Rapporto di capitale (II)

Rapporti Sociali n. 3, marzo 1989  (versione Open Office / versione MSWord )

Nell'ultimo quarto del secolo scorso inizia la fase imperialista del modo di produzione capitalista. Le forme assunte dalle relazioni economiche nelle società borghesi fino a quel momento, quindi il rapporto di capitale, sono state esaurientemente esposte e spiegate da K. Marx in Il capitale. Noi non intendiamo fare qui un bigino della trattazione di Marx. I nostri lettori che vogliono comprendere il rapporto di capitale devono leggere quest'opera di Marx di cui a ragion veduta la classe dominante ha costantemente scoraggiato lo studio, sostituendolo con quello di surrogati. In questo scritto vogliamo affrontare, come abbiamo fatto nel numero precedente in Rapporto di valore,

1. punti che sono di utile collegamento tra la cultura di base dei nostri lettori e il linguaggio di Marx e la cultura del suo ambiente;

2. punti importanti per la comprensione del movimento economico delle società borghesi attuale e di cui i “marxisti” hanno fatto scempio, ossia su cui esistono oggi beatamente e tranquillamente nelle teste dei nostri lettori pregiudizi e luoghi comuni antimarxisti catalogati come ovvie e universalmente note “verità marxiste”. Infatti l'influenza della cultura borghese di sinistra ha fatto sì che a molti individui il lavoro di Marx sia servito “così come un guanciale per la pigrizia di pensare, la quale si acquieta nella presunzione che tutto sia già stato provato ed aggiustato” (Hegel, Scienza della logica).

 

2. Lo sviluppo delle forze produttive nell'ambito della produzione semplice di merci e il rapporto di capitale

La diffusione della produzione di merci apre un terreno favorevole

- allo sviluppo della produttività del lavoro umano (ossia all'aumento della quantità e qualità degli oggetti prodotti con lo stesso tempo di lavoro) grazie a tutti i vantaggi connessi alla specializzazione nel lavoro,

- alla crescita della varietà di articoli che entrano nel consumo e nell'uso e costituiscono il supporto della civilizzazione e quindi, di conseguenza, all'aumento della quantità dei prodotti del lavoro richiesti,

- allo sviluppo delle forze produttive: capacità produttiva dei lavoratori (numero dei lavoratori, ore lavorate, regolarità delle prestazioni lavorative, intensità del lavoro), mezzi di produzione, infrastrutture usate nella produzione, tecniche impiegate nella produzione (know how).

La produzione mercantile trasforma l'attività di ogni singolo individuo per il proprio ricambio organico in un'attività sociale e fa dipendere il suo esito dalla conoscenza che il singolo produttore di merci ha del resto degli uomini. Ogni produttore viene costretto, per soddisfare le esigenze stesse del suo ricambio organico, a fare i conti con l'esistenza, i gusti, l'attività economica e le abitudini di altri uomini con cui non ha alcun vincolo di sangue, di frequentazione, di vicinato, ne alcun legame culturale o associativo (21).

È stato verificato che già nell'antichità e in vari paesi esistevano uomini che producevano merci. Ma la produzione mercantile rimase un modo di produzione secondario, vale a dire o limitato ad alcuni prodotti non di uso corrente oppure limitato a piccole quote di alcuni prodotti d'uso corrente oppure limitato ad alcune categorie di persone. La produzione mercantile semplice (ossia non capitalista) non contiene in se la necessità di espandersi e universalizzarsi.

In Europa Centrale e Occidentale, a partire dal secolo XIII, durante la decadenza del sistema feudale, a seguito del dissolvimento dei rapporti di servitù feudale, la produzione mercantile si sviluppò ampiamente e qua e là (ad es. in varie zone d'Italia già nel secolo XIV) iniziò anche il suo trapasso in produzione capitalista di merci. L'arrivo dalle Americhe, a partire dalla fine del secolo XV, di grandi quantità di argento e di oro, che in Europa erano già merce-denaro, diede un grande impulso al processo in corso.

Tuttavia gli inizi di produzione capitalista nell'Europa Continentale furono bloccati o stroncati da avvenimenti politici prima che il radicamento del nuovo modo di produzione divenisse irreversibile. Il modo di produzione capitalista venne al mondo, dopo alcuni inizi abortiti, in Inghilterra nel secolo XVI. La produzione capitalista di merci divenne per la prima volta il modo di produzione principale di un intero paese, con uno Stato al suo servizio, quando con il ferro e con il fuoco i contadini inglesi vennero espropriati e cacciati dalla terra e il modo di produzione capitalista si impadronì della produzione agricola, allora il settore produttivo di gran lunga più importante e determinante (22).

Da qui esso nel corso di tre secoli circa si è imposto in tutto il mondo, soppiantando in ogni regione i modi di produzione ivi predominanti (feudali, schiavistici, primitivi, asiatico, ecc.). Esso e la classe nel suo ambito predominante, la borghesia, raggiunsero il loro massimo sviluppo nella seconda metà del secolo scorso e da allora iniziò il loro declino.

Il modo di produzione capitalista è qualcosa di diverso dalla produzione mercantile, né nasce direttamente dalla produzione mercantile (come ad esempio invece da essa nasce il denaro). La produzione mercantile si è trasformata in produzione capitalista solo attraverso la mediazione di interventi extraeconomici. Tuttavia il modo di produzione capitalista è venuto al mondo in Inghilterra nell'ambito della produzione di merci e come forma specifica di essa. Esso a sua volta ha reso universale la produzione mercantile, vale a dire l'ha estesa a tutte o a gran parte delle attività lavorative. Gli eventi extraeconomici che ne determinarono la nascita infatti risolvevano positivamente alcuni problemi posti dalla produzione mercantile stessa. D'altra parte non vi è capitalismo senza produzione mercantile. Nelle regioni dove non preesisteva una vasta produzione mercantile, il modo di produzione capitalista è stato importato dall'esterno ed ha prodotto esso stesso la nascita e l'universalizzazione della produzione mercantile.

La produzione mercantile si afferma quindi in Europa nel corso del disfacimento della struttura economica feudale, rompe l'involucro comunitario in cui gli uomini si erano sviluppati per secoli e crea l'individuo concreto, ossia pone il singolo uomo come effettiva cellula costitutiva della società e quindi come soggetto dei rapporti economici, politici, giuridici. La società cessa di essere un assieme di tribù, di clan, di corporazioni e ordini, di famiglie per divenire un assieme di individui. L'individuo infatti non è all'inizio della storia (al modo raffigurato da varie storie dell' umanità romanzate alla Robinson Crosuè - le “robinsonate”), ma è il risultato di una lunga evoluzione storica (23). La produzione mercantile diviene essa stessa nuovo vincolo sociale, privo di limiti di sangue, di razza, di religione, di lingua e di costumi: la nuova società è costituita dagli uomini tra i quali corrono rapporti di scambio e che da questi rapporti dipendono. Su queste basi si costruisce una nuova civiltà con tutte le sue articolazioni politiche, giuridiche, culturali, spirituali (24).

D'altra parte finché il produttore produce per il suo uso, per l'appropriazione di valori d'uso, per la soddisfazione dei propri bisogni, in breve per il consumo, di necessità l'incremento della forza produttiva del lavoro, la crescita delle forze produttive e lo sviluppo della produzione sono limitati

- dai consumi abituali del produttore,

- dai limiti della capacità produttiva del produttore (25).

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Il primo limite è superato tramite lo sviluppo delle funzioni di mezzo di conservazione del valore e di mezzo di tesaurizzazione adempiute dal denaro che è già mezzo di scambio (26).

Quando l'operazione M - D - M' (trasformazione di merce in denaro e quindi del denaro in altra merce) si spezza nelle due operazioni M - D e D - M', cessa il limite posto alla produzione di M dal suo essere prodotta per scambiarla con M', che a sua volta è componente del ricambio organico del produttore.

II produttore inizia a produrre per il valore in forma “pura” e “autonoma”, ossia per denaro. II denaro non entra nel ricambio organico, quindi non è limitato da esso. Il denaro si misura solo in quantità, il suo unico limite è la quantità e quindi esso è illimitatamente accumulabile. La funzione di mezzo di conservazione del valore (quindi del potere di acquisto di merci e in generale di comando di lavoro altrui) permette l'accumulazione illimitata e il suo impiego a volontà.

D'altra parte il denaro, nell'operazione D - M', permette di procurarsi quanto necessario al ricambio organico senza la diretta connessione con la produzione e l'alienazione di un qualche prodotto e in linea di principio anche senza connessione alcuna con la produzione (basta possedere denaro).

In generale si ha qui che la produzione cessa di essere direttamente produzione per il consumo (per il ricambio organico) e il ricambio organico cessa di essere direttamente connesso con la produzione.

Tutte le ansie, le paure, le insicurezze che hanno nutrito la vita e la fantasia degli uomini fin dalle loro sconosciute origini, trovano ora la loro soluzione adeguata nell'accumulazione di denaro, ossia nell'accumulazione di potere di comando impersonale sul lavoro di tutti i membri della società. Il denaro è per chi lo possiede ben più potente e affidabile della stima, dell'affetto e della parola data di alcune persone a lui vicine e ben più tangibile e meno esposto a capricci, meno arbitrario e incontrollabile, meno moralista e austero della provvidenza divina.

La liberazione dal lavoro, la possibilità di vivere del lavoro altrui, tutto ciò si attua ora non più attraverso la costrizione, la convinzione, il diritto ereditato, il ruolo nell'organizzazione sociale, ma attraverso il denaro. Ovviamente tutto ciò aumenta il ruolo del denaro come obiettivo del processo produttivo e in generale di tutti i traffici e le attività.

Il carattere impersonale del denaro (che non porta traccia del suo possessore né del modo in cui è venuto nelle sue mani, che acquista indifferentemente ogni cosa, che non è assegnazione ad personam come le rendite e i feudi), fa di esso lo stimolo potente per eccellenza delle attività umane ed asseconda la costituzione dell'individuo come indipendente soggetto dei rapporti sociali, permettendo lo sviluppo individuale delle capacità e delle attitudini.

D'altra parte M - D non può procedere illimitatamente in modo unilaterale, perché esso è solo la forma parziale di un processo unitario che media il ricambio organico (si pone come termine intermedio tra il lavoratore e il ricambio organico) per cui, periodicamente, il corso delle cose viene sconvolto, il denaro diviene cosa inutile, incapace di saziare e dissetare, oro inutile o carta straccia, quando non trova merci in cui scambiarsi per soddisfare i bisogni del suo possessore (27).

Il secondo limite è tolto dal rapporto di capitale. Esso trasforma in capacità lavorativa del capitalista la capacità lavorativa di tutti i proletari che egli può comperare e trasforma in prodotto del capitalista tutto il prodotto del pluslavoro che egli riesce a far compiere. Rendendo universale la produzione di merci e facendo diventare merce anche la capacità lavorativa umana, il rapporto di capitale consolida e generalizza anche il denaro come obbiettivo universale dell’attività produttiva. In esso quindi vengono superati completamente i limiti insiti nella produzione mercantile semplice.

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La produzione capitalista tuttavia può nascere solo se si hanno altre condizioni oltre alla produzione mercantile (28).

I presupposti della produzione capitalista infatti sono

- che vi siano lavoratori spogliati dai mezzi e dalle condizioni necessari alla produzione dei propri mezzi di sussistenza e più in generale alla produzione di merci, ma liberi d'altra parte di vendere la propria attività lavorativa (quindi non essi stessi oggetto di proprietà o asserviti, mezzo della produzione di altri, come gli schiavi e i servi della gleba),

- che altri individui produttori di merci abbiano concentrato nelle proprie mani come proprietà privata le condizioni necessarie alla produzione e il potere di comando sul lavoro di altri, come possesso dei loro mezzi di sussistenza: o possesso diretto o possesso nella forma mediata di denaro.

Queste sono le condizioni per l' inizio della produzione capitalista, condizioni che non sono create dalla produzione mercantile stessa (29). La produzione mercantile è esistita in molti luoghi e in molti tempi, senza che nel suo ambito giungesse a prodursi la produzione capitalista perché non si sono realizzate queste condizioni aggiuntive, necessarie per il passaggio alla produzione capitalista.

Nel capitolo 4 del libro I di Il capitale Marx illustra la trasformazione del denaro in capitale e le condizioni di essa nell'ambito del modo di produzione capitalista, ossia quando il modo di produzione capitalista è già affermato. Nel resto dell'opera egli illustra le forme in cui la produzione capitalista procede, si riproduce e si allarga e le strutture e le istituzioni in cui essa si articola, formando l' analisi della struttura della “società capitalista in generale” (30).

Ma tutto ciò incomincia ad esistere solo quando si è prodotta “l'accumulazione originaria del capitale”, ossia la separazione del lavoratore diretto dalle condizioni necessarie allo svolgimento del suo lavoro. Marx descrive questa separazione, limitatamente alla forma in cui avvenne (a partire dal secolo XVI) in Inghilterra, nel capitolo 24 della stessa opera (mentre nel capitolo 25 illustra l'attuazione della stessa separazione nelle colonie inglesi di popolamento) (31).

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Da quanto abbiamo fin qui detto è chiaro

- che capitale non sono né il denaro né le merci,

- che capitale non sono né i mezzi di produzione né i mezzi di sussistenza.

Queste due equiparazioni dominano incontrastate nell'enorme maggioranza dei manuali scolastici, in tutta la pubblicistica borghese e anche negli scritti di numerosi compagni succubi della cultura borghese (32). Ma non sono che l’espressione del sogno dell’eternità e dell’universalità del capitale. Denaro, merci, mezzi di produzione e mezzi di sussistenza sono esistiti prima che iniziasse la produzione capitalista. Pur essendo la produzione capitalista diventata dominante, continuano ad esistere denaro, merci, mezzi di produzione e mezzi di sussistenza che non sono capitale.

Confondere in un tutt'uno il capitale con i mezzi di produzione e i mezzi di sussistenza è un luogo comune della cultura borghese tanto più ricorrente nella nostra epoca quanto più è profonda la contraddizione tra le forze produttive e il rapporto di capitale (33).

I mezzi di sussistenza (i beni di consumo in generale) e i mezzi di produzione sono aspetti ineliminabili della vita umana, che esistono da quando esiste l' uomo. Il capitale è un rapporto di produzione, un modo di usarli e produrli affermatosi a partire dal secolo XVI in poi.

Confondere in un tutt'uno capitale con denaro a merci non è solo un errore storico, ma è una concezione che non permette di impostare alcun concreto programma di trasformazione dal capitalismo al comunismo, perché mentre l'abolizione della grande proprietà capitalista è una misura in linea di massima appartenente all'inizio della trasformazione, nessuna persona di buon senso può pensare di abolire immediatamente e completamente la produzione mercantile e alcune funzioni del denaro (e quindi il denaro) (34)

Queste equiparazioni presentano tuttavia una parvenza di dignità perchè hanno come solida base il fatto che il capitale è un rapporto sociale di produzione avente la caratteristica peculiare di esprimersi attraverso cose (ossia, di essere reificato). Il capitale esiste come quantità di merci ed ha quindi la duplice esistenza

- di valore di scambio (lavoro materializzato e denaro) che si valorizza (cresce) scambiandosi con una quantità maggiore di lavoro vivo,

- di valore d' uso nelle forme determinate dal processo lavorativo concreto (perchè il valore è capitale solo in quanto si valorizza nella produzione di un valore maggiore): mezzi di sussistenza, materiale di lavoro e mezzi di lavoro in cui sono incarnate le condizioni soggettive e culturali del lavoro sociale, la combinazione sociale dei lavori e le applicazioni della scienza alla produzione.

Quindi il denaro, le merci, i mezzi di produzione, le materie del lavoro, i mezzi di sussistenza non sono capitale, ma il capitale può esistere solo nelle spoglie di denaro, merci, mezzi di produzione, materie del lavoro, mezzi di sussistenza. L'accumulazione del capitale e quindi contemporaneamente

- sussunzione di un numero maggiore di lavoratori ed estorsione di una quantità maggiore di pluslavoro,

- aumento delle quantità di denaro, di merci prodotte capitalisticamente, di condizioni della produzione sussunte nel capitale.

L'espansione del rapporto di capitale deve manifestarsi nella crescita delle merci e nella crescita del denaro.

Il capitale è tuttavia così poco equiparabile ai mezzi di produzione che una volta che il modo di produzione capitalista è instaurato e radicato in un paese, anche la disorganizzazione e distruzione pressoché completa dei mezzi di produzione non comporta la distruzione del capitale, ma anzi si presta ottimamente ad un processo di rapida accumulazione del capitale. In date condizioni la distruzione di impianti e macchinari e la disorganizzazione dell' apparato produttivo sono addirittura una necessità a un'ottima cura per il capitale, sono una soluzione (temporanea) della crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale e permettono la ripresa (per un certo tempo) dell'accumulazione.

La ricostruzione postbellica nei paesi capitalisti dell'Europa Occidentale dopo la 2° Guerra Mondiale ha mostrato che le distruzioni di mezzi di produzione sono state non solo facilmente ovviabili, ma la premessa per le società capitaliste di un nuovo periodo di prosperità durato trent'anni.

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Il grado di capitalizzazione dell'economia di un paese è la proporzione in cui le attività, con cui la popolazione di quel paese produce e riproduce le condizioni materiali dell'esistenza, si svolgono in forma capitalista, ossia tramite un processo costituito dai passaggi:  (denaro)  ->  (acquisto di forza/lavoro, materie prime, mezzi di produzione) ->  (processo lavorativo)  ->  (vendita delle merci prodotte)  ->  (più denaro).

In tutti i paesi capitalisti (ossia nei paesi in cui il modo di produzione capitalista è dominante, dà il là a tutto il resto) sopravvivono e si riproducono attività produttive non capitaliste. Il carattere piccolo-borghese di un paese o di una zona è dato dalla proporzione che la piccola produzione mercantile ha nelle attività economiche della popolazione del paese (35).

L'analisi delle classi quindi, anche nei paesi imperialisti, deve accuratamente distinguere tra i lavoratori le varie classi a cui appartengono a seconda del rapporto di produzione in ci sono inseriti. Ossia occorre fare esattamente il contrario di quel che faceva la cultura borghese di sinistra (e, in essa, il filone operaista ) che confondeva tutti i lavoratori e, più in generale, i “poveri” in un'unica massa grigia, in nome delle ridotte condizioni di vita (pauperismo) o del comune (supposto) spirito di ribellione (composizione politica di classe).

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Lo sviluppo del capitale non è lo sviluppo della produzione industriale.

Lo sviluppo della produttività del lavoro, delle forze produttive e della produzione cui il modo di produzione capitalista diede luogo si attuò nella separazione delle attività di trasformazione dalle attività agricole e minerarie, nella loro costituzione in settori produttivi a se stanti (l'industria, per l'appunto) e nella loro enorme espansione fino a diventare l'attività economica quantitativamente prevalente, a partire da società in cui l'attività agricola era l'attività produttiva prevalente (quella che impiegava la maggior parte dei lavoratori e delle altre forze produttive). La produzione industriale divenne anche la produzione dirigente, proprio perché era quella il cui contenuto si adattava, più che non quello della produzione agricola, alla forma, al rapporto di capitale (perché suscettibile di regolarità, di adattabilità alle variazioni della circolazione, di sviluppo illimitato, ecc.) e proprio per questo è nello sviluppo di essa che il rapporto di capitale meglio e prima ha manifestato la sua efficacia.

Ma il rapporto di capitale ha avuto solo un legame storico con il settore industriale. Confondere produzione capitalista con produzione industriale o con produzione di “oggetti materiali” o con produzione di “beni essenziali” è mettersi nelle condizioni di non capire alcunché della società moderna (36).

Da qui si vede il “valore scientifico” delle opere di quanti in questi anni interpretano come estinzione del rapporto di produzione capitalista o estinzione della produzione mercantile l'approfondimento della divisione sociale del lavoro che si attua attraverso la costituzione in settori merceologici specifici e aziende specifiche di una serie di attività già svolte nell'ambito delle aziende industriali (progettazione, contabilità, controllo, commercializzazione, pubblicità, gestione del personale, operazioni finanziarie, manutenzione, ecc.: insomma il cosiddetto “terziario avanzato”) e il conseguenze ampliamento e rapido sviluppo del settore.

Il carattere capitalista dell'attività produttiva non è determinato dal settore merceologico in cui l'attività produttiva si esplica, così come il carattere di merce del prodotto non è determinato dal tipo d'uso a cui il prodotto serve (37).

Il capitale è quella particolare condizione della società per cui

1- i beni di consumo dei lavoratori sono, almeno in misura prevalente, prodotti come merci, i rapporti di denaro sono sviluppati fino ad un certo livello e nelle mani di alcune persone sono concentrate quantità sufficienti di denaro per comperare la forza/lavoro disponibile, ossia per porsi come tramite tra i lavoratori portatori di essa e i loro mezzi di sussistenza;

2 - una massa di lavoratori può vendere la sua capacità lavorativa (quindi non è vincolata da servitù personale ad un padrone) ed è costretta a venderla perché non può produrre da sé direttamente di che vivere e nemmeno produrre direttamente merci come lavoratori indipendenti, essendo il possesso dei mezzi di produzione concentrato nelle mani di altre persone come loro proprietà individuale o di gruppo e precluso ai lavoratori (38). Questa ultima condizione che oramai a noi sembra ovvia perché diffusa, confermata da una lunga tradizione e oramai connaturata alla qualità delle condizioni materiali della nostra esistenza, fu la condizione più difficile da creare agli albori dello sviluppo del capitalismo, quando l'economia era ancora quasi per intero “economia naturale”, ossia i beni usati nella vita erano tratti quasi per intero dall'ambiente circostante con un' attività lavorativa alla portata di ogni lavoratore normale. La storia della colonizzazione nel secolo scorso e in parte anche in questo secolo conferma la difficoltà incontrata nel “liberare” masse di uomini dalle condizioni “naturali” della loro attività lavorativa e della loro esistenza.

NOTE

(21). “Il suo prodotto immediato non è un prodotto per lui, bensì diviene tale soltanto nel processo sociale” (K. Marx, Grundrisse, ed. Einaudi, p. 191)

(22). In una lettera a Engels, datata 2.4.1858, Marx illustra il passaggio storico e logico capitale-rendita fondiaria-lavoro salariato. “Il passaggio dal capitale alla proprietà fondiaria è nello stesso tempo storico, perchè la forma moderna della proprietà fondiaria è un prodotto dell'effetto del capitale sulla proprietà feudale e fondiaria. Ugualmente il passaggio dalla proprietà fondiaria al lavoro salariato è non soltanto dialettico, ma storico, perchè l'ultimo prodotto della proprietà fondiaria moderna è il costituirsi ovunque del lavoro salariato, che appare quindi come la base di tutta questa merda”.

(23). Da qui si vede che tutti i programmi basati su propositi di restaurazione della “vera natura umana, del “vero uomo” che la produzione mercantile e la produzione capitalista avrebbero corrotto, non sono che fantasticherie reazionarie. Lo stesso vale per tutti i propositi di ricostruzione di “comunità del sangue” e affini: non a caso vari movimenti politici imperialisti ne hanno fatto la loro base culturale.

Storicamente non sono gli individui che si uniscono per costituire la società (come immaginò Rousseau almeno per quanto riguarda la società politica, lo Stato), ma è la società che si divide in individui. Dal branco all'individuo, non viceversa. Quanto più conosciamo la vita degli uomini primitivi, quanto più riusciamo a spingere indietro lo sguardo alle nostre origini, tanto più vediamo che la trasformazione ha proceduto dalla comunità primitivi (clan, villaggio, ecc.) all'individuo e non viceversa. È il gruppo che si articola in individui e non gli individui che si uniscono in società.

(24). “La dipendenza reciproca e universale degli individui indifferenti gli uni agli altri costituisce la loro connessione sociale. Questa connessione sociale è espressa nel valore di scambio, ed è soltanto in esso che per ogni individuo la propria attività o il proprio prodotto diviene un'attività e un prodotto per esso; 1'individuo deve produrre un prodotto universale - il valore di scambio - o, se lo si considera per sé, isolatamente a individualizzato, denaro. D'altro canto il potere che ogni individuo ha sull'attività degli altri e sulle ricchezze sociali, esiste in esso in quanto possessore di valor di scambio, di denaro. Esso porta con sé, in tasca, il proprio potere sociale così come la sua connessione con la società. L'attività, quale che sia la sua forma fenomenica individuale, e il prodotto dell'attività, quale che sia la sua natura particolare, è il valore di scambio, ossia un'entità universale in cui ogni individualità, particolarità è negata e cancellata” (K. Marx, Grundrisse, ed. Einaudi, p. 88)

(25). Per produttore intendiamo il lavoratore addetto alla produzione oppure chi promuove, organizza e dirige effettivamente il processo lavorativo e quindi è depositario nella sua persona della tecnica produttiva e unico possibile titolare della sua trasformazione. Anche per il feudatario un aumento della produzione nel suo feudo poteva permettere un aumento del suo seguito e questo aumento non aveva in linea di principio alcun limite naturale, ma il feudatario non è organizzatore e dirigente del processo lavorativo, non ripone nello sviluppo delle forze produttive la fonte dell'aumento del proprio seguito e si limita a prelevare quanto più gli è possibile del prodotto.

(26). Sul denaro vedasi la scheda Denaro e materie del denaro in Rapporti Sociali n . 2, 1988.

(27). Il fatto che la polizza di una società d'assicurazione sia reputata più vantaggiosa e sicura di un gruzzolo di monete d'oro nel materasso è il risultato di un'evoluzione storica di cui raramente viene compresa l'importanza. Ciò di cui era depositario il denaro, viene ora riposto in un impegno formale di una ditta il cui mantenimento è imposto (entro certi limiti) dall'autorità dello Stato.

Le grandi e repentine svalutazioni di questo secolo hanno messo in luce i limiti della sicurezza fornita dal denaro, limiti che coincidono con la stabilità degli ordinamenti sociali di cui è espressione e che quindi confermano che i poteri del denaro sono le caratteristiche di un rapporto sociale di cui esso è espressione.

(28). È di fondamentale importanza tuttavia porre in chiaro che la produzione di merci non è solo un presupposto storico della nascita del modo di produzione capitalista. Lo fu in Europa Occidentale dove il modo di produzione capitalista vide la luce e da cui si propagò al resto del mondo: qui esso sorse (con il concorso di altre condizioni particolari e non come sviluppo necessario) dalla produzione di merci che si era sviluppata ampiamente nell'ambito alla decadenza della società feudale. Ma diversamente è avvenuto in altri paesi. La produzione mercantile è esistita in molti paesi e in epoche diverse senza che nel suo ambito si sviluppasse la produzione capitalista. Viceversa in molti paesi la produzione capitalista è nata senza che sul posto si fosse prima sviluppata alcuna produzione mercantile. In alcuni paesi il modo di produzione capitalista è stato, per così dire, introdotto dall'esterno ed ha avviato esso stesso la produzione di merci. Il dato universale è che mentre può esistere ed è esistita produzione di merci senza produzione capitalista, non esiste e non può esistere capitalismo se non sulla larga base della produzione di merci (la quale ultima non è produzione di “cose”, ma un rapporto sociale che a questo punto speriamo sia chiaro ai lettori che ci hanno seguito fin qui).

Il capitale non può esistere senza produzione mercantile, anzi esso la generalizza (la estende a tutta o a gran parte dell'attività economica) e la riproduce e non può esistere se non mediante la produzione di merci. La comprensione di questa semplice ed elementare tesi del marxismo fa risaltare l'inconsistenza di tutte le favole sul capitalismo organizzato, sulla società-fabbrica, ecc. che popolano gli incubi di alcuni individui. “Poiché il valore costituisce la base del capitale e il valore esiste necessariamente in quanto si scambia contro un equivalente, il capitale è necessariamente segnato da un movimento di repulsione da se stesso. Un capitale universale, che non abbia di fronte a sé altri capitali con cui scambiare ... è perciò un assurdo. La reciproca repulsione dei capitali è implicita in esso in quanto valore di scambio che si valorizza” (K. Marx, Grundrisse, ed. Einaudi, p. 390). “ll capitale esiste e può esistere soltanto come molti capitali, e perciò la sua autodeterminazione si presenta come loro azione e reazione reciproca” (ib., p. 382). “Nella natura del capitale è implicito che esso è autorepulsione, pluralità di capitali in completa indifferenza reciproca” (ib., p. 390). I capitali si uniscono, formano grandi concentrazioni e contemporaneamente il capitale si suddivide in parti contrapposte. Ne abbiamo sotto gli occhi un esempio nel decentramento delle grandi aziende, nell'appalto delle lavorazioni a ditte esterne: dalle boite di Torino alle ditte appaltatrici dell'Italsider di Taranto e del Petrolchimico di Porto Marghera. Le grandi società frutto di concentrazione verticale (riunendo un intero processo produttivo dalla materia prima al prodotto finito) e orizzontale (riunendo in sé tutta la produzione di dati articoli - monopolio), sentono il bisogno di suddividersi in centri di profitto in contrapposizione tra loro.

(29). La produzione mercantile crea la produzione capitalista solo nella pia ricostruzione delle origini del capitalismo fatta dai cortigiani dei capitalisti. Secondo questa ricostruzione di comodo il capitalista sorse dal produttore di merci laborioso a parsimonioso che risparmiando si costruì “un capitale”, mentre il proletario sorse dal produttore di merci lazzarone e scialacquatore che si ritrovò senz' altro da vendere che la propria pelle. La produzione capitalista è 1'estremo sviluppo cui la produzione mercantile dà luogo in presenza dell'espropriazione dei produttori diretti, la quale però non è un prodotto della produzione mercantile stessa.

(30). È una parodia del marxismo e della concezione materialista della storia sostituire l'analisi della struttura della “società capitalista in generale” all'analisi della struttura di una società capitalista concreta (ad es. quella italiana) oppure sostituire quest’ultima all'analisi della concreta formazione economico-sociale, intesa questa come “l’insieme dei rapporti di produzione, delle corrispondenti forme giuridiche e politiche, delle ideologie e degli aspetti culturali in genere che contraddistinguono una società nel suo movimento”. Analisi della formazione economico-sociale, analisi della struttura della società capitalista concreta, analisi della struttura della società capitalista in generale sono tre diversi livelli di astrazione. Nel processo conoscitivo passiamo dalla prima alla seconda individuando nella formazione economico-sociale gli elementi strutturali e astraendo dagli altri, dalla seconda alla terza individuando le mediazioni con gli elementi storici e ambientali concreti della società in esame che determinano le forme concrete in cui si manifestano i caratteri del modo di produzione capitalista e astraendo da queste forme concrete. L'esposizione può seguire (e in genere segue) il cammino inverso: dal generale al particolare, dall' astratto al concreto.

(31). In Lo sviluppo del capitalismo in Russia del 1899 Lenin illustrò 1'accumulazione originaria del capitale in Russia. Non conosciamo alcuna trattazione organica dell'accumulazione originaria in Italia o nelle varie regioni economico-politiche italiane (che è cosa diversa dalla storia dello sviluppo dell'industria o della grande industria). È un tema la cui trattazione è sicuramente importante ai fini della formazione della teoria della rivoluzione socialista nel nostro paese: per questo lo indichiamo all'attenzione dei lettori, semmai alcuni fossero in grado di occuparsene.

(32). “Denaro e merce non sono capitale fin dal principio, come non lo sono i mezzi di produzione e di sussistenza. Occorre che siano trasformati in capitale. Ma anche questa trasformazione può avvenire soltanto a certe condizioni che convergono in questo: debbono trovarsi di fronte e mettersi in contatto due specie diversissime di possessori di merce, da una parte proprietari di denaro e di mezzi di sussistenza, ai quali importa di valorizzare mediante l'acquisto di forza/lavoro altrui la somma di valori posseduta; dall'altra parte operai liberi, venditori della propria forza-lavoro” (da Il capitale, libro I, cap. 24).

(33). Una versione raffinata (e di sinistra) dell'equiparazione capitale/forze produttive è la tesi francofortese ed operaista dell'oggettivazione del rapporto di capitale nelle macchine.

(34). Nello scritto di J.V. Stalin che pubblichiamo in questo numero (Osservazioni su questioni di economia relative alle discussioni del novembre 1951) viene illustrato che non solo mezzi di sussistenza e mezzi di produzione, ma anche denaro e merci continuano ad esistere anche nel socialismo in dimensioni e con ruoli determinati dal grado di evoluzione complessiva della formazione economico-sociale, ma certo non arbitrari.

(35). Molte delle caratteristiche della vita politica a culturale del Meridione d’Italia (e quindi del suo ruolo nella vita dell'intero paese) e delle zone rurali rispetto alle zone urbane diventano comprensibili solo alla luce della permanenza e riproduzione di larghe percentuali di piccola produzione mercantile non capitalista, cioè del grado limitato di capitalizzazione dell’attività economica di quelle zone.

(36). L'industria è uno dei settori in cui gli uffici di statistica dividono l'apparato produttivo con approssimazioni, convenzioni e diverbi a non finire: tanto poco l'industria è una determinazione strutturale della società. Quanto ai “beni materiali” (chiaramente definiti in contrapposizione ai “beni spirituali”) e ai “beni essenziali” (chiaramente definiti in contrapposizione ai “beni voluttuari”), conviene lasciare coltivare queste categorie ai preti e ai loro seguaci, cui esse appartengono di diritto. I tortellini alla panna non sono forse anch'essi il prodotto di una grande elaborazione intellettuale e di una grande raffinazione del gusto se confrontati con una focaccia arrostita sul fuoco?

(37). “La merce è in primo luogo un oggetto esterno, una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo. La natura di questi bisogni, p. es. il fatto che essi provengano dallo stomaco o che provengano dalla fantasia non cambia nulla” (da Il capitale, libro I, cap. 1).

(38). L’esclusione dal possesso dei mezzi di produzione, in primo luogo la terra, è ancora oggi la base fondamentale del processo di pauperizzazione in corso in molti paesi del Terzo Mondo. Masse di lavoratori sono costretti, con l'imposizione fiscale, con mille spicciole angherie o direttamente con la forza delle formazione militari private o di Stato, a lasciare la terra e andare ad ingrossare le fila dei poveri delle città. Essi vengono in tal modo “liberati” dalle condizioni “naturali” della loro attività lavorativa.

La “carenza di capitali” tanto declamata come causa della miseria delle popolazioni dei paesi del Terzo Mondo consiste per una parte nell'incompletezza con cui è ancora oggi realizzata questa “liberazione” e per il resto nella mancanza delle condizioni perché gli individui “liberati” possano produrre pluslavoro e plusvalore (vedasi su questo il punto 4.3. di questo scritto). D’altra parte l’appartenenza di questo paesi al mercato capitalista mondiale e la sottomissione degli Stati di questi paesi alla borghesia imperialista e ai suoi Stati impediscono lo sviluppo locale della produzione mercantile semplice e lo sviluppo di relazioni locali di denaro: non potendo produrre plusvalore, anche la produzione di valore è, nell'ambito del mercato capitalista, repressa.

I tentativi di “sviluppo autocentrato” prescindono dal mercato capitalista mondiale isolando da esso il paese a mezzo di provvedimenti politici. Essi consistono nel tentativo di sviluppare una produzione mercantile per il mercato locale e nel tentativo di costruire sistemi agricoli/industriali/commerciali completi o quasi completi moderni (cioè basati sulle acquisizioni tecniche e culturali delle società più avanzate). Essi comportano quindi la rottura col mercato capitalista mondiale e rapporti economici governati col resto del mondo e quindi devono far fronte all'ostilità dei gruppi imperialisti e dei loro Stati. Lo “sviluppo autocentrato” diventa quindi, se non resta parola d'ordine di demagoghi, un aspetto della lotta di liberazione nazionale antimperialista.

In conclusione, da quanto detto sopra, è chiaro che la dominazione della borghesia imperialista nel Terzo Mondo è essa stessa l'impedimento allo sviluppo della produzione mercantile semplice perchè proprio essa è l'ostacolo allo sviluppo in questi paesi di una società di produttori “liberi ed eguali” che, come abbiamo visto, è la realtà di cui la produzione mercantile è la forma feticistica (il carattere della società che compare come carattere delle cose).

La borghesia imperialista sviluppa essa in questi paesi la produzione capitalista di merci solo nei casi e nei limiti in cui vi può produrre pluslavoro e plusvalore alle condizioni date del mercato capitalista mondiale. La rottura del legame diretto, “naturale” tra il lavoratore individuale o la “comunità naturale” (famiglia, clan, tribù, ecc.) e le condizioni del suo lavoro (in sostanza la terra), è anche la condizione preliminare di ogni sviluppo civile, che emancipa il lavoratore dalla condizione semianimale dell'economia “naturale”.

L'accumulazione originaria socialista nei paesi arretrati consiste anch'essa nella separazione dei lavoratori agricoli dalle condizioni del loro lavoro, dalla produzione diretta dei loro mezzi di sussistenza e dalla subordinazione quasi animale alle condizioni della natura. Chi non considera la storia della costruzione del socialismo nei paesi arretrati (dall'URSS del 1917 alla Cina, da Cuba all'Angola) in questi termini, si pone già in partenza fuori strada e non può che ridursi a suonare il piffero per la canea anticomunista diretta non dal contadino ancora asservito alla “natura”, ma dalla borghesia imperialista.

L'economia “naturale” è comunque destinata a scomparire e la sua tormentosa lenta agonia è anche la tormentosa condizione delle masse popolari di tanti paesi del Terzo Mondo.

La differenza tra i due processi (quello condotto nell'ambito del sistema imperialismo e quello condotto nell'ambito della costruzione del socialismo) sta unicamente nelle forme in cui la separazione viene condotta e nei risultati a cui essa da luogo.

 

3. Unità e contraddizione tra rapporto di valore e rapporto di capitale

La produzione di merci è una relazione tra produttori indipendenti ed eguali (39).

La produzione capitalista è produzione a mezzo di lavoratori salariati. Il capitalista acquista la forza/lavoro e, per quanto riguarda il titolare della forza/lavoro, dispone a suo piacimento di essa e quindi (nei limiti dettati dalla erogazione di essa) dispone a suo piacimento del lavoratore stesso. Questi con la vendita della sua forza/lavoro ha concluso la sua recita come libero venditore di merci e per lui l'ambiente della produzione è contemporaneamente

- il regno dell'arbitrio padronale (e ciò riguarda la forma del processo produttivo - il rapporto di produzione)

-il regno delle leggi oggettive (fisiche, chimiche, ecc.) dell'oggetto del suo lavoro (e ciò riguarda il contenuto del processo lavorativo).

Il rapporto di produzione (di capitale) nell'ambito del processo lavorativo si presenta al lavoratore non con le sue leggi socialmente oggettive, ma nella veste dell'arbitrio e del dispotismo del padrone (e dei suoi delegati) e questo aspetto contrasta

- con l'oggettività della materia su cui egli esercita la sua attività lavorativa e delle leggi secondo le quali la trasforma e secondo le quali funziona il macchinario a cui egli è asservito,

- con la necessaria cooperazione a combinazione, nella divisione dei compiti tra i lavoratori, in cui egli si trova inserito, come in una società regolata da sue leggi oggettive (40).

Questa prima contraddizione entra quotidianamente nell'esperienza del lavoratore salariato a diventa una delle fonti della formazione della sua coscienza di classe.

A sua volta il capitalista, che inizia la sua attività di produttore di merci, si sente ed è determinato da leggi socialmente oggettive, in quanto produttore di merci e personificazione (funzionario) di una frazione di capitale. Egli quindi inevitabilmente oppone queste leggi (le “leggi oggettive dell'economia”) alle rivendicazioni di “libertà ed eguaglianza” nell'ambito del processo produttivo con grande disperazione dei demagoghi e delle anime pie (41). Questi, quando il movimento delle masse è forte, sono ridotti a dover negare che l'economia capitalista ha leggi oggettive sue proprie e che proprio queste costituiscono il piedistallo su cui l'arbitrio e il dispotismo padronali poggiano e traggono vigore e da cui vengono individualmente estesi anche oltre l'ambito che la società borghese rende strettamente necessario. Per non negare l'economia e la società borghesi, devono negare l'esistenza di leggi oggettive dell'economia borghese e addebitare tutto alla malvagità o alla stupidità dei capitalisti: ed è a questo che si riduce gran parte della critica della società attuale fatta dagli esponenti del PCI e dai sindacalisti borghesi (42) (43).

Ovviamente il capitalista difende ogni suo arbitrio e dispotismo in nome delle “leggi oggettive dell'economia e la lotta diventa una diatriba illimitata tra quanto dell'arbitrio e del dispotismo padronali è indispensabile ad un rapporto di capitale “puro”, quanto è indispensabile alla gestione concreta di una data e concreta formazione economico-sociale, quanto il capitalista approfitta del suo ruolo.

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L'arbitrio e il dispotismo del padrone e dei suoi delegati che si esercitano nell'ambito del processo produttivo sul lavoratore sono d'altra parte in contrasto con la libertà di cui gode il lavoratore al di fuori del processo produttivo, con la totale responsabilità delle sue azioni che gli è propria al di fuori del processo produttivo e che egli esercita sia quando si licenzia o sottoscrive un contratto di lavoro (ossia come venditore della sua capacità lavorativa), sia come acquirente di merci (nell'ambito delimitato solo quantitativamente dal suo reddito). Nel modo di produzione capitalista, il capitalista produce merci, esso è il protagonista dello scambio di merci e quindi titolare dell'indipendenza e dell'eguaglianza del produttore di merci (vale a dire dei diritti sottesi dalla produzione di merci). II proletario non produce merci però entra nello scambio come libero venditore della sua forza/lavoro e libero acquirente di beni di consumo: quindi è e non è soggetto del rapporto mercantile. Inoltre la sua forza/lavoro, diventata possesso del capitalista, produce lavoro umano di “pari dignità”, come se egli stesso (e non il capitalista) fosse il produttore indipendente di merci, sicché è il suo lavoro (non quello del capitalista) che costituisce la sostanza di valore del prodotto ed è il suo tempo di lavoro che costituisce la grandezza di valore del prodotto (44).

La base materiale da cui sorge il regime politico e la formazione culturale dei paesi capitalisti all'apice dell'ascesa della borghesia, è dunque questa: la pluralità dei capitali con i loro contrastanti interessi, la pienezza dei diritti conseguenti alla produzione mercantile riservata ai capitalisti, la “pari dignità” dei lavoratori continuamente posta e tolta. A questa base materiale si aggiungeranno, nella fase della decadenza della borghesia (la fase imperialista) le varie forme antitetiche dell'unità sociale con la gerarchia tra capitali e nel mercato che esse contengono (45).

Nell'ambito della società borghese né il lavoratore può raggiungere pienezza di diritti (a differenza di quanto affermano tutti gli imbroglioni da Agnelli ad Occhetto) né il lavoratore può essere spogliato di ogni diritto (a differenza di quanto affermano i teorici della sussunzione reale totale della società nel capitale, al modo degli autori di Gocce di sole nella città degli spettri).

Questa seconda contraddizione insita nella società capitalista è particolarmente dura da accettare e non a caso alcuni negano un termine della contraddizione, altri negano l'altro. Ma ambedue i termini continuano egualmente ad esistere oltre ogni esercitazione verbale ed immaginazione e proprio la forzata coesistenza dei due termini fa sì che un termine agisca sull'altro invadendone il campo d'azione (46). L'arbitrio e il dispotismo padronali tendono inevitabilmente a riversarsi oltre l'ambito del processo produttivo e a governare la persona complessiva del lavoratore: la sua mentalità, la sua volontà, la sua cultura, il suo consumo, il suo stile di vita, la sua riproduzione e l'offerta della forza/lavoro: in una parola a trasformare il “libero venditore di forza/lavoro” in una docile appendice del sistema produttivo e di conseguenza a negarlo come soggetto delle relazioni sociali, a renderlo un mezzo di produzione come lo erano lo schiavo e il servo della gleba. E questa tendenza riesce ad esplicarsi tanto più facilmente quanto più la condizione storicamente determinata da cui proviene il lavoratore salariato non è quella del libero e indipendente produttore di merci ridotto a salariato, ma quella dello schiavo, del servo, del peone trasformato in salariato (47).

Quando in una società la maggior parte degli uomini validi vende una sola merce, la propria capacità lavorativa, che è incorporata nell'uomo, da esso inseparabile e costitutiva della sua personalità, il capitalista per avere la merce del lavoratore deve “avere il lavoratore”. Il capitalista per conservare il suo ruolo nell'ambito del processo produttivo deve inevitabilmente affermare il suo ruolo nell'intera vita materiale e spirituale della società e quindi espandere l'arbitrio e il dispotismo padronali dall'ambito del processo produttivo all'intera società tendendo a raggiungere quella condizione che, scambiando una delle tendenze operanti nella realtà con la realtà, è stata detta “sussunzione reale totale della società nel capitale”.

D'altra parte la libertà e la responsabilità personali del lavoratore hanno nella società borghese un fondamento indistruttibile nel suo ruolo di venditore di forza/lavoro e di acquirente di merci. Esse tendono inevitabilmente a riversarsi nel processo produttivo, ad affermare la “democrazia sul luogo di lavoro”, la partecipazione al processo decisionale, l'iniziativa anche nell’ambito della promozione, organizzazione e gestione del processo produttivo, i “diritti sul posto di lavoro”, insomma il “lavoro come variabile indipendente” e altre varie cose di cui non solo sentimmo parlare ma che anche vedemmo manifestarsi concretamente in mille forme nelle unità produttive e nella vita sociale negli anni '70.

L'ampiezza delle invasioni reciproche, il prevalere in ogni fase e ambito di un termine della contraddizione sull'altro sono il risultato e la manifestazione dell'andamento della lotta tra le due classi, dei rapporti delle forze. La comprensione delle forme che questo scontro assume è quindi di fondamentale importanza per la lotta politica. Ma base indispensabile di questa comprensione è la consapevolezza che nell'ambito della società borghese inevitabilmente agiscono sempre ambedue i termini antagonisti e nessuno dei due può eliminare l'altro senza cambiare la natura stessa dell'intera società.

Non vi può essere “eguaglianza e libertà” per i lavoratori nell'ambito della società borghese senza che questo sconvolga il rapporto di capitale e quindi anche il processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell'esistenza di cui quello è la forma; quindi “eguaglianza e libertà” dei lavoratori possono al massimo, nella società borghese, durare “l'éspace d'un matin” (in barba alle elucubrazioni sul “doppio potere” e sul “contropotere”).

Non vi pub essere, nell'ambito della società borghese, soppressione completa e su vasta scala dei “diritti dei lavoratori” (se non come misura d'emergenza, come atto risolutivo di uno scontro e quindi transitoria) perchè questa soppressione si scontra con gli interessi della stessa borghesia (dai molteplici capitali produttori di merci) e col ruolo che il lavoratore ha nelle società borghesi (48).

Le schizofreniche convulsioni dei regimi politici delle società borghesi nella fase imperialista stanno a confermare queste affermazioni conseguenti dall'analisi della natura del rapporto di capitale.

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Quindi nella società borghese i rapporti che inevitabilmente si instaurano tra operaio e capitalista nell'ambito del processo lavorativo contrastano con i rapporti che esistono nella sfera della circolazione delle merci (dove l'operaio è un libero venditore e acquirente), così come contrastano con la produzione mercantile in generale

- benché la produzione capitalista sia lo sviluppo della produzione mercantile,

- benché la produzione capitalista generalizzi la produzione mercantile,

- benché nell'ambito della società borghese in cui la produzione capitalista è dirigente, persino la produzione mercantile semplice si mantenga e continuamente si riproduca (49).

Si ha qui una contraddizione che pervade tutta la società borghese: tra l'eguaglianza e la libertà dei produttori e venditori di merci (compresa la forza/lavoro) presupposte e promosse dal rapporto mercantile e la sottomissione dei lavoratori presupposta e promossa dal rapporto di capitale che a sua volta si basa inevitabilmente sul rapporto mercantile.

A fronte di questa contraddizione i socialisti utopisti, i socialisti piccolo-borghesi e gli anarchici in vario modo hanno posto l'obiettivo di negare il rapporto di capitale esaltando la produzione mercantile semplice: ogni uomo produttore a venditore del prodotto del suo lavoro.

A fronte di questa stessa contraddizione le attuali correnti soggettiviste del movimento rivoluzionario cancellano l'eguaglianza e la libertà dei produttori e venditori di merci e dipingono una società organizzata come una fabbrica; a fronte delle istituzioni e delle efferatezze messe in campo dalla borghesia nell'epoca imperialista per mantenere il suo dominio, che comprovano proprio l'asprezza dello scontro in atto e la difficoltà con cui la borghesia mantiene il suo ruolo, essi cancellano il fatto contraddittorio che la stessa borghesia continuamente riproduce “eguaglianza e libertà” di produttori e venditori di merci e attribuiscono le efferatezze alla malvagità dei sentimenti e delle inclinazioni della classe dominante.

La negazione dello scontro in atto tra le due classi insito nella società borghese, della contraddizione che muove la società borghese ed è connaturata alla sua base materiale, della base materiale della divisione in classi (e quindi degli elementi concreti, materiali, ineliminabili di cui si nutre la lotta politica dei comunisti), è comune a quanti li cancellano dall'intera storia della società borghese e a quanti danno per oramai concluso e risolto lo scontro nella moderna società borghese. Da qui la comune base interclassista delle analisi della società attuale prodotta da gruppi rivoluzionari soggettivisti (tipo Rote Armee Fraktion) e dagli esponenti della cultura borghese di sinistra (dai revisionisti moderni ai “verdi”).

NOTE

(39). “Per riferire l'una all'altra queste cose come merci, i possessori delle merci devono mettersi in rapporto tra loro come persone la cui volontà risiede in quelle cose, in modo che ognuno di essi si appropria della merce altrui lasciando la sua, con un atto volontario comune ai due (da Il capitale, libro I, cap. 2).

(40). “Nel capitale l'associazione degli operai non è imposta mediante violenza fisica diretta, mediante il lavoro forzato, tributario, schiavistico; essa è imposta per il fatto che le condizioni della produzione sono proprietà altrui ed esistono esse stesse come associazione oggettiva, che coincide con l'accumulazione e la concentrazione delle condizioni della produzione” (Marx, Grundrisse, ed. Einaudi, p. 585).

(41). È in questo ambito che si svolge ancora in questi anni il “dibattito a distanza” tra Romiti e il gruppo dirigente FIAT da una parte, assertori della fabbrica monocratica, e i sostenitori della “democrazia in fabbrica nell'ambito del modo di produzione capitalista” dall'altra.

(42). “Non dipingo affatto in luce rosea le figure del capitalista e del proprietario fondiario. Ma qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi. Il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi” (da Il capitale, libro I, Introduzione). “Le persone esistono qui l'una per l'altra soltanto come rappresentanti di merce, quindi come possessori di merce. Troveremo in generale, man mano che la nostra esposizione procederà, che le maschere economiche caratteristiche delle persone sono soltanto personificazioni di quei rapporti economici, come depositari dei quali esse si trovano l'una di fronte all'altra” (dal Il capitale, libro I, cap. 2).

(43). Vale la pena notare che gran parte delle ricostruzioni di sinistra della storia del nostro paese sono permeate e inficiate da lamentele per avere la borghesia italiana seguito una via di sviluppo diversa da altre vie che l’avrebbero portata ad una maggior fioritura e potenza. Gli autori rimproverano cioè alla borghesia italiana di non aver capito, di non aver avuto il coraggio, ecc. A parte quanto c'è di arbitrario e utopistico nella individuazione delle possibili vie alternative, la posizione di classe assunta da questi storici è in alcuni casi quella della borghesia italiana che contende con gli altri gruppi borghesi per il dominio nel mondo e agogna con tutta l'anima ad essere più forte di quello che in realtà è, in altri casi quella dei gruppi borghesi perdenti, di cui esprimono i rancori contro i gruppi borghesi vincenti.

Ogni storia di una formazione economico-sociale borghese deve anzitutto far comprendere le cause e le forme del successo del capitale nell'imporsi come modo di produzione dominante in essa. Solo sulla base della comprensione di ciò può poi far comprendere i limiti del capitale, quelli generali e quelli specifici nella concreta formazione economico-sociale ed il ruolo del proletariato che il modo di produzione capitalista ha sviluppato come suo elemento. Ai comunisti giova piuttosto capire come e perché la borghesia italiana, operando nelle concrete condizioni storiche in cui ha operato, appoggiandosi, e sottomettendosi in molti casi, a una monarchia, ad uno Stato e a classi semifeudali, a una Chiesa, a un clero e a un papato, è riuscita nonostante ciò ad affermarsi come uno dei maggiori gruppi imperialisti e a tenere a freno le classi subalterne, a frustrarne fino ad oggi ogni tentativo di liberazione e di potere: la borghesia italiana insomma ha fatto valere anche troppo bene, per quel che ci riguarda, i suoi interessi di classe. Ai comunisti giova piuttosto capire grazie a quale raffinata scienza del potere, a quale abile e fortunata combinazione di repressione, beneficenza, corruzione e concessioni la borghesia italiana è riuscita finora a impedire il trionfo del proletariato, a sopravvivere a crisi e a guerre. Altro che andare a insegnare alla borghesia cosa dovrebbe fare o avrebbe dovuto fare per essere ancora più potente!

(44). “Qui è di nuovo la concorrenza tra i capitali, la loro reciproca indifferenza e autonomia che fa sì che, rispetto agli operai del restante capitale totale, il singolo capitale non si comporti come rispetto a degli operai: di conseguenza esso viene spinto oltre la giusta proporzione. Ciò che distingue il capitale dal rapporto di signoria è appunto il fatto che l'operaio gli si contrappone come consumatore e creatore di valore di scambio, nella forma del possessore di denaro, come semplice centro della circolazione delle merci - egli diviene uno degli innumerevoli centri di essa, in cui la sua determinatezza di operaio è cancellata.” (K. Marx, Grundrisse, ed. Einaudi, p. 389).

(45). Su questo si rimanda al punto 6 di questo scritto che comparirà in Rapporti Sociali n. 4; vedasi anche Coproco, I fatti e la testa, G. Maj ed., p. 40 e Rapporti Sociali n. 0 (Don Chisciotte).

(46). Da qui si vede il ruolo che ha nel superamento del capitalismo (nella transizione dal capitalismo al comunismo, nel socialismo e quindi nel programma di ogni partito comunista) la trasformazione del rapporto dei lavoratori diretti con le condizioni del proprio lavoro. Nell'ambito del modo di produzione capitalista il lavoratore fa parte della società (ha “pari dignità”) solo se vende la sua capacità lavorativa: e questa limitazione è tolta dalla rivoluzione politica, dalla conquista del potere da parte delle organizzazioni del proletariato che si costituiscono in Stato.

Ma nell'ambito del modo di produzione capitalista il lavoratore entra nel processo lavorativo diretto come appendice, come servo e complemento dei mezzi di produzione e, più in generale, delle condizioni della produzione: cosa produrre, come produrre, quanto produrre sono questioni a lui vietate. La presa di possesso da parte dei lavoratori delle condizioni della produzione in conformità alle leggi oggettive che le governano è il secondo grande contenuto della transizione dal capitalismo al comunismo.

Si tratta ovviamente del rapporto tra i lavoratori e tutte le condizioni storicamente date del loro lavoro, condizioni che sono sociali. Solo nello stadio più primitivo della produzione sociale e della civilizzazione esse consistono in mezzi di produzione usati direttamente dal singolo lavoratore. Lo sviluppo delle forze produttive è infatti consistito anche nella modificazione del processo lavorativo concreto (al punto che la capacità lavorativa individuale dell'operaio al di fuori del suo inserimento nella fabbrica, e più in generale nel sistema produttivo, è impotente) e nella distruzione della sua capacità individuale di produzione indipendente. Con l'unità nella cooperazione, la combinazione nella divisione del lavoro, l'impiego delle forze naturali e della scienza, 1'impiego dei prodotti del lavoro nel macchinario per la produzione, le condizioni di lavoro si presentano come condizioni sociali anche dal punto di vista tecnologico. Ovviamente, come ogni cosa generale, anche il nuovo rapporto tra i lavoratori e le condizioni moderne oramai acquisite del loro lavoro si forma e si realizza attraverso momenti e istituzioni concrete e quindi particolari (così come la civiltà di un individuo né si riduce ad una qualche singola manifestazione concreta né esiste se non manifestandosi e concretizzandosi in atti ed espressioni concrete). È alla luce di queste considerazioni che vanno valutate le svariate forme storicamente formatesi di organizzazione e gestione delle unità produttive, all'interno e nei rapporti tra esse, nei paesi socialisti, ossia nel corso della transizione dal capitalismo al comunismo: dal gruppo di lavoratori che agisce rispetto ai propri mezzi di produzione come i soci di una cooperativa rapportandosi come un produttore di merci agli altri gruppi di lavoratori (impresa autogestita jugoslava, kolkhoz sovietici, ecc.), ai lavoratori che governano il sistema economico attraverso le loro associazioni ma che contemporaneamente esistono solo come salariati rispetto ai portavoce (delegati, rappresentanti) della loro associazione nella loro concreta unità produttiva, ai sistemi di pianificazione della produzione a livello locale, di confini statali e internazionali (COMECON), sistemi alcuni aventi la realtà delle “grida” menzionate dal Manzoni, altri realmente funzionanti. Queste forme sono la base dei regimi politici e delle formazioni culturali di quei paesi, che quindi solo alla luce di quelle possono essere compresi.

(47). Questa è una chiave per comprendere molti aspetti specifici delle varie formazioni economico-sociali capitaliste, altrimenti misteriosi (e attribuiti al “carattere nazionale”, alla razza, ecc.).

(48). Ciò a dispetto dei vari profeti della società del “controllo totale” e dell'illimitato rafforzamento e potere degli organi di repressione. Ognuno di questi anzi, raggiunto un certo sviluppo, scoppia nelle mani degli apprendisti stregoni che lo hanno allevato. Alla luce di questo diventano comprensibili fenomeni disparati come l'evoluzione dei rapporti tra la borghesia italiana e la mafia siciliana, il ruolo assunto dalla CIA nello Stato USA e la “Relazione sullo stato del morale e del benessere del personale dell’Arma” redatto nel gennaio ‘89 dal Consiglio Centrale Rappresentanza (COCER)-Sezione Carabinieri.

(49). La sfera della circolazione, ossia lo scambio delle merci, entro i cui limiti si muovono la compera e la vendita di forza/lavoro, era in realtà un vero Eden dei diritti innati dell'uomo. Quivi regnano soltanto Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham. Libertà! Poiché compratore e venditore d'una merce, p. es. della forza/lavoro, sono determinati solo dalla loro libera volontà. Stipulano il loro contratto come libere persone, giuridicamente pari. Il contratto è il risultato finale nel quale le loro volontà si danno un'espressione giuridica comune. Eguaglianza! Poiché essi entrano in rapporto reciproco soltanto come possessori di merci, e scambiano equivalente per equivalente. Proprietà! Poiché ognuno dispone soltanto del proprio. Bentham! Poiché ognuno dei due ha a che fare solo con se stesso. L'unico potere che li mette l'uno accanto all'altro e che li mette in rapporto è quello del proprio utile, del loro vantaggio particolare, dei loro interessi privati. E appunto perché così ognuno si muove solo per sé e nessuno si muove per l'altro, tutti portano a compimento, per un'armonia prestabilita delle cose, o sotto gli auspici d'una provvidenza onniscaltra, solo l'opera del loro reciproco vantaggio, dell'utile comune, dell'interesse generale.

Nel separarci da questa sfera della circolazione semplice, ossia dello scambio delle merci, donde il liberoscambista vulgaris prende a prestito concezioni, concetti e norme per il suo giudizio sulla società del capitale e del lavoro salariato, la fisionomia della nostra dramatis personae sembra già cambiarsi in qualche cosa. L'antico possessore del denaro va avanti come capitalista, il possessore di forza/lavoro lo segue come suo lavoratore; l'uno sorridente con aria d'importanza e tutto affaccendato, l'altro timido, restio, come qualcuno che abbia portato al mercato la propria pelle e non abbia oramai da aspettarsi altro che la ... conciatura” (da Il capitale, libro I, cap. 4).

Filosofo, giurista e uomo politico, J. Bentham (1748 - 1832) sosteneva che l’unico principio alla base della società e del diritto è il vantaggio (l’utile) che a ciascun membro della società e a ciascun soggetto di diritto deriva dall’essere tale.

 

4. Lo sviluppo delle forze produttive nell'ambito della produzione capitalista di merci

4.1. La crescita illimitata delle forze produttive e della produzione

È un dato di acquisizione immediata per chiunque abbia una qualche conoscenza della storia delle società umane negli ultimi quattro secoli che il modo di produzione capitalista ha determinato e determina

- la crescita della quantità e qualità dei prodotti del lavoro con cui si attua il ricambio organico tra gli uomini e il resto della natura e che costituiscono il supporto materiale indispensabile di tutto lo sviluppo della civiltà e dell'attività culturale, spirituale e sentimentale degli uomini,

- la crescita delle forze produttive,

- la crescita della produttività del lavoro.

In Il capitale Marx non solo ha illustrato quella crescita, la cui descrizione si trova ampiamente anche in tutte le opere serie di storia moderna e contemporanea, ma ha anche spiegato donde scaturisce questo potere taumaturgico del modo di produzione capitalista di moltiplicare produzione, forze produttive e produttività del lavoro e quindi di sviluppare la civiltà umana come padroneggiamento degli uomini sulle condizioni della propria vita materiale e spirituale ed espansione di questa (vedasi la scheda Il potere taumaturgico del capitale nella produzione a p. 11 di questo RS n. 3).

Dimostrando la connessione tra il potere taumaturgico del modo di produzione capitalista e la sue caratteristiche essenziali, Marx dimostra anche che il capitale comporta la necessità di un aumento illimitato della quantità prodotta: non c'è grandezza che lo possa appagare. Un capitale di 100 deve produrre un capitale più grande, diciamo 110 e, siccome contemporaneamente viene ridotto il valore di ogni singola merce, se il capitale di 100 era il valore di 500 oggetti, il capitale di 110 è per forza il valore di più di 550 oggetti, ossia la quantità degli oggetti è aumentata più ancora di quanto sia aumentato il valore complessivo degli oggetti.

La moltiplicazione illimitata di capitale, di denaro, di merci (e il consumismo che ne è una derivazione e un rimedio provvisorio) non nasce dal bisogno di alcun individuo né da alcuna più o meno misteriosa caratteristica della “natura umana” (tanto è vero che conosciamo società che hanno mantenuto un livello stazionario sia di produzione materiale, sia di propria consistenza numerica per millenni), ma è un'esigenza immanente, inalienabile e vitale del capitale. Il capitale non può esistere senza moltiplicarsi continuamente, come un corpo che più è grosso più ha bisogno di alimentarsi e quindi più cresce (50).

Per il capitale però ciò che conta non è che quest'anno si producano più cose del tipo A o del tipo B, nemmeno che si producano più cose in generale. Ciò che conta è che quest'anno si produca più plusvalore di quello prodotto l'anno precedente, cioè che quest'anno sia maggiore, rispetto all'anno precedente, il tempo di lavoro complessivamente lavorato non pagato, cioè la quantità di pluslavoro complessivamente erogato: perché è solo questo che accresce il capitale e lo alimenta. È solo questo aumento che consente anche agli individui di godere del resto, alla società di vivere ordinatamente il nuovo anno e di godere dei beni prodotti. Quindi passando da un anno (o da un ciclo di valorizzazione) al successivo si deve verificare una di queste situazioni o una combinazione di esse:

- o più individui che lavorano per il capitale con la stessa durata della giornata lavorativa e con lo stesso tempo di lavoro necessario (aumento del pluslavoro assoluto),

- o lo stesso numero di individui dell'anno precedente con una giornata lavorativa più lunga e lo stesso tempo di lavoro necessario (aumento del pluslavoro assoluto),

- o lo stesso numero di individui dell'anno precedente con una giornata lavorativa eguale e con un tempo di lavoro necessario minore (aumento del plusvalore relativo),

- o un numero di individui minore dell'anno precedente con una giornata lavorativa eguale e con un tempo di lavoro necessario adeguatamente minore (aumento del plusvalore relativo) (51).

Tolte alcune situazioni particolari un aumento del pluslavoro avviene nell'ambito dell'aumento del lavoro complessivo compiuto. E siccome, per altra legge necessaria del capitale, la produttività del lavoro umano deve aumentare, più tempo di lavoro lavorato significa ancora più cose prodotte. Se il tempo di lavoro aumenta del 2% da un anno all'altro e la produttività del lavoro aumenta del 5% da un anno all'altro, la quantità di prodotti aumenta del 7.1% (1.02x1.05=1.071).

Di conseguenza in ogni società capitalista il prodotto nazionale deve aumentare di anno in anno: in caso contrario è crisi e si hanno i vari sintomi della crisi (disoccupazione, fallimento di imprese, distruzione di mezzi di produzione, ecc.); ogni società capitalista è condannata a produrre più acciaio dell'anno precedente, a estrarre più minerali dell'anno precedente, a produrre più alimenti dell'anno precedente, ecc. pena il non poter godere neanche dell'acciaio già prodotto, delle case già costruite, della corrente produzione di viveri, ecc. Se i suoi membri non producono quest’anno più prodotti dell'anno precedente, ma solo la stessa quantità, essi non potranno neanche consumare e godere della quantità prodotta come ne avevano goduto l'anno precedente.

Il capitalista deve far aumentare di anno in anno (o di ciclo in ciclo) la produzione, perché solo così può impiegare come nuovo capitale nel suo campo d'attività i profitti che ha ottenuto l'anno precedente. Preso nel suo insieme un mondo capitalista deve di anno in anno aumentare il volume della produzione perchè è l'unico modo per impiegare come capitale i profitti ottenuti l'anno precedente: se questo non avviene, tutto il sistema cade in una crisi economica, cioè in una situazione in cui non è possibile neanche restare al livello di produzione già raggiunto. Infatti se il nuovo ciclo produttivo non è di dimensioni maggiori del precedente, una parte del prodotto del ciclo precedente non può essere venduta, quindi il capitalista non raggiunge l'unico obiettivo per cui l'ha prodotta, che è l'unico per cui essa ha per lui un interesse: trasformarla in denaro. La produzione complessiva di ogni ciclo, salvo particolarissime condizioni praticamente irrilevanti, comprende (sia in termini di valore, sia in termini di qualità dei beni prodotti) una parte che pub essere impiegata solo per ampliare la produzione nel ciclo successivo (beni di consumo in più e mezzi di produzione: macchinario, attrezzi, materie prime). Se questo ampliamento non avviene, essa resta invenduta. La mancata vendita di questa parte esclude anche che si possa ripetere la produzione al livello del ciclo appena terminato. I prezzi dei prodotti di cui si è avuto una produzione “eccessiva” scendono e i capitalisti che li hanno prodotti non ottengono profitti o addirittura non ottengono neanche tutto il denaro che hanno anticipato; a causa della mancata vendita e della vendita sottocosto, alcuni capitalisti non sono più in grado di ripartire; la mancata vendita e la vendita sottocosto inducono a ridurre il volume della produzione nel nuovo ciclo.

Quindi la società capitalista è come un ciclista: sta in piedi solo se continua a correre. Il capitale è condannato ad espandersi, ad accumularsi, ad acquisire nuove attività, ad inglobare sotto di sé nuovi lavoratori. Nella società capitalista in questo modo sono incanalate e tese all'aumento del capitale tutte le energie, le aspirazioni, la creatività, la forza di carattere, l'ambizione e l'ingegnosità che nelle società che l'hanno preceduta erano incanalate nell'arte militare, nella religiosità, in altre forme di affermazione proprie di quelle società. Nella società capitalista tutta la ricchezza degli individui e dei gruppi tende ad esistere nella forma di mezzo di produzione; tutta l'abilità, la forza e il potere degli individui tende ad essere abilità, forza e potere di produrre merci; tutte le risorse degli uomini e dell'ambiente devono essere sfruttate in misura continuamente crescente per produrre quantità continuamente crescenti di merci” (M. Vanni, Capitalismo e Comunismo, G. Maj ed., p. 8).

NOTE

(50). Anche gli economisti e ideologi borghesi che hanno studiato le condizioni di riproduzione del capitale, sono arrivati alla conclusione che una società capitalista può riprodursi senza crisi ed altri inconvenienti solo se si allarga continuamente. Essa non può riprodursi nelle stesse dimensioni da un periodo all’altro (vedi E. Domar, R.F. Harrod, ecc.).

(51). Le grandezze in gioco sono, insomma, tre: il numero di lavoratori (n), la lunghezza della giornata lavorativa (h), il tempo di lavoro necessario (t). Il pluslavoro complessivo compiuto dai lavoratori nell’anno è dato dal prodotto del numero di giornate lavorative nell’anno per il pluslavoro compiuto in un giorno e quest’ultimo è uguale a n(h-t).

 

4.2. Le basi strutturali della distruzione dei lavoratori, degli uomini e dell'ambiente

La necessità insita nel rapporto di capitale di moltiplicare il valore (denaro) che è la rappresentazione feticistica del rapporto stesso e quindi di moltiplicare ancora più celermente la quantità di prodotti, ha dato origine

- da una parte all'intensificazione dei ritmi di lavoro dei lavoratori diretti, al danneggiamento della salute e della sicurezza dei lavoratori, alla creazione di mille ostacoli tesi ad impedire che nel processo lavorativo diretto i lavoratori si impadronissero della scienza del processo lavorativo e di mille barriere allo sviluppo generale, intellettuale, fisico e spirituale dei lavoratori stessi;

- dall'altra al consumismo la cui caratteristica è che la durata di un oggetto non è determinata dal tempo durante il quale esso pub soddisfare il bisogno cui corrisponde, ma da elementi sovrastrutturali (un vestito dura la stagione della moda; prodotti usa e getta; ecc.).

In questo maniera il modo di produzione capitalista sposta in avanti l'ostacolo posto alla produzione dei valori d'uso dal bisogno di essi e dalla produzione dei valori d'uso alla produzione di valore.

Ma questa immane produzione di oggetti ha costituito la base per il sistematico saccheggio della natura. La carica distruttiva insita nel modo di produzione capitalista si è manifestata prima di tutto contro il lavoratore e le sue condizioni di lavoro (igiene del posto di lavoro, infortuni, ritmi di lavoro, ostacolo alla formazione culturale del lavoratore) e poi si a riversata contro tutta la società e su tutto l'ambiente (inquinamento, distruzione dell'ecosistema, epidemie, ecc.).

L'interesse del singolo capitale e del singolo individuo come produttore di merci e come venditore della sua capacità lavorativa (le questioni relative al posto di lavoro, al salario, agli incentivi, alla carriera) rendono impossibile la regolazione della quantità e qualità della produzione a favore della conservazione della salute e delle condizioni ambientali della vita, nonostante un fardello enorme di lacci e lacciuoli burocratici che inutilmente cercano di rimediarvi costituendo un intralcio enorme e parassitario che si contrappone alle conoscenze del processo produttivo saldamente e capillarmente in mano ai capitalisti e che spinge ad una condizione clandestina e ancora più selvaggiadella produzione, tanto più quanto più questa è dispersa e frazionata.

II controllo amministrativo delle modalità operative e della produzione nel migliore dei casi pretende infatti di contrapporre una “conoscenza in generale”, la conoscenza già formalizzata nei trattati, alla conoscenza che nasce dalla pratica del processo produttivo negli attori stessi del processo. D’altra parte gli interessi del capitale escludono la mobilitazione degli attori del processo produttivo a favore della sicurezza, dell’igiene, della conservazione degli uomini e dell'ambiente, ecc. Da una parte viene posta la scienza della sicurezza nella sua astrattezza quasi giuridica e dall'altra viene posta la scienza della produzione che sente la prima come un ostacolo.

La contrapposizione delle finalità del processo produttivo al lavoratore che lo compie,

- l'esclusione del lavoratore dalla scienza del processo lavorativo che egli conduce, sorveglia o regola,

- il tentativo continuo del capitalista di estendere la durata del tempo di lavoro, di aumentarne i ritmi, di ridurre il numero dei lavoratori: in una parola l'antagonismo capitale/lavoro rende impossibile che i processi produttivi siano condotti in condizioni di sicurezza. La conduzione in sicurezza di impianti richiede la pianificazione accurata e nei minimi dettagli delle operazioni compiute dagli addetti. Un operatore che segue disciplinatamente disposizioni questo genere o è un automa abbruttito ridotto all'obbedienza in ogni dettaglio della sua vita di 8 ore al giorno, giorno dopo giorno, senza capire alcunché del motivo del suo operare e senza saper far fronte ad alcuna emergenza o è una persona capace di un atteggiamento creativo e critico verso il suo lavoro. Ma quest’ultimo atteggiamento è incompatibile con la servitù salariale e con la condanna a vita allo stesso lavoro.

La produzione capitalista di merci e il contrasto capitale/lavoro sono quindi le due fonti del “disastro ecologico” in generale e di ogni suo aspetto in particolare.

Il danneggiamento della salute e della sicurezza dei lavoratori e della popolazione in generale e la distruzione dell'ambiente aumentano col progredire della crisi che accelera l'intensificazione del lavoro, lo sfruttamento dei lavoratori occupati (anche quando riduce in alcuni settori il volume della produzione). La “deregulation” e la ristrutturazione economica di questi ultimi anni hanno prodotto più incidenti sul lavoro, più inquinamento, più devastazione dell'ambiente, maggiori danni alla salute dei lavoratori e della popolazione in generale, più disastri.

Il rilievo assunto nella moderna cultura borghese dall'ecologia nonostante l'evidente interesse della borghesia a occultare il problema, è un indice della gravità raggiunta da quell'azione distruttività del modo di produzione capitalista sulla terra, sulle acque, sull'aria e in genere sull'habitat umano.

Da condizione che favoriva il processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell'esistenza, il modo produzione capitalista è diventato esso stesso il fattore principale che compromette il processo stesso in singolare contrasto con le possibilità create. Le malattie che un tempo colpivano gli uomini come un flagello divino e misterioso, ora tornano a colpirli come risultato dei loro rapporti di produzione su se stessi e sull'ambiente

All'origine di ogni incidente, dietro ogni inquinamento vi sono precisi interessi economici che gli ecologi borghesi in generale cercano di nascondere (a meno che diventi arena nella lotta tra interessi contrapposti).

Il problema ecologico (come la guerra distruttiva di massa e i pericoli degli sviluppi scientifici e tecnici) sono un effetto della sopravvivenza del modo di produzione capitalista oltre i limiti in cui ha realizzato la sua azione positiva di sviluppo delle forze produttive umane e di civilizzazione.

Gli ecologi borghesi conducendo su questo terreno la lotta a difesa della loro classe a approfittando della momentanea debolezza del movimento rivoluzionario nei paesi imperialisti (52), presentano la devastazione degli uomini e dell'ambiente operata dal modo produzione capitalista come un “problema generalmente umano”, come un “flagello comune” che supera i “tradizionali” confini di classe e il “tradizionale” contrasto capitale/lavoro, capitalisti/proletari e chiamano tutte le classi a fronteggiare un “comune pericolo”.

La tesi da essi sostenuta che ogni processo produttivo è comunque una bomba, sorgente di inquinamento e di alterazione della “natura”, stravolge la contraddizione reale, come se non lo sfruttamento illimitato causato dalla ricerca di profitto (e tanto più sfrenato quanto più è difficile fare profitti), ma la produzione industriale e agricola in generale fossero fonti di inquinamento e distruzione. La devastazione degli uomini e della natura (e in primis dei lavoratori) è un processo né “insensato” né misterioso. È la risposta razionale a precisi interessi dei produttori di merci. Gli ecologi borghesi rendono il problema ecologico insolubile (l'alternativa all'inquinamento e alla morte è il ritorno alle caverne), quindi creano una cortina di protezione attorno alla vera fonte dell'inquinamento e della morte e contrappongono i lavoratori e la popolazione in generale a ogni singolo lavoratore. Ma il compito dei comunisti non è prendersela con gli ecologi borghesi perchè restano sul terreno borghese, ma sfruttare l'opera (che pure gli ecologi borghesi devono fare) di denuncia degli effetti del modo di produzione capitalista per attaccare la causa alla fonte.

NOTE

(52). Il primo trattato moderno specifico di ecologia è l’opuscolo di Engels Per la questione delle abitazioni del 1887.

 

4.3. Gli ostacoli alla crescita delle forze produttive e della produzione

Lo stesso modo di produzione capitalista che ha in se la tendenza e la necessità della crescita illimitata della produzione e delle forze produttive, pone per sua stessa natura innumerevoli ostacoli e freni alla crescita del prodotto, delle forze produttive e della produttività del lavoro.

Da una parte questi freni hanno agito da controtendenza alla crescita illimitata e hanno quindi posticipato il prorompere delle contraddizioni connesse con la crescita illimitata.

Dall'altra parte questi freni agendo ciecamente hanno creato e creano scosse, perturbazioni e vuoti nel processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell'esistenza. Infatti non attenuano la tensione del capitale a crescere, ma ora qui ora là bloccano o danneggiano il processo produttivo e in questo modo creano zone in cui quella tensione non può esplicarsi e con ciò producono effetti devastanti o mortificatori che si ripercuotono su tutto il processo produttivo.

Non si tratta di ostacoli insiti nel contenuto del processo produttivo, come ad es. la rarità di un metallo in natura, le condizioni climatiche avverse, ma di ostacoli creati dalla forma del processo di produzione, dal rapporto di capitale. Questi ostacoli derivano nel loro complesso dal fatto che il capitale

- deve contenere il reddito del lavoratore entro i limiti del lavoro necessario alla riproduzione della capacità lavorativa di questi,

- deve ridurre il più possibile il lavoro necessario a favore del pluslavoro,

- deve far svolgere al lavoratore il lavoro necessario solo quando, dove e nella misura in cui è condizione per estorcergli pluslavoro,

- deve estorcere pluslavoro solo nei limiti in cui può realizzarlo come plusvalore,

- deve porre tutto il prodotto del lavoro (mezzi di produzione, materia del lavoro e beni d'uso corrente) solo in quanto valore.

Vediamo più in dettaglio alcuni di questi limiti.

1. Il capitale, essendo in costante contrapposizione al lavoratore diretto, tende a mantenere la cultura, la conoscenza scientifica e generale, le attitudini, le capacità e il carattere del lavoratore nei imiti dello stretto indispensabile alle sue mansioni immediate e a trascurare la salute e persino la formazione professionale del lavoratore: tutte cose che per il capitalista sono o di nessuna utilità o dannose. Il capitale preclude

- al lavoratore diretto la conoscenza delle basi scientifiche che presiedono al processo lavorativo che questi conduce,

- gli preclude l'accesso ad una cultura generale e ad una esperienza che contrasterebbero con il suo ruolo nel processo produttivo (“lei non è pagato per pensare, altri sono pagati per farlo” ammoniva F.W. Taylor, il padre dell'“organizzazione scientifica capitalista del lavoro”).

- gli vieta la formazione di un carattere e di attitudini che lo distolgano dall’asservimento e dalla sottomissione,

- impedisce, usando la grande arma del licenziamento, che il lavoratore assuma nella sua attività posizioni indipendenti da lui.

L'abbrutimento dei lavoratori e l'atteggiamento di deresponsabilizzazione verso l'oggetto della produzione e le modalità di lavorazione sono il risultato necessario delle posizioni in cui il capitale pone il lavoratore diretto. Il capitalista si straccia volentieri le vesti di fronte all'assenteismo e alla trascuratezza dei suoi dipendenti, ma non tollera assolutamente che l'operaio si ponga come soggetto dirigente del proprio lavoro e responsabile di esso di fronte alla società: l'operaio è il suo lavoratore, l'azienda è la sua, al lavoratore al massimo deve interessare quanto prende (che è poi il leitmotiv di tutti i sindacati bianchi e gialli). Il capitale priva così il processo produttivo dell'enorme fonte di sviluppo delle forze produttive costituita dalla combinazione della conoscenza di base, dell'esperienza diretta e di una attitudine attiva, creativa e responsabile di milioni di lavoratori. Le “cassette delle proposte” installate nelle ditte e i “premi alle invenzioni” promessi dal capitalista sono piccoli rimedi ad una condizione generale.

2. Ogni invenzione viene posta come proprietà privata che si cerca di far fruttare privatamente e di cui si cerca di vietare l'accesso ad altri. Il segreto industriale e commerciale e la proprietà intellettuale sono tutelati dallo Stato in ogni società capitalista. Brevetti, royalties, diritti vari, norme e leggi di tutela della proprietà privata delle idee e delle invenzioni ostacolano la loro generalizzazione.

3. L'introduzione di un'innovazione da parte di un capitale comporta la svalorizzazione del capitale già impiegato in quella produzione e quindi la messa fuori uso dei mezzi di produzione e il fallimento delle imprese in cui operava il capitale svalorizzato. Quindi da una parte il capitale che ha il monopolio di un'innovazione ritarda la sua applicazione per sfruttare a fondo gli impianti esistenti, dall'altra la generalizzazione dell'impiego dell'innovazione si attua buttando fuori mercato i vecchi concorrenti, trasformando in rottami o macerie i loro impianti e costruendone di nuovi. Da qui la resistenza degli altri capitalisti e dei lavoratori da essi dipendenti all'innovazione.

4. Perchè nel modo di produzione capitalista una innovazione del processo lavorativo venga adottata, non basta che essa comporti ma riduzione del tempo di lavoro impiegato complessivamente per una produzione. Occorre che essa comporti una riduzione del tempo di lavoro pagato dal capitalista. Se ad esempio 1'innovazione consiste in una macchina utensile più perfezionata, perché venga adottata non basta che il lavoro impiegato per produrre la macchina più il lavoro impiegato con essa per una data produzione sia minore delle grandezze corrispondenti relative alla vecchia macchina: occorre che il costo della nuova macchina più il lavoro pagato (il salario dei lavoratori) per farla funzionare sia minore delle grandezze corrispondenti relative alle vecchie macchine. Da qui non solo un ostacolo in generale all'innovazione, ma il basso livello tecnologico delle piccole imprese.

5. Ogni innovazione del processo lavorativo viene adottata dal capitalista solo se riduce il numero di lavoratori addetto a una data produzione. Da qui l'inevitabile resistenza che nell'ambito del nodo di produzione capitalista i lavoratori oppongono all'innovazione tecnologica. Il modo di produzione capitalista pone il lavoratore nell'alternativa di morire di fame o di resistere all'innovazione (anche se questa a volte persino allevia la fatica dei lavoratori addetti).

6. Il capitale rifugge dall’investirsi in lavorazioni in cui il tempo di rotazione (il tempo necessario per realizzare un profitto) è molto ungo. Da qui la tendenza a prendere l'uovo oggi anche a costo di danneggiare la gallina di domani. Le coltivazioni di giacimenti minerari e petroliferi e la coltivazione delle foreste sono due campi in cui questa caratteristica del modo di produzione capitalista è più evidente. Ma essa si manifesta in mille altri aspetti dei processi produttivi e della società.

7. Nessun singolo capitale contabilizza tra i suoi costi di produzione i danni che produce al lavoratore e alla popolazione (ad es. in termini di degrado generale della salute, del benessere e della vigoria fisica e mentale) e all'ambiente (ad es. in termini di esaurimento delle sue risorse). Esso è costretto a fare quello che fa il suo concorrente che sfrutta più intensamente uomini e cose e a ogni capitale si impone il comportamento peggiore come necessità di cui nessun singolo capitalista si ritiene responsabile, perchè è il comportamento peggiore che determina i costi di produzione minori.

8. Il capitale tende per natura a ridurre il salario del lavoratore al lavoro necessario alla riproduzione della sua forza lavoro e a ridurre il più possibile il lavoro necessario a favore del pluslavoro. La riduzione del salario al lavoro necessario è la condizione principale perché il lavoratore si sottometta con regolarità alla compravendita della forza/lavoro e tema il licenziamento, quindi la condizione principale della sua obbedienza e sottomissione: un lavoratore ricco e che può vivere anche senza salario, è un lavoratore indocile. Il lavoro necessario è in alternativa al pluslavoro: quanto maggiore è l'uno tanto minore è l'altro. La missione storica del capitale è la creazione di pluslavoro, ossia la riduzione del lavoro necessario. Questa però nell'ambito del modo di produzione capitalista non può attuarsi come liberazione dalla maledizione di vivere solo “grazie al sudore della fronte”, come liberazione dalla schiavitù del bisogno, ma si attua come aumento del lavoro erogato per il capitalista, nonostante i sogni di liberi (ma non innocui) sognatori (vedasi la scheda L'abolizione del lavoro).

II capitale “libera” i lavoratori dal lavoro necessario trasformando il loro lavoro in pluslavoro, facendoli lavorare per qualcosa di diverso dal loro proprio mantenimento (e proprio per questo è stato la condizione più favorevole allo sviluppo delle forze produttive finché questo sviluppo doveva avvenire in contrapposizione ai lavoratori) (53).

Da tutto ciò però derivano non solo le ristrettezze dei lavoratori, ma anche l'ostacolo che il capitale crea a se stesso dal lato dello scambio, in quanto ogni operaio si pone come acquirente di merci quantitativamente limitato proprio dal salario e quindi dal lavoro necessario. Ponendo il salario eguale al lavoro necessario e tendendo a ridurre a zero il lavoro necessario, il capitale si priva di una parte del ramo su cui esso stesso poggia per l'ampliamento della sfera della circolazione. I trasferimenti di reddito operati dagli Stati capitalisti moderni contrastano in parte l'effetto negativo di questa tendenza (con i guai però connessi all'aumento della spesa pubblica). Anche nel periodo del consumismo, il lavoro necessario è stato ridotto, benché gli effetti di questa riduzione siano stati più che compensati (dal punto di vista della quantità di beni usati dal lavoratore) dalla diminuzione del valore delle merci che entrano nel suo consumo. Infatti il consumismo non ha tolto e non toglie gli ostacoli che il capitale incontra dal lato della realizzazione.

9. Il capitale pone lavoro necessario (ossia fa lavorare e paga dei lavoratori) solo come mezzo per produrre pluslavoro. Questo comporta che in ogni situazione in cui un lavoratore può produrre solo quanto basta a se stesso (l'equivalente del suo salario), il capitale lo lascia inattivo e quindi il lavoratore non produce neanche quanto basta a se stesso. Questa è l'origine principale della disoccupazione cronica e di massa dei paesi del Terzo Mondo e del fenomeno apparentemente assurdo di masse in preda all'inedia in paesi “ricchi di risorse naturali” (come recitano tutti i manuali). Milioni di individui non possono produrre di che sfamarsi perché lavorando semplicemente e primitivamente (con le proprie mani e nelle forme tradizionali) per sfamarsi, non producono pluslavoro e il capitale non può permettersi il loro pluslavoro non potendolo realizzare come plusvalore. A date condizioni può perfino mantenerli gratis (gli “aiuti internazionali”). A riprova si veda come la situazione cambia rapidamente e radicalmente non appena il capitale trova conveniente impiegare quegli individui a produrre pluslavoro-plusvalore (si vedano i “miracoli economici” del Terzo Mondo e dei “paesi di nuova industrializzazione”).

Se a questo si aggiunge che il salario è, come il prezzo di ogni altra merce, sottoposto al variare del rapporto tra domanda e offerta, risulta anche chiaro perchè in ogni paese il capitale tende a conservare almeno un certo numero di lavoratori disoccupati.

Nell'ambito del modo di produzione capitalista ogni uomo e ogni attività trova spazio e ruolo solo se produce pluslavoro. Il degrado massificato del fisico e del carattere di tutta quella parte della popolazione che non produce pluslavoro e che quindi è nella società borghese una palla al piede e un “fardello per chi lavora e produce” (anziani, bambini, casalinghe, invalidi, giovani, disoccupati, ecc.) è diventata nella moderna società imperialista una nuova “piaga sociale” su cui si chinano pieni di fervore dame di S. Vincenzo, protettori del “diverso”, assistenti sociali, ricuperatori di drogati, ecc. che hanno trovato nei più moderni risultati prodotti dal modo di produzione capitalista nelle più avanzate e ricche società imperialiste, uno spazio di attività sconfinato quanto quello degli affamati del Terzo Mondo.

Il capitale rifiuta l'esistenza di questa massa di uomini che per esso sono improduttivi, esseri inutili e superflui e li convoglia verso le mille forme dell'autodistruzione e della distruzione. Non è quindi per qualche causa misteriosa che le società imperialiste più evolute e ricche producono in abbondanza suicidio, impiego di droghe, psicopatie e nevrosi, disadattamento, manie aggressive: insomma omicidio, suicidio e voglia di annientamento e di morte. E nel contempo coltiva queste “masse malate” come consumatori, come acquirenti, come “mercato” e produce in abbondanza i beni per il loro consumo.

Il capitale moderno si comporta nei confronti di queste masse come si comportarono in America del Nord i nuovi arrivati nei confronti della popolazione indigena: contro di essa agì sia la volontà del colono che voleva cancellare gli indigeni dal suo territorio sia l'avidità del mercante che vendeva loro alcoolici, combinandosi in un unico risultato, fossero o no il colono e il mercante riuniti nello stesso “mister Smith”.

10. Il capitale pone il plusvalore, la trasformazione in denaro del pluslavoro materializzato nelle merci, come limite alla estorsione di pluslavoro. Il capitale estorce pluslavoro, quindi mette in moto solo quelle lavorazioni tali che il pluslavoro ivi messo in campo può essere realizzato. Quindi le condizioni generali della circolazione in cui il pluslavoro materializzato viene trasformato in denaro si pongono come ulteriore grande limite del processo di produzione e riproduzione delle condizioni dell'esistenza umana gestito dal capitale (gestito in modo capitalista, cioè come veicolo materiale della valorizzazione del capitale). Da qui tutte le invenzioni e le acrobazie pratiche dei governanti per allargare la solvibilità, creare domanda solvibile, ecc. e tutte le “geniali” acrobazie di Lord Keynes e dei suoi epigoni nell'ideare nella domanda e nella creazione di domanda l'elisir di eterna giovinezza del modo di produzione capitalista (54).

Questi ostacoli, illustrati nei dieci punti che precedono, posti dal modo di produzione capitalista, non solo agiscono direttamente sul processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell'esistenza e sul movimento economico della società, ma producono i loro effetti anche sul movimento politico e culturale dell'intera società capitalista e diventano strumenti attraverso cui si esprimono iniziative politiche a culturali: aspetti che in questa sede trascuriamo.

Ci interessa invece da ultimo affrontare il limite più generale che il modo di produzione capitalista porta in sé il cui raggiungimento informa di sé le società imperialiste e costituisce la fonte dei loro tratti peculiari.

NOTE

(53). “Il capitale è la condizione più favorevole dello sviluppo delle forze produttive finché queste hanno bisogno di uno stimolo esterno. il quale si presenta al tempo stesso come loro freno” (K. Marx, Grundrisse, ed.Einaudi, p. 383).

(54). Sulla “genialità” delle invenzioni di Lord Keynes, vedasi Rapporti Sociali n. 1, p. 23, nota 20.

 

4.4. Il limite del capitale

Il modo di produzione capitalista, oltre a porre gli ostacoli sopra visti al processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell'esistenza, contiene in sé il limite generale e assoluto della propria esistenza. Questo limite mostra che la società umana non può svilupparsi indefinitamente nell'ambito del modo di produzione capitalista e quindi mostra il carattere transitorio del capitale come forma di organizzazione delle attività economiche umane.

Il capitale è una specifica forma di organizzazione e gestione dell’attività svolta dagli uomini per la produzione e riproduzione delle condizioni materiali della loro esistenza, determinatasi storicamente come accennato nel punto 2. del presente scritto Rapporto di capitale.

La sua specificità consiste nel porre in modo generale il lavoro come valore del suo risultato (del prodotto) e nel porre il valore come plusvalore e quindi in definitiva nel porre il lavoro come pluslavoro.

Il limite assoluto tendenziale dell'espansione del modo di produzione capitalista (quindi dell'accumulazione del capitale) è quindi dato dalla quantità di tempo di lavoro che il capitale può far compiere ai lavoratori. Questo infatti a sua volta costituisce il limite massimo del lavoro che il capitale può porre come pluslavoro, estendendo il tempo di pluslavoro all'intera giornata lavorativa e riducendo a zero il tempo di lavoro necessario.

Il limite dell'accumulazione (che quindi è posto a prescindere in prima istanza dai vincoli posti dalla realizzazione del pluslavoro, ossia dalla trasformazione di questi in denaro) è perciò la trasformazione in pluslavoro dell'intera giornata lavorativa dei lavoratori che nelle condizioni storicamente date il capitale può far lavorare al suo servizio.

Quanti membri della società sono realmente trasformabili in lavoratori salariati, la lunghezza della giornata lavorativa, ecc. tutto ciò dipende dalle caratteristiche storiche (ossia formatesi e determinatesi nel corso della storia) di ogni determinata formazione economico-sociale. Non sono elementi compresi nel concetto di capitale. L'accumulazione del capitale consiste precisamente nell'avvicinamento a quel limite storicamente dato che le necessità della realizzazione del pluslavoro ulteriormente restringono.

Man mano il capitale si avvicina a questo limite, le condizioni per la sua valorizzazione (per l'accumulazione) diventano difficili.

Quando il capitale ha esteso il pluslavoro all'intera giornata lavorativa dei lavoratori da esso impiegati, l'accumulazione del capitale ha raggiunto il limite massimo che le è possibile. A questo punto la trasformazione delle condizioni in cui si svolge l'attività lavorativa può procedere per ridurre il costo di produzione della singola merce e quindi prevalere nella concorrenza con gli altri capitalisti, ma il pluslavoro complessivamente estorto non può procedere oltre e quindi ogni ulteriore aumento del capitale stesso non produce aumento del plusvalore da esso estorto.

Il capitale che è tensione alla crescita illimitata del plusvalore, diventa impossibile.

Quando si approssima una situazione del genere inizia una crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale (55).

Il rapporto di capitale si esprime feticisticamente attraverso merci (mezzi di produzione, materiale di lavoro e prodotti) e denaro.

Le merci attraverso cui esso si rappresenta possono continuare ad aumentare sia come valore di scambio, sia come valore d'uso anche nel corso di una crisi per sovrapproduzione di capitale..

Il valore di scambio prodotto annualmente non può aumentare, ma aumentano in valore le merci che funzionano come mezzi di produzione e come materiale di lavoro. Aumenta cioè il lavoro oggettivato nelle attrezzature produttive e nel materiale di lavoro (scorte), cioè il capitale costante. Ma non aumenta la quantità di lavoro vivo che esso può succhiare.

Il lavoro morto posto come capitale può anzi aumentare in modo frenetico perché quanto più il capitale entra nella crisi per sovrapproduzione di capitale, tanto più ogni frazione di capitale trova modo di accrescere il suo plusvalore solo appropriandosi del pluslavoro fino allora estorto da altri capitali.

La riduzione del costo delle proprie merci, l'ampliamento della propria produzione, l'estensione del proprio campo d'azione sono lo strumento per ottenere il risultato e ciò implica più capitale nella forma di lavoro morto usato nella produzione.

Il valore d'uso prodotto annualmente può aumentare e aumenta necessariamente perché la ricerca spasmodica di ogni singolo capitale di crescere, si attua solo tramite la riduzione del valore delle singole merci, quindi il valore prodotto annualmente, anche se resta costante di anno in anno, deve rappresentarsi in una massa maggiore di prodotto.

Il denaro in cui il capitale si rappresenta può aumentare e aumenta, non solo come corrispettivo della crescita del lavoro morto usato nella produzione ma anche come rappresentazione autonoma e diretta di nuovo capitale che non si impiega nella produzione. La sovrastruttura finanziaria può crescere e deve crescere e nella sua crescita ha rotto e doveva rompere gli argini che ad essa si opponevano costituiti dalla merce-denaro e quindi si è aperta lo spazio per una crescita illimitata (fatti salvi gli inconvenienti d'altro genere che pure si accumulano e ad un certo punto esplodono) (56).

La distinzione tra il rapporto sociale di capitale e la sue rappresentazioni feticistiche e l'analisi dell'unità e delle contraddizioni tra i due termini sono di conseguenza indispensabili per comprendere l'evoluzione delle società borghesi moderne.

Il limite posto all'accumulazione di capitale si manifesta anche come difficoltà a realizzare (trasformare in denaro) le merci prodotte e come conseguente limitazione dell'impiego degli impianti di produzione (sovrapproduzione di merci).

Ma assumere la sovrapproduzione di merci, l'impossibilità a realizzare tutte le merci prodotte come causa della crisi è travisare il problema (57).

Finché l'accumulazione procede, tutto il prodotto (salvo momentanee sproporzioni settoriali e disfunzioni finanziarie) ha un acquirente, perché il capitale esiste due volte: una volta come merce e una volta come valore e ogni capitale investendosi nuovamente costituisce per l'altro la domanda necessaria, aggiuntiva a quella rappresentata dalle altre varie classi della società. La sovrapproduzione di merci si verifica normalmente durante la crescita del modo di produzione capitalista, come effetto di ostacolo momentaneo: sproporzione tra settori, aumenti o riduzioni improvvise causati da eventi extraeconomici, contraddizioni tra elementi della struttura economica, disfunzioni o perturbazioni del sistema finanziario che deve “corrispondere”, “riflettere” il processo produttivo.

Ma la sovrapproduzione di merci diventa cronica quando si ha sovrapproduzione di capitale e solo come effetto di essa, quando i nuovi investimenti non costituiscono più una domanda adeguata per il capitale che esiste sotto forma di merci.

Proprio perché la sovrapproduzione di merci è un effetto della sovrapproduzione di capitale, nessun aumento di domanda (immissione di nuovo denaro, domanda pubblica, ecc.) possono essere più che un rimedio provvisorio della stessa sovrapproduzione di merci. Ognuna di queste misure infatti permette al singolo capitalista di realizzare con profitto le sue merci e quindi di rinnovare, ampliato, il processo produttivo. Quindi l'impasse sembra risolta. E quelle misure la risolvono effettivamente quando la sovrapproduzione è dovuta ad uno degli ostacoli momentanei sopra indicati e la “respirazione artificiale” messa in atto permette la ripresa normale. Ma quando la sovrapproduzione di merci è dovuta alla sovrapproduzione di capitale, la “respirazione artificiale” dovrebbe continuare illimitatamente. Il prolungarsi nel tempo dell'intervento che crea domanda di merci provoca però a sua volta perturbazioni e sconvolgimenti che impongono la cessazione dell'intervento stesso (58).

La storia economica, finanziaria e politica di questo secolo presenta un vasto campionario di esempi e dimostrazioni sperimentali della nostra affermazione.

Il sollievo momentaneo ottenuto con le varie forme di sostegno alla domanda si esaurisce in un certo lasso di tempo a di ripropone la situazione momentaneamente esorcizzata. Infatti l'unica soluzione, nell'ambito del modo di produzione capitalista, sta nel ricreare le condizioni diffuse di una nuova corsa all'accumulazione, dare nuovamente al rapporto di capitale la possibilità di espandersi e di mettersi nuovamente ad assorbire lavoro vivo facendogli produrre pluslavoro e trasformando questo in plusvalore.

NOTE

(55). Sulla crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale vedasi Rapporti Sociali n. 0 (Don Chisciotte), p. 12.

(56). Alcuni di questi inconvenienti sono narrati nello scritto Crack di borsa e capitale finanziario, in Rapporti Sociali n. 1, 1988.

Sull’evoluzione della merce-denaro vedasi la scheda Denaro e materie del denaro in Rapporti Sociali n. 2, 1988.

(57). Rosa Luxemburg in L'accumulazione del capitale (1912) compì proprio questo errore. Lenin in La questione dei mercati (Opere, vol. 1) mostra come il capitale crea un mercato adeguato a se stesso finché la produzione capitalista funziona. Anche Marx aveva ampiamente mostrato che una società puramente capitalista può riprodursi purché si diano certe condizioni che niente assicura si presentino (vedasi Il capitale, libro II, cap. 21).

(58). Per un'esposizione più dettagliata degli effetti e dei limiti delle varie forme di interventi diretti a creare domanda rimandiamo alla scheda La politica economica che sarà pubblicata in Rapporti Sociali n. 4.