Scritti vari all’attenzione dei nostri lettori
Articolo da il manifesto del
29 settembre 2012
La
congiura dei tecnici
All’origine della crescita del debito pubblico nel nostro paese c’è il divorzio
consumato negli anni Ottanta tra Banca d’Italia e governo politico dell’economia
per ripristinare il comando del capitale sulla società. Un percorso di lettura
Luigi Cavallaro
Nell’autunno 1980, gli indicatori dell’economia italiana
mostravano un andamento contrastato. Nonostante una rilevante crescita del
reddito nazionale, in decisa controtendenza rispetto agli altri Paesi
industrializzati, la bilancia dei pagamenti era passata dal consistente avanzo
realizzato nel biennio 1977-78 ad un ancor più largo disavanzo. L’inflazione
viaggiava al ritmo del 2% al mese, con aspettative di peggioramento rese
evidenti dal sostenuto aumento dei prezzi dei benirifugio. La Banca d’Italia,
benché avesse riconquistato quell’autorevolezza che aveva visto vacillare
durante l’affaire Baffi-Sarcinelli, faticava non poco nella gestione
della liquidità: cinque anni prima, in occasione della riforma dell’emissione
dei Buoni ordinari del Tesoro (Bot), si era infatti impegnata ad acquistare
tutti i titoli pubblici che fossero rimasti invenduti in asta, accettando di
fatto di finanziare i disavanzi del Tesoro con l’emissione di moneta. Non solo,
ma il Tesoro poteva attingere ad un’apertura di credito in conto corrente pari
al 14% delle spese iscritte in bilancio e deteneva il potere di modificare il
tasso di sconto, vale a dire il tasso a cui la Banca presta denaro alle altre
banche del sistema e che di fatto decide dell’intera struttura dei tassi
d’interesse. I quali, nonostante il brusco rialzo subito sui mercati
internazionali a seguito della svolta monetarista voluta l’anno precedente dal
Governatore della Federal Reserve, Paul Volcker, si mantenevano perciò
ancora negativi, ossia al di sotto dell’inflazione.
Un problema di potere
Al Ministero del Tesoro si
era appena insediato il democristiano Nino Andreatta. Già consigliere economico
di Aldo Moro, negli anni Sessanta era entrato in contatto con diversi giuristi
ed economisti che, pur avendo gravitato a lungo intorno ad Antonio Giolitti
(ministro socialista al tempo dei primi governi di centrosinistra e deciso
sostenitore della programmazione economica), si stavano gradatamente spostando
su posizioni più conservatrici, timorosi che l’assetto istituzionale, già spinto
su posizioni assai progressive dall’azione combinata dei governi del decennio
precedente e della ribellione operaia e studentesca, potesse subire ulteriori
slittamenti in senso “statalista”. Ne facevano parte, tra gli altri, Giuliano
Amato e Francesco Forte, e Andreatta condivideva le medesime loro
preoccupazioni: “Quando la spesa pubblica raggiunge il 55% del Pil – avrebbe
detto ad esempio nel 1981, in occasione di un intervento all’assemblea nazionale
della Dc – si sono raggiunti livelli oltre i quali l’equilibrio tra area
amministrata e area libera dell’economia appare impossibile da salvaguardare”.
Appena dissimulato dietro il
linguaggio felpato dell’economista fedele al mainstream, emerge qui con
chiarezza un punto politico: il comando pubblico sulla moneta si traduceva di
fatto in un comando pubblico sul capitale monetario, perché la Banca centrale,
obbligata ad emettere tutta la base monetaria di cui lo stato necessitava per
perseguire le proprie finalità produttive, redistributive e di stabilizzazione,
non poteva più assecondare la tendenza del capitale monetario a “rarefarsi”
allorché mancassero adeguate prospettive di profitto. Keynes aveva colto in
questa attitudine della moneta a ritrarsi dalla circolazione “il potere
oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del
capitale ”, e aveva avvertito che in una società che fosse finalmente riuscita a
venire a capo dei propri problemi di arretratezza non vi sarebbe stato
logicamente posto se non per un saggio medio del profitto progressivamente
decrescente; ciò che deliberatamente aveva omesso di dire era che ne sarebbe
venuta la tendenza dell’economia pubblica a “socializzare” sempre più la
produzione e riproduzione sociale – questo e non altro era l’“ eutanasia del
rentier”!
Di questo rischio era invece
consapevole Carlo Azeglio Ciampi, da poco asceso al soglio di Governatore della
Banca d’Italia. Proprio per ciò, a suo avviso bisognava sopprimere il legame in
quel momento esistente tra il potere di creazione della moneta e quello di
decidere l’ammontare della spesa pubblica, il che imponeva che si rimettesse
mano ai modi in cui la Banca centrale finanziava il Tesoro: “In particolare, è
urgente che cessi l’assunzione da parte della Banca d’Italia dei Bot non
aggiudicati alle aste”, si legge nelle Considerazioni finali del 1981. E
Andreatta, pur essendo d’accordo, si trovava ostaggio di una compagine
governativa che – per dirla con le sue stesse parole – era “ossessionata
dall’ideologia della crescita ad ogni costo” e non intendeva affatto abbandonare
quella combinazione di alta spesa pubblica, tassi d’interesse negativi e cambio
debole che fino ad allora l’aveva resa possibile, nonostante gli sconquassi
internazionali generati dal secondo shock petrolifero.
Si arrivò così all’idea di
una “congiura aperta” (la definizione fu dello stesso Andreatta) tra il ministro
del Tesoro e il Governatore della Banca d’Italia, che potesse restituire
all’istituto di emissione l’agognata autonomia. Il 12 febbraio 1981, Andreatta
scrisse a Ciampi una lettera in cui esprimeva i propri dubbi sull’opportunità
che la Banca d’Italia si facesse garante della collocazione dei titoli di stato
al tasso voluto del Governo e dovesse per giunta finanziare il Tesoro con lo
scoperto di conto corrente, auspicando che la Banca recuperasse la propria
libertà di autodeterminazione su entrambi i fronti. Il 6marzo, Ciampi rispose
manifestando il suo assenso sulle “linee di ragionamento ” dell’interlocutore e
ricordando come “a conclusioni similari” fosse pervenuto in occasione della
relazione tenuta il 18 febbraio precedente all’Associazione Nazionale di Banche
e Banchieri.
Fu il “divorzio”. Il quale
non venne neanche portato all’approvazione del Comitato interministeriale per il
credito e il risparmio (Cicr): le proteste e le critiche levatesi da parte
socialista, repubblicana e anche democristiana all’indomani della pubblicazione
dello scambio epistolare con Ciampi indussero infatti Andreatta a trincerarsi
dietro un paravento giuridico escogitato dai tecnici del Tesoro (secondo i quali
la revisione delle disposizioni impartite alla Banca d’Italia rientrava nella
competenza esclusiva del Ministro) allo scopo di scansare il rischio che la sua
decisione venisse affossata.
Socializzare gli investimenti
Nell’opinione dei due
“congiurati” il controllo amministrativo del credito – ossia il comando pubblico
sul capitale monetario – non consentiva più di tenere l’economia italiana al
riparo dall’inflazione e dagli squilibri della bilancia dei pagamenti: per
restare al riparo dal rialzo dei tassi d’interesse internazionali sarebbe stato
necessario procedere ulteriormente sulla strada keynesiana della
“socializzazione dell’investimento”. Una strada “agghiacciante”, come avrebbe
scritto Guido Carli nelle sue memorie, perché implicava che la Banca centrale e
il sistema bancario diventassero semplici organi esecutivi delle decisioni
allocative del Governo e che gli eventuali vincoli all’espansione monetaria
derivanti dallo squilibrio della bilancia dei pagamenti potessero influire solo
sul volume di credito disponibile per il settore privato: giusto come in Urss.
Le conseguenze del “divorzio”
furono immediate: le aste dei Bot tenutesi a partire dal secondo semestre 1981
segnarono il ritorno dei tassi d’interesse su livelli positivi, scongiurando il
pericolo incipiente dell’eutanasia dei redditieri. C’era però un problema,
perché in un contesto internazionale dominato da alti tassi d’interesse il
ricorso dello stato ai mercati finanziari era destinato inevitabilmente ad
aumentare la quota di spesa pubblica destinata alla semplice remunerazione del
denaro preso a prestito. Nell’ottica dei “congiurati ”, in effetti, il venirmeno
dell’obbligo della Banca centrale di finanziare il Tesoro avrebbe dovuto indurre
la classe politica a ridurre la spesa pubblica e, con essa, lo spazio
dell’intervento pubblico nella produzione e riproduzione sociale: prendendo a
prestito le parole di Andreatta, “l’equilibrio tra area amministrata e area
libera dell’economia” avrebbe dovuto ricostituirsi ad un livello che vedesse
quest’ultima tornata in una posizione di supremazia. Complice una Costituzione
repubblicana decisamente “interventista”, non la penserà propriamente allo
stesso modo la classe politica al governo, nemmeno quando a Palazzo Chigi salirà
Bettino Craxi. E accadrà così che, sebbene nel decennio successivo il saldo tra
entrate e uscite pubbliche al netto degli interessi si mantenesse quasi
costantemente positivo, il debito pubblico giungerà praticamente a raddoppiare,
passando dal 58% del 1981 al 124% del 1992.
Leonardo Sciascia l’avrebbe
probabilmente definita “una storia semplice ”. Mostra che all’origine del nostro
debito pubblico non c’è affatto un eccesso di spese sociali rispetto alle
entrate, e nemmeno la famigerata evasione fiscale: c’è solo un’aumentata spesa
per interessi, a sua volta conseguenza del “divorzio” fra Tesoro e istituto di
emissione.
Più che una “tangente”, come
titolò questo giornale vent’anni fa per definire la pesantissima manovra
finanziaria con cui il governo Amato dava l’avvio ad una stagione non più
consentanea rispetto all’espansione della spesa pubblica, si trattava di una
tassa: una tassa che il capitale nuovamente egemone tornava a imporre alla
società per riprodursi come modo di produzione dominante.
La riduzione del danno
Si comincia solo adesso a far
strada l’idea che la lotta di classe si dispiega oggigiorno intorno al debito
pubblico. Sfortunatamente, a prevalere (anche a sinistra) sono ancora visioni
del problema ispirate da concezioni essenzialmente libertarie, che nel debito –
pubblico o privato che sia – vedono semplicemente quel rapporto di potere e di
asservimento che indusse Nietzsche a collocarlo a monte della genealogia della
nozione di “colpa ”: in lingua tedesca, infatti, Schuld vuol dire sia
l’una che l’altra cosa.
Sfortunatamente, da Nietzsche
non s’impara mai nulla dal punto di vista propriamente storico: egli parla
sempre del presente, il presente del suo tempo dominato dal capitale
finanziario, e tutte le sue ricostruzioni sono puramente mitiche. Pensate e
scritte ad uso e consumo della piccola borghesia austro-tedesca di fine
Ottocento, oppressa da banche e cartelli la cui storia reale fu invece
magistralmente narrata da Rudolf Hilferding, giammai possono offrire una base
scientifica per comprendere il nostro presente e tentare di trasformarlo. La
riprova è che tutte le suggestive fenomenologie dell’“uomo indebitato ” apparse
in questi quattro anni ormai trascorsi dall’esplosione della crisi finanziaria
precipitano inevitabilmente nell’idea alquanto naif del “ripudio” del
debito, magari dietro preventivo audit. Sovviene al riguardo un celebre
articolo del giovane Gramsci sui tardivi piagnistei degli “indifferenti”:
“eterni innocenti” di una storia che si è fatta anche e soprattutto grazie al
loro “lasciar fare” e che, quando gli eventi che hanno lasciato che accadessero
gli si voltano contro, bestemmiano o piagnucolano di “fallimenti ideali, di
programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze”. La
generazione del baby boom ne offre purtroppo un vasto campionario.
I vincoli esterni
D’altra parte, la pur giusta
rivendicazione della necessità del debito pubblico (o meglio, di una
spesa pubblica non condizionata da obiettivi di remunerazione del capitale)
non può non misurarsi con il problema rappresentato dall’assenza di un
meccanismo internazionale del tipo di quello che Keynes aveva prospettato nella
sua celebre proposta della Clearing Union (1941), ossia capace di evitare
che l’onere dell’aggiustamento degli squilibri nelle bilance dei pagamenti
ricada per intero sui Paesi debitori: il problema del “vincolo esterno”, dietro
il quale si nasconde la propagazione all’estero degli effetti moltiplicativi
della spesa pubblica interna, non è infatti allo stato in alcun modo eludibile,
se non (e non indefinitamente) dagli Stati Uniti, che battono la moneta di
riserva mondiale.
In questo senso, hanno
ragione quanti individuano una linea di continuità tra la proposta di
“austerità” che fu di Enrico Berlinguer e la politica dei “sacrifici” che ci
viene imposta dal Governo in carica. Salvo che, nell’un caso, si trattava di
farsi portatori di “un modo diverso del vivere sociale”, attento alla qualità
dello sviluppo e proprio per ciò orientato dall’esigenza di spostare gli
obiettivi della produzione dallo stimolo ai consumi privati al soddisfacimento
in forma pianificata di bisogni collettivi, mentre nell’altro si tratta
banalmente di deflazionare la domanda interna allo scopo di pareggiare lo
squilibrio della bilancia dei pagamenti e di spezzare le reni al lavoro
dipendente inmodo da garantire il mantenimento dei margini di profitto a
produzioni private non più competitive sul piano internazionale. Non è una
differenza da poco.
SCAFFALE ·
Il nodo dell’autonomia
monetaria
Le vicende che portarono al
“divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia sono accuratamente ricostruite – in
chiave apologetica, beninteso – in un imperdibile volumetto dell’Arel,
“L’autonomia della politica monetaria. Il divorzio Tesoro-Banca d’Italia
trent’anni dopo”, con scritti di Andreatta, Ciampi, Draghi, Monti e altri (il
Mulino, pp. 130, euro 11). Per le visioni attualmente prevalenti nella sinistra
d’alternativa circa il debito, si vedano in specie François Chesnais, “Debiti
illegittimi e diritto all’insolvenza” (DeriveApprodi, pp. 165, euro 10) e
Maurizio Lazzarato, “La fabbrica dell’uomo indebitato ” (DeriveApprodi, pp. 179,
euro 12), che nei mesi scorsi hanno dato vita ad un ampio dibattito su queste
colonne e su Alias. Sulla necessità del debito pubblico è tornato recentemente a
insistere Giovanni Mazzetti (“Ancora Keynes?!”, Asterios, pp. 93, euro 8). La
questione del “vincolo esterno” è invece ben presente nell’ottimo pamphlet di
Emiliano Brancaccio e Marco Passarella, “L’austerità è di destra. E sta
distruggendo l’Europa” (il Saggiatore, pp. 153, euro 13), già recensito
criticamente su queste colonne da Andrea Fumagalli lo scorso 7 giugno.
(lu.c.)