Tre questioni importanti non eludibili

Rapporti Sociali n. 5/6,  gennaio 1990 (versione Open Office / versione MSWord )

Ci sono questioni cui tutti i comunisti oggi devono dare risposte univoche; ci sono questioni su cui non può essere tollerata alcuna ambiguità circa qual è l 'aspetto principale, qual è la causa principale, qual è il ruolo principale. Che si rifletta, si indaghi, si ricerchi: questo è salutare. Ma lo studio, la ricerca attraverso il bilancio dell'esperienza e la verifica nella pratica (la sperimentazione) richiedono il rifiuto dell'ambiguità e della confusione. Quello che è inaccettabile è il rassegnato e tranquillo oscillare da una risposta alla risposta contraria. Il pressapochismo, l'eclettismo e la confusione sono in questo periodo il tratto distintivo in campo teorico dell'opportunismo, della rassegnazione, del disfattismo.

Tra le questioni teoriche di capitale importanza, strettamente attinenti alla natura delle attuali società borghesi e dalle grandi implicazioni politiche, ve ne sono almeno tre sulle quali oggi molti compagni danno risposte equivoche: vediamole.

 

1. La prima questione è:

attraverso quale cammino le società borghesi sono uscite dalla crisi economica degli anni '20 e '30 (la «grande crisi del '29»)?

Attualmente «sono sul mercato» due risposte incompatibili tra loro.

- La cultura borghese risponde che le società borghesi sono uscite dalla crisi economica degli anni '20 e '30 grazie al fatto che i maggiori Stati hanno aumentato la spesa pubblica (per investimenti e per trasferimenti alle famiglie), creando così una domanda aggiuntiva di merci, secondo la ricetta proposta da Keynes ed esposta in forma organica nella sua pubblicazione del 1936 Occupazione, interesse e moneta. Teoria generale. Ovviamente questa risposta presuppone che l'origine di quella crisi fosse la carenza di domanda di merci, ossia (vista da un'altra parte) la sovrapproduzione di merci. Più in generale, questa risposta è indissolubilmente connessa alla concezione del movimento economico della società borghese che Keynes ha esposto nei suoi lavori. Questa concezione si contrappose, al momento della sua enunciazione, alle teorie che venivano insegnate nella maggior parte delle università borghesi perché queste erano vuote esercitazioni matematiche o di logica formale su postulati economici che avevano relazioni molto indirette con il movimento reale. Invece la teoria di Keynes si presentò e si impose come sistematizzazione in termini di cultura accademica della coscienza diffusa dei capitalisti, della visione del mondo ingenerata nei capitalisti dalla loro pratica quotidiana: la crisi era la mancanza di clienti per le loro merci e la mancanza di buone occasioni di investimento per i loro denari. Tanto vero che la proposta e l'attuazione pratiche delle «politiche keynesiane» (aumento della spesa pubblica oltre il provento delle entrate fiscali e aumento dell'intervento dello Stato in campo economico) iniziò ben prima che Keynes formulasse organicamente le sue ricette e desse ad esse fondamento in una teoria generale del movimento economico della società. Il governo federale USA diretto da F. D. Roosevelt diede il via in grande a tali politiche nel 1932; il governo nazista della Germania nel 1933.

Orbene una serie di compagni, in pubblicazioni del movimento rivoluzionario, mentre si proclamano marxisti e sicuramente rigetterebbero da sé con sdegno l'appellativo di keynesiani, vanno ripetendo e snocciolando la stessa risposta di Keynes e dei keynesiani.

Cogliendo «fior da fiore», citiamo una formulazione recente: «dopo il '29 la spesa pubblica ha fatto da volano alla ripresa, l'investimento pubblico l'ha rafforzata e indirizzata (assistenzialismo-consumismo), il Welfarestate ha creato una nuova grande integrazione economico-politico-culturale» (Controinformazione Internazionale n. 1, p. 4).

Chi sostiene che la crisi di quegli anni è stata superata grazie alle ricette di Keynes deve per coerenza logica ammettere che l'analisi keynesiana della crisi e quindi del capitale e del movimento economico del società era anch'essa rispondente al reale. Un corollario elementare della concezione materialistica della conoscenza (e del rapporto  realtà/idee) è che se la ricetta della cura è efficace, è per lo meno probabile che siano esatte anche la diagnosi del male e la concezione che porta a quella diagnosi. È quindi solo per eclettismo che gli stessi si professano marxisti anziché keynesiani.

Da questa adesione alla concezione keynesiana del movimento economico della società consegue anche una concezione della crisi attuale. «Il fattore strutturale della crisi è costituito dalla socializzazione (nel senso di statalizzazione, ndr) dei costi di produzione e riproduzione (nel senso di consumo, ndr) e dalla privatizzazione dei profitti» recitano esemplarmente gli stessi, ma formulazioni analoghe le potremmo riprendere da altre fonti. Quindi la crisi attuale deriverebbe dal fatto che lo Stato (della borghesia) si è assunto e continua ad assumersi troppi oneri per investimenti e per trasferimenti di reddito alle famiglie, mentre i profitti vanno ai «privati», ossia la crisi deriverebbe dall'incapacità della borghesia di ripartire oneri e profitti tra imprese e singoli capitalisti da una parte e il suo Stato dall'altra. Da qui la «crisi fiscale» (1) (il persistente e crescente disavanzo tra entrate fiscali dello Stato e spesa dello stesso) che è presentata come la manifestazione chiave della crisi attuale.

Cosa c'è in ciò di diverso dalla paccottiglia che il PCI ha smerciato per anni dai banchi parlamentari dell'opposizione (2), che A. Negri e O. Scalzone hanno venduto nei mercatini rionali dell'Autonomia e che La Malfa e Andreatta hanno predicato dai banchi parlamentari e dai ministeri della maggioranza governativa?

Alla luce di una concezione del genere, la crisi attuale è una questione di ripartizione di oneri e profitti tra Stato (che avrebbe assunto molti oneri) e «privati» (che continuerebbero a incamerare molti profitti). Se così realmente fosse, la ricetta della Thatcher e dei thatcheriani (meno oneri allo Stato ed eliminazione del Debito Pubblico vendendo imprese pubbliche ed altre proprietà dello Stato) avrebbe buone probabilità di condurre al superamento della crisi (di fatto ha già eliminato la «crisi fiscale» dello Stato britannico che da alcuni anni chiude i bilanci con un avanzo delle entrate fiscali sulle uscite). Va naturalmente dato atto che i «sinistri» sostenitori della concezione keynesiana si guardano bene dallo schierarsi con la Thatcher, ma non possono negare che ne condividono la concezione delle cause della crisi attuale e quindi la concezione della società. Solo che alcuni di essi ne tirano un «programma» opposto a quello della Thatcher (aumentare gli oneri dello Stato per far «esplodere» la «crisi fiscale») e altri si limitano a constatare che la riduzione degli oneri dello Stato (la riduzione della spesa pubblica con conseguente soluzione della «crisi fiscale») non farà che riprodurre la sovrapproduzione di merci (la difficoltà di vendere le merci prodotte) e quindi la riduzione della produzione di merci, delle quali cose la spesa pubblica in disavanzo sarebbe stata il rimedio: così si riducono a dibattersi, come ogni gruppo politico borghese, tra politica economica recessiva e politica economica espansiva. (3) Ma non è possibile avanzare sulla via della rivoluzione con una concezione del mondo costruita sull'esperienza pratica della classe dominante!

- Alla stessa questione i marxisti rispondono che le società borghesi sono uscite dalla crisi economica degli anni '20 e '30 a seguito delle distruzioni e degli sconvolgimenti delle due guerre mondiali e segnatamente della seconda. Questi hanno aperto lo spazio per la ripresa dell'accumulazione del capitale e quindi per un nuovo ciclo di essa. La storia delle società borghesi del secondo dopoguerra (il lungo periodo in cui le contraddizioni interimperialiste e le contraddizioni borghesia/proletariato sono state trattate senza ricorso alla guerra) è la conseguenza della ripresa dell'accumulazione capitalistica che ha potuto proseguire per alcuni decenni. Qui sta anche la fonte delle particolari espressioni culturali, politiche, spirituali che le società borghesi hanno assunto in questo periodo (l'egemonia della borghesia nella società e l'egemonia del revisionismo moderno nel movimento proletario), che dai rivoluzionari sostenitori della prima tesi vengono invece attribuiti all'efficacia della propaganda, al sistema di controllo e di dominio messi in campo dalle classi dominanti. (4)

Questa risposta porta al riconoscimento del momentaneo respiro conseguito dalla borghesia, dei miglioramenti delle condizioni di lavoro e di vita delle masse (5) e dei loro effetti politici, del carattere transitorio di entrambi. Questa  risposta porta soprattutto immediatamente alla questione della durata del nuovo ciclo di accumulazione e del punto a cui esso è arrivato e quindi si riversa nell'analisi della situazione attuale.

- In conclusione, le due risposte sottintendono due concezioni opposte del movimento economico della società, quindi due analisi diverse del movimento in corso e di conseguenza, se la teoria è una guida nell'azione e non fiore all'occhiello, due impostazioni diverse dell'azione politica, anche se su obiettivi pratici e su mosse tattiche ci si può, con motivazioni diverse, trovare d'accordo. (6)

- L'analisi degli avvenimenti storici dell'epoca fornisce ottimi e conclusivi elementi a sostegno della risposta data dai marxisti. (7) Ma è caratteristico dell'atteggiamento dei ripetitori del luogo comune della cultura borghese che non abbiano mai provato, per quanto ci risulta, a dimostrare la loro tesi sulla base del bilancio degli avvenimenti di quegli anni.

L'adagiarsi nelle ripetizioni di luoghi comuni della cultura borghese comporta, oltre ai dannosi effetti immediati in campo politico, anche la conseguenza di distogliere energie dal lavoro teorico inteso a portare l'analisi del movimento economico della società al livello che è necessario per far fronte ai compiti politici del momento. La definizione della linea di condotta dei comunisti, quindi in sostanza la definizione delle nostre prospettive, richiede una maggiore comprensione del movimento economico e politico in corso nelle società borghesi e nelle società socialiste e quindi la definizione della trasformazione della società presente che i comunisti si propongono di dirigere, il programma dei comunisti. È essenziale chiarire la questione economica fondamentale, la questione cioè della sostanza economica del movimento attuale delle società borghesi e socialiste, perché senza questa analisi non è possibile comprendere né la situazione politica odierna né in quali direzioni essa può svilupparsi. Senza la comprensione delle radici economiche dei fenomeni politici dei decenni di sviluppo successivi alla Seconda Guerra Mondiale e della crisi oramai in corso da un decennio, se non se ne valuta l'importanza politica e sociale, non è possibile fare nemmeno un passo avanti nella soluzione dei problemi pratici del movimento comunista e della futura rivoluzione sociale. (8) A fronte di questo, la teoria della crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale è lungi dall'essere completa e ancora più approssimativa ed episodica è la verifica di essa nel movimento economico reale della società.

A questo argomento dedichiamo in questo numero di Rapporti Sociali l'articolo Ancora sulla crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale.

NOTE

(1). Sulla «crisi fiscale» e la cultura borghese già nel 1981 il Coproco diceva che a causa della sovrapproduzione di capitale «una parte crescente di plusvalore non diventa capitale, ma viene impiegata come reddito:

- sia come reddito personale del capitalista e dei suoi scagnozzi, come lusso e sfarzo di cose e di servitù, di gorilla, di leccaculo, ecc... Qui si ha aumento di lavoratori improduttivi di plusvalore.

- sia come valore impiegato in fondazioni, istituti «culturali», di beneficenza, di vigilanza, ecc. ecc., insomma una massa di valore impiegato non allo scopo diretto di valorizzarsi, cioè non come capitale. Qui si ha il corrispondente aumento di lavoratori improduttivi di plusvalore.

- sia come spesa statale e spesa pubblica in generale. Qui si ha la conseguente crescita dell'impiego di una massa di lavoro improduttivo di plusvalore.

Il gonfiamento della spesa pubblica viene determinato, quanto al suo effettivo venire all'esistenza, alle dimensioni che assume, alle forme concrete che assume (armamento, istruzione, pensioni, servizi sanitari, prebende e sinecure, burocrazia, contributi a fondo perduto alle imprese, credito agevolato, programmi di ricerca, servizi di assistenza, servizi di repressione, ecc.) dai concreti movimenti politici. Ma la sua possibilità è data dal movimento economico.

Gli operaisti capovolgono il movimento reale, lo mettono a testa in giù e gridano alle «lotte operaie che obbligano lo Stato a gonfiare la spesa pubblica» oppure alle «lotte operaie che gonfiando la spesa pubblica o impedendone la riduzione mettono in crisi il sistema» (la lotta sulla spesa pubblica): essi infatti fanno propria l'analisi borghese della realtà. Loro e i teorici dichiaratamente borghesi sono d'accordo sull'analisi (la spesa pubblica come causa dell'inflazione, le esigenze e le pretese dei lavoratori come causa della spesa pubblica, ecc.), traendone conclusioni pratiche speculari. Andreatta e La Malfa strillano «ridurre la spesa pubblica per salvare il sistema». Negri e Scalzone gridano «aumentare la spesa pubblica per far saltare il sistema» (vedi a questo proposito: A. Negri - Politica di classe: il motore e la forma, le cinque campagne oggi. La campagna sulla spesa pubblica - Machina Libri, Milano). (da Atti Preparatori al Convegno contro la Repressione - Milano, 30 - 31 maggio 1981, p. 16).

 

(2). Il PCI ha basato per decenni la sua linea economica sulla contrapposizione «pubblico» (ossia Stato borghese, capitalista collettivo che il PCI si  guardava bene dal definire tale) - «privato» (ossia società capitaliste e capitalisti individuali). Il PCI presentava il primo come buono e si faceva suo paladino e il secondo come cattivo e accusava i suoi concorrenti di esserne i paladini. In questo modo il PCI

- sostituiva categorie giuridiche dell'ordinamento della società borghese (pubblico, privato) alle categorie economiche (capitalista individuale, capitalista collettivo),

- contrabbandava per socialismo la proprietà statale, anche se lo Stato era in realtà la borghesia organizzata in Stato,

- sostituiva allo scontro tra le classi la contraddizione di interessi all'interno della classe dominante e le contraddizioni tra le varie strutture di essa (Stato, imprese, individui), il cui movimento, se preso per quello che era, al contrario sarebbe stato ricco di insegnamenti e di appigli favorevoli alla lotta del proletariato.

Confondendo i termini dello scontro il PCI contribuiva anche così ad alimentare la sua linea di subordinazione del proletariato alla borghesia.

 

(3). Su queste questioni rimandiamo a Rapporti Sociali n. 0 (Don Chisciotte), p. l e segg.

 

(4). Questi rivoluzionari non spiegano l'egemonia della borghesia e dei revisionisti moderni con il movimento reale della società, mi in base alla tesi che il comportamento delle classi soggette sarebbe determinato dai messaggi che il padrone e i suoi aiutanti mandano ad esse e dalla paura e dai colpi dei corpi repressivi messi in campo dai padroni! Se così fosse realmente, ogni classe dominante sarebbe eterna! C'è da meravigliarsi se i sostenitori di queste tesi sono detti idealisti (le idee e le immagini trasmesse dalla borghesia determinano la direzione del movimento della società) e soggettivisti (la volontà di chi possiede e dirige corpi repressivi determina la direzione del movimento delle società)? Mao Tse-tung sostenne che neanche il possesso della bomba atomica da parte degli imperialisti avrebbe potuto impedire la loro sconfitta e deviare l'umanità dalla marcia versa il socialismo: sono chiaramente due modi di pensare agli antipodi!

 

(5). I rivoluzionari succubi della cultura borghese attribuiscono invece i miglioramenti delle condizioni di lavoro e di vita delle masse strappati in quegli anni o all'astuzia della borghesia che voleva corrompere le masse (perché la borghesia non è più così astuta? perché non è astuta anche in Brasile e in Egitto e non corrompe anche lì le masse?) o allo sfruttamento delle popolazioni del Terzo Mondo (le masse del Terzo Mondo erano meno oppresse e sfruttate negli anni '20 che negli anni '60? Sono meno sfruttate negli anni '80 che negli anni '60?).

 

(6). Ad esempio, nell'appoggiare il movimento di resistenza popolare alla cancellazione delle conquiste economiche, normative, culturali e politiche strappate nei decenni di sviluppo seguiti alla Seconda Guerra Mondiale.

 

(7). Questi elementi sono stati illustrati in Rapporti Sociali n. 0 (Don Chisciotte), p.1 e segg.

 

(8). L'indifferenza mostrata da un vasto schieramento di promotori della pacificazione sociale, che va dal gruppo dirigente del PCI, a quello di DP fino al gruppo di Politica e Classe (schieramento che questi ultimi con inconsapevole sarcasmo chiamano sinistra di classe - già, di quale classe?), per la comprensione della sostanza economica della nostra storia degli ultimi decenni è una conferma del fatto che il proposito da essi dichiarato di «voler fare un passo avanti verso la soluzione dei problemi pratici del movimento comunista», è solo fumo gettate negli occhi per nascondere il reale passo verso la sottomissione alla politica borghese e l' auspicata e utopistica pacificazione sociale che sono gli obiettivi comuni a tutta l'ala sinistra della borghesia.

 

2. La seconda questione è:

in quale relazione stanno le forze produttive sviluppate nell'ambito del modo di produzione capitalista con il rapporto di capitale?

Anche per questa domanda attualmente «sono sul mercato» due risposte incompatibili tra loro.

- La cultura borghese di sinistra risponde a questa questione sostenendo che il rapporto capitalista di produzione è incarnato e oggettivato nelle attuali forze produttive, che il rapporto capitalista di produzione è incorporato nell'apparato produttivo (impianti, macchinario, lavoratori, organizzazione del processo lavorativo immediato), che questo traduce in forza materiale e diffusa il «dominio del capitale».

Da una concezione del genere segue

- che il rapporto di produzione capitalista è rafforzato dallo sviluppo delle forze produttive,

- che capitale e sviluppo delle forze produttive vanno di pari passo,

- che le forze rivoluzionarie anticapitaliste sono contro le attuali forze produttive.

Siccome tra le forze produttive vi è anche, e in primo luogo, la capacità produttiva degli uomini, da quella risposta segue anche che i lavoratori oggettivano in sé, nelle proprie facoltà fisiche e intellettuali, il capitale (detto in altre parole: l'integrazione della classe operaia nel capitale). Il corollario è che la fonte delle forze rivoluzionarie è per forza di cose qualcosa di diverso dal processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell'esistenza, dal processo produttivo (nel quale, secondo costoro, il capitale domina e si riproduce senza generare contraddizioni  antagoniste a se stesso). Questa fonte delle forze rivoluzionarie per alcuni esponenti della cultura borghese di sinistra (come Adorno e Horkheimer in Dialettica dell'illuminismo) resta oscura e inspiegabile, altri (come Marcuse in L'uomo ad una dimensione) con molta modestia la pongono nelle buone idee, nella buona coscienza, nei buoni propositi, nei principi etici, nella superiore coscienza critica delle persone colte e perbene, altri (come A. Negri e C.) nella «coscienza politica» dei «soggetti rivoluzionari».

L'elaborazione organica di questa risposta al quesito circa la relazione tra le forze produttive sviluppate nell'ambito del modo di produzione capitalista e il rapporto di capitale è dovuta alla Scuola di Francoforte e in particolare ad Adorno e Horkheimer. (9)

A differenza di Keynes che da intellettuale anglosassone consulente del governo britannico e statunitense non pretese mai di essere marxista, (10) gli esponenti della Scuola di Francoforte, da intellettuali tedeschi il cui ruolo sociale consisteva nel contenimento dell'avanzata del comunismo nei paesi imperialisti, pretesero sempre di essere seguaci (seppur critici e colti) di Marx ed anzi: l'ultimo grido del marxismo! Di conseguenza nel movimento rivoluzionario individui che si dichiarano francofortesi e nello stesso tempo marxisti non sono così rari come gli individui che si dichiarano contemporaneamente keynesiani e marxisti. (11) Troviamo quindi una serie di pubblicazioni, che per i propositi dei loro redattori appartengono al movimento rivoluzionario, in cui l'omogeneità delle forze produttive attuali col capitale viene proclamata e posta a fondamento di illustrazioni più o meno fantasiose della onnipotenza, onnipresenza e onniscienza del capitale.

Scegliamo anche in questo caso «fior da fiore» e citiamo, tra i tanti ripetitori delle tesi, i redattori della rivista Officina che fanno propria, come ovvia e fondamentale verità, la tesi di R. Panzieri «i rapporti di produzione sono dentro le forze produttive» e su questa tesi costruiscono la teorie della «totalizzazione» ossia del rapporto di capitale che determina in conformità a sé e alle esigenze della sua perpetuazione tutti gli aspetti della società e degli individui (Officina n. 4, p. 34 e segg.). (12)

In stridente contrasto con la loro tesi della omogeneità forze produttive moderne-capitale, la maggior parte degli stessi autori, presentando un curioso caso di sdoppiamento mentale, sono d'altra parte pronti a fornire mille esempi pratici e particolari in cui risalta che le forze produttive moderne costrette nell’ambito del rapporto di capitale diventano forze distruttive della produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell'esistenza, ossia mille esempi pratici dell'incompatibilità tra i due termini. Solo che in questo modo le mille denunce pur esatte nei particolari, diventano lamenti piccolo-borghesi contro il destino e la malvagità umana e, anziché «svelare l'arcano», contribuiscono a mantenere un velo sulla connessione tra tale ruolo distruttivo e la sopravvivenza del rapporto capitalista di produzione.

- Alla stessa questione i marxisti rispondono che il rapporto di capitale è diventato già da tempo una camicia troppo stretta per le forze produttive che esso ha sviluppato e lo continua a diventare ogni giorno di più, che la contraddizione tra le forze produttive divenute collettive e il rapporto di capitale ancorato alla proprietà individuale delle forze produttive è la base del rivoluzionamento della società attuale e la fonte di tutte le forze rivoluzionarie attuali. In ciò riprendono ed applicano al presente la tesi fondamentale di Marx sulla concezione materialista della storia, che nella introduzione a Per la critica dell'economia politica egli enuncia con queste parole: « Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive materiali ... A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti ... dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale ... e non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente tra le forze produttive della società e i rapporti di produzione» (K. Marx:  Prefazione a Per la critica dell' economia politica). (13)

- Ovviamente anche per le risposte a questa seconda questione il tribunale di ultima istanza è la realtà. I sostenitori della omogeneità delle forze produttive moderne con il capitale ci dovrebbero spiegare da dove viene il carattere distruttivo assunto dalle forze produttive rispetto alla produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell'esistenza se non proviene dalla loro incompatibilità con il metodo di gestione di esse che chiamiamo capitale, incompatibilità che abbiamo illustrato in Rapporti Sociali n. 4, p. 5 e segg.: forse dall'ignoranza, cioè ancora una volta dal mondo delle idee? Dovrebbero inoltre spiegarci perché perfino nelle società borghesi più evolute ancora oggi una parte considerevole dell'attività produttiva continua a essere svolta in condizioni e con mezzi antiquati e l'impiego delle forze produttive moderne (in particolare la mano d'opera con cultura a livello universitario e l'informatica) è circoscritto ad alcuni settori e ad alcune aziende.

A questo problema dedichiamo in questo numero di Rapporti Sociali l'articolo Forze produttive e rapporti di produzione.

NOTE

(9). Tra le opere in cui i due espongono questa loro risposta: Dialettica dell'illuminismo (1944) e Saggi sociologici (1966).

(10). Lo hanno preteso invece alcuni suoi seguaci dichiarati, come Joan Robinson. Di sedicenti marxisti e reali keynesiani sono piene le cattedre universitarie e gli uffici studi della Repubblica Italiana.

 

(11). Vale la pena citare il caso di due autori che, pur proclamandosi addirittura marxisti-leninisti e avendo anche avuto un qualche ruolo in organizzazioni m-1 italiane, senza scomporsi e senza notarne la assoluta inconciliabilità con la tesi fondante della concezione materialistica della storia, trascinati dalla polemica contro la teoria revisionista della unità forze produttive moderne-comunismo e contro la teoria della neutralità della scienza, hanno fatto propria la tesi dell'unità forze produttive moderne-capitalismo, ossia della incorporazione del rapporto capitalista di produzione nelle forze produttive: F. La Grassa e M. Turchetto in Dal capitalismo alla società di transizione.

 

(12). Sulla relazione forze produttive-rapporto di produzione si può vedere anche Coproco, I fatti e la testa, p. 12 e segg. e p. 116 e segg.

 

(13). Vari scritti di Marx ed Engels relativi alla concezione materialistica della storia sono raccolti nell' antologia La concezione materialistica della storia, Editori Riuniti, n. 184 collana Idee, 1986.

 

3. La terza questione è:

può la classe dominante dirigere il movimento economico della società borghese secondo un piano concepito nel suo seno e condurla al conseguimento di obiettivi che la classe dominante si è proposta?

Ossia, detto in altre parole, è possibile che gli esiti reali del movimento della società borghese esistano prima nella testa degli esponenti della classe dominante come loro programma d'azione e che diventino reali proprio grazie a questa loro prima esistenza ideale?

Anche per questa domanda attualmente «sono sul mercato» due risposte incompatibili tra loro.

- La cultura borghese risponde positivamente a questa questione. Già nel periodo di passaggio alla fase imperialista del capitalismo (1870 -1914) alcuni ideologi borghesi (Sombart, Liefman, Schülze-Gaevernitz e altri) avevano avanzato la teoria apologetica del «capitalismo organizzato». Essa venne poi ripresa anche dai teorici della degenerazione della 2° Internazionale (Kautsky, Hilferding e altri). Naufragata nelle trincee della 1° Guerra Mondiale, la teoria venne rilanciata all'inizio della grande depressione degli anni '30 in termini operativi, non solo come teoria economica, ma anche come guida della politica economica, da Keynes e dai suoi numerosi seguaci nei circoli governativi borghesi.

A cavallo dei due secoli gli inventori della teoria del «capitalismo organizzato» avevano proclamato che nella società borghese «moderna» si riduceva progressivamente il campo d'azione delle leggi economiche, operanti automaticamente, e si ampliava in modo straordinario quello della regolamentazione cosciente delle attività economiche per opera delle banche. Dopo che la «regolamentazione cosciente per opera delle banche» ebbe prodotto la 1° Guerra Mondiale e le convulsioni economiche e politiche degli anni '20 e '30, la fiducia nella loro direzione cosciente era difficile da nutrire e i banchieri per primi disconoscevano con fervore la paternità di cotanto parto. Negli anni '30 i circoli accademici e governativi anglo-americani con alla testa Keynes e gli intellettuali del New Deal ripresero in altri termini il tema. Essi  ammettevano che le banche non dirigevano coscientemente il movimento economico delle società borghesi, ma affermavano che i governi potevano e quindi dovevano dirigere il movimento economico della società.

Nella cultura borghese di sinistra la tesi del piano del capitale venne elaborata organicamente nell'ambito della Scuola di Francoforte, in particolare da F. Pollock. (14)

Questa tesi venne portata nel movimento rivoluzionario italiano dagli operaisti, unitamente alla tesi della incorporazione del rapporto di capitale nelle forze produttive. Gli operaisti sostenevano che le società borghesi si sviluppavano secondo un piano, un progetto che da qualche parte alcuni capitalisti avevano, evidentemente, elaborato e che autorità politiche e capitalisti associati mettevano in atto nella loro azione quotidiana.

Questa tesi degli operaisti sembrava molto rivoluzionaria, una denuncia senza riserve della «malvagità» dei capitalisti responsabili soggettivamente, volutamente, consapevolmente delle sofferenze di milioni di uomini. Gli operaisti sostituivano quindi la lotta per trasformare il regime economico e con esso l'intero assetto della società con la lotta per trasformare la coscienza e la volontà degli uomini e con la Lotta contro gli «uomini cattivi». (15)

 

- Alla stessa questione i marxisti rispondono che il movimento economico della società borghese è determinato da leggi socialmente oggettive. «Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive materiali» afferma Marx nel passo sopra citato. Il carattere necessario dei rapporti di produzione è un tratto essenziale della produzione mercantile, che la produzione capitalista sviluppa e generalizza. Nell'ambito della produzione mercantile l'attività con cui un individuo produce e riproduce le condizioni materiali dell'esistenza è un'attività sociale, ossia un'attività che si attua attraverso rapporti con altri individui. Ma proprio la libertà di ogni individuo rispetto agli altri in termini di indifferenza verso gli altri individui e di mancanza di un legame associativo preesistente relativo alla produzione, rende questi rapporti non governabili da nessun individuo e fa sì che per ogni individuo questi apporti in cui egli deve entrare si presentino a lui come qualcosa di indipendente dalla sua volontà, qualcosa cui egli si deve adattare, ossia come oggettivi. Un'oggettività determinata dal suo essere sociale (dal suo produrre in società), quindi rapporti socialmente oggettivi (e infatti smettono di imporsi all'individuo che per qualsiasi incidente esce dalla produzione sociale). Socialmente oggettivi non significa che si attuano senza gli individui (nel senso in cui sono oggettivi i movimenti astronomici e geologici), ma che si attuano perché gli individui inevitabilmente vorranno e agiranno conformemente ad essi, convinti della giustezza e della necessità della cosa e agendo di loro volontà, perché essi determineranno la loro coscienza; l'andamento che risulterà dalla composizione delle loro azioni quali individui privi di volontà comune e di accordo generale, si imporrà a ognuno di loro come un avvenimento di cui dovranno prendere atto e da cui dovranno partire, come qualsiasi altro «fenomeno naturale» e oggettivo.

- In conclusione la risposta che la cultura borghese di sinistra dà alla domanda sopra posta non fa che travisare in termini apologetici il fatto che la proprietà individuale delle forze produttive, finché sopravvive nel modo di produzione capitalista di cui è un carattere sostanziale, non può non mediarsi con il carattere sociale delle forze produttive e dar luogo a capitalisti associati. La cultura borghese presenta i capitalisti associati, la società per azioni, lo Stato (capitalista collettivo) come inizio del movimento economico, presentando così il mondo alla rovescia. Infatti il dato permanente e ineliminabile nell'ambito del modo di produzione capitalista è la contraddizione tra frazioni di capitali. La loro unità nell'associazione di capitalisti (società di capitale, enti, Stato) è il dato derivato transitorio, è una forma antitetica dell'unità sociale. Nella società capitalista insomma il dato di base, stabile e generale è la proprietà individuale delle forze produttive; capitalista collettivo (l'associazione di capitalisti, ecc.) è il risultato mediato, transitorio, sovrastrutturale in un certo senso (ed esattamente nello stesso senso in Lenin definiva l'imperialismo una sovrastruttura  del capitalismo). (16)

NOTE

(14). Gli scritti più significativi sono raccolti in F. Pollock, Teoria e prassi dell'economia di piano, 1928 - 1941, ed. De Donato.

 

(15). Su questo argomento si veda Rapporti sociali n. 0 (Don Chisciotte), p.1 e segg.

 

(16). Su questo argomento si veda Rapporti sociali n. 4, p. 15 e 16.

 

4. Conclusione

È troppo chiedere risposte nette a queste tre questioni? Certo, la dialettica insegna che ogni tesi è vera e falsa nello stesso tempo. Ma non è dialettica, bensì eclettismo e sofistica evitare di definire quale dei due aspetti di una contraddizione è, in una data situazione concreta, il principale. E qui proprio di questo si tratta.

Nella soluzione della «grande crisi» causa principale fu la Guerra Mondiale o l'aumento della spesa pubblica?

Nella relazione tra forze produttive sviluppate nell'ambito del rapporto di produzione capitalista e rapporto di capitale l'aspetto principale, nella fase imperialista, è l'antagonismo o l'unità?

Nel movimento economico della società borghese attuale l'aspetto principale è direzione consapevole e mirata o l'azione delle leggi oggettive del modo di produzione capitalista?

Queste sono le questioni: a queste bisogna dare risposta.