predisposizione di una serie di misure preventive atte ad impedire che la forza politica del proletariato cresca al punto che questo possa prendere il potere, all’adozione di misure straordinarie ogni volta che le misure preventive si rivelano insufficienti.

 

(22) Da qui l’atteggiamento ambivalente della borghesia verso i regimi borghesi terroristici che in vari paesi durante la fase imperialista sono sia nati con il favore della borghesia sia morti con il favore della borghesia. La borghesia genera un regime terrorista a fronte di crisi politiche e di scontro acuto tra le classi, quando occorre sacrificare qualcosa per non perdere tutto (in nessun paese borghese sviluppato può installarsi e mantenersi al potere, in regime di proprietà capitalista, un regime politico che non abbia l’appoggio della parte economicamente determinante della borghesia). Ma per instaurare un regime terrorista la borghesia deve appoggiarsi su gruppi, classi, categorie e forze politiche adatte allo scopo, ognuno dei quali ha caratteristiche peculiari, non tutte essenziali agli scopi della borghesia e alcune persino controproducenti (si pensi ai rapporti tra nazisti, fascisti, falangisti da una parte e dall’altra la rispettiva borghesia nazionale e la borghesia internazionale). Se queste forze riescono ad adempiere al compito che loro è assegnato (spazzare via le organizzazioni del proletariato, far rientrare le masse popolari nel ruolo loro proprio, risolvere la crisi politica tagliando con la spada quello che non può essere tolto altrimenti), la borghesia ha la convenienza e la necessità di trovare poi una “soluzione democratica”. A questo punto si apre il periodo dei tentativi di trasformazione pacifica del regime, di transizione pacifica alla democrazia, di far rientrare nel loro ruolo abituale quei gruppi cui si era affidato il potere quando occorreva gente adatta ad operazioni sporche, ma senza mobilitare a questo scopo le masse la cui repressione era lo scopo dell’operazione (vedansi gli avvenimenti di Spagna, Argentina, Cile, ecc.).

 

Quando il capitalismo era entrato da alcuni decenni nella fase imperialista, nel 1895, F. Engels, nella Introduzione alla prima ristampa dello scritto di K. Marx Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, affermava che i borghesi avrebbero dovuto “spezzare essi stessi questa legalità divenuta loro così fatale”. Di fatto già da anni la borghesia, dove aveva dovuto allargare il suffragio e cedere sul diritto di organizzazione, propaganda, ecc. aveva messo in opera una serie di misure per evitare di essere soffocata dalla sua stessa legalità: proprio nell’Impero Germanico, cui Engels si riferisce nella sua Introduzione, dal 1878 al 1890 erano state in vigore le “leggi eccezionali contro le associazioni operaie e il partito socialdemocratico”.

La serie di misure che la borghesia metterà in atto per non essere soffocata dalla sua legalità è vasta e variegata, dalle più primitive e rozze (leggi antisocialiste, divieto di organizzazione) alle più sofisticate (persecuzioni selettive contro attivisti e dirigenti): ostacoli all’attività politica e alla formazione politica dei socialisti, mobilitazione del voto di tutta quella vasta parte della popolazione che in ogni paese borghese vive estranea alla vita politica del paese, creazione di organizzazioni di massa promosse e guidate da reazionari, promozione di campagne d’opinione pubblica diversive e provocatorie, sottrazione al dibattito e alla conoscenza pubblica dei problemi politici ed economici rilevanti, persecuzione dei movimenti politici proletari e dei loro esponenti di rilievo, infiltrazione di agenti statali nelle organizzazioni proletarie, corruzione ed arruolamento in apparati polizieschi di dirigenti delle organizzazioni proletarie, eliminazione di dirigenti ed attivisti e campagne di linciaggio morale contro di loro, creazione di clientele politiche, misure discriminatorie nell’assunzione al lavoro e nel rapporto di lavoro contro gli aderenti alle associazioni sindacali e politiche (nel “paese più democratico del mondo” una legge del 1970 - lo Statuto dei lavoratori - doveva ancora proibirle espressamente tanto erano e sono merce corrente!), giuramenti di fedeltà allo Stato ed esclusione da determinate carriere degli elementi politicamente non affidabili (dal Federal Employee Loyalty Program di Truman (23) al Berufverbote della RFT), terrorismo selettivo o diffuso contro le organizzazioni proletarie e i suoi membri, retate e confinamento di sospetti (il piano Solo del governo italiano aveva avuto molti predecessori: dagli arresti in massa del  1919 negli USA al McCarran Act con cui sempre negli USA nel 1950 furono creati sei campi di concentramento per prigionieri politici), campagne terroristiche di massa, colpi di Stato, scioglimento delle assemblee elettive, boicottaggio economico di governi non graditi, ecc.(24)

 

(23) Federal Employee Loyalty Program: disposizioni adottate dall’Amministrazione Truman nel 1945 per “rimuovere dall’impiego statale gli elementi sovversivi”.

Berufverbote: disposizioni adottate dal governo della RFT negli anni ’70 per escludere dai pubblici impieghi le persone la cui lealtà politica era dubbia.

Piano Solo: piano predisposto negli anni ’60 dal Comando Centrale dei CC (gen. De Lorenzo) per incarico dell’allora Presidente della Repubblica Segni per internare ed eliminare i dirigenti politici avversari.

 

(24) L’importanza delle misure prese dalla borghesia per “non essere soffocata dalla sua legalità” può essere compresa solo da chi comprende i reali processi politici e quindi ha chiaro che l’uso dispiegato della violenza diretta è, per ogni regime politico, solo una risorsa d’emergenza, utile per superare un frangente in cui sono riunite le condizioni per un’azione vittoriosa degli avversari, frangente che è sempre un periodo di breve durata, per mantenere il potere in un periodo particolarmente critico in cui le possibilità di successo per il movimento proletariato sono notevoli. Chi pensa che un regime politico autoritario si regga in permanenza sull’uso dispiegato della violenza, ha una concezione ingenua del movimento politico. Perfino sotto il nazismo o il fascismo, la vita per la gran parte dei giorni scorreva normalmente, senza né stragi né retate né fucilazioni. L’immagine di paesi che sotto il nazismo o il fascismo vivevano in mezzo a violenze continue di soldati, di gendarmi o di squadristi è un’immagine di comodo diffusa nel dopoguerra dalla cultura borghese e revisionista per ingigantire la differenza tra la vita sotto quei regimi e la “vita tranquilla, pacifica e serena consentita dai nuovi regimi democratici”

 

 

Più vastamente la legge e la prassi garantisce alla massa dei lavoratori i diritti politici, più la massa della popolazione deve essere privata delle condizioni materiali necessarie, nel contesto concreto, per esercitarli. I proclamati diritti politici possono al più essere usati come strumenti di opposizione, come remora ed ostacolo al governare di altri; allora nei momenti di crisi lo stato delle cose viene rovesciato contro le masse stesse come prodotto dell’impossibilità di governare e quindi nella ricorrente “necessità” di un “governo forte”, di una “rivoluzione politica”.

Più correntemente, i diritti riconosciuti alle masse acquistano un ruolo nella vita politica del paese come strumento delle lotte interne alla classe dominante. Ogni gruppo o coalizione di essa cerca di usare il “consenso popolare” contro i gruppi concorrenti. Quindi si procura il “consenso popolare” con ogni mezzo: dalle scarpe di Lauro, alle Madonne Pellegrine, alla lupara, alla clientela, agli spot pubblicitari.

Il dato costante è l’eliminazione sistematica dalla vita corrente delle masse di quanto è necessario al formarsi di convincimenti sull’andamento reale delle cose e sulle sue cause e a farlo valere. Il mondo concreto dei processi politici appare sempre più misterioso e governato da forze ignote.

L’abbrutimento delle masse, la diversione della loro attenzione dai processi reali, la demagogia diventano una necessità permanente di ogni società imperialista. La cultura d’evasione diventa uno strumento di politica interna (al modo della vittoria di Bartali al Giro di Francia nel luglio 1948). Il reale funzionamento della pubblica amministrazione e del mondo economico-finanziario traspare dal velo di mistero che lo circonda solo sporadicamente, a sprazzi, quando qualche gruppo interno alla classe dominante, messo in difficoltà, si “appella alle masse”, denuncia lo scandalo o monta la campagna scandalistica e cerca di giovarsi a suo vantaggio, contro i gruppi concorrenti, del movimento delle masse e del meccanismo elettorale. Le menzogne di Stato e la disinformazione, l’intossicazione dell’opinione pubblica diventano strumenti normali di governo. Parimenti la corruzione degli esponenti politici, dei dirigenti e degli elettori, l’infiltrazione nelle organizzazioni avversarie e le manovre di provocazione.

È rimasto il simulacro della democrazia borghese, tanto più vuoto quanto più le istituzioni del regime politico restano vicine a quelle della democrazia borghese “pura”. Le elezioni non servono a decidere la linea da seguire, ma a far  ratificare e legittimare dal voto popolare le scelte e le persone della classe dominante. I personaggi che nella vita del paese contano mille volte più dei più votati senatori e deputati, non sono eletti da nessuno, a nessuno devono spiegare e far accettare le loro decisioni e i loro piani: Agnelli, Cuccia, Pirelli, Berlusconi, De Benedetti, Calvi, Romiti, ecc. Diventa sempre più netto il contrasto tra le “appassionate” campagne di opinione pubblica su questioni secondarie o su cui comunque le masse nulla possono e la permanente estraneità delle stesse masse alle questioni del movimento politico i cui risultati ricadono su di esse.

I livelli inferiori della pubblica amministrazione sono “posti di lavoro” (quando addirittura non clientelari), quelli superiori sono occupati per cooptazione: in conclusione la partecipazione di massa alla pubblica amministrazione è esclusa.

Dove la borghesia ha ceduto in parte alle masse le assemblee elettive, essa ha mantenuto il potere sottraendolo ad esse. Quando la situazione politica diventa difficile e il regime politico instabile, le assemblee elettive vengono “mandate a casa” per il tempo necessario.

Le istituzioni create dalla borghesia nella sua fase di ascesa si sono trasformate da strumento per accrescere la partecipazione al potere politico, in strumenti per gestire le rivendicazioni delle masse impedendo che diventino linea dirigente, cioè in strumenti per escludere le masse dal potere politico.

Le vecchie forme si sono riempite di contenuto conservatore.

 

L’autoritarismo imperialista o la limitazione della democrazia che si ha nella fase imperialista, non consistono nella limitazione o cancellazione del potere del proletariato e delle sue organizzazioni: questi di potere non ne hanno mai raggiunto. Essi consistono sostanzialmente in due elementi:

1. nel cambiamento di tendenza nello sviluppo del regime politico delle società borghesi: la cessazione dell’estensione progressiva della partecipazione al potere e lo sviluppo di “immagini del potere” (partecipazione a organismi di potere nominale privi di potere reale);

2. nella limitazione della libera iniziativa dei capitalisti, nella limitazione della democrazia per i borghesi, nella subordinazione dei piccoli capitalisti ai grandi e la scomparsa della loro autonomia economica a causa della dipendenza dal credito, della dipendenza per la commercializzazione dei prodotti, per la fornitura delle materie prime, per gli ordini e le commesse e, in complesso, la trasformazione in senso monopolistico della struttura economico-sociale.

Il regime politico delle società imperialiste non è un regresso rispetto alla democrazia borghese. Si tratta al contrario del fatto che lo sviluppo della società borghese ha fatto sorgere un contrasto (proletari - capitalisti) che la democrazia borghese non può recepire nelle sue forme ed istituzioni.

La politica urta contro i limiti posti dallo sviluppo della struttura economica, in barba ai teorici della supremazia del politico sull’economico.

Il regime politico della società borghese, la democrazia borghese, non può trattare una contraddizione che la supera e che può essere risolta solo nella rivoluzione socialista, quando il proletariato arriva ad affermare praticamente che esso può fare a meno della borghesia.

Nella fase imperialista la classe dirigente stessa diventa in una certa misura schiava del suo regime, della combinazione di demagogia e di estraneità delle masse che essa stessa ha creato e crea. Di fronte a ogni scelta che si impone, il gruppo della classe dominante i cui interessi sono lesi “monta la campagna” propagandistica e, se le sue risorse sono abbastanza forti, ha buone probabilità di vincere o almeno di paralizzare gli avversari fino a quando la gravità dei problemi, accresciuta, esploderà in una crisi traumatica e un governo anche formalmente dispotico si presenterà come  una necessità vitale.

Fin quando la situazione non è abbastanza grave si possono fare quanti giochetti si vuole. Ma resta il fatto che ogni volta che la situazione richiede la mobilitazione attiva di tutto un popolo, e costringe un popolo a prendere direttamente in mano il proprio destino e quindi milioni di uomini a dover improvvisare e creare anziché fare quel che sempre si è fatto, nessuna società imperialista può mai contare su una partecipazione responsabile di massa, nonostante che la costituzione materiale delle società imperialiste richieda proprio questa partecipazione responsabile di massa. Nessuno può raccogliere quello che nessuno ha seminato. Su un terreno che la classe dominante attuale devasta, cresce solo la devastazione della classe dominante e quello che l’opposizione costruisce nel modo in cui può costruirlo. É gonfio di ipocrisia il pianto che una serie di membri della classe dominante elevano contro il razzismo, la violenza gratuita, la criminalità, la decadenza dei “valori”, l’incultura, la devastazione dell’ambiente, ecc.

Lo sviluppo del modo di produzione capitalista comporta la progressiva restrizione dell’ambito delle scelte individuali. L’accresciuta enorme potenza delle forze produttive può essere messa in moto solo collettivamente.(25) L’eguaglianza che ha cessato di estendersi nella forma di un numero crescente di imprenditori borghesi tra loro eguali, può affermarsi unicamente come eguaglianza nella partecipazione alla gestione del sistema produttivo una volta che esso sia stato posto e reso proprietà comune (e quindi sia stata eliminata la proprietà individuale delle forze produttive). Al di fuori di ciò, non vi può essere che l’asservimento della massa degli individui che è il dato comune delle società imperialiste.

 

(25) Non che prima si fosse realizzato il regno delle scelte individuali. Per la gran massa della popolazione esse non sono mai state una realtà. Vi fu però un periodo di estensione graduale delle scelte individuali, dell’iniziativa economica individuale: un numero crescente di borghesi, di aziende individuali realmente autonome, con un proprio capitale e un proprio mercato, un aumento delle libere professioni, ecc.

A questo periodo è subentrata la restrizione crescente, pur con oscillazioni che si ripetono, delle iniziative economiche individuali realmente autonome. Una restrizione aperta: la riduzione di lavoratori autonomi a lavoratori dipendenti (tipica ad es. la sussunzione dei servizi nel capitale). Una riduzione camuffata: del tipo delle catene di negozi formalmente individuali, di aziende individuali che lavorano in subappalto, di lavoratori autonomi che sono in realtà disoccupati e mascherano la sovrappopolazione.

 

Ed esso è tanto più palese (e ne è tanto più chiara la genesi strutturale) quanto più una società ha sviluppato le istituzioni della democrazia borghese, quanto più lunghi sono i periodi pacifici e tranquilli. Perché l’asservimento della massa degli individui mantenuto con la forza comporta, come sua condizione, una resistenza diffusa. L’asservimento che si mantiene senza che occorra una specifica coercizione amministrativa comporta come sua condizione la corruzione individuale diffusa, la rassegnazione a non assumere la responsabilità della propria vita, la rinuncia a progettare e a gestire la propria vita e il proprio destino. Rinuncia che è tanto più profonda quanto maggiori sono gli strumenti materiali, l’abbondanza di risorse, di tempo libero dal lavoro, di energie e di comunicazione, quanto più è attenuato l’assillo della sopravvivenza, quanto più numerose sono le vie non sbarrate dal poliziotto. Più la società borghese è ricca e “libera”, più deve essere interiormente e capillarmente sterile, incapace di usare ricchezza e libertà, rassegnata a non usarla, rassegnata a riversare tempo, energie e passioni nel “superfluo”, in cose che non intaccano e trasformano l’ordine esistente: l’evasione, il gioco, l’immaginazione per l’immaginazione, il misticismo, ecc. Da questa rinuncia diffusa e coltivata promana la cultura di morte che caratterizza tutte le società imperialiste e si esprime egualmente nella diffusione delle droghe come nella criminalità e violenza gratuite, nei massacri degli esodi festivi, negli omicidi da traffico, nella rovina della salute e del benessere indotta dall’inquinamento ambientale e accettata fatalisticamente, dalla sofisticazione alimentare e dalle abitudini malsane di vita che la concorrenza commerciale alimenta, nei suicidi e omicidi gratuiti, nelle pratiche “sataniche” che “stranamente” si diffondono nelle società imperialiste più floride.

Che l’assenza di repressione non sia nelle società imperialiste il risultato della libertà conquistata ed esercitata, ma il  risultato dell’asservimento imposto e accettato lo si è visto palesemente in Italia negli anni ’70. A fronte del risveglio delle masse, la classe dominante ha sviluppato la strategia della tensione, il terrorismo di Stato, le stragi di Stato, l’eliminazione individuale degli avversari e il ricatto come strumenti di ordine pubblico e come strumenti di lotta tra gruppi della stessa classe dominante. Tendenze di questo genere si sono avute in tutti i paesi imperialisti nella misura in cui problemi di ordine pubblico o contrasti acuti tra gruppi della classe dominante si sono presentati. Il fatto che ciò fino ad oggi abbia mantenuto la misura dello straordinario e dell’eccezione è dovuto esclusivamente ai limiti in cui sono rimasti contenuti finora il “risveglio delle masse” e le contraddizioni interne alla classe dominante. Man mano che questi cresceranno, sperimenteremo anche nei “civili” paesi imperialisti le grandi capacità di violenza repressiva e di morte di cui sono capaci gli Stati imperialisti e che finora essi hanno messo a punto e usato solo contro i popoli del Terzo Mondo: tentativi di controllo di massa, fomentazione di provocazioni, eliminazione di avversari, uso generale di condizionatori del comportamento a mezzo di strumenti psichici e di armi chimiche che tutti gli Stati imperialisti hanno fatto approntare in abbondanza e continuano a perfezionare.

Ma contemporaneamente la macchina statale è diventata sempre più “di massa” e quindi fragile. Essa si regge sulla divisione del lavoro tra milioni di persone e sul concorso ordinato di esse. Accanto alle sue capacità repressive, negli anni ’70 in Italia abbiamo egualmente sperimentato quanto lo Stato imperialista sia permeabile e debole. La rovina dell’attuale ordine imperialista costringe tutte le forze politiche e le masse dei paesi imperialisti a fare i conti su grande scala con ambedue gli aspetti del regime politico di essi.

 

Che l’attuale ordine imperialista stia andando in rovina si manifesta in ogni dove:

- la rottura dell’ordine gerarchico tra gruppi imperialisti creato alla conclusione della Seconda Guerra Mondiale, ordine che sempre più costituisce una camicia di forza che impedisce alle contraddizioni di dispiegare i loro effetti;

- l’invasione degli immigrati dal Terzo Mondo a fronte dei quali a nulla serve limitarsi a predicare contro il razzismo, visto che non si affronta il problema reale: il sistema che impone agli uni per fame di emigrare e agli altri di subire una concorrenza e una convivenza imposta;(26)

- il malessere crescente di ampi strati sociali nei paesi imperialisti che li spinge alla ricerca di soluzioni radicali (anche la crescita della “criminalità” ne è un sintomo);

- la carica dirompente delle trasformazioni in atto nell’Europa Orientale.

 

(26) È vano lo sforzo di presentare come moto di popoli che si fondono per costruire una maggiore ricchezza e una società più elevata mettendo in comune le diverse culture, quello che è una violenza imposta agli uni e agli altri. Come è inutile predicare ai marocchini o ai cingalesi di restare a morire nel loro paese, altrettanto è vano predicare alle masse popolari europee la rassegnazione al sovvertimento della propria vita e alla concorrenza economica che l’invasione di lavoratori del Terzo Mondo aumenta. Le contraddizioni reali non si risolvono con le buone parole. Le uniche vie realmente percorribili sono o l’unità rivoluzionaria contro la borghesia imperialista o lo scontro tra lavoratori entrambi diretti dalla borghesia.

 

Che questo sovvertimento dell’ordine imperialista non abbia ancora una direzione proletaria è un fatto, ma ciò non rende meno reale il sovvertimento. “Chi si aspetta una rivoluzione sociale pura - diceva Lenin - non la vedrà mai (...) La rivoluzione socialista in Europa non può essere altra cosa che un’esplosione della lotta di massa di tutti e di ognuno degli oppressi e degli scontenti. Ad essa parteciperà inevitabilmente una parte della piccola borghesia e degli operai arretrati - senza questa partecipazione non è possibile una lotta di massa, non è possibile alcuna rivoluzione - che porterà nel movimento, in modo altrettanto inevitabile, i suoi pregiudizi, le sue fantasie reazionarie, le sue debolezze e i suoi errori. Ma essa oggettivamente attaccherà il capitale; quindi l’avanguardia cosciente della rivoluzione, il proletariato avanzato, esprimendo questa verità oggettiva della lotta di massa (che ha caratteri e voci differenti, è  variegata e apparentemente smembrata), potrà unirla e dirigerla, prendere il potere, appropriarsi delle banche, espropriare i trust odiati da tutti (anche se per motivi diversi) e applicare altre misure dittatoriali che costituiscono nel loro insieme l’abbattimento della borghesia e la vittoria del socialismo, vittoria che non potrà per nulla depurarsi immediatamente dalle scorie piccolo-borghesi”.

 

5. Il regime politico delle società socialiste e il regime politico dei paesi dominati dai revisionisti moderni

 

La nostra concezione del regime politico del socialismo (vale a dire della fase di transizione dal capitalismo al comunismo) non deriva dalle “idee eterne di Giustizia e Socialismo”, ma ha cinque fonti principali:

1. l’analisi della società borghese, delle sue contraddizioni e delle sue parti costitutive, delle forme che assume il suo movimento economico e politico;

2. il bilancio delle esperienze dei movimenti delle masse: in essi possiamo scoprire le forme e le istituzioni secondo le quali la massa dei lavoratori tende ad unire le forze nei periodi di ascesa del movimento e a coordinare i movimenti delle varie sue parti;

3. il bilancio delle esperienze dei movimenti rivoluzionari più sviluppati, quindi, per quanto riguarda i paesi europei, principalmente la Comune di Parigi, la Rivoluzione d’Ottobre, il periodo di costruzione del socialismo in URSS, le democrazie popolari dell’Europa Orientale;

4. gli insegnamenti universali della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria;

5. il bilancio delle esperienze del movimento economico e politico delle società governate dai revisionisti moderni fino al crollo in corso.

È da queste fonti che ogni rivoluzionario responsabile, ogni comunista deve sforzarsi di trarre insegnamento, rifiutando di accontentarsi, al modo degli opportunisti, delle quattro frasette spiegatutto mutuate dalla cultura borghese e di fantasticare su mondi immaginari.(27)

 

(27) Il regime politico della società socialista è trattato organicamente da K. Marx, Critica del programma di Gotha (1875) e da V. Lenin, Stato e rivoluzione (1917).

 

 

Ogni rivoluzione socialista ha costruito forme, ordinamenti ed istituzioni politiche che, nelle diversità dovute alle caratteristiche economiche e culturali del paese e al modo in cui il proletariato è arrivato al potere, hanno avuto come caratteristica comune la crescita della partecipazione diretta della massa dei lavoratori e in primo luogo degli operai, all’amministrazione degli affari pubblici e l’esclusione della vecchia classe dominante dal potere politico.

Non ha senso parlare di socialismo e di promozione della partecipazione della massa dei lavoratori al potere politico come se fossero due cose indipendenti, da unire estrinsecamente, da accoppiare per motivi di convenienza e di “giustizia”.

Il comunismo è la realizzazione della partecipazione di tutti i membri della società alla gestione di tutti gli affari della società, il riconoscimento nelle istituzioni, ordinamenti e prassi sociali del carattere collettivo raggiunto dalla struttura economica della società. Superamento del rapporto di capitale e partecipazione dell’intera popolazione alla gestione di tutti gli affari di comune interesse sono due facce della stessa medaglia.

Il socialismo è il periodo di transizione dal capitalismo al comunismo, quindi un periodo in cui sopravvivono e vengono via via superati i residui strutturali e sovrastrutturali della vecchia società, tra cui quindi anche l’esclusione della massa dei lavoratori dal potere politico.

 La costruzione di un sistema economico che produca per soddisfare i bisogni dei lavoratori e delle loro famiglie, a cui partecipi tutta la popolazione svolgendo ognuno un lavoro socialmente utile (secondo la regola che “chi non lavora non mangia”), governato dagli stessi lavoratori conformemente alla sua natura materiale di sistema unico ed indivisibile: questa è la base strutturale di una società in cui tutti, ognuno secondo le sue capacità, prendono parte alla gestione sociale. La trasformazione dei rapporti di produzione e la trasformazione delle relazioni politiche sono quindi due processi che si condizionano reciprocamente, perché il socialismo è la via al comunismo e il comunismo è la gestione consapevole da parte della società stessa del suo movimento economico, politico e culturale.

Il regime politico delle società socialiste, nella varietà delle sue forme che aumenterà man mano che la rivoluzione socialista si svilupperà in più paesi, ha alcuni caratteri comuni.

Esso ha i seguenti compiti storici universali:

1. eliminare le differenze di classe, riducendo le diseguaglianze sociali alla sola divisione tecnica dei lavori ed imponendo l’obbligo universale di un lavoro socialmente utile;

2. realizzare la partecipazione della massa dei lavoratori alla gestione degli affari sociali costruendo le condizioni oggettive e soggettive necessarie;

3. mettere la società nelle condizioni di dirigere liberamente il proprio corso come organismo mondiale collettivo della produzione sociale.

Esso ha la sua base di classe nel proletariato che è la classe principale di una combinazione storicamente determinata delle classi lavoratrici.

Esso ha il suo corpo politico nel partito comunista che riunisce l’avanguardia del proletariato, il suo corpo politico e costituisce la parte principale del nuovo Stato.

Questi sono i caratteri comuni che ci pare risultino da tutta l’esperienza storica e siano l’ossatura portante della ricca varietà di forme concrete che le singole rivoluzioni socialiste hanno assunto già nel breve periodo di 70 anni dal loro inizio.

 

5.1. I compiti storici universali della rivoluzione socialista

La transizione dal capitalismo al comunismo è un processo storico che ha le sue basi materiali nelle forze produttive collettive già create dal capitalismo. Essa consiste in un movimento pratico della massa dei lavoratori nel corso del quale i lavoratori si trasformano e trovano le forme e le istituzioni adeguate alla natura della nuova società. Il regime politico della società socialista non può quindi che consistere nella promozione della partecipazione dei lavoratori alla gestione degli affari pubblici. Le masse lavoratrici devono, sulla base della propria esperienza diretta, trasformarsi e liberarsi dalle attitudini proprie del ruolo servile cui la società borghese le relega. Devono acquisire le attitudini proprie dei membri di una comunità mondiale che amministra i suoi affari comuni. Non si passa di colpo dal capitalismo al comunismo! In barba ai teorici, ora pentiti, della “maturità del comunismo”, il passaggio occupa un intero periodo storico che l’esperienza ha dimostrato di durata piuttosto lunga. A più di settant’anni dalla prima rivoluzione socialista vittoriosa, la Rivoluzione d’Ottobre, il cammino percorso in questo periodo non è che l’inizio di questo processo che, in modi diversi e sotto forme diverse, avanza in tutto il mondo.(28) L’unità mondiale del sistema produttivo rende inevitabile che la transizione sia un processo mondiale, benché proceda in modo differenziato nei vari paesi. È ovvio che il sistema capitalista mondiale, riunendo in un sistema unitario di relazioni e di tensioni paesi con ruoli e condizioni diversi, scoppi più facilmente nei suoi punti più deboli, come l’esperienza storica ha dimostrato.  Questo allunga ulteriormente la durata del periodo di transizione, spezza apparentemente l’unità mondiale che il capitale aveva costruito come mercato unico, come sistema capitalista mondiale e come dominazione di un pugno di paesi imperialisti su tutto il mondo, trasforma lotte civili in lotte tra Stati e tra nazioni, costringe a riprendere daccapo e ripartendo da posizioni arretrate la costruzione del meccanismo unitario mondiale della produzione sociale e dei corrispondenti regimi politici. Finora il proletariato non ha preso il potere in nessuno dei grandi paesi economicamente avanzati e l’avanzamento mondiale del socialismo si è espresso in essi solo negativamente, nelle forme antitetiche dell’unità sociale e nelle trasformazioni subite dalle società imperialiste per resistervi.

 

(28) Una nuova società che sta nascendo rivela la sua esistenza sia nel suo libero dispiegarsi, sia nella resistenza crescente che deve opporle la vecchia società per impedirne il dispiegarsi e nelle trasformazioni che di conseguenza la vecchia società subisce. La storia politica delle società imperialiste cessa di essere una sequela caotica di avvenimenti assurdamente diabolici e di paranoiche volontà di leaders (vedasi l’interpretazione di comodo che la storiografia borghese dà del nazismo) e diventa una comprensibile successione causale di avvenimenti (ossia si mostra nella sua razionalità), solo se la si accetta per quello che effettivamente è: storia della resistenza a livello mondiale della società borghese alla nascita del comunismo che urge dal suo interno.

 

 

La partecipazione generale alla gestione degli affari sociali non viene al mondo di colpo, quasi per incanto. Quindi benché nasca (e non possa nascere che) per opera della vasta massa dei lavoratori, la società socialista non proclama l’eguaglianza politica dei cittadini, tanto meno pone alla base dei suoi ordinamenti, delle sue istituzioni e del suo funzionamento la finzione che questa eguaglianza sia già realizzata. Al contrario essa denuncia la diseguaglianza politica, esclude espressamente dal potere i membri e le istituzioni delle vecchie classi dominanti, combatte espressamente i residui materiali, sovrastrutturali ed ideologici della vecchia società e prende le misure necessarie per realizzare il potere politico degli operai, dei contadini e degli altri lavoratori. Essa riconosce la diseguaglianza politica della società da cui parte e si propone di creare gli strumenti e il contesto perché gli operai, i contadini e gli altri lavoratori che costituiscono l’enorme maggioranza della popolazione partecipino effettivamente, efficacemente e con buoni risultati al governo di tutti gli affari pubblici e a tutti i livelli.

Quindi il socialismo non è un periodo di pace e di unità. Al contrario è un periodo di aspre lotte di classe, di contrapposizioni violente e di divisioni profonde. La più egualitaria e partecipata società socialista inevitabilmente presenta un’atmosfera più agitata e più militare del più autoritario dei regimi borghesi. Questi deve far fronte a masse escluse da sempre dalla vita politica e tenutevi fuori dalle condizioni materiali della loro esistenza; al contrario la società socialista deve far fronte ad una classe agiata di persone cresciute nell’arte del comando, dotate di mezzi materiali, di influenza morale e del patrimonio culturale della società. Il socialismo è un periodo in cui la parte più avanzata dei lavoratori tende tutte le sue forze per mobilitare la parte più arretrata dei lavoratori, per reprimere le classi sfruttatrici e i loro alleati locali e internazionali, per eliminare passo dopo passo la base materiale della loro esistenza e della loro riproduzione, costituita da quanto di arretrato persiste (e non può non persistere per un certo tempo) nella società. Chi sogna dopo la conquista del potere un periodo di pace e di unità, non considera i processi reali. Al contrario verranno finalmente alla luce e finalmente si dispiegheranno apertamente i conflitti che la vecchia società nutriva e soffocava nella sottomissione amara delle masse alla vecchia classe dominante, perché i lavoratori e tutta la parte oppressa della vecchia società avrà finalmente alzato la testa e tenderà (ed è inevitabile che tenda disordinatamente) ogni sua energia per sbarazzarsi delle forme della vecchia oppressione e per costruire un nuovo mondo, perché la vecchia classe dominante resisterà con la forza della disperazione: nessuna nefandezza le parrà inaccettabile pur di resistere, il cinismo e la ferocia con cui ha esercitato il suo potere nel periodo in cui era al potere impallidiranno a confronto di quello che farà nella sua agonia (la storia di questo secolo ne è già una dimostrazione convincente!).

  

La rivoluzione socialista inizia quindi il suo lavoro di costruzione riconoscendo le diseguaglianze politiche che eredita dalla vecchia società, si assume il compito di favorire la crescita di quelle classi e gruppi che la vecchia società ha represso e conculcato, di impedire che riprendano il sopravvento quelli che già l’avevano nella vecchia società, di impedire che consolidino il loro potere le persone e i gruppi che personificano i limiti della crescita della nuova società.(29) Per superare la disuguaglianza politica essa deve anzitutto riconoscerne l’esistenza, metterne a nudo le cause, rimuoverle privilegiando la formazione al potere delle classi più escluse e, nel frattempo, impedire manu militari che questo processo venga arrestato da vecchie e nuove classi privilegiate. Quindi la rivoluzione socialista apre un periodo storico di lotte tra le classi, in cui le divisioni, le diseguaglianze e i contrasti di interessi non vengono più velati dietro retoriche dichiarazioni di eguaglianza, di fraternità e di libertà, ma al contrario portati alla luce e affrontati. Da qui quell’atmosfera di semplicità, di lotta e di rudezza che le società socialiste presentano a fronte del velo di raffinatezza e di buone maniere e dei guanti gialli che rivestono anche le più atroci attività dei predoni che dirigono ogni civile società imperialista.

 

(29) Il procedere per tappe della transizione significa praticamente che ad ogni momento la partecipazione della massa dei lavoratori al potere ha raggiunto un certo livello, quindi che non è ancora né assoluta né universale: esistono ancora rapporti da dirigenti a diretti e una parte della divisione dei ruoli nella società non è ancora solo divisione tecnica del lavoro, ma conserva il carattere del dominio di alcuni uomini su altri. Un gruppo di uomini “di pari dignità” che viaggiano su una barca a remi devono per ragioni tecniche affidare ad uno il timone, ad un altro il compito di battere il tempo e dirigere il lavoro dei rematori, ad altri il remare, ad altri la preparazione del cibo, ecc. insomma devono realizzare, nell’ambito e sulla base della loro eguaglianza sociale, un sistema di divisione tecnica del lavoro sociale tra loro. Quando un imprenditore arma una barca e arruola un equipaggio, egli realizza sì anche un sistema di divisione tecnica del lavoro sociale, ma sulla base di posizioni sociali ben distinte, della disuguaglianza sociale degli individui coinvolti.

Il livello determinato raggiunto dalla transizione dal capitalismo al comunismo comporta la contrapposizione tra gli elementi oggettivi e soggettivi della società che premono per procedere oltre e producono gli strumenti dell’ulteriore progresso da una parte e dall’altra gli elementi oggettivi e soggettivi della società che resistono al progresso e che, nell’acuirsi della loro resistenza, inevitabilmente confluiscono con gli elementi, interni ed esterni, che premono per il ritorno indietro. Se si considerano questi momenti della trasformazione della società, la ricorrente confluenza della destra della società socialista e della destra del partito comunista con la borghesia cessa di apparire “un’invenzione diabolica di Stalin o di Mao per eliminare i loro avversari personali” quale è dipinta dalla storiografia borghese e appare come un processo storico inevitabile all’interno del quale si collocano le storie degli individui. La confluenza oggettiva nella resistenza al progresso tra la parte arretrata dei lavoratori che resistono all’assunzione delle responsabilità di governo cui tutta la formazione ricevuta li ha tenuti estranei, gli elementi della società socialista che resistono al progresso e quelli che vogliono tornare indietro, completa il quadro dei contrasti e delle lotte che lacerano la società socialista: contrasti che richiedono un’iniziativa continua dell’avanguardia guidata da una comprensione materialista dialettica della fase del movimento in corso e delle sue leggi e capace di affrontare con strumenti diversi i tipi diversi di resistenza al progresso verso il comunismo, di distinguere le “contraddizioni in seno al popolo” dalle “contraddizioni tra il nemico e noi”, di “unire la sinistra, mobilitare il centro ed isolare la destra”. Mao Tse-tung sosteneva che nell’ambito del socialismo sarebbero state necessarie ripetute “rivoluzioni culturali”. Nel suo scritto Sui dieci grandi rapporti egli dà ad esempio un quadro delle contrapposizioni che concretamente dividevano la società socialista cinese a metà degli anni ’50.

 

La società borghese contiene due interessi materiali antagonisti (capitalisti - proletari) e non può uscire da questo contrasto perché non può eliminare nessuno dei due: la borghesia non può fare a meno del proletariato. Il proletariato invece può fare a meno della borghesia. Eliminando la proprietà individuale delle forze produttive, scompare l’antagonismo di interessi che impedisce che nella società borghese venga superata la disuguaglianza sociale tra gli uomini. Sulla base della proprietà collettiva inizia il lavoro di superamento della diseguaglianza sociale, di costruzione della nuova società: tutti i contrasti di interessi e le divisioni possono ora essere affrontati e risolti, diventa una questione di metodo e di pratica. Anche la proprietà individuale delle forze produttive, mentre può essere eliminata di colpo per quanto concerne la proprietà capitalista (soprattutto la grande proprietà capitalista), per quanto riguarda la proprietà dei produttori autonomi di merci e per quanto riguarda la proprietà individuale della propria capacità  lavorativa, può essere eliminata solo a certe condizioni, per tappe e in un certo tempo.

La lotta contro l’ignoranza e la miseria, contro l’analfabetismo e i vari sistemi di oppressione personale, contro l’emarginazione dal patrimonio culturale ed economico della società, contro l’oppressione razziale, nazionale e la discriminazione a danno delle donne, la lotta per il progresso culturale e politico delle nazioni oppresse, delle classi oppresse e delle donne, le misure per privilegiare lo sviluppo dei gruppi più arretrati diventano parte integrante ed essenziale della costruzione del regime politico della nuova società. I lavoratori si aprono la strada al potere man mano che trasformano la loro condizione nel suo complesso. Misure concrete vengono prese per favorire l’accesso alla cultura e agli strumenti del potere, per promuovere l’emancipazione civile e politica dei gruppi e delle classi che nella vecchia società erano state più escluse.(30) E quindi vengono adottate misure che discriminano le vecchie classi dominanti e le escludono per quanto possibile dal potere.

 

(30) Non si tratta principalmente di mobilità sociale (ossia della promozione a funzioni dirigenti di individui provenienti da ambienti complessivamente esclusi). Tuttavia anche la mobilità sociale ha avuto un ruolo importante nelle società socialiste. Nell’ambito di un sistema che promuove la partecipazione e l’elevazione dei gruppi esclusi, quindi che non nasconde i reali antagonismi di interessi sotto il velo dell’eguaglianza e dell’unità dichiarate, la mobilità sociale comporta l’afflusso a ruoli dirigenti di individui più vicini per esperienza e sensibilità ai gruppi in ascesa, maggiormente in grado di promuovere dall’interno lo sviluppo delle contraddizioni e il movimento quindi è uno dei mezzi per la promozione della loro ascesa. Gli individui promossi sono importanti proprio perché restano interni al gruppo da cui provengono a differenza di quanto avviene nelle società divise da interessi antagonisti: qui la mobilità sociale comporta l’afflusso di sangue fresco nella classe dominante, il distacco degli individui promossi dal loro gruppo d’origine e la loro assimilazione e integrazione nella classe dominante. Questa, e in generale il sistema di divisione di oppressione, risultano rafforzati dalla mobilità sociale.

 

È solo la ripetuta e diffusa esperienza pratica di milioni di uomini che farà sì che ognuno di loro finisca per riporre la sua fiducia e la sua sicurezza nel successo e nel funzionamento del collettivo anziché in se stesso, nelle sue risorse e nel suo patrimonio personale; è solo la ripetuta e diffusa esperienza pratica di milioni di uomini che farà sì che ognuno di loro cessi di avere verso il collettivo un atteggiamento rivendicativo, impari a trattare collettivamente e positivamente i contrasti tra i suoi membri e tra ognuno di essi e il collettivo, contribuisca allo sviluppo di questo con tutte le sue energie e ne ricavi quanto gli è necessario. Insomma è solo la ripetuta e diffusa esperienza pratica di milioni di uomini che porterà gli uomini a liberarsi dagli atteggiamenti, dai sentimenti, dagli istinti e dalle paure che costituiscono la “natura umana” forgiata da milioni di anni di soggezione alle forze naturali e di asservimento alle classi sfruttatrici, un lungo periodo da cui stiamo solo ora uscendo.

 

5.2. Le istituzioni politiche della società socialista

Possono le istituzioni della democrazia borghese divenire anche le istituzioni politiche della società socialista? Assolutamente no. Esse sono sorte come strutture adeguate per raccogliere ed esprimere la volontà, gli interessi e il potere di una ristretta classe di sfruttatori costituita da individui costituzionalmente mossi dagli interessi contrastanti di frazioni di capitale concorrenti. Abbiamo visto che il grande progresso storico costituito dalla democrazia borghese fu quello di essere un sistema che aveva in sé la capacità di mediare positivamente i contrastanti interessi di produttori di merci tra loro concorrenti. Ma lo stesso sistema poteva mediare il contrasto antagonista che aveva alla sua base (capitale -lavoro) solo negativamente, con la repressione dei lavoratori e la loro esclusione dal potere e dalla “società”.

Il corso della società borghese sia nella sua fase ascendente sia nella sua fase di declino ha confermato questo carattere delle istituzioni della democrazia borghese e l’impossibilità che esse potessero diventare mezzi di esercizio della volontà dei lavoratori.

Proprio perché, come abbiamo visto sopra, la democrazia borghese è la sovrastruttura del sistema economico del capitalismo e l’esclusione del proletariato e delle altre classi lavoratrici dal potere politico è il prodotto della struttura  economica della società, il regime politico delle società socialiste non può consistere nell’estensione “a tutti” degli istituti che nella società borghese sono riservati ai capitalisti, non può consistere in una specie di democrazia borghese più egualitaria, più “vera” per usare il termine caro agli idealisti.

Gli istituti della democrazia borghese non sono adatti a raccogliere le opinioni delle masse dei lavoratori che all’inizio non possono che formarsi ed esistere sparse e confuse, metterne in luce il contenuto reale, favorire l’elaborazione di esse in linee d’azione, riportarle tra le masse come guida per l’azione comune, dirigerne l’applicazione e guidare al bilancio dell’esperienza che ne è conseguita e quindi ripetere il processo.

I protagonisti delle rivoluzioni socialiste non pretesero quindi mai di rendere il regime politico nato dalla rivoluzione simile ad una democrazia borghese solo un po’ perfezionata, più egualitaria, più “democratica”, con differenze meno eclatanti. Al contrario rivendicarono sempre la necessità di costruire un regime politico in cui avessero potere quelle masse che anche le più progredite democrazie borghesi avevano necessariamente escluso dal potere e costituito quindi da istituzioni adatte allo scopo: lo Stato borghese si abbatte, non si cambia!

 

5.3. La base di classe dello Stato socialista

L’analisi della società borghese, l’osservazione del movimento delle masse e l’esperienza storica delle rivoluzioni socialiste portano concordemente alla conclusione che

- ogni rivoluzione socialista è la conquista del potere politico e il rovesciamento delle istituzioni della vecchia società ad opera della vasta massa dei lavoratori: la rivoluzione socialista non è un colpo di mano di un pugno di rivoluzionari né una fortunata operazione politico-militare di un gruppo;(31)

- la lotta nell’ambito della vecchia società prima e la conquista del potere poi fanno emergere, all’interno della massa dei lavoratori, la classe operaia come sua parte più avanzata che unisce attorno a sé il resto dei lavoratori che fanno la rivoluzione.

Questo è il processo materiale, storico su cui si basa la tesi della dittatura del proletariato.(32)

 

(31) In alcuni paesi economicamente arretrati (ad es. Cuba) la rivoluzione socialista si è aperta la strada attraverso fortunate operazioni politico-militari di un gruppo. Ma ciò che ha fatto sì che la fortunata operazione politico-militare non si traducesse semplicemente in un cambio della guardia all’interno della vecchia società come è successo per tanti colpi di Stato di “militari di sinistra”, ma costituisse l’inizio della rivoluzione socialista, venne dopo il successo dell’operazione, con la mobilitazione della massa dei lavoratori a cui essa dette inizio. In questo contesto però non ci occupiamo delle lotte contro l’imperialismo nei paesi economicamente arretrati e della loro relazione con la rivoluzione socialista, ma della preparazione della rivoluzione socialista nei paesi economicamente avanzati e della rivoluzione socialista già in corso.

 

(32) Abbiamo già precisato, nella nota 5, che con il termine dittatura indichiamo unicamente il monopolio del potere politico. L’espressione dittatura del proletariato sta a significare che è in seno ad esso e alle sue organizzazioni e in coerenza con i suoi interessi che viene elaborata ed approvata la linea che guida l’attività dello Stato ed è tramite il proletariato che si determina quel movimento diffuso e molecolare della società a livello strutturale per cui le direttive degli organismi statali non restano o vuote “grida” o attività imposte a ogni individuo dalla baionetta del soldato, ma diventano criteri e indirizzi che informano l’attività della società, cui la baionetta del soldato conferisce solo maggiore autorevolezza e che la baionetta del soldato impone coercitivamente solo in casi isolati o in momenti transitori di resistenza. È il ruolo del proletariato nella costituzione materiale della società che dà al nuovo Stato la capacità di dirigere l’intera società.

 

La società borghese pone i proletari, e in particolare tra essi gli operai, in una posizione particolare rispetto agli altri lavoratori, posizione che si è rivelata e si rivela già nel movimento economico e politico delle stesse società borghesi. Abbiamo già visto che dall’inizio del secolo XIX è la classe operaia la classe che avanza rivendicazioni politiche a nome di tutte le classi escluse dalla democrazia borghese. Tra tutte le classi lavoratrici, la classe operaia è la classe che  già nella società borghese,

- nella lotta economica e politica, condotta all’interno della società borghese, si educa in massa all’arte dell’organizzare e dirigere uomini,

- nella contrapposizione diretta al capitale, con cui scambia la sua capacità lavorativa, e nell’inserimento nel meccanismo collettivo della produzione sociale acquisisce un’esperienza che, elaborata e sviluppata, è la concezione proletaria del mondo che la rende atta, come classe, a dirigere tutti gli altri lavoratori nel superamento del capitalismo,

- per la sua capacità di far funzionare le più progredite forze produttive della società, quindi per la sua posizione che già occupa nella costituzione materiale della società borghese, è in grado di subentrare alla borghesia nel ruolo di classe che mette in moto l’intera società.

Sono queste caratteristiche della classe operaia che K. Marx e F. Engels mettevano in luce già nel 1848, nel Manifesto del partito comunista.

Il nuovo potere ha bisogno di una base di classe. Nessun regime politico può esistere come potere di un gruppo di individui uniti solo da vincoli ideologici e soggettivi, da comuni convinzioni, da una comune analisi della situazione, da un comune programma politico. Benché per ogni individuo l’appartenenza al gruppo dirigente di uno Stato e il ruolo che egli, a differenza di altri, svolge in esso siano frutto della sua capacità, delle sue convinzioni e delle sue qualità personali, è un’illusione la concezione che possa esistere in modo durevole il potere politico di un gruppo di individui uniti solo dalle comuni convinzioni e intenzioni. Gli individui sono transitori, le loro convinzioni sono mutevoli ed esposte all’influsso di mille circostanze, l’esperienza di ogni individuo è limitata e la teoria di ogni gruppo rimane sempre solo un’approssimazione della realtà: ciò che un gruppo ad un determinato momento ha elaborato come comune e consapevole patrimonio di giudizi, convinzioni e intenzioni non è mai sufficiente per far fronte alla gestione pratica di una società per un periodo di una qualche lunghezza. Le vicissitudini della composizione dei gruppi di dirigenti politici nelle rivoluzioni dimostrano ampiamente queste tesi. Ciò che tiene unito un gruppo dirigente politico, che media le inevitabili contraddizioni tra le particolarità delle esperienze individuali, che guida lo sviluppo della sua composizione e della sua concezione è la classe sociale di cui è espressione. È il riferimento alla classe sociale che definisce la fisionomia di un gruppo di dirigenti politici e ne permette l’esistenza.(33)

Quale che sia la costituzione politica, quale che sia il ruolo dei singoli organismi politici e, in essi, degli individui, nessun regime politico, neanche il regime politico in cui la volontà di un individuo sembra determinare tutto, se esso riguarda un popolo di una certa consistenza e dura un certo tempo, può esistere se non come potere di una classe o di un gruppo di classi i cui interessi siano, nella fase concreta, conciliabili. Ciò che fa sì che quel regime, che apparentemente marcia agli ordini di un tiranno, possa reggere e presiedere al complesso della vita della società e alla riproduzione di essa, è il fatto che esso, nella veste delle disposizioni dispotiche del tiranno, esprime gli interessi e la volontà di una classe che ha nella costituzione materiale della società un ruolo tale da muovere tutto il resto. Proprio perché, come è messo in luce dalla concezione materialistico-dialettica della storia, in una società divisa in classi la politica è principalmente dominio e violenza, ogni regime politico deve avere una base di classe, deve cioè essere l’espressione politica (ossia coercitiva e violenta) del potere sociale di una classe, ossia del potere che nella costituzione materiale della società (nella struttura economica e nella formazione economico-sociale di essa) quella classe ha di muovere il resto della società. Nella società moderna solo due classi possono muovere il resto della società, comandare, stante il loro ruolo nella costituzione materiale della società: la borghesia e il proletariato, o l’una o l’altra. La borghesia perché “dà lavoro” e compera uomini, il proletariato perché produce, ha in mano la fonte principale della ricchezza sociale nelle società moderne, le fabbriche.(34)

 La storia di quel regime, la sua nascita, la sua vita e la sua morte possono essere compresi solo nella sua connessione con quella classe ed è questa connessione che deve anzitutto essere messa in luce da chi vuole comprendere quella storia.

 

(33) Quei “marxisti” che analizzano un regime politico senza ancorarlo alla sua base di classe o prescindendo dalla sua base di classe, fanno del materialismo storico che professano, un inoffensivo ornamento delle loro concezioni soggettiviste.

Ogni regime politico ha una base di classe che ne determina il carattere. I politici borghesi e i loro portavoce culturali contemporaneamente accettano e rifiutano questa realtà. Ogni uomo politico borghese ritiene di agire in nome del popolo o della nazione. Quindi accetta la realtà sopra detta che ogni esponente politico è la specificazione e la concretizzazione di un collettivo (indipendentemente dalla coscienza che egli ha di ciò). Rifiutano però, da quando la borghesia è entrata nella sua fase di declino e di difesa del suo ruolo, che il collettivo, di cui l’uomo politico è la personificazione, è la classe borghese e lo presentano come personificazione di un collettivo più vasto (il popolo o la nazione) che oramai è invece lacerato in parti contrapposte e non esiste più come unità politica. Insomma anche in questo essi compiono la stessa operazione di quando presentano la democrazia borghese come democrazia per tutti e il sistema di produzione capitalista come il sistema di produzione definitivo, “razionale”.

Ogni regime politico che dirige ed amministra una società divisa in classi ha in questa società una base di classe, è l’espressione politica di una classe. Questa ha nella società, nella costituzione materiale della società, nella sua struttura economica, nella formazione economico-sociale di essa, un ruolo sufficiente a muovere tutta la società (le cui parti costitutive sono, dai rapporti materiali, tutte unite a quella classe per subordinazione, dipendenza o alleanza) nella direzione che il suo Stato indica esplicitamente e tutela con gli strumenti coercitivi che gli sono propri e di cui ha il monopolio. Non tutte le classi possono essere classi dominanti, ma solo quelle che nella costituzione materiale della società hanno un ruolo che permette loro di muovere, sulla base di interessi materiali e di legami oggettivi, tutta la società. L’autorità dello Stato in definitiva deriva dal suo rapporto con la classe dominante. Lo Stato è allora lo Stato di quella classe, indipendentemente dalla classe di appartenenza delle persone che esercitano le funzioni previste dalla sua costituzione e indipendentemente dalla sua forma costituzionale.

 

(34) Da qui si può vedere anche la differenza tra operai costituenti i collettivi di fabbrica da una parte e dall’altra impiegati, progettisti, ricercatori, ecc. Lo sviluppo della moderna società borghese ha fatto di tutti questi degli operai (nel senso indicato nella nota 7 di questo articolo) e articolazioni della divisione tecnica del lavoro nel meccanismo unitario del processo produttivo. Resta tuttavia la profonda differenza consistente nel fatto che la società può fare a meno per un po’ di mesi o anni della ideazione, della progettazione, delle scoperte, della contabilità e della registrazione che i secondi svolgono, non può fare a meno della produzione che esce dalle fabbriche intese in senso stretto a cui i primi presiedono.

 

 

Tra tutte le classi di lavoratori che la società borghese ha al suo interno, il proletariato e in particolare la classe operaia è l’unica classe che può costituire la base di classe di un regime politico che dirige la trasformazione della società dal capitalismo al comunismo. Solo dalla sua esperienza e dalla sua costituzione materiale possono essere tratti passo passo gli elementi necessari a definire la linea per il cammino verso la nuova società.

Tra tutte le classi di lavoratori, la classe operaia è quella che è contrapposta al capitale a cui vende la sua capacità lavorativa (a differenza del resto del proletariato), fa parte delle forze produttive più avanzate e collettive (a differenza dei produttori autonomi di merci), ha già acquisito nella società borghese esperienza di lotta collettiva e di organizzazione (a differenza di tutti i lavoratori singoli ed autonomi), è la classe la cui emancipazione come classe non può realizzarsi in altro modo che col superamento del rapporto di capitale (a differenza che per i lavoratori autonomi e i lavoratori piccolo-borghesi). Queste sue caratteristiche la predestinano alla direzione del processo di transizione dal capitalismo al comunismo: questo o avviene con la direzione della classe operaia o non avviene.

L’esperienza del movimento della massa dei lavoratori nella fase imperialista mostra che esso, man mano cresce e progredisce verso il successo, trova sempre i suoi centri di organizzazione, di direzione, di unificazione e di generalizzazione nelle organizzazioni del proletariato e in particolare nelle organizzazioni della classe operaia.

 Nei paesi imperialisti in particolare, ogni volta che si è sviluppato un movimento di massa di una qualche ampiezza ed importanza, come da ultimo negli anni ’70, abbiamo visto sia che strati popolari più diversi via via venivano coinvolti nel movimento ed entravano a farne parte, sia che tutto il movimento più si estendeva più trovava i suoi punti di riferimento negli organismi operai. In Italia i Consigli di Fabbrica assunsero in ogni città, e in ogni zona del paese in cui erano presenti fabbriche, un ruolo di direzione, un prestigio e un potere che andava ben al di là di quello che i suoi membri nel complesso riuscivano a concepire e volevano esercitare. Nello stesso contesto abbiamo osservato altri fatti significativi che conducono alla stessa conclusione. Le grandi concentrazioni distaccate di impiegati e di tecnici tendevano ad assumere lo stesso ruolo delle fabbriche, creando Consigli di Fabbrica che agivano come quelli operai, a conferma che nell’industria moderna l’impiegato e il tecnico in generale è diventato un elemento della divisione tecnica del lavoro alla pari, per gli aspetti principali, degli operai.

I Consigli di Fabbrica, man mano che il movimento cresceva, tendevano ad intervenire in ogni campo, ad elaborare e fare proprie rivendicazioni di altri strati di lavoratori, a organizzarne e sostenerne le lotte, a far proprie rivendicazioni che non riguardavano direttamente il rapporto di lavoro, ad esercitare egemonia, orientamento e direzione sul complesso delle masse lavoratrici e delle corrispondenti famiglie.

Le scuole e le università, che furono per importanza il secondo centro di organizzazione e irradiazione del movimento, guardavano anch’esse alle fabbriche i cui organismi riuscivano ad avere un’influenza e una continuità ben più vasta degli organismi studenteschi. L’osservazione del movimento mostra che le scuole e le università, nonostante la loro importanza politica e la maggiore disponibilità di mezzi di comunicazione, non potevano costituire le basi di un potere politico perché gli studenti sono esterni alla struttura produttiva della società e per l’incertezza della loro posizione strutturale nell’antagonismo fondamentale della società borghese. La stessa osservazione mostra che questi caratteri strutturali erano ben più decisivi del terzo elemento di debolezza costituito dall’instabilità della composizione del corpo studentesco, che pure è il più appariscente.

Più il movimento diventava maturo, più cresceva la coalizione di esso attorno al proletariato delle grandi concentrazioni operaie e agli organismi di queste.

Insomma, tutti i movimenti di massa di una qualche importanza che abbiamo visto in Europa nell’epoca imperialista, se il loro sviluppo non veniva arrestato prima, hanno finito per trovare nelle organizzazioni di fabbrica i loro centri di organizzazione e di orientamento, quando non anche di direzione. Essi quindi configuravano un movimento in cui la larga base costituita dalla massa dei lavoratori e dagli altri ambienti popolari si univa attorno al proletariato e ai suoi organismi. La dittatura del proletariato, cioè la concentrazione del potere politico nelle mani del proletariato e delle sue organizzazioni, sembra quindi essere il passaggio necessario di ogni movimento di massa che cresce fino alla conquista del potere e avvia la transizione al comunismo. L’esperienza dei movimenti rivoluzionari dell’epoca imperialista sembra confermare questa tesi.

La combinazione di classi che vanno a costituire il nuovo potere politico e le relazioni tra di esse sono ovviamente varie a seconda della concreta formazione economico-sociale e della storia della rivoluzione. Ma è solo alla luce di queste considerazioni che dei marxisti, dei comunisti possono analizzare le esperienze e stendere dei programmi, salvo verificarli e vagliarli nel corso concreto delle cose.

Certo è che le classi che guidano la lotta e conquistano il potere, devono mantenerlo saldamente contro le forze reazionarie e nello stesso tempo usarlo per elevare il resto dei lavoratori alla lotta politica, impedire che le forze controrivoluzionarie possano farsi forti della parte più arretrata dei lavoratori e a tal fine, anzitutto, garantire che la parte arretrata trovi modo di affrontare e risolvere le contraddizioni reali che l’hanno mantenuta in quella condizione, creare  istituzioni adatte a raccogliere e valorizzare la capacità di direzione acquisita dalle masse lavoratrici e sostituirle man mano che emergono istituzioni più adatte. Anche da qui si conferma che la società socialista è una società dinamica, in continua trasformazione. Se essa cessa di trasformare le proprie istituzioni, se eleva a programma il consolidamento dell’esistente invece della sua trasformazione, inevitabilmente regredisce. Come un ciclista che può stare in piedi solo se corre.

 

5.4. I dirigenti politici della società socialista

L’esperienza storica dei movimenti proletari, delle rivoluzioni proletarie e della costruzione del socialismo fanno risaltare il ruolo insostituibile del partito comunista, nonostante tutti gli improperi vomitati contro i partiti comunisti da confusionari ed opportunisti che hanno fatto e fanno da cassa di risonanza del fiume di veleno a ragion veduta sputato dalla borghesia.

Non c’è, né l’osservazione delle dinamiche sociali permette di affermare che vi possa essere un movimento proletario che abbia qualche probabilità di successo se il proletariato non esprime i suoi interessi di classe e non concentra le sue energie in una struttura organizzata e disciplinata, capace di muoversi secondo una linea e un programma e che sia lo Stato Maggiore della sua lotta, l’unione dei suoi dirigenti politici.

Nella storia della fase imperialista si trovano esempi di partiti comunisti incapaci di dirigere, non all’altezza dei compiti e delle situazioni, che addirittura hanno soffocato le potenzialità del movimento spontaneo del proletariato; si trovano casi di partiti comunisti che non sono mai arrivati ad essere lo stato maggiore e la direzione politica del movimento proletario salvo che nelle intenzioni dei loro fondatori e nelle illusioni dei loro membri; si trovano casi di partiti comunisti che sono stati creati col proposito di alzare la bandiera del comunismo per combattere il comunismo; si trovano casi di partiti comunisti che sono diventati il canale di affermazione dei traditori del comunismo (così si sono affermati i revisionisti moderni) e sono degenerati in strumenti della controrivoluzione borghese.

Ma non si trova un solo caso di rivoluzione socialista condotta senza l’organizzazione in una struttura a sé stante dell’avanguardia del proletariato, del suo gruppo dirigente politico. Anzi l’esperienza dei vasti movimenti rivoluzionari del proletariato e delle altre masse lavoratrici nel periodo attorno alla Prima Guerra Mondiale (1917 -1921) nell’Europa Centrale e Orientale ha mostrato che senza partito comunista un movimento rivoluzionario, per quanto vasto e profondo, non può arrivare a conquistare il potere e meno ancora, se per un concorso fortunato di circostanze lo conquista, a mantenerlo.

Quanti parlano contro la costituzione e il ruolo del partito comunista dovrebbero essere chiamati anzitutto a distinguere nettamente tra i partiti comunisti e i partiti revisionisti: non è il nome che fa un partito comunista, ma il suo rapporto con il proletariato. Abbiamo visto all’inizio di questo scritto che la continuità tra costruzione del socialismo e revisionismo moderno, tra partiti comunisti e partiti revisionisti è uno degli elementi costitutivi della battaglia ideologica condotta dalla borghesia contro il comunismo. Chi mette assieme come un corso unico Lenin, Stalin, Kruscev e Breznev fa dell’anticomunismo e si priva della possibilità di comprendere gli avvenimenti e di trarne un qualche insegnamento.

In secondo luogo dovrebbero essere chiamati a mostrare in che modo il proletariato potrebbe svolgere il suo compito nella rivoluzione socialista senza selezionare una sua avanguardia, un suo strato dirigente, un suo gruppo di dirigenti politici. L’abolizione dell’attività politica come attività separata, specifica e la trasformazione di essa in attività comune di tutti gli uomini è un risultato finale del socialismo, come l’abolizione dello Stato. Chi la pone come un punto di partenza, chiamato in vita dalla volontà, non considera i processi reali, non segue le leggi oggettive di sviluppo dei  processi sociali: è un soggettivista che patrocina l’impotenza politica del proletariato.

È inevitabile che il partito comunista diventi la sede dei maggiori pericoli che il socialismo incontra all’interno della società socialista. È una verità che è confermata dalla storia ed una tesi della teoria politica. Chi vuole sovvertire dall’interno il socialismo non può farlo che a partire dal partito comunista: ma ciò è la conferma in negativo del ruolo fondamentale e decisivo del partito comunista nel mantenimento del potere e nella conduzione del processo di transizione. Durante la costruzione del socialismo il partito comunista riunisce i dirigenti di tutte le sfere della vita sociale. È quindi il posto dove più aspirano ad entrare carrieristi, arrivisti ed opportunisti di ogni specie. È anche il posto dove sono riuniti gli individui più esposti alla corruzione, gli individui che per il ruolo svolto sono più portati a conservare le forme di quello che è già stato raggiunto, gli individui che più hanno la possibilità di riprodurre le prassi e i rapporti delle vecchie classi sfruttatrici trasformando la direzione politica in oppressione, gli individui insomma che personificano, assieme allo sforzo di costruire il comunismo, anche la non ancora raggiunta eguaglianza sociale, la non ancora raggiunta partecipazione universale alla gestione della società, la non ancora raggiunta estinzione della politica. I comunisti infatti sono i dirigenti di un movimento che ha per fine quello di eliminare il bisogno di dirigenti. Da qui segue che, specialmente dopo la conquista del potere, devono essere prese speciali misure e devono essere elaborate politiche per combattere la reazione e il conservatorismo nel partito comunista, per impedire che il partito comunista si consolidi come nuovo gruppo privilegiato, per impedire che degeneri diventando quello che furono i partiti revisionisti moderni.

L’anticomunismo di vari critici del movimento comunista si rivela proprio nel fatto che mentre dalla loro inerzia politica alzano lamenti virtuosi contro la degenerazione dei partiti comunisti, nello stesso tempo sputano veleno contro le epurazioni, le espulsioni, i movimenti di critica di massa: insomma contro le misure concrete ripetutamente promosse dai grandi dirigenti rivoluzionari (da Lenin, a Stalin a Mao Tse-tung) per prevenire la degenerazione del partito comunista. Alla luce di quanto abbiamo mostrato, è invece inevitabile che dopo la conquista del potere uno dei punti in cui la lotta di classe diventa più acuta e senza esclusione di colpi è proprio il partito comunista, la sua composizione, i suoi rapporti col proletariato e con le masse, la sua linea. Non a caso uno dei punti da cui i revisionisti moderni iniziarono la loro affermazione fu la conquista di posizioni dirigenti nel partito, la cessazione delle misure per tutelare il carattere proletario del partito, l’introduzione di misure che favorirono l’accesso ai carrieristi e la degenerazione del partito.

Chi vuole far crescere una nuova vita, non può tuttavia rifiutarsi di correre rischi: deve prendere precauzioni ed imparare da ogni errore per rendere adeguate le precauzioni. Chi per non correre il rischio che suo figlio muoia rinuncia a farlo nascere o lo sopprime, non avrà progenie.

Che senso ha ad esempio la tesi che i dirigenti delle strutture economiche e politiche di un paese socialista non devono appartenere al partito comunista, se non quello di aprire la via del potere a individui contrari al socialismo? Se lo scopo della direzione è quello di sviluppare la trasformazione socialista e promuovere l’accesso delle masse al potere, può essere un buon dirigente in una società socialista un individuo che non è un’avanguardia del processo di trasformazione? Un individuo che non ha un ruolo d’avanguardia nella promozione della nuova società in un paese socialista può avere un ruolo dirigente solo come misura di compromesso, come “specialista borghese” la cui necessità riflette l’esclusione ancora esistente dei lavoratori dal patrimonio culturale della società. Sostenere che i comunisti debbono diventare esperti è giusto e necessario. Sostenere che la direzione è una questione principalmente tecnica vuol dire o non capire nulla dei processi sociali e dei compiti dei dirigenti in una società socialista o tramare contro il socialismo. Non a caso una delle bandiere dei revisionisti moderni fu che un dirigente doveva essere anzitutto e  principalmente un esperto, la sua concezione del mondo e i suoi rapporti con le masse erano secondari. Kruscev, Breznev e Teng Siao-ping furono aperti sostenitori di questa tesi, e applicandola ottennero il risultato di bloccare l’avanzata verso il comunismo e contemporaneamente ed ovviamente mandare in rovina anche la produzione che si vantavano di voler sviluppare più celermente!

 

5.5. Gli istituti della partecipazione delle masse al potere politico

La partecipazione della massa dei lavoratori alla gestione degli affari comuni non poteva che partire dai luoghi di lavoro, dagli affari immediati, locali per arrivare agli affari generali dello Stato. La società socialista abbandona e anzi combatte la finzione che degli individui esclusi dalla gestione delle proprie attività immediate, dalla gestione delle unità produttive di cui fanno parte, dalla gestione degli affari in cui sono direttamente coinvolti, tenuti all’oscuro dei reali processi economici e politici, decidano effettivamente dell’indirizzo generale dell’attività dello Stato.(35)

 

(35) È questa la finzione che le più democratiche delle democrazie borghesi mettono in opera nel suffragio universale. Periodicamente individui esclusi dall’attività politica per le condizioni materiali e culturali della loro esistenza e tenuti in condizioni di sottomissione nelle loro attività normali, vengono chiamati a decidere della linea politica dello Stato. Inevitabilmente questo istituto si trasforma in un istituto di demagogia, corruzione e strumentalizzazione delle masse. Periodicamente nelle società moderne le masse si sono trovate ad aver approvato con le elezioni cose che non si erano sognate di condividere ed a volte a ribellarsi contro la linea di un governo eletto, man mano che il contenuto della sua linea si rivelava per quello che era. Sono famosi i casi successi nella “più grande democrazia del mondo”. Gli elettori USA nel novembre del 1916 rielessero alla presidenza W. Wilson che si presentava con lo slogan “L’uomo che ci ha tenuti fuori dalla guerra”, per ritrovarsi in guerra il 6 aprile 1917. Il grande presidente democratico F. Delano Roosevelt venne rieletto nel novembre del 1940 dopo che aveva proclamato “L’ho già detto in passato, ma lo ripeterò una, due, tre volte. I nostri ragazzi non saranno mai inviati ad una guerra tra stranieri” ed entrò in guerra nel dicembre del 1941. Nel corso della campagna elettorale del 1964 il candidato alla rielezione alla carica di presidente federale, L. Johnson, attaccava il suo rivale, B. Goldwater, dichiarando “Non ci stiamo preparando ad inviare i ragazzi americani a nove o dieci mila miglia di distanza da casa per fare ciò che i ragazzi asiatici dovrebbero già fare da soli”.

Dal comprendere che le elezioni e gli altri istituti della democrazia borghese non sono (e non possono essere) strumenti di accesso delle masse lavoratrici al potere politico all’affermare che è grazie all’“imbroglio democratico”, all’“imbroglio del suffragio universale” che la borghesia tiene le masse lontane dalla conquista del potere, ce ne corre.

Solo l’infantilismo estremista può portare ad addebitare al suffragio universale e in generale agli istituti della democrazia borghese la non risoluzione dei problemi connessi alla conquista del potere nei paesi imperialisti (che del resto hanno avuto anche periodi più o meno lunghi senza suffragio universale) e a non utilizzare le contraddizioni che la democrazia borghese comporta, contraddizioni che portano la borghesia, nei momenti di crisi, a limitare gli istituti della democrazia borghese.

Nei momenti di crisi la borghesia abolisce o limita gli istituti della democrazia borghese perché in essi in qualche modo si riflette il malcontento delle masse e si generalizzano tendenze alla protesta. La classe dominante stessa, mettendo attraverso essi in piazza i contrasti che la crisi non può che accentuare, fa in qualche modo di essi degli strumenti di crescita dell’agitazione politica delle masse. Basta osservare la costante marcia verso l’avocazione delle decisioni al centro in corso dagli anni ’70 in Italia sia in campo statale, che in campo sindacale e in generale delle organizzazioni di massa e studiarne le cause, per convincersi di queste tesi.

 

La partecipazione al potere politico è e non può non essere un sistema complessivo di partecipazione alla gestione degli affari sociali. L’esperienza storica del movimento proletario, delle rivoluzioni proletarie e della costruzione del socialismo mostrano che questa partecipazione si attua attraverso le organizzazioni di massa.

Nella fase della preparazione della rivoluzione socialista esse educano le masse all’organizzazione, alla disciplina cosciente, alla trattazione delle contraddizioni in seno al popolo, alla direzione, all’attività statale, coinvolgendole in un movimento pratico e nel bilancio dell’esperienza che ne deriva. In esse un numero crescente di lavoratori imparano passo passo e per esperienza diretta a percorrere il processo della direzione proletaria: raccogliere le idee e opinioni confuse e disperse delle masse, elaborarle comprendendo le contraddizioni materiali di cui sono il riflesso più o meno mediato, svilupparle e sintetizzarle in programmi e linee d’azione, riportarle alle masse, guidare le masse a realizzarle,  guidare le masse a fare il bilancio dell’esperienza che ne deriva, ripetere il processo al nuovo livello; ossia un numero crescente di lavoratori imparano ad esercitare l’arte del dirigere e governare specifica della società socialista.(36)

 

(36) Ovviamente è un’arte di governare caratteristica delle società socialiste e che ha poco a che vedere con l’arte di governo caratteristica delle società borghesi (e proprio per questo richiede strumenti, ordinamenti, istituzioni e attitudini diverse). Il compito di un dirigente borghese è quello di riuscire ad indurre le masse a fare quello che esse non conoscono, non capiscono e che spesso e volentieri è contrario ai loro interessi. Un dirigente borghese è tanto più abile quanto più è capace di indurre le masse a fare di buona voglia le cose più contrarie ai loro interessi. Il compito di un dirigente nella società socialista è al contrario quello di essere l’avanguardia delle masse riuscendo a comprendere e far comprendere i loro reali interessi e guidare le masse a realizzarli.

 

Nella fase della costruzione del socialismo le organizzazioni di massa assunsero il ruolo specifico di organi del potere delle masse promuovendo ed estendendo la partecipazione diffusa e multilaterale delle masse all’amministrazione degli affari sociali e costituendo gli strumenti di questo esercizio. Esse erano la sede in cui le masse elaboravano la loro esperienza, trattavano le contraddizioni interne, elaboravano linee d’azione e le realizzavano e così si aprivano la strada al potere combattendo quanto restava del vecchio regime. Esse riconoscevano che ogni individuo poteva svolgere un ruolo reale nella gestione degli affari pubblici solo attraverso il collettivo e che in questa forma (e solo in questa forma) la partecipazione alla pubblica amministrazione poteva diventare universale. Il nuovo regime riconosceva che la libertà individuale poteva, nella società moderna, realizzarsi come pratica e prerogativa universali solo come libera partecipazione degli individui allo sviluppo del collettivo e come libertà, finalmente raggiunta dal collettivo di dirigere la produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza in conformità ai bisogni e agli obiettivi riconosciuti dallo stesso collettivo.(37)

 

(37) La massima libertà individuale raggiunta nella più progredita delle democrazie borghesi è la libertà del capitalista. Egli resta tuttavia membro di una società che non può, per la sua costituzione materiale, indirizzare liberamente e governare il processo della sua produzione e riproduzione. La libertà del capitalista è la libertà di un buon nuotatore che può muoversi nell’ambito della corrente di un fiume di cui però non può cambiare il corso.

Per considerazioni più dettagliate sull’argomento vedasi Rapporti Sociali n. 0 pag. 20 - 28 e Coproco, I fatti e la testa, ed. Giuseppe Maj Editore, pag. 52 - 81.

 

 

5.6. I regimi politici creati dai revisionisti moderni

In conclusione, ha senso parlare per i paesi socialisti di democrazia in generale avendo come riferimento la democrazia borghese?

La sostanza del socialismo (della transizione dal capitalismo al comunismo) è l’abolizione per fasi della proprietà individuale delle forze produttive; è quindi inevitabile che anche il regime politico corrispondente ad essa decada e non possa più esistere.

Ogni tentativo di farlo rivivere o sopravvivere non può che tradursi in una farsa perché esso è strettamente dipendente dalla proprietà individuale delle forze produttive. Se si toglie l’albero, il fogliame non può sopravvivere, se non come quinta di una farsa.

I revisionisti moderni al contrario abbandonarono il proposito e la rivendicazione di un sistema politico alternativo alla democrazia borghese, che i comunisti avevano espressamente dichiarato contrapponendo l’esperienza della Comune di Parigi e della democrazia sovietica alla democrazia borghese.

Il cammino percorso dai revisionisti moderni nei quasi quarant’anni del loro potere ha assunto forme diverse nei vari paesi, ma esso presenta alcune caratteristiche di fondo comuni.

 Nei paesi da essi amministrati, i revisionisti moderni dichiararono estinte la lotta di classe e la divisione della popolazione in classi ed esaurita la dittatura del proletariato a favore di uno “Stato di tutto il popolo”, una versione solo lessicalmente diversa della “democrazia per tutti” sotto la cui veste la borghesia contrabbanda la democrazia borghese. Per quanto riguarda la situazione mondiale, essi dichiararono che l’imperialismo aveva cessato di essere l’oppressione organizzata della borghesia di un gruppo di paesi sul resto del mondo e la resistenza organizzata contro tutte le forze socialiste e progressiste. Essi sostennero che i gruppi imperialisti e i loro Stati erano diventati partner con cui si poteva collaborare e competere.

Queste due tesi riassumono il corso che i revisionisti moderni impressero ai paesi socialisti in politica interna e in politica estera e la rottura con il corso fino allora seguito.

Ancora nel suo scritto del 1952 Problemi economici del socialismo in URSS (38) Stalin aveva indicato esplicitamente che in Unione Sovietica esistevano due classi e due tipi diversi di proprietà, che permanevano differenze sostanziali tra campagna e città e tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, che la pianificazione economica non era ancora riuscita a realizzare uno sviluppo equilibrato tra i vari settori dell’economia sociale, che la produzione mercantile e l’economia monetaria avevano ancora un’estensione e un ruolo notevoli e che l’avrebbero avuto ancora per molto tempo. Egli aveva sostenuto che i compiti che si ponevano alla società socialista erano il superamento delle differenze e contraddizioni di fondo indicate e la instaurazione di una produzione regolata dal fabbisogno sociale e in cui il calcolo di questo fosse la regola per gli organi della pianificazione.

 

(38) Lo scritto è stato pubblicato, nelle parti più importanti e in traduzione riveduta, in Rapporti Sociali n.3.

 

Nello stesso scritto egli confermava che l’imperialismo restava costituzionalmente aggressivo e guerrafondaio, ma che difficilmente gli Stati imperialisti si sarebbero lanciati in una guerra contro gli Stati socialisti.(39)

Ammettendo che sia le tesi enunciate da Stalin che le tesi enunciate dai revisionisti moderni (esposte organicamente da Kruscev nel Programma del XXII Congresso del PCUS) non fossero vuote parole da discorso domenicale (e non lo erano), esse implicano un’analisi opposta della situazione e indicano per il futuro programmi opposti.

In politica interna i revisionisti moderni sostennero che il compito di eliminare le divisioni in classi era oramai assolto. Nel 1960 Kruscev arrivò addirittura a promettere il comunismo di lì a vent’anni e sbandierò un “programma ventennale per l’instaurazione del comunismo”. Di fatto essi chiesero ai membri del partito non più di essere dirigenti politici delle masse in marcia verso il comunismo, ma di essere anzitutto degli amministratori delle strutture economiche. Essi infatti eressero a verità assoluta e guida generale la “teoria delle forze produttive”, secondo la quale il compito dei comunisti consisteva nello sviluppare le forze produttive: i rapporti di produzione e i rapporti sovrastrutturali si sarebbero modificati di conseguenza. Kruscev arrivò a spezzare il partito in due strutture distinte, una addetta alla direzione della produzione agricola, una addetta alla direzione della produzione industriale. Essi assunsero a criterio di valutazione delle iniziative economiche la redditività monetaria dal punto di vista delle singole aziende o settori e sul breve periodo, a scapito del criterio della produttività in beni dal punto di vista dell’economia del paese nel suo complesso e in riferimento al lungo periodo.

Abolirono le misure e i procedimenti tesi a prevenire la degenerazione del partito comunista che al contrario venne favorita in vari modi trasformando i suoi membri di livello più elevato ad immagine e somiglianza dei capitalisti e dei dirigenti politici della borghesia ed i membri del partito dei livelli inferiori in loro agenti e portavoce. Stabilizzarono l’appartenenza al partito facendo dei suoi membri uno strato sociale non sottomesso né a critiche di massa né a epurazioni, ma solo alla critica e alla valutazione dei livelli superiori.

 Eliminarono gradualmente le misure appositamente introdotte per favorire l’apprendimento dell’arte del governo socialista da parte di individui ed organismi delle classi lavoratrici, cercarono in ogni modo di mascherare le diseguaglianze e i conflitti sociali, pretesero esistesse un’eguaglianza sociale dove esistevano diseguaglianze che la loro azione anzi aumentava, abolirono le discriminazioni che tenevano lontano dal potere le vecchie classi dominanti e limitavano il potere delle classi privilegiate della nuova società impedendo la cristallizzazione del loro potere, misero in atto misure che gradualmente e quasi insensibilmente escludevano dal potere i lavoratori e svuotavano di potere le organizzazioni di massa e le istituzioni in cui i lavoratori dominavano.(40)

 

(39) In questo contesto non ci interessa soffermarci sulle lacune e sugli errori di valutazione contenuti nello scritto di Stalin, che del resto non era una trattazione organica, ma uno scritto d’occasione. Alcuni sono indicati anche nelle note redazionali in Rapporti Sociali n. 3. Vari errori e lacune saranno messi in luce durante la lotta contro i revisionisti moderni da Mao Tse-tung e da altri dirigenti comunisti, tra cui quello di non aver avvertito l’ampiezza del potere già raggiunto dai revisionisti moderni nel PCUS.

 

(40) Qui non si tratta di individui, che sempre possono attraversare processi singolari e compiere voltafaccia clamorosi. Qui si tratta di gruppi sociali. Il crollo dei regimi revisionisti ha mostrato a che punto erano arrivati l’esautoramento dei lavoratori e la rottura tra questi e gli esponenti politici revisionisti. Nello stesso tempo ha mostrato il singolare ruolo politico che ai lavoratori ancora derivava dall’assenza della proprietà individuale delle forze produttive. Sono significativi la frenetica processione finale alle fabbriche dei leaders revisionisti traballanti, alla ricerca dell’appoggio degli operai e l’effetto da colpo di grazia che ebbe sulla loro sorte il misto di disprezzo, indifferenza e ostilità con cui furono accolti.

 

Nella società, col pretesto che oramai non esistevano più tendenze antagoniste, lasciarono che forze antisocialiste assumessero un ruolo dirigente, addirittura in alcuni casi che queste si facessero forti demagogicamente delle rivendicazioni delle masse, diventandone i portavoce contro l’oppressione esercitata dai revisionisti moderni. La dichiarata “voglia di capitalismo” di personaggi e gruppi emersi improvvisamente alla ribalta nel crollo dei revisionisti stessi, viene dagli ambienti dello stesso regime revisionista, ai cui strati privilegiati appartenevano gli attuali protagonisti della scena.

I revisionisti moderni indebolirono, svuotarono, corruppero o abolirono le istituzioni proprie del regime politico socialista. La crescente partecipazione al potere attraverso i compiti delle organizzazioni di massa, le assemblee, la critica di massa delle organizzazioni di partito e degli organi statali venne via via abolita e sostituita dalle elezioni periodiche presentate come espressione egualitaria delle masse. I revisionisti moderni pretesero di tenere elezioni politiche come se ne tenevano nei paesi borghesi. All’analisi dei contrasti sociali e alla mobilitazione di massa per la loro soluzione, essi sostituirono i programmi elettorali che le autorità promettevano di mettere in opera, la meticolosa codificazione di procedure e norme e la creazione di organismi professionalmente deputati all’“amministrazione della legge”. La divisione dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario) venne ripescata dall’arsenale della democrazia borghese e dichiarata regola anche del nuovo regime.

Dopo i tumultuosi anni della costruzione del socialismo, sembrava oramai subentrata un’era di tranquillità e di stabilità. Ma era una coltre uniforme che soffocava i contrasti reali e ricacciava indietro dal potere i lavoratori, era l’imperio finalmente imparziale della legge sopra i contrasti sociali che venivano occultati ed erano inesistenti per definizione e decreto.

A quel punto, sul terreno che i revisionisti moderni venivano via via creando, il ruolo del partito comunista diveniva simile a quello svolto da un partito nell’ambito dei regimi borghesi e il monopartitismo diveniva ovviamente una limitazione, sempre meno adatta ad esprimere gli interessi contrastanti interni alla nuova classe dominante che si veniva instaurando. Il monopolio di un solo partito sull’attività statale venne fissato per legge, ma fu facile gioco per ogni esponente dei circoli dirigenti messo in difficoltà sostenere che più partiti permettono un confronto e uno scontro più  aperto di interessi che non un solo partito. Le risorgenti forze antagoniste già esprimevano negli scontri segreti e mascherati tra correnti e clientele del partito unico, quello scontro di interessi che non potevano esprimere apertamente come scontro tra più partiti e ciò diventava per il partito unico una fonte ulteriore di degenerazione e di corruzione.

La divisione e la reciproca indipendenza dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, la codificazione delle procedure e delle norme della vita sociale da una parte isterilivano le organizzazioni di massa e impedivano la mobilitazione di massa stendendo la coltre uniforme di un potere imparziale sopra i conflitti reali in corso; dall’altra, non avendo i revisionisti moderni restaurato la proprietà individuale delle forze produttive, la società non trovava nelle leggi del profitto, del mercato e del denaro le guide socialmente oggettive del proprio movimento. Se immaginiamo la struttura economica dei paesi imperialisti costituita solo da grandi concentrazioni monopolistiche finanziarie e da imprese statali, prive della larga base e del contorno di rapporti mercantili e di proprietà individuale su cui di fatto sono erette (se immaginiamo cioè quella società imperialista che vive solo nella fantasia dei soggettivisti), abbiamo qualcosa a cui la struttura economica dei paesi governati dai revisionisti si avvicinava molto. Le leggi oggettive del processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza non si traducevano in vincoli socialmente oggettivi dei rapporti di produzione; questi finivano con l’essere il regno dell’arbitrio e quindi scuotevano e sconvolgevano quel processo con i loro movimenti inconsulti. Nel revisionismo moderno era iscritta la crisi economica: esso non poteva che passare, con uno sconvolgimento rivoluzionario prodotto dalla crisi, o alla restaurazione della proprietà individuale delle forze produttive o alla ripresa del potere da parte del proletariato.

 

Ciò che caratterizza il regime politico instaurato dai revisionisti moderni nei paesi socialisti è:

- il tentativo di riprodurre il più possibile le procedure, le formalità, le istituzioni e gli istituti dei paesi borghesi, come dei parvenu che aspirano ad entrare nella buona società scimmiottando le classi dominanti;

- la sclerotizzazione e la mortificazione amministrativa delle organizzazioni di massa, l’abbandono delle mobilitazioni delle masse come metodo di governo del paese e la repressione delle mobilitazioni di massa quando nonostante tutto si producevano.

Il primo si scontrava però con la mancanza di quel possesso individuale di ricchezze che nei paesi borghesi costituisce la base dell’indipendenza e dell’autonomia dei gruppi politici la contesa tra i quali è il motore della democrazia borghese e resta la base anche dell’autoritarismo imperialista. I revisionisti moderni non riuscirono mai a portare a compimento la restaurazione della proprietà individuale delle forze produttive. Per questo le istituzioni della democrazia borghese da essi richiamate in vita non offrivano (e non potevano offrire) né le debolezze ma neanche la forza dei regimi borghesi. I contrasti che agitavano la società restavano estranei ad esse e questo le rendeva vuote e goffe, più di quanto lo fossero nel più autoritario dei regimi dei paesi imperialisti. La vita della società, che restava ben più ricca di contrasti e di fermenti, si svolgeva del tutto al di fuori di esse. La facilità con cui quelle stesse istituzioni sono crollate, come castelli di carta, ha confermato la loro intrinseca ed infinita debolezza.

Il secondo carattere si scontrava con le conquiste acquisite dalle masse, con l’esigenza dei revisionisti di condurre avanti gradualmente la loro opera (Kruscev venne tolto dal potere perché personalmente era troppo precipitoso) e quindi mantenere almeno le forme del regime socialista.

Le organizzazioni di massa furono in parte soppresse, in misura maggiore ridotte ad uffici statali, appendici dell’amministrazione statale e in parte trasformate in strumenti di controllo poliziesco. I movimenti di massa e la mobilitazione diretta delle masse furono oculatamente prevenute o rigorosamente represse. Persino le iniziative di riforma intraprese qua e là dai revisionisti moderni, furono da essi gestite dall’alto, come imposizione illuministica alle  masse da cui furono rigettate e disprezzate anche quando le misure volevano essere popolari e demagogiche. La separazione tra dirigenti politici e gruppi sociali arrivò un po’ alla volta a livelli incompatibili con la necessaria vita della società.

 

Il regime politico instaurato dai revisionisti moderni esprimeva (e non poteva non esprimere) la paralisi che era propria del sistema economico: nessuna delle due classi era in grado di muovere l’intera società secondo la propria linea.

La borghesia aveva in mano il potere politico ma doveva rispettare alcune fondamentali conquiste proletarie, fingere di governare in nome del proletariato e camuffare la trasformazione reale in corso mantenendo in vita i simulacri del potere del proletariato svuotati di potere, ma non privi di efficacia ai fini della resistenza del proletariato.

Il proletariato aveva ereditato conquiste tali da bloccare la direzione della borghesia ma non aveva più avanguardia organizzata, portavoce politici e quindi non aveva potere per dirigere la società.

Ogni classe era in grado di bloccare l’altra, le due classi si paralizzavano a vicenda. Di conseguenza nel regime politico non ci poteva essere democrazia borghese perché la proprietà individuale delle forze produttive non era ristabilita; non vi poteva essere democrazia proletaria perché questa è basata sulla gestione collettiva delle forze produttive e, allo stadio attuale, non può che essere un regime di progressiva elevazione del ruolo della massa dei lavoratori diretta dall’avanguardia comunista.

 

Il regime politico più scimmiottava il regime borghese più diveniva rigido, soffocante e ipocrita, univa la forza del potere politico e del potere economico nelle stesse mani mentre ostentava l’eguaglianza di tutti di fronte alla legge. In realtà la stessa struttura economica della società si frantumava in strutture contrapposte i cui capi contrattavano i reciproci rapporti, sempre più irresponsabilmente, perché sottratti sia all’iniziativa dei lavoratori sia alla sanzione del profitto, del mercato, del denaro. La pianificazione economica diventava sempre più un mercato di influenze, le sue indicazioni erano disattese il giorno dopo essere state approvate.

La base economica della società si muoveva solo per inerzia: aveva perso il suo motore socialista (l’iniziativa degli operai e degli altri lavoratori per soddisfare i propri bisogni individuali e collettivi) e il motore borghese (la ricerca del profitto) era ancora troppo debole. In assenza della proprietà individuale delle forze produttive, l’individualismo e il privilegio della nuova classe dominante si esprimevano ancora principalmente come ricerca di ricchezza e di lusso per il consumo personale. I nuovi ricchi non avevano nella struttura economica della società e nei rapporti tra gli individui ad essa corrispondenti un ruolo economico che desse ad essi la forza di muovere l’intera società. I dirigenti della struttura economica restavano dei funzionari che potevano essere assunti, spostati e licenziati: essi non potevano costituire la nuova base di classe del regime, per quanto imitassero nelle forme del loro potere i loro omonimi dei paesi borghesi. L’impiegato e il funzionario possono lavorare più o meno bene al servizio di una classe dominante, ma non possono costituire la classe dominante. Non hanno nella struttura economica della società un ruolo adeguato ad essere classe dominante. Solo la fantasia di soggettivisti alla Trotzki poteva concepire il “potere della burocrazia”, lo “Stato burocratico” e, insomma, la burocrazia come classe dominante. Non a caso Trotzki non comprese mai né perché in un certo momento aveva avuto tanto potere né perché in un momento successivo si ritrovò privo di ogni potere.

Di conseguenza il regime politico dei revisionisti aveva una base sociale debole: le forze che lo sostenevano e componevano avevano un ruolo debole nella struttura economica della società. Da qui l’importanza politica che assumeva la coesione culturale, ideologica e dottrinaria dei loro membri e l’intolleranza e la persecuzione nei confronti di quei loro membri che “dissentivano” pubblicamente, la ricerca via via più affannosa di raccogliere sostegno a mezzo  della contrapposizione agli USA in termini di grande potenza, fino a cadere nella trappola di un riarmo che rendeva ancora più squilibrata la struttura economica del paese e contribuiva ad accelerare la crisi e il crollo.

Il regime politico messo in piedi dai revisionisti moderni si rivelava sempre più una parodia goffa e primitiva dell’autoritarismo delle società imperialiste, un regime che non sapeva giocare sulla vasta gamma degli strumenti di dominio che l’esperienza della borghesia imperialista aveva messo a punto, un regime dalle rigide impalcature che di fronte alla crisi economica non poteva che crollare.

 

A fronte del crollo, la borghesia proclama il suo trionfo. In realtà il crollo dei regimi politici messi in piedi dai revisionisti moderni non apre direttamente la strada né alla democrazia borghese né all’instaurazione dell’autoritarismo tipico dei paesi imperialisti. Il problema non è in primo luogo un problema di regime politico. Proprio la parabola dei revisionisti moderni che abbiamo sopra descritto, sia pure a larghi tratti e più in termini teorici che storici, conferma che il problema reale del movimento della società sta nella struttura economica della società: quale delle due classi fondamentali della società moderna ne prenderà la direzione? Qui sta lo scontro! I problemi che i revisionisti moderni non hanno risolto con le loro frasi sul socialismo, non lo risolveranno Walesa o Eltsin con le loro frasi anticomuniste: il crollo dei regimi politici dei revisionisti moderni apre la strada ad un periodo, appena iniziato, di aspra lotta tra le classi che la borghesia inevitabilmente cercherà di trasformare in lotta tra Stati e tra nazioni. Gli avvenimenti dei quarant’anni che ci stanno alle spalle hanno esaurito tutte le possibilità di convivenza tra le due classi e le due linee, il periodo della conciliazione è finito. Questo scontro confluirà e farà parte dello scontro più generale che si profila anche nei paesi imperialisti.

Chi rappresenta questo scontro come lotta pro o contro la democrazia borghese (o pro o contro la vera democrazia), chi quindi riduce questo scontro alla sua espressione politica, vela lo scontro decisivo nel campo strutturale, travisa il contenuto dello scontro politico e si priva degli strumenti necessari per svolgervi un ruolo d’avanguardia o anche solo un ruolo attivo. Lo scontro in corso è e sarà in ogni caso uno scontro pro o contro il comunismo.

“Noi non ci presentiamo al mondo dottrinariamente con un nuovo principio: qui è la verità, qui inginocchiati! Noi svolgiamo al mondo dai principi del mondo nuovi principi. Noi non gli diciamo: desisti dalle tue lotte, sono tutte sciocchezze, ti grideremo noi la vera parola della lotta. Noi gli mostriamo solo perché veramente combatte, e la coscienza è una cosa che deve far propria, che lo voglia o non lo voglia ... Apparirà allora che il mondo possiede da tempo il sogno di una cosa, di cui deve solo possedere coscienza per possederla realmente. Apparirà che non si tratta di un grande iato tra il passato e il presente, ma della realizzazione dei pensieri del passato. Apparirà infine che l’umanità non comincia un nuovo lavoro, ma porta a termine consapevolmente il suo vecchio lavoro ....”

(K. Marx a A. Ruge, 1843)