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Opuscolo Governo di Blocco Popolare elaborato dal Settore Agitazione e Propaganda del
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Avviso ai naviganti n. 8
La seconda crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale

23.03.2012

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Avviso ai naviganti 9

14.05.2012

Una grande iniziativa

Cosa insegna a noi e al mondo la piccola iniziativa del Sindacato Lavoratori in Lotta di Napoli.

(Scaricate il testo in versione PDF)

Molte, di vario genere e in ogni campo dell’attività umana, spesso tra loro contraddittorie sono le manifestazioni della nuova crisi generale in cui l’umanità degrada e si aggroviglia ogni giorno un po’ più in una sequela di sofferenze, distruzioni, invenzioni inutili, gesti di disperazione, crimini di ogni genere e guerre. Si diffonde però la resistenza delle masse popolari al procedere della crisi, mentre ancora dispersi e isolati, benché sempre più diffusi sono ancora i progetti, i germi e i fermenti della rinascita, proprio per questo preziosi per chi lavora alla costruzione del futuro.

È ovvio che, confrontati personalmente più o meno fortemente all’una o all’altra delle manifestazioni della crisi, chi non ha riflettuto a fondo sulla natura e la fonte della crisi o è incapace di capirle, proponga questa o quella soluzione di buon senso, come di fronte a una malattia dalle multiformi manifestazioni fa chi non ne conosce la natura. Non c’è poi uomo politico e intellettuale borghese che di questi giorni non si senta in dovere di proporre una soluzione: o per indicare una via della cui efficacia è convinto o semplicemente per distogliere dalla rivolta. Di solito di fronte a ognuna di queste proposte è facile mostrare che è inconsistente e comunque la realtà impietosa smentisce inesorabilmente quelle che sono messe in opera. Nessun rimedio di buon senso all’una o all’altra manifestazione della crisi generale vi pone fine, perché la crisi proviene dalla struttura di base della società: nei migliore dei casi i rimedi di buon senso si attaccano ai sintomi ma non curano la malattia.

In realtà la nuova crisi generale che deforma e sollecita l’umanità ogni giorno un po’ più, ha la sua origine nell’impossibilità di produrre, distribuire e usare i beni e servizi necessari all’umanità per vivere dignitosamente al livello di civiltà raggiunto, finché si attiene alle relazioni proprie del modo di produzione capitalista. Il sistema di relazioni sociali di ogni paese e il sistema di relazioni internazionali attualmente vigenti sono il risultato di un processo storico vario e più o meno ricco di forme e passaggi da paese a paese. Ma essi hanno tutti alla loro base la produzione capitalista di beni e servizi: la produzione di beni e servizi fatta da proletari assunti nell’azienda che il capitalista ha creato per aumentare il denaro che egli possiede, beni e servizi che il capitalista vende poi sul mercato. Questo modo di produzione si è sviluppato nella sua pienezza in Europa e la borghesia europea nel corso degli ultimi secoli l’ha diffuso e imposto in tutto il mondo.

Il superamento della produzione capitalista di beni e servizi è stato l’oggetto della prima ondata della rivoluzione proletaria mondiale svoltasi nella prima parte del secolo scorso. La prima ondata iniziata in paesi ai margini del  sistema imperialista mondiale si è esaurita perché il movimento comunista (a causa di suoi limiti nella comprensione delle condizioni, delle forme e dei risultati della lotta di classe) non è riuscito a coinvolgere in essa i principali paesi imperialisti. L’esaurimento della prima ondata ha ricondotto nell’ambito del sistema imperialista mondiale anche i primi paesi socialisti e le lotte antimperialiste di liberazione nazionale che nel corso di quella prima ondata hanno posto fine al sistema coloniale, in conclusione hanno portato a una maggiore integrazione dei paesi interessati nel sistema imperialista mondiale.

Il sistema imperialista mondiale oggi è una gigantesca combinazione di istituzioni, gruppi e Stati e delle rispettive relazioni variamente configurate di paese in paese. L’attuale combinazione è il risultato della lotta infine vittoriosa della borghesia imperialista contro la prima ondata della rivoluzione proletaria mondiale, una vittoria che è sfociata nella supremazia della borghesia imperialista USA e nell’attuale Comunità Internazionale presieduta dal governo di Washington e benedetta dal papa di Roma. È proprio questa combinazione che è in crisi per la malattia che internamente corrode e debilita la società borghese, sono le sue istituzioni che si disgregano e si riducono sempre più alle istituzioni militari. Con le manovre e le contorsioni le più varie la borghesia e il clero cercano di conservare l’attuale sistema di relazioni internazionali e di mantenere in ogni paese le masse popolari nell’ambito del sistema di relazioni sociali di cui gli esponenti della borghesia e del clero sono espressioni, agenti, funzionari e beneficiari. È una combinazione fatta di molte istituzioni e relazioni, ma essa non è che una variopinta e gigantesca sovrastruttura del vecchio capitalismo fatto di aziende capitaliste che producono merci. La sovrastruttura è talmente cresciuta che sembra vivere di vita propria. Persino molti suoi attori sono convinti di aver scoperto il modo di moltiplicare il capitale senza produrre merci, di passare dal denaro a più denaro tramite le operazioni finanziarie e la speculazione. Ma tutto questo enorme edificio in realtà posa sul vecchio capitalismo: su una miriade di piccole, medie, grandi e gigantesche aziende capitaliste che assumono proletari e fanno loro produrre beni e servizi che esse poi vendono sul mercato. È proprio questa base che è in crisi: qui sta la malattia i cui sintomi si manifestano in modo tanto appariscente anche nella sovrastruttura. È a causa della crisi di questa base che la sovrastruttura si è prima per circa 30 anni ingigantita e infine tra il 2007 e il 2008 è esplosa. Tutti i rimedi suggeriti dagli esponenti della borghesia, dagli intellettuali e studiosi borghesi, dagli esponenti della sinistra borghese riguardano le manifestazioni della crisi che si presentano in questa gigantesca sovrastruttura. Per questo sono inefficaci.

 

Né Roosevelt né Mitterrand! Tanto meno Hollande!

Penso che nessuno obietterà se dico che nel nostro paese il manifesto è il più autorevole quotidiano portavoce della sinistra borghese. Non obietteranno nemmeno Valentino Parlato e i suoi redattori una volta che sia chiaro che non uso l’espressione sinistra borghese come un insulto, ma per indicare l’insieme di quegli uomini politici e intellettuali che sono scontenti del corso delle cose e anzi in varie e differenti maniere si oppongono ad esso, ma che pur nella diversità delle loro riflessioni, delle loro critiche, delle loro concezioni e delle loro proposte, non oltrepassano l’orizzonte della società capitalista e delle sue relazioni sociali e, in particolare, rinnegano l’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria e in particolare l’esperienza dell’Unione Sovietica e dei primi paesi socialisti, rifiutano di considerarla l’assalto al cielo più avanzato finora condotto dall’umanità, da cui imparare per condurre con scienza maggiore e con successo il prossimo assalto al cielo.

A seguito dell’elezione domenica 6 maggio del candidato socialista François Hollande a presidente della Repubblica Francese, proprio su questo quotidiano sono comparsi alcuni articoli che riporto in appendice e di cui  consiglio la lettura, perché esemplari dell’orizzonte culturale entro cui gli esponenti della sinistra borghese sono rinchiusi.

Inizia martedì 8 maggio Rossana Rossanda con l’editoriale La Francia chiama. Le sue banali proposte di buon senso sono esemplari di tante altre che si leggono su il manifesto e altrove. Rossanda ha fiducia in Hollande e a conforto della sua fiducia cita Roosevelt (omettendo di dire che la crisi di allora non venne risolta dalle sue riforme, ma dalle rivoluzioni e dalle guerre) e Mitterrand (omettendo di dire che i buoni propositi di riforma formulati nel 1981, li abbandonò nel 1983 per darsi alle privatizzazioni e alla imposte sui consumi). Ovviamente le tesi di Rossanda sono ridicolizzabili come tutte le altre tesi formulate dagli esponenti della sinistra borghese: cosa che non si perita di fare il sagace Joseph Halevi giovedì 10 maggio (Le contraddizioni di Hollande) sempre su il manifesto, suscitando l’ira di Rossanda che su il manifesto di venerdì 11 maggio (E noi?) a denti stretti riconosce che le proposte sue e i propositi di Hollande forse non valgono granché, ma almeno sono qualcosa: meglio, suggerisce Rossanda, dell’inerzia ebete e sconclusionata della sinistra (borghese) italiana che si esprime tramite il manifesto. In realtà si tratta di qualcosa d’altro che d’inerzia. Lo mostra implicitamente ma chiaramente l’articolo La crisi e la sinistra di Alberto Burgio pubblicato negli stessi giorni (10 maggio) sempre su il manifesto. In esso infatti Burgio si spinge fino a riconoscere che la crisi attuale, nonostante le più appariscenti manifestazioni in campo finanziario e in altri campi dell’attività umana, ha in realtà la sua fonte nella produzione capitalista di beni e servizi. Riconoscimento a cui Burgio fa seguire però la proposta di ritornare a una gestione del capitale da parte delle pubbliche autorità tipo la gestione degli anni ’70, che egli contrappone alla gestione privata. Apparentemente una proposta assurda perché prescinde dai motivi per cui nei paesi imperialisti la classe dominante era addivenuta a una certa direzione dello Stato sulla produzione capitalista di beni e servizi e dai motivi per cui ha poi in larga misura privatizzato banche, industrie e servizi pubblici (proprio Mitterrand insegna!). Ma in realtà una proposta che è una conseguenza logica del rifiuto (o dell’incapacità: a forza di non voler vedere una cosa si finisce per essere incapaci di vederla) della sinistra borghese di vedere oltre l’orizzonte del modo di produzione capitalista, di concepire che i lavoratori organizzati possono essi stessi produrre, distribuire e usare beni e servizi senza più bisogno dei capitalisti.

 

Il Sindacato Lavoratori in Lotta con la sua piccola iniziativa indica la via!

È questo contesto che conferisce grande importanza storica, politica e intellettuale all’iniziativa, pur piccola come dimensioni, del Sindacato dei Lavoratori in Lotta (SLL) di Napoli. Infatti essa mostra la strada che l’umanità deve seguire in questa fase della sua storia. Perché dà luogo a una produzione di beni e servizi messa in opera da lavoratori organizzati: il modello di qualcosa che, a determinate condizioni politiche, può estendersi illimitatamente fino a soppiantare la produzione capitalista di beni e servizi.

A Napoli a fine aprile il Sindacato Lavoratori in Lotta (SLL), un movimento di disoccupati organizzati, ha organizzato la pulizia della zona arenile di S. Giovanni a Teduccio - Fuorigrotta. Ha chiamato “Estate Pulita” l’operazione di rimessa in stato dell’arenile da svolgersi tra maggio e giugno. I lavoratori che contribuiranno all’operazione si pagheranno il lavoro svolto facendo la spesa in due supermercati della zona: Auchan di via Argine - Ponticelli e CD di via Leopardi. È una piccola iniziativa perché riguarda pochi disoccupati su almeno 350 mila giovani e adulti senza lavoro della provincia di Napoli, ma è un germe del futuro. Questo fa di essa una grande iniziativa. In Italia esistono molte altre iniziative di produzione cooperativa di merci e di produzione collettiva per l’autoconsumo. Proprio questo rende ancora più significativa l’iniziativa del SLL: perché parla,  può parlare ai promotori e attori di tutte queste altre iniziative e portarli a capire e a risolvere le difficoltà che incontrano. Essa infatti è l’esempio di un’iniziativa che non coinvolge solo i lavoratori che direttamente vi partecipano, ma si combina direttamente con la lotta politica e sociale in corso nel paese.

Io non sono in grado di indicare se e in quale misura l’iniziativa del SLL si combina efficacemente con la lotta per promuovere la trasformazione dell’Amministrazione Comunale (AC) di Napoli in una Amministrazione Comunale d’Emergenza (ACE) impegnata a sua volta nel movimento per costituire un governo d’emergenza popolare, il Governo di Blocco Popolare (GBP) che di simili iniziative alimenterebbe la sua attività. Ma si tratta di una combinazione per lo meno ricercata dai promotori e del tutto possibile.

Vediamo infatti come, a partire dall’iniziativa del SLL, potrebbe svolgersi un’operazione combinata tra SLL, Amministrazione Comunale (AC) e municipalità, lavoratori e dirigenti dei due supermercati, altri enti interessati, nell’ambito della creazione di Amministrazioni Comunali decise a impegnarsi a far fronte alla crisi, divenire Amministrazioni Comunali d’Emergenza e a contribuire a costituire il Governo di Blocco Popolare.

L’operazione esige una certa attrezzatura e un dato numero di ore di lavoro-uomo. L’attrezzatura può essere in via provvisoria reperita presso le aziende che già lavorano nel settore (ASTIR, Arpac Multiservizi, Napoli Servizi o fatta anticipare da negozi che li vendono). Ai prezzi correnti costa X euro. Le ore di lavoro-uomo sono grossomodo valutabili in Y. SLL distribuisce punti-lavoro ai lavoratori in ragione di un punto ogni ora di lavoro svolto (se occorre distinguere la remunerazione dei vari tipi di lavori, è semplice farlo). I lavoratori organizzati dal SLL si presentano insieme ai supermercati, fanno la spesa e pagano con i punti-lavoro. Quanto all’organizzazione e all’esecuzione la pulizia dell’arenile è un’attività direttamente collettiva. La spesa invece combina un aspetto collettivo (la fanno insieme) con un aspetto individuale (ognuno compra quello che decide lui). I punti-lavoro assegnati permettono di combinare i due aspetti. Quando i lavoratori si presentano insieme alle casse, potrebbero nascere contrasti. Non nasceranno se l’Amministrazione Comunale o chi per essa con il SLL ha in tempo utile preso contatto con i lavoratori dei due supermercati e con i dirigenti locali e superiori degli stessi. A questi l’AC e il SLL hanno spiegato l’operazione “Estate Pulita” e hanno chiesto di accettare i punti-lavoro in pagamento (computando ai prezzi correnti ad esempio 15€ per ogni punto-lavoro) e di presentarli successivamente alla banca BB dove l’AC ha un suo conto, la quale come da accordi trasferirà dal conto dell’AC ai conti dei supermercati la somma di euro corrispondente ai punti-lavoro depositati. Ai lavoratori dei supermercati, già organizzati in sindacati o in altri organismi o sollecitati a organizzarsi, l’AC e il SLL hanno spiegato l’operazione “Estate Pulita” e hanno chiesto di collaborare all’operazione sorvegliando che i dirigenti dei due supermercati non facciano scherzi (aumentare i prezzi, far sparire alcuni beni, ecc.).

 

Certamente molti sono in grado di suggerire un meccanismo migliore di quello che io ho esposto: ben vengano.

I lavoratori hanno bisogno di avere beni e servizi che i due supermercati non hanno: è vero, quindi l’iniziativa tanto più diventa significativa e feconda quanto più viene estesa e ripetuta su scala più grande, coinvolgendo più centri di distribuzione di beni e di erogazione di servizi.

Ma immaginate quanto anche solo l’iniziativa descritta, conducibile con il semplice meccanismo descritto, rafforzerebbe l’organizzazione dei disoccupati; quanti altri movimenti di disoccupati organizzati si metterebbero in moto e individuerebbero e organizzerebbe operazioni socialmente utili analoghe a “Estate Pulita”; quanto il semplice meccanismo descritto rafforzerebbe l’organizzazione dei lavoratori dei centri di distribuzione di beni e di erogazione di servizi e dei lavoratori dei diversi settori; quanto meccanismi analoghi mobiliterebbero e  coinvolgerebbero i lavoratori di aziende minacciati di fallimento, chiusura o delocalizzazione; quanto implicherebbero l’AC nella realizzazione della parola d’ordine “un lavoro utile e dignitoso per ogni adulto”. Immaginate decine, centinaia, migliaia di iniziative simili e vedrete come andiamo verso il futuro.

Certamente l’AC si troverebbe presto di fronte a problemi e i suoi rapporti con le banche si complicherebbero perché gli euro che versa sul conto dei supermercati non rientreranno tutti nel conto AC per pagamenti che i supermercati devono all’AC. Queste complicazioni porteranno l’AC a collaborare alla costituzione di un governo d’emergenza che riprodurrebbe a livello nazionale meccanismi analoghi a quelli sopra descritti, più raffinati e su scala più grande, coinvolgendo tutto il tessuto economico del paese a produrre beni e servizi utili, invertendo il corso di fallimenti e chiusura di aziende che fa del nostro paese un cimitero di aziende chiuse e di stabili in disuso, smettendo la produzione di porcherie che hanno una funzione utile per i capitalisti che si arricchiscono, ma inquinano e avvelenano lavoratori, utilizzatori e tutta la popolazione e l’ambiente.

Certamente alcuni obietteranno che non è possibile espandere illimitatamente la produzione dei beni e servizi oggi prodotti. Questa espansione illimitata significherebbe il saccheggio del pianeta e la distruzione delle condizioni ambientali della vita umana. Cosa del tutto vera e che vale sia per la crescita intesa come crescita di beni e servizi a uso individuale sia per la crescita intesa come lancio di gradi opere pubbliche e infrastrutture, intese ad aumentare l’occupazione (quindi in sostanza come ammortizzatori sociali) o come supporto di grandi speculazioni finanziarie. Ma è la produzione capitalista di beni e servizi che comporta la crescita illimitata della quantità di beni e servizi prodotta, perché questa è solo il veicolo dell’aumento del capitale che per sua natura non tollera limiti. Al contrario i lavoratori organizzati possono senza difficoltà limitare settore per settore la produzione di beni e servizi alla quantità adeguata alla vita dignitosa della popolazione.

Certamente alcuni obietteranno che oggi ci sono più lavoratori di quello che occorrono per produrre beni e servizi nella quantità adeguata alla vita dignitosa della popolazione. Cosa vera e suscettibile di grandi sviluppi di civiltà e progresso. Ci sono più lavoratori di quelli necessari per produrre i beni e servizi utili per il consumo nazionale e per lo scambio, la collaborazione e la solidarietà con altri paesi. Ma proprio grazie a questo tutti i lavoratori potranno finalmente dedicare tempo ed energie all’organizzazione, alla progettazione e alla gestione della vita sociale e delle operazioni produttive e no, al controllo sulle attività dei dirigenti e degli organismi (trasparenza), all’istruzione, alla cultura, al turismo, alla ricerca, al divertimento, alle relazioni sociali e al riposo.

Il grande insegnamento della piccola (per dimensioni) iniziativa del SLL sta proprio nel fatto che essa mostra una via che risolve la crisi del capitalismo. Essa toglie il capitalismo e sostituisce alla produzione capitalista di beni e servizi la produzione di beni e servizi promossa e condotta da lavoratori organizzati.

Pensate ora a un’organizzazione di lavoratori che dal livello locale si dirama e si combina a livello regionale, nazionale e internazionale creando tutte le istituzioni necessarie e avrete qualcosa che si approssima a quella “associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti” che il Manifesto del partito comunista (1848) indica come obiettivo che l’umanità può e deve realizzare a partire dal capitalismo, superandolo.

 

L’iniziativa del SLL è quindi degna di studio. Essa contiene in embrione il futuro, è un germe del futuro. Per questo credo che tutti i comunisti devono sostenere questa iniziativa e altre iniziative analoghe, moltiplicarle e svilupparne le premesse implicite.

Nicola Parenti

 


 

Appendice: proposte di esponenti della sinistra borghese

1. La Francia chiama - Rossana Rossanda, il manifesto 08 maggio 2012

 

François Hollande, socialista, è il nuovo presidente di Francia. Ed è la prima grossa spina nel fianco dell'Europa liberista. Della quale rifiuta le politiche di rigore e quindi il trattato intergovernativo sulla regola d'oro. Lo ha ripetuto instancabilmente, ancora domenica a mezzanotte, davanti alla folla stipata sulla piazza della Bastiglia, una folla mai vista, inattesa, che si è raccolta in tutte le piazze dell'esagono, prima di tutto in quella del suo collegio nella Corrèze, poi nel piccolo aeroporto di Brive, poi all'arrivo nell'aeroporto del Bourget e di là un corteo improvvisato di moto, auto, biciclette ad accompagnarlo - corteo allegro fitto e pericoloso - fino a Parigi, dove il servizio d'ordine ha stentato a fargli strada fino al palco sulla Bastiglia. La gente lo aspettava dalle otto, appena la vittoria era stata annunciata, zeppa di giovani e giovanissimi, di inattese bandiere di altri paesi, di gente felice. Felice era anche lui, Hollande, ma - ha subito aggiunto - «felici sì, euforici no, molte difficoltà ci attendono. Dovremo batterci, sia io che voi». 

Non si può dire che abbia seminato illusioni. È il primo presidente socialista dopo Mitterrand, ma nel 1981 la situazione era meno grave di oggi. Ha ribadito, martellandoli, gli impegni cui non potrà sottrarsi. Due prioritari: più uguaglianza nei mezzi (dunque più lavoro, priorità alla grande disoccupazione giovanile, più potere d'acquisto con aumento subito del salario minimo) e nei diritti (fine di ogni discriminazione degli immigrati). E più giustizia redistributiva. Fine dei tagli nei servizi sociali, sessantamila nuovi impieghi fra sanità e scuola. E tutto questo pagato come? Non solo con i risparmi, ma con la crescita e tassando gli alti redditi fino al 75 per cento - cagnara dell'opposizione, ignara che Roosevelt era arrivato all'83. Tira un'aria di new deal, la destra e i moderati di Le Monde mettono le mani avanti. 

È vero, ma Hollande, differentemente da Sarkozy, è un economista; uscito dalla ENA ai primi posti, sa che cosa è un bilancio, non straparla. Sa che la Francia ha un debito pubblico maggiore del nostro, anche se di minori proporzioni rispetto al Pil, ma sa anche che il rigore unilaterale non porta da nessuna parte, se non alla catastrofe economica della Spagna e a quella anche politica di una Grecia spaccata in quattro. Sa che di crescita si parla ormai un po' dappertutto, ma le ricette sono opposte: Hollande precisa che la sua si fa con l'aumento degli occupati, l'incremento delle tecnologie, e la tassazione degli alti redditi. Non crede affatto che si cresca tassando duramente pensioni, salari, servizi sociali ed enti locali, che riducono sia il potere d'acquisto dei più deboli sia le entrate pubbliche, e non è affatto persuaso - come Monti e la sinistra italiana - che i ricchi non devono essere disturbati perché investano nella produzione. Essi investono nella finanza «ed è la finanza - ha detto - il mio nemico». Pareva, al trio Merkel Sarkozy Monti e alla stampa al loro seguito, che dovesse venire giù il mondo. Ma i mercati sono più innervositi dalla Grecia che dalla svolta francese. 

Calmo, deciso, normale quanto era agitato Sarkozy, alla mano, serio e non privo di humour, la vittoria di Hollande è quella di un uomo deciso, con un'idea in testa e capace di tessere attorno a sé tutte le forze del già rissoso Partito socialista e delle altre sinistre. Prenderà formalmente i poteri il 15 maggio, partirà subito per Berlino, poi per gli Stati Uniti, e al ritorno sarà davanti alle elezioni legislative dalle quali deve ricevere una maggioranza. È assai probabile che la avrà, e che dovrà negoziare con Jean-Luc Mélenchon (Front de gauche), che lo ha sostenuto con i suoi quattro milioni di voti, senza porre condizioni ma in autonomia (nelle legislative può averne di più, era arrivato nei sondaggi al 17 per cento, battendo il Fronte nazionale nelle zone operaie) e  con i Verdi, il cui basso risultato al primo turno delle presidenziali si deve alle strettoie della legge di de Gaulle. Mélenchon lo incalzerà sui salari e sull'Europa, Eva Joly sul nucleare. Sull'Europa si tratta di modificare, fra le regole, l'interdizione alla Bce di finanziare gli Stati, sul nucleare di passare alle energie alternative per sostituire ben 58 centrali (cui attinge anche l'Italia). Un programma gigantesco, che incontrerà più ostacoli a Bruxelles che a Washington. 

Intanto, nell'interregno cui è costretto fino al 15 maggio e, in buona parte, fino alle legislative, Hollande ha deciso due piccole cose che poteva decidere - ha ridotto del 30 per cento le indennità del presidente della Repubblica e dei ministri, e ha interdetto il cumulo delle cariche, fine dei sindaci ministri e dei ministri sindaci. Vecchia tradizione del notabilato che si rompe, come si è rotto ieri il primato di Parigi nel cerimoniale della nomina del Presidente. Hollande ha parlato prima nel suo collegio che nella capitale ed è uno strappo grosso. Anche se la capitale ha votato massicciamente per lui, come tutti i grandi centri urbani, periferie difficile incluse. Il Fronte nazionale appare forte ma radicato, salvo alcune zone al sud, nello scontento delle campagne. 

Insomma, tempi difficili ma un varco in Europa si è aperto. In direzione opposta alla risorgenza delle destre. Farebbero bene a pensarci in Italia sia Bersani, sia Giorgio Napolitano artefici dell'unità nazionale liberista. E tutti gli araldi dell'inevitabilità dell'antipolitica, dell'astensionismo e della fine di una differenza fra destra e sinistra. Dove una sinistra ha il coraggio di esistere e dichiararsi tale, può vincere. La Francia, esplicitamente divisa, vede più chiaro e ha giocato una carta che anche in Italia, se coraggio ci fosse, sarebbe vincente.

 

2. Le contraddizioni di Hollande - Joseph Halevi, il manifesto 10 maggio 2012

 

Usciamo dall'effetto ipnotico che la sinistra francese esercita usualmente su quella italiana e cerchiamo di capire se Hollande abbia un programma attuabile. I punti principali del programma del neopresidente socialista sono il raggiungimento dell'equilibrio del bilancio pubblico nel 2017 e la riduzione del deficit al 3% del Pil per l'anno prossimo. All'interno di questi obiettivi Hollande si propone di creare 150 mila “posti di lavoro del futuro”, evidentemente in settori ed occupazioni di punta, nonché riportare l'età pensionabile a sessant'anni, il livello cui era fino al 2010 quando Sarkozy la portò a 62.

Il supporto finanziario dovrebbe venire da un' imposizione del 45% sui redditi superiori ai 450 mila euro l'anno e del 75% su quelli oltre il milione di euro. L'imposta sui redditi verrà incrementata dello 0,1% all'anno per finanziare le spese pensionistiche mentre l'imposizione sulle plusvalenze bancarie verrà aumentata del 15%. In tale contesto il programma di Hollande non è compatibile col Fiscal compact perché prevede il pareggio di bilancio su un arco di tempo assai più lungo rispetto alla rapidità imposta dell'accordo siglato dai 25 paesi dell'Unione europea all'inizio di quest'anno.

Tuttavia l'obiettivo del pareggio assoluto nel 2017 Sarkozy se l'era posto per il 2016, accetta il principio di deficit zero portato avanti, nei confronti degli altri paesi, dalla Germania. Come si pone il programma del neopresidente rispetto alla fiscalità francese? Forse pochi sanno che il gettito fiscale proveniente dall'imposta sui redditi rappresenta meno del 20% degli introiti netti complessivi a parte dello Stato, mentre le tasse percepite dalle società non arrivano al 14%. Ne consegue che il grosso del gettito fiscale della Francia, pari al 49% del totale, origina dall'Iva, una tassa altamente regressiva. Questa caratteristica del gettito fiscale è strutturale, essendo stata voluta e perseguita da molti decenni sia dai governi di destra che da quelli socialisti. Ciò significa che la tassazione dei ricchi propagandata durante la campagna presidenziale non potrà cambiare di molto la  composizione del gettito, che invece si impernia sull'Iva. A corroborare il sospetto che la tassazione dei ricchi sia un fuoco pirotecnico contribuisce il fatto, anche questo poco noto, che ben il 45% dei foyers fiscaux (le famiglie) francesi è esente dall'imposta sul reddito, di cui l'80% non supera i 12000 euro l'anno.

La mia conclusione è che l'effettiva base impositiva della Francia non permetta politiche di ripresa mantenendo l'obiettivo del bilancio in pareggio per il 2017 e la riduzione del deficit al 3% del Pil per l'anno prossimo. Pertanto rinegoziare il Fiscal compact non basta, soprattutto quando l'economia francese sta entrando in recessione. Hollande dovrebbe rivedere i suoi obiettivi, cioè quello del pareggio per il 2017 e la riduzione al 3% per il 2013. Qui la Germania non c'entra.

 

3. E noi? - Rossana Rossanda, il manifesto 11 maggio 2012

 

Non credo di essere caduta in stato ipnotico davanti al successo di François Hollande, come sospetta il nostro gentile collaboratore e compagno Joseph Halevi (il manifesto di ieri), se mai sono influenzata, anzi terrorizzata, dalla catalessi della sinistra italiana. Per cui tendo ad apprezzare chiunque tenti di svincolarsi dalle politiche di rigore dell'Europa, delle quali la Germania è il più feroce guardiano malgrado l'opinione più che dubitosa non solo dei Krugman e degli Stiglitz ma, ormai, anche degli europeisti della prima ora, come Delors o Prodi o Amato.

D'altra parte non ritengo, come ha finto di fare Sarkozy per due mesi, che la misura dei due programmi sia essenzialmente contabile - non foss'altro che per l'impossibilità di calcolare realmente le spese finché i tassi di sconto con i quali ogni paese acquista valuta non saranno regolati e/o la Bce non potrà prestare agli stati ai tassi assai bassi con cui presta alle banche. I punti di svolta con i quali Hollande s'è conquistato faticosamente la vittoria sono tre; uno, la trattativa sul fiscal compact - grimaldello sul quale Angela Merkel dovrà vedersela al suo parlamento con tutta la Spd, e dal quale dipenderà anche la riforma fiscale che Hollande, ed altri, si ripropongono; due, il primato all'occupazione giovanile (mentre potrà accedere alla pensione a 60 anni chi avrà quarantun anni di contributi); tre, il voto a tutti gli immigrati in tutte le assemblee locali. Su questi tre punti si sono scontrati la destra rigorista, liberale e identitaria e le sinistre di Hollande e Mélenchon.

Quel che mi preme è la paralisi italiana. Il risultato delle elezioni parziali è disperante. Berlusconi e la Lega sono andati in pezzi ma le sinistre e il vantato centro non ne hanno tratto un voto di più, l'astensionismo e il qualunquismo essendosi spartite le spoglie dei perdenti. Il voto antidestra s'è frammentato in almeno sette o otto sigle. A distanza di quattro giorni, non si vede una reazione del Pd che non sia la tentazione di ripararsi dietro alla sciagurata legge elettorale detta porcellum, tanta è la distanza dalla sensibilità, per non dire il furore del paese. E noi? Per Luigi Pintor il giornale non era un bollettino che descriveva britannicamente gli errori od omissioni altrui, era una forma della politica - avanzava le sue analisi e proposte, si esponeva, stimolava. Dovevamo essere protagonisti del "che fare". Qualche settimana fa mi è parso di capire che la direzione fosse incline ad appoggiare la proposta all'assemblea fiorentina sui Beni comuni, cui ho avanzato le mie obiezioni ed è stata ripresa sulle nostre pagine specialmente da Paul Ginsborg, sottolineandone il carattere metodologico. Che, appunto, consideravo insufficiente. Non credo che ci sia stata una decisione, ma nemmeno una discussione collettiva di chi fa il giornale, quindi il manifesto come tale non avanza né un'analisi di quel che ci presentano le elezioni, né una proposta su quel che - siamo senza poteri ma non senza convinzioni - andrebbe fatto. Di qui a dodici mesi si vota anche in Italia, la campagna elettorale si aprirà in autunno e già prima si discuterà del bilancio, che è ormai la sola sede di discussione programmatica su cui disputano indirettamente le Camere.  Camere che si sono impegnate in questi mesi soprattutto nel disfare pezzi della Costituzione. In queste camere oggi il Pdl appare mortalmente ferito e la Lega idem, in difficoltà il centro e la sinistra. Non si dovrebbe ritenere chiuso l'esperimento di Mario Monti, visto che lo sostengono partiti o malmessi o in agonia? In presenza d'una evidente crisi di fiducia dell'elettorato? Una interruzione degli espedienti "tecnici" e il tuffo nelle elezioni anticipate non sarebbe sicuro e confortevole per nessuno, ma almeno darebbe una misura non artefatta dello stato e dei bisogni degli italiani sulla cui base ripartire.

E non al buio. Le forze politiche debbono avere le loro proposte o assumere in proprio la responsabilità di quelle dei "tecnici". Deve uscire dalle battute e dal silenzio il Pd. Deve farlo la sinistra rimasta fuori del parlamento. A una elezione si avanzano proposte precise di breve e medio termine, tanto più urgenti in una situazione critica come quella italiana. Esistono alcune elaborazioni dei movimenti, che sarebbe l'ora di finire di esaltare o contrastare in forma generica, esaminando o contrapponendo argomento ad argomento. Fra queste una è quella della assemblea sui beni comuni, che si fonda su un'assai vasta consultazione dalla quale trarre un programma. Un'altra sarebbe la traduzione, per così dire, in italiano della "Rotta" delineata per l'Europa da Sbilanciamoci, cui il manifesto ha dato ampia ospitalità. Un altro itinerario è suggerito dai Comitati Dossetti, con particolare riferimento al nostro manomesso sistema politico. Potrebbe essere precisata l'elaborazione verde. E altri che non nomino. Tanto meglio se qualche sinistra le accoglierà, ma un programma meno vago di quello che si sottintende finora le sinistre lo debbono avere se non vogliono entrare in agonia.

E pur nelle difficoltà grandi in cui si trova il manifesto deve, a mio avviso, impegnarsi in questo compito, con determinazione e assieme con la libertà di parola che ci ha da sempre distinto. Credo che lo dobbiamo anche ai molti compagni e amici che ci hanno messo non in salvo ma in una situazione un poco migliore di quella sulla quale è cominciata la procedura di liquidazione coatta, del cui lavoro sarebbe utile avere maggiore informazione e comunicarla a coloro che ci aiutano. Ma senza un impegno politico di più vasto respiro neppure varrebbe la pena di sopravvivere. Il tempo che abbiamo davanti è poco, gli interlocutori molti. La mia idea è di partire subito. Se possibile meglio di Hollande e Mélenchon - si tranquillizzi Joseph Halevi - ma certo non meno di loro. Si può.

 

4. La crisi e la sinistra - Alberto Burgio, il manifesto 10 maggio 2012

 

Non bisogna rassegnarsi a una “pigrizia fatalistica”, perché il pensiero critico in questa fase può giocare una partita cruciale. Per questo è necessario un soggetto politico unitario in grado di scontrarsi su un terreno culturale. Tutte le componenti della sinistra dovrebbero avviare una riflessione, a partire dalla sconfitta dell'ultimo ventennio

Si ha più che mai, di questi tempi, l'impressione che avesse ragione Antonio Gramsci nell'indicare nella “concezione fatalistica e meccanica della storia” un preciso sintomo di scarsa autonomia intellettuale. Oggi, di fronte alla drammaticità della crisi e alle preoccupazioni che essa genera, la “pigrizia fatalistica” (sempre Gramsci) domina. Prevale la tendenza a credere che quanto accade sia effetto di forze superiori e incoercibili, il verdetto di un destino avverso. E che, per contro, solo un destino benigno (o “un dio”) possa salvarci. Contro questo atteggiamento rinunciatario, figlio di una propensione al pensiero magico dura a morire, il pensiero critico può (deve) giocare una partita cruciale. Non è difficile mostrare come le sorti della sinistra, non solo in Italia, dipendano in larga misura dalla capacità di compiere e diffondere una corretta lettura delle cause della crisi in tutte le sue dimensioni (economica e sociale, politica, “intellettuale e morale”). Se sarà in grado di sradicare il  diffuso fatalismo e la rassegnazione che ne consegue, la sinistra svolgerà un ruolo nella prossima fase del conflitto, che si annuncia, già dal prossimo autunno, di estrema asprezza. Altrimenti, contribuirà validamente alla propria sostanziale estinzione.

Questa crisi ha una specificità, che tende a passare inosservata. Come tutte le crisi sistemiche del capitalismo (effetto dell'interazione tra crisi da sproporzione, da tesaurizzazione e di realizzazione), essa si verifica, e semina disoccupazione e miseria, senza che sia avvenuta alcuna catastrofe. Al contrario: il mondo - a cominciare dalle metropoli capitalistiche - è in crisi nel momento in cui è sommerso dalle merci che produce “in eccesso”. La povertà dilaga mentre la ricchezza sovrabbonda, grazie a un impetuoso sviluppo tecnologico e alla conseguente forte crescita della produttività del capitale (se mai la si potesse misurare). Senonché - come Giovanni Mazzetti non si stanca da anni di segnalare - nessuno o quasi sembra accorgersi e chieder conto di questa lampante contraddizione: la crisi appare, appunto, come una maledizione, una punizione divina, o come lo scherzo di un destino “cinico e baro”.

Marx aveva ragione

Come stiano le cose in realtà, chi ha letto Marx e non lo abbia gettato alle ortiche lo sa, e questa contraddizione è in grado di spiegarla senza troppe difficoltà rovesciando la premessa, con un apparente paradosso. La crisi c'è non già nonostante la ricchezza, bensì per causa sua, data la forma sociale in cui essa oggi è prodotta. Adottando questa prospettiva emerge con chiarezza la radice strutturale (economica) della crisi e la sua dinamica politica. Gli Stati e i governi presidiano il modo di produzione capitalistico (e il sistema di rapporti sociali che su di esso si basa) proteggendone la funzione essenziale: la produzione di profitti e rendite. Questa difesa (attuata oggi principalmente per mezzo dello strumento finanziario) ha luogo, come sempre, tramite la regolazione dell'impiego delle forze produttive sociali (capitale, saperi e lavoro vivo), che non deve eccedere la capacità del capitale di valorizzarsi. Qui emerge il carattere irriducibilmente anti-sociale della funzione oggi svolta dal capitale privato.

Il fatto che esso si valorizzi in funzione inversa alla propria composizione organica (cioè tanto più, quanto meno il capitale costante contribuisce ad ogni unità di prodotto) fa sì che l'aumento della produttività (che per la società è un valore, poiché riduce il lavoro necessario) sia invece per il capitale un costo improduttivo e una minaccia (in quanto determina la riduzione del saggio di profitto). Da qui (a conferma della fondatezza della teoria marxiana del valore) la risposta distruttiva al forte aumento della produttività verificatosi nell'ultimo trentennio, messa in atto attraverso la delocalizzazione produttiva e la finanziarizzazione dell'economia (l'evasione del capitale dal circuito della produzione), nelle quali, com'è ormai a tutti evidente, risiede la radice immediata della crisi esplosa nel 2007-08, e la base macroeconomica della disoccupazione strutturale di massa.

Se le cose stanno così, non c'è proprio alcuna possibilità che le “cure risanatrici” dispensate dai governi a suon di deflazione salariale e ulteriore riduzione della base occupata sortiscano l'effetto sperato, per il semplice fatto che, in questa situazione (a meno di grandi sconvolgimenti), il capitalismo non è in grado di conciliare profitto e sviluppo, né può - evidentemente - sacrificare il primo al secondo. A meno che non avvenga “qualcosa di nuovo”, la crisi è destinata ad approfondirsi nel prossimo futuro, sortendo esiti ancor più devastanti. Ma che cosa potrebbe accadere perché questa previsione non si avveri e la crisi si arresti?

Se a decidere saranno le classi dirigenti, non c'è di che stare molto allegri. Di novità, in casi simili, il capitale ne contempla una soltanto: la guerra. Se ripensiamo ai centocinquant'anni alle nostre spalle (più o meno l'intera storia del capitalismo industriale avanzato), le grandi crisi verificatesi tra gli anni Settanta e Ottanta  dell'Ottocento e a seguito del crollo di Wall Street nel 1929 furono di fatto superate con il nazifascismo e i conflitti mondiali, con l'enorme spesa per gli armamenti e la ricostruzione che le guerre richiesero.

Ma - a meno di non cedere al fatalismo - non sta scritto da nessuna parte che a decidere delle sorti del mondo debbano essere ancora una volta i funzionari del capitale privato. Le cose possono andare diversamente; un'altra uscita dalla crisi è possibile. Purché - questo è il punto - finalmente torni in campo la sinistra, la cui assenza (in tutto il mondo capitalistico) è uno dei fattori costitutivi della crisi (nella misura in cui ha consentito e tuttora favorisce il pieno dispiegarsi della distruttività del capitalismo).

Una corretta analisi

Che cosa deve intendersi con “sinistra” in questo discorso? E che cosa si richiede perché essa torni finalmente a giocare un ruolo nel conflitto sociale e politico? Rispondere a queste domande non è difficile: la risposta, anzi, è in qualche modo contenuta in quanto sin qui considerato. Possiamo definire la sinistra come il campo delle soggettività che nell'essenziale condividono questa analisi della crisi, o si generano a partire da essa: come l'insieme delle forze sociali, politiche e intellettuali che convergono nella consapevolezza di un dato epocale (l'operare del capitale privato, oggi, come potenza organicamente anti-sociale) e ne traggono le conseguenze sul piano della propria iniziativa (prefiggendosi l'obiettivo di liberare la società dalla sua azione distruttiva e oppressiva). Ma questo che cos'altro significa, se non che il terreno qui e ora decisivo per la ricomposizione delle forze e la costruzione di un soggetto unitario in grado di stare efficacemente nel conflitto è di ordine culturale o, come direbbe Gramsci, ideologico? Qualche giorno fa Michele Santoro ha rivolto ai gruppi dirigenti della sinistra, Pd in testa, una proposta interessante: aprano un confronto con l'intellettualità critica (con i “rompiscatole”), promuovano una discussione sui fondamentali che hanno orientato le loro scelte in questi vent'anni. In effetti, la sinistra può rinascere oggi soltanto sulla base di una corretta analisi delle cause della crisi, che a sua volta implica una seria rilettura critica dell'ultima fase storica, l'età del neoliberismo trionfante. Seria e - questa sì - difficile, in quanto tale da fare inevitabilmente emergere e mettere in discussione aspetti cruciali delle diverse culture politiche che attraversano il campo, quanto mai articolato, della sinistra sociale e politica.

Basti un esempio soltanto: quale valutazione dare della funzione sociale e politica del “libero mercato”? In questi ultimi vent'anni nel nostro paese la battaglia ideologica a sinistra si è combattuta in buona misura lungo il discrimine tra le forze (prevalenti) che vedevano nel mercato una garanzia di allocazione razionale (efficiente e giusta) di risorse e funzioni (e spingevano quindi affinché l'Italia divenisse un paese “normale” nel contesto occidentale), e le forze (soccombenti) che continuavano a ritenere indispensabile la direzione pubblica dello sviluppo, in un quadro di politica economica vincolato alla tutela delle classi subalterne. Oggi, a più di trent'anni dalla “rivoluzione” reaganiano-thatcheriana, non sarebbe il caso di fare un bilancio di questa disputa, misurando torti e ragioni al di là dei rapporti tra le forze in campo?

Gli ultimi vent'anni

Ma non si tratta solo di questioni economiche. Una seria analisi delle cause della crisi impone anche una riflessione su quanto è avvenuto, in sede nazionale e comunitaria, sul terreno politico-istituzionale, se è vero, come sembra, che a partire dai primi anni Novanta si sono susseguite (con l'apporto decisivo delle forze prevalenti a sinistra) iniziative o omissioni funzionali agli interessi dell'impresa e della finanza: riforme elettorali volte a ridurre lo spettro degli interessi sociali rappresentati; riforme istituzionali tese a ridurre l'incidenza delle assemblee elettive; privatizzazioni; vincoli imposti alla spesa pubblica sociale sino all'ultimo clamoroso strappo della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio; mancati vincoli alla libertà di movimento dei capitali, ecc.  Anche qui: non è forse giunto il momento per un bilancio di questa stagione di riforme, se non altro per stabilire in che misura l'attuale crisi sia o meno riconducibile ai loro effetti?

Un'ultima considerazione, per concludere. È necessario chiarire che l'eventuale consenso su un quadro analitico generale, come quello qui delineato riguardo alle cause della crisi, non implica di per sé alcuna conseguenza sul piano politico immediato: comporta, certo, un'opzione critica nei confronti del modo di produzione dominante (in particolare riguardo al regime neoliberista); ma non contiene indicazioni in merito al “che fare” sul terreno della battaglia politica contingente. Tenerlo presente (considerare cioè la relativa autonomia del piano “tattico” da quello “strategico”) dovrebbe favorire una discussione franca e al tempo stesso pacata tra tutte le componenti della sinistra, all'insegna del rispetto reciproco e di una reale disponibilità all'ascolto.

Non sono in gioco infatti intenti recriminatori né si tratta - tanto meno - di auspicare “rese di conti”, benché una riflessione sull'ultimo ventennio, se condotta in spirito di verità, comporterebbe indubbiamente il riconoscimento di una grave sconfitta della sinistra. Il tema oggi è, come si diceva, l'efficacia dell'iniziativa in difesa del lavoro e delle classi subalterne, un obiettivo che chiede soprattutto unità e autonomia della sinistra sociale e politica, l'esatto contrario dell'attuale frammentazione. Di questo si tratta. E della capacità - vitale per una classe dirigente - di “voltare pagina” quando il tempo lo richieda, superando divisioni divenute anacronistiche.