Lotta politica e movimento economico della società

Rapporti Sociali n. 2, novembre 1988  (versione Open Office / versione MSWord )

 

Riflessioni attorno a due obiezioni

Gli uomini ricevono la conferma della verità della loro conoscenza solo dopo che nel corso del processo della pratica sociale (nel processo della produzione materiale, della lotta di classe e della sperimentazione scientifica) hanno raggiunto i risultati previsti. Se l’uomo vuole riuscire nel lavoro, cioè arrivare ai risultati previsti, deve conformare le sue idee alle leggi del mondo oggettivo esterno; in caso contrario, nella pratica, fallirà. Se fallisce, ne trarrà insegnamento, correggerà le sue idee e le conformerà alle leggi del mondo esterno, trasformando così la sconfitta in vittoria; è questo il significato delle massime: "la sconfitta è madre del successo" e "sbagliando s’impara".

Mao Tse-tung, Sulla pratica

 

L’uscita del primo numero di Rapporti Sociali (a distanza di 2 anni dal numero 0 - Don Chisciotte) ha avviato una riflessione e un dialogo sul movimento economico delle società borghesi nella fase imperialista. Questo è l’obiettivo e la funzione immediata della rivista.

Nelle assemblee di presentazione, nella corrispondenza, nelle discussioni relative al contenuto del n. 1 di Rapporti Sociali sono emerse una serie di questioni ed obiezioni che si riassumono in due temi centrali.

Se il movimento economico della società procede come avete indicato nell’articolo Crack di Borsa e capitale finanziario, quali sono le conseguenze che se ne debbono trarre sul piano politico? Perché non le tirate e indicate quale linea secondo voi si deve seguire in campo politico?

Se il movimento economico della società precede come indicato negli articoli di Rapporti Sociali, qual è il ruolo della lotta di classe (le lotte sul terreno politico, rivendicativo, culturale) nel movimento della società? Sembra che il movimento del capitale finanziario da voi descritto nell’articolo Crack di Borsa e capitale finanziario si svolga al di sopra delle classi e delle loro lotte: è possibile che la lotta del proletariato non possa incidere su questo piano, costringendo la borghesia a modificare le sue svolte? Al di la dell’articolo in specifico, si ha l’impressione che tutta l’impostazione della rivista sottovaluti il ruolo della lotta di classe. Qual è il rapporto esistente fra il movimento oggettivo delle società borghesi e la lotta di classe? Sembra che voi neghiate che questa abbia un ruolo.

Questi temi sollevati da varie parti meritano una risposta sulle pagine della rivista, data la rilevanza delle questioni che pongono ai fini di tutto il nostro lavoro, della collaborazione alla rivista e dell’orientamento dei comunisti.

 

1. Linea politica e tendenze del movimento economico

 

Partiamo dal primo tema, quello delle conseguenze da trarre sul piano politico dall’articolo Crack di Borsa e capitale finanziario.

Noi pensiamo che per avere una linea politica giusta è necessario comprendere il movimento economico della società. Certo non basta, ma è necessario. D’altra parte ogni linea politica sottintende ed implica una data analisi delle tendenze oggettive. L’analisi delle tendenze economiche non porta univocamente ad una 1inea politica, ma pone discriminanti, esclude alcune tesi politiche che implicano che le tendenze oggettive della società siano diverse da quelle che sono e pone in luce quali linee politiche sono possibili, delimita quali sviluppi politici sono possibili. La lotta politica è un’arte e la linea da seguire dipende anche dal soggetto, dalla sua natura, dallo stadio del suo sviluppo, dalle altre circostanze politiche e culturali. Quindi dall’analisi che facciamo non discende una linea politica. discendono  invece delle conseguenze rilevanti ai fini della definizione di una linea politica. Vediamone alcune.

 

Una tesi dell’analisi del movimento economico condotta in Rapporti Sociali n.1 è che la crisi economica delle società borghesi, incominciata tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, continua e che, di conseguenza, continua il corso economico e politico iniziato in quegli anni. La fondamentale differenza di questo corso rispetto ai 25 anni precedenti, compresi tra il 1945 e il 1970, è che quelli furono al contrario anni di accumulazione crescente di capitali e, di conseguenza, di sviluppo generale dell’apparato produttivo. Al contrario nel nuovo periodo l’accumulazione del capitale procede tra grandi difficoltà e il processo produttivo non si espande al ritmo necessario per l’accumulazione del capitale.

Ciò si contrappone direttamente alla tesi secondo cui gli anni ’70 costituiscono un ciclo storico, conchiuso, terminato, alla tesi secondo cui saremmo entrati in una nuova fase.

La nostra affermazione è basata sull’analisi del movimento economico delle società borghesi che assumiamo come elemento principale e determinante del movimento politico e culturale della società. Mentre la tesi contraria, in tutte le sue varie formulazioni, è basata sull’osservazione dei movimenti politici e culturali, assunti come fenomeni che si sviluppano autonomamente dalle condizioni materiali, che si sviluppano l’uno dall’altro (dalle idee alle idee).

La tesi della nostra analisi del movimento economico ha anche un’altra importante conseguenza in politica. In Italia tra i rivoluzionari vi sono stati alcuni che erano convinti (e forse sono ancora convinti) che la borghesia e i revisionisti hanno avuto la vita facile dopo la seconda Guerra Mondiale e fino agli anni ’70 grazie alla loro astuzia, alla loro propaganda, alle loro chiacchiere, alla loro diabolica capacità d’ingannare. In realtà la borghesia e i revisionisti hanno avuto la vita facile soprattutto perché in quegli anni l’economia capitalista è andata avanti bene e le masse dei paesi imperialisti sono riuscite a conquistare rilevanti miglioramenti nelle condizioni di vita e di lavoro. È questa (e non le idee, le iniziative politiche e il condizionamento propagandistico) l’origine di quel periodo di pace sociale. L’inizio e lo sviluppo di una nuova grande crisi economica pongono fine a quel periodo di pace sociale. Chi non capisce questo, di conseguenza non capisce che le lotte rivendicative delle masse (sul piano economico, normativo, delle condizioni di vita) e le lotte con cui le masse hanno opposto resistenza all’abolizione delle conquiste di quel periodo (abolizione che la borghesia sta attuando) sono diventate il terreno diffuso e onnipresente su cui milioni di uomini si formano e si schierano e che questo schieramento deciderà del futuro. Chi non capisce questo, crede che i comunisti devono “destabilizzare” il regime borghese, che in mancanza della loro “destabilizzazione” sarebbe stabile ed eterno. Non si rende conto che il regime borghese si è destabilizzato da solo con l’inizio della crisi economica contro la quale la borghesia non può fare nulla, che i comunisti devono soprattutto orientare ed organizzare le masse, perché senza il concorso delle masse i comunisti sono impotenti e senza i comunisti il movimento delle masse non si eleverà al di sopra di un livello elementare in cui malcontento, proteste, rivendicazioni, atti di ribellione di individui e gruppi si scontrano casualmente, sono contenuti, deviati e strumentalizzati dalla borghesia e non diventeranno mai una forza capace di cambiare il mondo. Non si rende conto che le chiacchiere, le suggestioni concorrevano alla pace sociale solo perché erano confortate da fatti ben concreti e che la borghesia poteva in politica assumere forme ed apparenze democratiche perché e solo finché poteva soddisfare interessi ben materiali.

 

La successiva, rilevante tesi dell’analisi del movimento economico condotta in Rapporti Sociali è che la crisi  economica delle società borghesi apertasi tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 è una crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale. Ossia la crisi economica consiste nel fatto (e le manifestazioni di questa crisi economica derivano dal fatto) che una parte crescente del capitale accumulato non può essere reimpiegata (fare profitti, valorizzarsi) nello sfruttamento diretto di forza-lavoro, ossia nella produzione di merci, nel ciclo denaro - mezzi di produzione + materie prime + forza-lavoro - processo lavorativo - merci - più denaro.

Ciò vuol dire che sono inconsistenti o riduttive

- le tesi che descrivono la crisi economica attuale come una crisi strutturale (ossia relativa al ruolo reciproco delle varie strutture del sistema economico capitalista: impresa produttiva, impresa commerciale, banca, Stato, ecc.),

- le tesi che vorrebbero spiegare la crisi con la sovrapproduzione di merci,

- le tesi che vorrebbero spiegare la crisi con il sottoconsumo.

Perciò, altrettanto inconsistenti e riduttive sono le linee politiche che sottintendono una di quelle tesi.

Dalle tre tesi enunciate (cioè che la crisi attuale è una crisi strutturale o una crisi di sovrapproduzione di merci o una crisi per sottoconsumo) deriva necessariamente la conclusione che la crisi della società borghese è passeggera, che non conduce all’esplosione di contraddizioni antagonistiche, che risulta superabile, nella misura in cui la borghesia riesce ad avviare e portare a termine i propri piani, programmi, ristrutturazioni, progetti di razionalizzazione e via dicendo. Da cui

- o l’ennesima riproposizione della vuota parola d’ordine della “lotta contro il piano della borghesia per uscire dalla crisi”,

- oppure la rassegnazione, la rinuncia ad intervenire nelle contraddizioni create dalla crisi, la tendenza a disinteressarsene magari all’insegna dei “nuovi soggetti”, dei “nuovi movimenti”, dei “nuovi bisogni” e così via.

Viceversa, una situazione di sovrapproduzione assoluta di capitale porta prima o poi

- allo sconvolgimento e alla paralisi dell’intero processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza (che nella società borghese si attua solo come supporto, materializzazione e veicolo del processo di valorizzazione del capitale ed infatti è promosso, diretto e gestito dai capitalisti);

- all’esplosione antagonistica delle contraddizioni tra individui, classi, nazioni, razze e Stati e di tutte le contraddizioni derivanti da quello sconvolgimento.

È ciò che avvenne nella prima metà di questo secolo. Solo per mezzo dell’analisi del movimento economico è possibile capire se le contraddizioni economiche che si sviluppano nella crisi (e si sviluppano, perché nessun capitalista è disposto a perdere il suo capitale in nome della “salvezza del sistema”) sono destinate o possono approfondirsi fino a diventare nuovamente contraddizioni politiche (tra Stati) e quindi quali prospettive hanno realmente i sistemi di alleanze, i tentativi di concertazione e gestione concordata della crisi.

 

Un’altra tesi che noi sosteniamo è che finora questa crisi non ha ancora prodotto la paralisi diffusa del processo produttivo perché i movimenti politici della prima metà del secolo (le due guerre mondiali, la rivoluzione d’Ottobre, il fascismo, il nazismo e il New Deal, le acute lotte di classe combattute in quel periodo in tutti i principali paesi capitalisti) hanno prodotto una serie di modificazioni istituzionali (quelle che Marx chiamò “forme antitetiche dell’unità sociale”) che hanno finora ostacolato il precipitare della crisi, permettendo la realizzazione (trasformazione in denaro) delle merci rappresentative del capitale eccedente e offrendo al capitale eccedente in forma di denaro vie per valorizzarsi attraverso la creazione e la moltiplicazione del denaro e dei titoli finanziari (cioè di una massa di titoli di credito e di una connessa rete di rapporti di debito/credito).

Ci sono alcuni che ogni volta che si esaurisce uno dei modi di valorizzazione del capitale finanziario, ad ogni nuovo  tonfo nel suo movimento di valorizzazione, proclamano che è imminente uno sbocco catastrofico della crisi, un collasso del sistema produttivo. Siccome poi il collasso annunciato non arriva, la loro proclamazione fa il gioco di quanti sostengono che il capitalismo è uscito dalla crisi, che la crisi economica è superata e che oramai si è aperta una nuova fase della storia delle società borghesi (e non è solo Barbara Balzerani a sostenere queste tesi!).

Da notare che i capitomboli del capitale finanziario (come quello del 19 ottobre 1987), finché non propagano i loro effetti al settore produttivo sconvolgendolo, interessano un numero limitato di capitalisti e di risparmiatori e quindi restano fenomeni economicamente e politicamente irrilevanti (se non in quanto sintomi di un processo in corso, come sono irrilevanti se non come sintomo le piccole crepe, dilatazioni e tracimazioni che si riscontrano in una diga prima del suo crollo).

Da quanto detto fin qui, risulta chiaro che possono ancora venire alla luce altri campi di valorizzazione del capitale eccedente esistente in forma monetaria. Uno di questi potrebbe, ad esempio, consistere nell’acquisizione massiccia di società e concessioni nei paesi del Terzo Mondo in cambio dei debiti pendenti.

L’apertura di questo o di altri campi di valorizzazione del capitale monetario, se e quando avviene, pospone nel tempo l’esito catastrofico della crisi, cioè lo sconvolgimento del processo di valorizzazione del capitale operante nella produzione e quindi del sottostante processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza.

Ma come è vero che si possono aprire nuovi campi di valorizzazione del capitale finanziario, è altrettanto vero che ognuno di questi campi risolve solo per un certo tempo il problema del capitale eccedente che consiste nel valorizzarsi senza entrare nel processo produttivo e quindi sconvolgerlo.

Quindi sbagliano i catastrofisti, i dogmatici, gli immediatisti. Contro i dogmatici di sinistra, l’analisi economica mostra i passaggi attraverso cui la crisi si apre il suo corso verso la soluzione traumatica e quindi offre strumenti per una linea articolata. Non c’è mai un unico sbocco politico possibile di un processo economico.

Concludendo: la crisi economica delle società borghesi continua ed essa non può avere soluzioni non traumatiche. Tutte le proposte di linea politica e tutti i movimenti politici dovranno quindi, lo vogliano o no, lo sappiano o no, misurarsi e verificarsi con questo fatto che da sé solo è destinato comunque a sconvolgere la nostra società.

 

2. La lotta di classe nel movimento della società borghese

 

Veniamo al secondo tema. Noi lottiamo contro le concezioni soggettiviste ed idealiste del movimento della società (ossia, è la stessa cosa, contro le concezioni soggettiviste ed idealiste della storia umana); riteniamo questa lotta necessaria ed intendiamo portarla risolutamente avanti. È quindi necessario che chiariamo il punto.

Sosteniamo

- che le classi e la lotta tra le classi nascono sul terreno economico, si formano, hanno la loro origine nell’economia, vale a dire nelle attività volte alla produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza e nei rapporti che si stabiliscono tra gli uomini nel corso di quelle attività e nell’ambito dei quali quelle vengono svolte;

- che l’andamento, gli alti e bassi della lotta del proletariato (e, al suo interno, della classe operaia) contro la borghesia sono determinati principalmente dall’andamento del movimento economico;

- che chi si propone di dirigere la lotta della classe operaia e del proletariato contro la borghesia deve conoscere il movimento economico della società, le sue tendenze, le sue forze motrici, perché qui ha origine la parte essenziale delle condizioni in cui si svolge la lotta, qui è la fonte essenziale delle forze concretamente impegnate nella lotta e qui si  determinano gli esiti possibili della lotta, cioè le soluzioni politiche concretamente possibili, da qui viene una parte essenziale delle condizioni che determinano l’esito della lotta.

La lotta rivendicativa è lotta sulla ripartizione del prodotto sociale. La lotta politica è lotta per il potere statale.

La lotta del proletariato contro la borghesia influenza l’andamento economico della società?

Sicuramente sì. Determina modificazioni istituzionali della società: legislazione di fabbrica, istituti previdenziali (contro infortuni, disoccupazione, vecchiaia, malattia), tassazione progressiva dei redditi, regolamentazione per legge dell’assunzione e del licenziamento, norme legali relative al regime lavorativo in senso stretto (orario, condizioni igieniche, ecc.) e tutte quelle “forme antitetiche dell’unità sociale” che sono in gran parte venute al mondo come mezzo per dare risposta alle proteste e indebolire la lotta del proletariato per il potere statale dando soddisfazione più o meno duratura alle richieste che avevano portato anche la parte più arretrata del proletariato sul campo di lotta. Ma tutto questo, fase per fase, nei limiti consentiti dalle esigenze di valorizzazione del capitale. Ognuno di questi elementi dura finché non diventa contraddittorio alle esigenze di valorizzazione del capitale.

Da ciò emerge chiaramente il ruolo certo importante ma limitato delle lotte rivendicative e il carattere aleatorio delle conquiste (economiche e normative) che ne derivano, con buona pace di anarcosindacalisti, economicisti, operaisti e sindacalisti.

Nella società borghese la produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza può avvenire, anche per il proletariato e le masse popolari, solo se procede con successo la valorizzazione del capitale (il primo processo si attua infatti solo come mezzo e via di attuazione del secondo). Se la lotta di classe crea condizioni che impediscono la valorizzazione del capitale, queste possono durare solo per brevi periodi, perché generano delle controtendenze che le spazzano via: si ricordi la sorte della conflittualità permanente e diffusa nelle fabbriche nei primi anni ’70, si ricordi la sorte del Cile di Allende, la sorte delle rivoluzioni e degli scontri degli anni ’20 e ’30 in Europa Centrale e anche nell’Italia degli anni ’20.

Sta qui il carattere oggettivo delle leggi della rivoluzione proletaria: o si prende il potere e si organizza la produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza sulla nuova base del potere del proletariato e dello sviluppo dei germi di comunismo o si sottostà alle leggi di movimento del capitale. Da qui viene l’inconsistenza sostanziale dei discorsi di contropotere, di “spazi di potere” o “fette di potere”, del “dualismo di potere protraentesi nel tempo”, di “elementi di socialismo”, di “riforme socialiste di struttura”, di “transizione graduale, a piccoli passi” e di simili chiacchiere gradualiste comuni a gruppi anarchici, trotzkisti, operaisti e revisionisti.

Il capitale è mosso da leggi sue proprie, non dalla lotta del proletariato. La lotta del proletariato produce, determina alcune delle condizioni esterne con cui il capitale deve fare i conti nel suo movimento di valorizzazione, determina alcuni dei vincoli esterni nel cui rispetto il capitale realizza la sua valorizzazione a meno che li spazzi via come vincoli incompatibili (ad esempio come fece con le limitazioni localistiche del commercio e come sta facendo ora con lo “stato sociale”). Le conquiste normative e salariali strappate dagli operai nel periodo a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 sono state e vengono spazzate via nel movimento della crisi.

I revisionisti moderni e gli operaisti hanno entrambi sostenuto che nelle società borghesi attuali il movimento politico determina (o può determinare) il movimento economico.

I revisionisti moderni del PCI ne hanno tratto in politica la conseguenza che il problema si riduceva ad andare al governo (la “nuova maggioranza”) e da lì gestire riforme (le “riforme di struttura”). Quindi di concessione in concessione, messi di fronte alle compatibilità e al “quadro internazionale” , man mano che il movimento del capitale rendeva impossibili le riforme, hanno finito per abbandonare ogni progetto di riforma. Tra poco Napolitano e la sua  banda, con le loro velleità di progettualità complessiva, finiranno per costituire la “sinistra” del PCI di fronte ai giovani leoni della navigazione a vista di stampo craxiano.

Quali sono le nostre divergenze, in questo campo, con gli operaisti e in generale con le scuole soggettiviste?

Questi concepiscono la società in termini dualistici, come divisa originariamente in due parti autonome e indipendenti in contrasto (i capitalisti e i proletari), ognuna delle quali cerca di affermare suoi valori. Quali siano i valori dei capitalisti si suppone di saperlo (e che coincidano con l’analisi marxista delle leggi di sviluppo del capitale; anche se nelle parole di alcuni operaisti e soggettivisti vari spesso i capitalisti assumono i connotati dell’orco delle favole e del cattivo dei film western). Quali siano i valori dei proletari, è campo di sfogo per vari agiografi melensi (sono di volta in volta i connotati che i buoni assumono nelle favole). Operaisti a soggettivisti affermano che i capitalisti prendono le loro misure e imboccano le loro strade per farla ai proletari e che viceversa i proletari si danno da fare contro i cattivi per affermare valori e cose buone.

Insomma la lotta tra i due principi (del bene contro il male) al posto della lotta di classe che scaturisce dall’unità contraddittoria di

- processo di produzione e di riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza della società umana e

- rapporto di capitale.

Gli operaisti sono per il dualismo (due principi originari e indipendenti che si contrappongono) contro il monismo (un unico principio che si divide in due, di cui in ogni momento uno è principale, ossia dirigente).

In conclusione, noi sosteniamo che non è la lotta di classe a determinare il capitale. Al contrario è il capitale nel suo movimento che determina, secondo proprie leggi oggettive cui sottostà necessariamente ogni singolo capitalista, la nascita e lo sviluppo delle classi e della lotta di classe. In particolare è anche per questo che “il proletariato non può pentirsi”, perché il movimento del capitale (che nella società attuale è il movimento di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza) suscita continuamente classe, lotta di classe, coscienza di classe e tentativi di rovesciarlo.

La conoscenza delle leggi oggettive di sviluppo del capitale, cioè delle leggi oggettive di sviluppo della società attuale, è condizione necessaria per dirigere con successo il suo rivoluzionamento, quindi per il successo della lotta di classe. È necessario che i comunisti abbiano una migliore comprensione del movimento economico della società per fondare sulle sue leggi oggettive la loro attività politica. Questa infatti è principalmente orientamento, organizzazione e direzione del movimento delle masse, la cui principale “scuola di rivoluzione” è appunto il movimento economico della società. A questa “scuola” si contrappone la “scuola dell’indottrinamento e della coercizione” che la borghesia usa capillarmente e quotidianamente a suo beneficio e che è sostanzialmente suo monopolio.

Le tendenze oggettive della società moderna, le leggi oggettive del suo movimento sono favorevoli al socialismo. Nella cultura e nell’orientamento, nelle istituzioni e negli ordinamenti, nel campo soggettivo in genere, le correnti predominanti sono invece necessariamente quelle della classe dominante. È solo fondandosi sulle prime che l’attività dei comunisti in campo soggettivo diventa efficace. I punti di forza su cui i comunisti devono far leva per rovesciare un rapporto di forza politico e culturale che è sfavorevole (e inizialmente non può che esserlo) sono le tendenze oggettive del movimento della società, la comprensione di esse e il loro uso.

Noi parliamo ad una minoranza. Ciò che oggi è grande non può che essere della classe oggi dominante. Dobbiamo tendere tutte le nostre forze per essere una minoranza che viaggia nel senso delle leggi oggettive della società, si giova di esse e quindi riesce ad organizzare e dirigere lo sviluppo di quanto le masse imparano dalla propria esperienza, quindi ad organizzare e dirigere le masse verso la rivoluzione e il socialismo. La comprensione delle leggi oggettive da  parte dei rivoluzionari (e non è questa comprensione che trasforma un perdigiorno in rivoluzionario) non è scuola di impotenza ed inerzia, ma al contrario esalta l’energia e l’attività con il conforto e il potenziamento che viene dal constatare ad ogni passo che ci si muove nel senso delle cose e dai successi che il muoversi nel senso delle cose comporta.

Lavoriamo contro la corrente principale e predominante nel campo della cultura, dei pensieri, delle immagini, delle suggestioni, dei luoghi comuni, dei pregiudizi, del buon senso comune, delle abitudini, dei comportamenti. La conferma della bontà del nostro lavoro non può venirci dal consenso generico, ma la possono avere solo i comunisti, nel loro lavoro.

 

A tutti i compagni che fanno del rivoluzionamento comunista della società attuale il loro compito, chiediamo di collaborare al nostro lavoro, anzitutto verificandolo sulla base delle loro esperienze e della loro attività pratica e fornendo il contributo della loro conoscenza diretta del movimento economico. Ciò aiuterà a superare la cortina fumogena che la borghesia e i suoi mezzi di comunicazione e culturali stendono attorno ai fatti economici e di condurre avanti con successo il nostro lavoro.

La nostra ricerca sul movimento economico della società è parte della più generale opera di bilancio dell’esperienza e di disposizione delle forze con cui i comunisti cercano di porsi al livello dei loro compiti. Nel variopinto e frastornante mondo attuale della politica, è questa opera il germe del futuro, l’elemento dinamico del presente verso un futuro che oggi ci appare impossibile, perché esso infatti non è direttamente possibile e verrà all’esistenza solo attraverso una successione di passi che lo porteranno dallo stato di cosa richiesta e resa necessaria dalle circostanze affermatesi, alto stato di cosa che sta acquistando sue specifiche forme d’esistenza; quindi anche dall’essere presente solo alla mente di chi ha una profonda comprensione delle cose, all’essere oggetto dell’evidenza e del luogo comune, quindi possibile, concepibile, pensabile e un’“alternativa reale” per ogni persona di buon senso. Il potere dei Soviet era inconcepibile nel 1912; era possibile e quasi inevitabile alla fine del 1917!