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Attività  del governo M5S-Lega
(schede tematiche)  


Scheda - Confronto tra Decreto Dignità (Governo M5S-Lega) e Jobs Act (Governo Renzi)

Aggiornamento del 3 aprile 2019

[Scaricate il testo dell'approfondimento in Open Office / Word ]


Indice

Premessa, pag. 1

Indice dell’intero “Decreto Dignità”, pag. 2

Decreto Dignità. Capo I. Misure per il contrasto al precariato - Quadro 1: Contratti di lavoro a termine, pag. 3

- Commenti sulle modifiche relative ai contratti a termine, pag. 4

- Breve excursus in tema di articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, pagg. 4-5

Decreto Dignità. Capo II. Misure per il contrasto alla delocalizzazione e la salvaguardia dei livelli occupazionali -

Quadro 2: Misure per il contrasto alla delocalizzazione e la salvaguardia dei livelli occupazionali, pag. 6

- Commenti sulle misure per contrastare le delocalizzazioni, pag 7-8


Premessa

Il redattore di questo documento si è proposto di verificare se, come e in che misura il Decreto Dignità del 12 luglio 2018 (ovvero: “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”) comporta degli effettivi miglioramenti per i lavoratori rispetto al Jobs Act del Governo Renzi, in proposito della precarietà e della flessibilità a danno dei lavoratori che, prima del Governo Renzi, erano già state aggravate dal Governo Berlusconi con la legge Biagi del 2003.

Il redattore di questo documento non è un giurista e, nel corso dell’indagine per acquisire in rete materiali utili alla redazione di questo documento, ha avuto modo -ancora una volta- di constatare che, nell’ambito della divisione del lavoro sempre più specialistica indotta dal capitale nella fase del suo dominio reale (in senso marxista), non ci si può improvvisare giuristi, economisti, o quant’altro, per quanto volenterosi. Alla luce di quanto sopra, consapevole dei propri limiti, il redattore si è attenuto ai seguenti criteri di ricerca:

rinvenire in rete commenti al DD ad opera di fonti autorevoli (giuristi, sindacalisti, ecc.);

verificarli comunque, per quanto nelle sue capacità, sulla base dei testi di legge.

Le fonti consultate in rete ai fini della redazione di questa relazione sono i siti di: PRC, PaP, USB, Contropiano, Volere la luna, Transfom Italia, Working Class, Coniare Rivolta. Le fonti che si sono rivelate utili ai fini dell’indagine sono citate nel testo.


Il testo preso in esame per quanto riguarda il Decreto Dignità è il seguente:

TESTO COORDINATO DEL DECRETO-LEGGE 12 luglio 2018, n. 87

Testo del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (in Gazzetta Ufficiale - Serie generale - n. 161 del 13 luglio 2018), coordinato con la legge di conversione 9 agosto 2018, n. 96 (in questa stessa Gazzetta Ufficiale - alla pag. 1), recante: «Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese». (G.U. n.186 del 11-8-2018)


Indice dell’intero Decreto Dignità

Capo I. Misure per il contrasto al precariato. Art. 1, 1 bis, 2, 2 bis, 3, 3 bis, 3 ter.

Capo I bis. Misure finalizzate alla continuità didattica. Art. 4, art 4 bis.

Capo II. Misure per il contrasto alla delocalizzazione e la salvaguardia dei livelli occupazionali. Art. 5, 6, 7, 8.

Capo III. Misure per il contrasto del disturbo da gioco d’azzardo. Art. 9, 9 bis,9 ter, 9 quater, 9 quinquies.

Capo IV. Misure in materia di semplificazione fiscale. Art. 10, 11, 11 bis, art. 12, art. 12 bis.

Capo V. Disposizioni finali e coordinamento. Art. 13, 14, 15.

Nello studio che segue, si evidenzia quanto disposto dal Decreto Dignità (DD) per poi confrontarlo con quanto precedentemente stabilito dal Jobs Act (JA).


Sotto il nome di Jobs Act sono raccolte le iniziative legislative in materia di lavoro, promosse dal Governo Renzi, nel corso del 2014 e del 2015. Si tratta dei seguenti provvedimenti:


1) Decreto Legge n. 34/2014 convertito con modifiche nella Legge n. 78/2014, recante Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese;

2) Legge n. 183/2014, recante Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro;

3) In attuazione della delega sono stati predisposti e varati otto decreti legislativi, entrati in vigore con differenti decorrenze in ragione di quando sono stati emanati dal Governo e pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale.

In particolare, i primi quattro decreti sono stati approvati agli inizi del 2015 ed hanno introdotto i “contratti a tutele crescenti”, la riforma degli ammortizzatori sociali, il riordino dei contratti e misure per la conciliazione della vita-lavoro.

I successivi quattro provvedimenti - il decreto che riforma la cassa integrazione, il decreto sulle politiche attive, la semplificazione degli adempimenti connessi al rapporto di lavoro e le attività ispettive - sono entrati in vigore il 24 settembre 2015.

Il Governo Renzi ha poi approvato un ulteriore provvedimento (D. Lgs. 185/2016), entrato in vigore l’8 ottobre 2016, contenente alcuni correttivi ai decreti sopra indicati.”

[Fonte: Jobs Act. Contratti di lavoro e tutele dei lavoratori. Dossier a cura delle ACLI, Dipartimento studi e ricerche. Osservatorio giuridico. 11/09/2017]


Iniziamo il confronto a partire da quanto disposto dal DD in materia di contrasto al precariato


Decreto Dignità. Capo I. Misure per il contrasto al precariato

Quadro 1: Contratti di lavoro a termine


Argomento

Decreto Dignità

Jobs Act

Contratti di lavoro a termine: causali

Se il primo contratto a termine stipulato tra la singola impresa e il singolo lavoratore ha una durata superiore ai 12 mesi, o se comunque si tratta di un contratto a termine successivo al primo stipulato tra la stessa impresa e lo stesso lavoratore, l’assunzione a termine deve essere giustificata dal datore di lavoro sulla base di esigenze temporanee dell’impresa, vale a dire indicando le cosiddette causali.1

Il Jobs Act aveva del tutto eliminato le causali dei contratti a termine.


Contratti di lavoro a termine: durata complessiva

La durata complessiva dei contratti a termine stipulati tra la singola impresa e il singolo lavoratore, con l’eccezione dei contratti stagionali, non può superare i 24 mesi (dunque, ad esempio, non possono essere stipulati, tra impresa e lavoratore, tre contratti a termine della durata di 10 mesi ciascuno, in quanto complessivamente verrebbe superato il limite di 24 mesi)2

Il Jobs Act disponeva che la durata massima del contratto a termine non poteva essere superiore a 36 mesi.


Contratti di lavoro a termine: proroghe e rinnovi dei contratti

Viene previsto un limite massimo di 4 proroghe, compreso comunque nel limite massimo di durata contrattuale pari a 24 mesi (36 mesi nel caso delle eccezioni). Per i rinnovi, invece, non viene posto alcun limite se non, anche qui, quello che la durata dei rinnovi non ecceda la durata massima contrattuale pari a 24 mesi (36 mesi nel caso delle eccezioni).

Il Jobs Act prevedeva un limite massimo di 5 proroghe.

Contratti di lavoro a termine: indennizzo del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo (senza “giusta causa”)

Per gli assunti dopo il 7 marzo 2015 (dunque con il contratto ‘a tutele crescenti’), il Decreto Dignità prevede l’aumento, da un minimo di 6 fino ad un massimo di 36, del numero di mensilità che il datore di lavoro deve corrispondere al lavoratore a titolo di indennizzo per licenziamento illegittimo.

Il Jobs Act stabiliva un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità che il datore di lavoro doveva corrispondere al lavoratore a titolo di indennizzo, in sostituzione del diritto di reintegro nel posto di lavoro, previsto dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (1970)

1 Ciò implica che, con l’entrata in vigore del Decreto Dignità, il contratto a termine senza l’indicazione della motivazione (causale) non può avere una durata superiore ai 12 mesi, e che in ogni caso la causale deve essere indicata a partire dal primo rinnovo del contratto a termine (il rinnovo implica la stipula di un nuovo contratto a seguito della scadenza del contratto precedente), mentre il Jobs Act prevedeva che il contratto a tempo determinato tra impresa e lavoratore poteva essere stipulato e rinnovato senza l’obbligo di indicare la causale da parte del datore di lavoro.


2A riguardo, il Decreto Dignità prevede, però, due eccezioni: 1) i contratti collettivi di settore possono prevedere la possibilità di stipulare contratti a termine tra singola impresa e singolo lavoratore della durata complessiva superiore ai 24 mesi ma non eccedente i 36 mesi; 2) alla scadenza dei 24 mesi, datore di lavoro e lavoratore possono stipulare un solo ulteriore contratto della durata massima di 12 mesi di fronte all’ispettorato del lavoro. Di fatto, dunque, la possibilità di deroga consente comunque che la durata massima del contratto a tempo determinato possa essere estesa anche oltre i 24 mesi, mantenendo dunque in piedi la struttura del Jobs Act che prevedeva una durata massima del singolo contratto a termine pari a 36 mesi.


Commenti sulle modifiche relative ai contratti a termine

In tema di contratti di lavoro a termine, il Decreto Dignità, pur rappresentando un piccolo passo avanti per i lavoratori, non ha portato a un effettivo superamento del Jobs Act e alla fine della precarietà del lavoro. Sebbene, infatti, il Decreto Dignità stabilisca apparentemente che la durata massima del singolo contratto di lavoro a tempo determinato venga ridotta da 36 a 24 mesi, i contratti collettivi di settore possono prevedere una durata superiore, pari a 36 mesi, con ciò rientrando a pieno titolo all’interno dell’impianto del Jobs Act. Anche la reintroduzione della causale dopo i primi 12 mesi di durata del contratto non incide, se non in minima parte, sulla reale condizione e sui numeri riguardanti i lavoratori precari. Basta considerare, infatti, che, nel 2017 (dati Eurostat), circa il 79% degli occupati a termine in Italia ha avuto contratti di durata inferiore ai 12 mesi.

Men che meno l’aumento dei limiti minimi e massimi dell’indennizzo da corrispondere al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo rappresenta un vero punto di rottura con la controriforma renziana del mercato del lavoro. Il Jobs Act ha cancellato l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (1970), il quale stabiliva che, nelle imprese con più di 15 dipendenti, il lavoratore licenziato “senza giusta causa” doveva essere reintegrato nel posto di lavoro. La garanzia del reintegro è stata sostituita con le cosiddette “tutele crescenti”, prevedendo in favore del lavoratore ingiustamente licenziato un indennizzo, appunto, crescente, in relazione all’anzianità lavorativa.

Il Decreto Dignità, limitandosi ad aumentare il numero minimo e massimo di mensilità di indennizzo (rispettivamente 6 e 36) da corrispondere al lavoratore, non mette assolutamente in discussione l’impianto concettuale che ha legittimato l’eliminazione dell’articolo 18, né vi si pone in contrapposizione. Su questo aspetto è intervenuta la Corte Costituzionale che, in una sentenza del settembre 2018, ha di fatto confermato la sostanziale continuità tra il Jobs Act e il Decreto Dignità, stabilendo che il criterio per determinare l’indennizzo da corrispondere al lavoratore ingiustamente licenziato è incostituzionale. La Consulta ha infatti ritenuto che il meccanismo per la quantificazione dell’importo, determinato dalla sola anzianità di servizio, contrasta con i principi di ragionevolezza e uguaglianza e con il diritto e la tutela del lavoro. L’indennizzo, quindi, a seguito della sentenza, deve essere determinato a discrezione del giudice, rispettando comunque il limite minimo di 6 mesi e il massimo di 36 mesi previsti dal Decreto Dignità.

Il Decreto Dignità non ha fatto altro che ribadire l’esclusione a priori del reintegro e perpetuare una semplice monetizzazione. Se l’abolizione dell’articolo 18 operata dal Jobs Act è stata l’ennesima manifestazione del meccanismo disciplinante del capitale nei confronti della classe lavoratrice, il Decreto Dignità continua a farsi partecipe e fautore esattamente della stessa visione di fondo.”

[Fonte: https://coniarerivolta.org/2019/02/05/quando-la-dignita-e-precaria-note-sul-jobs-act-2-0/]

Breve excursus in tema di articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori

Come evidenziato nel commento sopra riportato, il DD non reintroduce l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Di seguito, un breve excursus sull’attacco all’art. 18, dalla legge Fornero del 2012 al JA.

L’articolo 18 ha subito una sostanziale modifica nel 2012 con la riforma dell’allora ministro del Lavoro Elsa Fornero, sia nella procedura che seguiva immediatamente il licenziamento (riducendo i tempi entro cui rivolgersi al giudice e introducendo una procedura di conciliazione), sia nella giustificazione del licenziamento stesso (discriminatorio, disciplinare, economico): in sostanza, riduceva e rendeva complicata l’applicabilità della tutela del reintegro nella maggior parte dei casi di licenziamento che arrivavano in tribunale. La legge Fornero prevedeva che queste nuove regole venissero applicate anche ai dipendenti pubblici con una norma successiva che però non è mai stata fatta.

Poi è arrivato il Jobs Act, che ha abolito completamente l’articolo 18 e il diritto al reintegro sostituendolo, in caso di licenziamento senza giusta causa, con un indennizzo. La riforma si applica però solo ai nuovi contratti di lavoro e cioè a chi è stato assunto dopo il 7 marzo del 2015 e, sebbene non sia stato esplicitamente chiarito nella legge, la ministra della Pubblica amministrazione ha sempre ribadito che non riguarda gli statali.


Il Jobs Act ha quasi totalmente annullato il diritto al reintegro del lavoratore anche per licenziamento illegittimo. Diversamente da quanto previsto dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori al lavoratore licenziato non spetta il reintegro sul posto di lavoro nel caso di licenziamento per motivi economici, anche nel caso di pronuncia a favore del lavoratore da parte di un giudice.

Cosa è cambiato quindi con il Jobs Act? Ai datori di lavoro è stato permesso licenziare con meno oneri e meno vincoli. Le aziende possono licenziare i propri dipendenti anche per motivi economici e una recente sentenza della Cassazione ha addirittura stabilito che il lavoratore può essere licenziato anche per motivi di profitto e redditività aziendale. Con l’abrogazione dell’articolo 18 e le nuove norme in materia di licenziamento illegittimo, è chiaro che i lavoratori si trovano molto spesso ad essere cacciati dal posto di lavoro con motivazioni tutt’altro che convincenti.


Quindi il Jobs Act prevede che in caso di licenziamento i lavoratori non potranno più chiedere il reintegro nel posto di lavoro, eccetto che nei casi di motivi discriminatori. Per i licenziamenti discriminatori il Jobs Act e il nuovo contratto a tutele crescenti hanno previsto che il lavoratore venga non soltanto riassunto ma anche pagato con un’indennità proporzionale al periodo di licenziamento e d’assunzione. In tutti gli altri casi non è previsto il reintegro, ovvero con il Jobs Act vengono previsti i seguenti tipi di licenziamento che non danno diritto al reintegro sul posto di lavoro ma soltanto ad un’indennizzo:

- licenziamenti economici: il lavoratore ha diritto all’indennizzo ma non alla possibilità di reintegro in azienda;

- licenziamenti disciplinari ingiustificati: il lavoratore ha diritto all’indennizzo crescente in base all’anzianità di servizio”.

[Fonte: Jobs Act. Contratti di lavoro e tutele dei lavoratori. Dossier a cura delle ACLI, Dipartimento studi e ricerche. Osservatorio giuridico. 11/09/2017]




Decreto Dignità. Capo II. Misure per il contrasto alla delocalizzazione e la salvaguardia dei livelli occupazionali

Quadro 2: Misure per il contrasto alla delocalizzazione e la salvaguardia dei livelli occupazionali.


Argomento

Decreto Dignità

Jobs Act

Esoneri contributivi per favorire la occupazione giovanile

Il Decreto Dignità prevede uno sgravio contributivo, per un periodo massimo di 3 anni, pari al 50% dei complessivi contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, in favore delle imprese private che, nel 2019 e nel 2020, assumano a tempo indeterminato (con il contratto a tutele crescenti) lavoratori al di sotto dei 35 anni di età (art. 1 bis).

Il contratto a tempo determinato - che significa precariato è tornato a essere la forma più utilizzata dalle imprese, dopo il boom di posti fissi del 2015. Il motivo è molto semplice: sono finiti gli sgravi contributivi varati per quell'anno nella Manovra, che incentivavano il datore di lavoro ad accedere al cosiddetto contratto a tutele crescenti. Oggi (2017) quegli sgravi non ci sono più e quasi sempre l’imprenditore ha tutto l’interesse a mantenere un rapporto precario. Finiti gli incentivi si è tornati alla normalità, anzi al precariato.”

[Fonte:http://www.famigliacristiana.it/blogpost/posto-fisso-la-bolla-di-sapone-del-jobs-act.aspx]


Penalizzazione delle aziende che delocalizzano

Contro la delocalizzazione attuata da imprese che abbiano ottenuto dallo Stato aiuti per impiantare, ampliare e sostenere le proprie attività economiche, il decreto dignità prevede, che "l'impresa beneficiaria" dell'aiuto pubblico decada dal beneficio concesso e sia sottoposta a sanzioni pecuniarie "di importo da 2 a 4 volte quello del beneficio fruito".

( Vedi Art. 5, 6, 7, 8 del TESTO COORDINATO DEL DECRETO-LEGGE 12 luglio 2018, n. 87, in allegato)

Nessuna disposizione al riguardo

Voucher

(Buono Lavoro)

Dopo l’abolizione improvvisa dello scorso anno (2017), i voucher sono tornati sotto la nuova veste della Prestazione Occasionale PrestO. La Camera ha ora approvato alcune modifiche alla rigida disciplina dei PrestO che si potranno usare come i vecchi voucher nel settore agricolo e negli Enti Locali e dagli alberghi e dalle strutture ricettive che hanno fino a 8 dipendenti a tempo indeterminato. Si potranno comunque usare solo se i lavoratori con PrestO rientrano in queste categorie di soggetti:

  1. pensionati,

  2. studenti con meno di 25 anni,

  3. disoccupati,

  4. percettori del reddito di inclusione o di altre forme di sostegno al reddito.

Vedi più oltre una “breve storia sui voucher di lavoro”.


Commenti sulle misure per contrastare le delocalizzazioni

Le misure di contrasto alle delocalizzazioni ‘rappresentano finalmente un primo, positivo tentativo per arginare un fenomeno negativo per l’economia e l’occupazione in Italia. Il provvedimento va quindi nella giusta direzione’. La CGIL rilancia alcune indicazioni e proposte migliorative: fra tutte, la misura deve riguardare anche la parte dei finanziamenti pubblici indirizzati ai processi di “ricerca e sviluppo” o analoghi, non solo il contributo per “investimenti produttivi”. Nessuna misura di politica industriale e sociale, invece, è prevista per tutte le altre aziende che non ricevono aiuti di Stato, ma che decidono comunque di chiudere in Italia e delocalizzare parte o tutta l’attività produttiva in Europa. In questi casi non c’è alcun riferimento all’utilizzo del fondo anti-delocalizzazione.”

[Fonte: http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=34818]

Sui processi di delocalizzazione, nei confronti di aziende che delocalizzano attività svolte in Italia e che usufruiscono o hanno usufruito di forme di agevolazione pubblica, si applicano sanzioni sulle delocalizzazioni fuori dall’Europa e con date notevolmente diluite. Il quadro delle sanzioni si indebolisce molto (se non del tutto) per le delocalizzazioni che avvengono nei paesi dell’area dell’Unione Europea (cioè le più rilevanti). È vero che le attuali regole europee rendono ovviamente più complicato intervenire sulle scelte delle imprese nel muoversi tra un Paese e l’altro dell’Unione in rapporto alle conseguenze sul lavoro, considerate le basi su cui è stata costruita l’Europa.”

[Fonte: https://volerelaluna.it/workingclass/2018/12/21/riflessioni-sul-decreto-dignita-e-il-lavoro/]


Breve storia dei voucher di lavoro (Buono lavoro)

La prima introduzione del buono lavoro, come strumento di retribuzione del lavoro occasionale, è del 2003 a opera del secondo Governo Berlusconi. Il provvedimento che ne inquadrò per la prima volta l'utilizzo fu infatti la legge Biagi. Per diversi anni questa forma di remunerazione, introdotta con l'intenzione di ridurre il lavoro nero, fu sostanzialmente semi-sconosciuta. Il Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali del Governo Prodi II nel 2008 diede attuazione alla legge, precisandone i limiti e l'utilizzo (ad esempio nel settore agricolo).

Fu successivamente esteso per i lavori di tipo occasionale con prestazioni brevi riconosciuti dalla legge Biagi. Il lavoro di riferimento, allora, era quello tipicamente domestico. Altri utilizzi originari del voucher erano quelli delle ripetizioni a casa da parte di studenti, lavoretti di giardinaggio, pulizie e faccende di casa, prestazioni di hostess o stewart in fiere o eventi pubblici, altre situazioni analoghe, tipicamente pagate (con l'assenso del lavoratore) in nero e per questo senza protezione assicurativa. Le modifiche alla legislazione furono a opera del Governo Berlusconi IV (2008-2011), in particolare con la legge 33/2009 che estese nel 2010 l'applicazione a tutti i soggetti.

Poco tempo dopo è iniziata la liberalizzazione dell’utilizzo. Prima con il Governo Monti (riforma Fornero), che ne ha liberalizzato l'uso con il solo vincolo economico pari a 5.000 euro all'anno per ogni singolo lavoratore. Poi con il Governo Letta che, con la legge 99/2013 di conversione del Decreto Lavoro, ha eliminato la dicitura "di natura meramente occasionale" e ne ha esteso l'uso a tutti i settori. Il Governo Renzi ha alzato il limite economico annuale di utilizzo da 5.000 a 7.000 euro, introducendo al contempo la tracciabilità.

Nella primavera 2016 la CGIL ha promosso una raccolta di firme per abolire alcune norme incluse nel Jobs Act, comprese quelle sul Buono lavoro. Dopo il deposito di 3,3 milioni di firme avvenuto nel luglio 2016, l'11 gennaio 2017 la Corte Costituzionale ha approvato il testo del quesito referendario proposto, giudicando che "l'evoluzione dell'istituto, nel trascendere i caratteri di occasionalità dell'esigenza lavorativa cui era originariamente chiamato ad assolvere, lo ha reso alternativo a tipologie regolate da altri istituti giuslavoristici e quindi non necessario".

Il referendum abrogativo venne inizialmente fissato per il 28 maggio 2017. Tuttavia, al fine di scongiurare il referendum, il governo Gentiloni ha emanato il decreto legge 17 marzo 2017, n. 25 "ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di superare l'istituto del lavoro accessorio al fine di contrastare pratiche elusive". Il decreto governativo fu poi successivamente convertito il 17 aprile 2017 da entrambi i rami del Parlamento (L. 49/2017).

A seguito di ciò, la corte di Cassazione ha fermato la procedura elettorale, essendo venuto meno l'oggetto del referendum. Dal 17/03/2017 perciò le prestazioni di lavoro occasionale (di tipo accessorio) non è stato più possibile pagarle acquisendo nuovi buoni: in pratica, l'abolizione dei voucher.

[Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Buono_lavoro]