Cristoforo Colombo

I compagni della crisi

Capitolo 2° - La crisi del movimento rivoluzionario
martedì 15 agosto 2006.
 

2. LA CRISI DEL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO

La «crisi del movimento rivoluzionario» è diventata oramai un luogo comune. E’ un tema obbligato sia della borghesia e dei suoi portavoce tradizionali e nuovi, sia di molti esponenti del movimento rivoluzionario. In questo capitolo cercheremo di capire in cosa consiste questa crisi e cosa dobbiamo fare per uscirne.

-  I compagni della crisi


I compagni della crisi

Nel movimento rivoluzionario vi sono tre tipi di atteggiamenti negativi nei confronti della crisi del movimento rivoluzionario:

-  quello dei sostenitori della «sconfitta storica» delle bande,

-  quello dei sostenitori della «tenuta di identità», diffuso in particolare tra i compagni prigionieri,

-  quello dei sostenitori della resistenza in attesa degli eventi.

I compagni che macinano sconfitta storica delle bande mattina e sera (gli «sconfittisti storici») sono quelli che, oltre che coltivare una buona dose di inerzia, si ostinano a fare il bilancio del passato e ad analizzare il mondo con le loro categorie e concezioni sbagliate di ieri, idealiste, soggettiviste, movimentiste e militariste.

Queste concezioni sono sicuramente in crisi, infatti le cose sono andate in modo del tutto diverso dalle loro aspettative e le loro attese sono state deluse dai fatti. Ma essi, invece di tirarne le conseguenze sottoponendo a critica le loro attese e concezioni e decidere la strada da seguire in base all’andamento reale, se ne stanno ancora frastornati e sconvolti dalla rivelazione e dal colpo ricevuto. Ripetono che hanno commesso degli errori, a mo’ di confessione, come se la cosa potesse interessare a qualcuno, come se qualcuno dovesse assolverli o commuoversi della loro bontà. Ma evitano di capire in che cosa e perchè hanno sbagliato e di mettersi conseguentemente all’opera forti della nuova coscienza.

In questo modo perdono di vista i risultati e i successi raggiunti e non sfruttano l’esperienza conquistata. Nei fatti ovviamente, essendo questa una forma, sia pur disinteressata, di tradimento verso se stessi e i compagni che hanno lottato - e alcuni sono caduti - per conquistare quest’esperienza e quei successi, questo crea cattiva coscienza che i consulenti del Ministero di Grazia e Giustizia non esitano a sfruttare per facilitare la conversione a dissociati e a pentiti. Gli esempi sono innumerevoli.

***

I compagni sostenitori della tenuta d’identità e della resistenza in attesa degli eventi continuano a subire gli effetti della sconfitta e non hanno trovato una via per riprendere l’iniziativa.

La resistenza individuale e di gruppo e la difesa della propria identità sono una premessa indispensabile, minima. Essa ha un ruolo importante per il movimento rivoluzionario durante tutto il periodo in cui le forze nemiche saranno preponderanti, cioè finchè noi dovremo lavorare accerchiati dal nemico. Ma resistere non basta, è solo un punto di partenza. La resistenza non può protrarsi indefinitivamente se non trasformandosi in base di partenza della nostra iniziativa.

L’anello di congiunzione tra la resistenza e la nostra nuova iniziativa è l’autocritica. Dobbiamo concretamente fare i conti con il nostro bagaglio teorico e d’esperienza. Dobbiamo tradurre in pratica e verificare nella pratica le nostre enunciazioni autocritiche generali.

A che punto siamo? Vediamo alcuni esempi di dove siamo arrivati.

***

Tutti hanno detto che la fase della «propaganda armata» era finita, che era stato un errore gravido di conseguenze non essere passati al momento giusto alla fase superiore, quella del partito. Ma detto questo, cosa è stato fatto per passare alla fase superiore? Chi si è preoccupato di dire in cosa consisteva il passaggio al partito e il nuovo progetto politico?

Nel 1983 gli autori di Politica e Rivoluzione hanno dato un grande contributo teorico in questo senso. Ma da allora non si sono più fatti sostanziali passi avanti. Gli autori di Politica e Rivoluzione hanno lasciato perdere la loro battaglia e sono approdati nel 1987 all’Unione dei Comunisti Combattenti, abbagliati dalla ripresa, del resto effimera, dell’attività combattente che essi stessi nel 1983 avevano chiaramente detto non essere l’aspetto qualificante della ripresa.

Infatti in che cosa differiscono le esecuzioni di individui come Giorgieri o Ruffilli dalle attività combattenti degli anni ’70, cioè da iniziative di «propaganda armata»? Differiscono forse per le motivazioni date e le analisi fatte nelle rivendicazioni? Un’azione si qualifica per i risultati che produce, non per le intenzioni di chi la compie. Il prestigio della bande è ancora così alto che i loro documenti, a condizione che le bande si impegnino a diffonderli, sono letti e studiati da tutti quanti si pongono seriamente il problema della rivoluzione socialista nel nostro paese, senza che occorra reclamizzarli con l’esecuzione di qualche agente dello Stato. Queste come altre attività combattenti hanno certamente l’effetto di tener viva la speranza e la fiducia nelle bande. Ma questo effetto non potrà essere ottenuto ancora per molto tempo se l’oggetto della speranza e della fiducia non si concretizza. E più si prolunga il periodo di crisi, tanto meno efficaci sono quelle attività combattenti. Anche se i guru idealisti della comunicazione di massa dicono il contrario, la propaganda non regge alla lunga se non è corroborata da fatti.

Più in generale e per riassumere, il problema che si pone è quanto è stato chiarito il ruolo dell’attività combattente nell’ambito del nuovo progetto, nell’ambito della costruzione del partito.

Tutt si sono pronunciati contro il militarismo e hanno riconosciuto che fu un errore catastrofico cercare di organizzare o anche solo di schierare le masse in rapporto alla loro adesione alla lotta armata (OMR, ecc.). Ma ancora nel 1987 una delle organizzazioni del movimento rivoluzionario indicava come unico possibile compito di un’immaginaria «componente legale» del partito la ... propaganda della lotta armata. Come autocritica non c’è male: dalla «propaganda armata» alla propaganda della lotta armata!

Ancora nel 1988 un’altra organizzazione del movimento rivoluzionario sosteneva che «prima del 1982» si era verificata un’«adesione di massa alla strategia della lotta armata» e che solo le sconfitte del 1982 l’avevano cancellata.

E, soprattutto, una volta chiarito che il ruolo delle masse non è quello di arruolarsi nelle formazioni combattenti, nè di fornire loro reclute, nè di fiancheggiarle, chi si è preoccupato di chiarire quale è il ruolo del movimento di massa nel nuovo progetto politico, come si legano e interagiscono partito e movimento di massa?

Si è continuato a ripetere che l’impianto originario è risultato inadeguato o falso: ma dov’è il nuovo impianto? E allora, su quale base si dice che quello di prima era inadeguato? In queste condizioni l’affermazione diventa solo una concessione-cedimento agli avversari e un rifiuto di fare il bilancio dell’esperienza. Anche qui finora l’unico avvio ad un’organica reimpostazione è stato dato nel 1983 dagli autori di Politica e Rivoluzione che poi hanno abbandonato il campo.

«L’atteggiamento di un partito verso i suoi errori è uno dei criteri più importanti e più sicuri per giudicare se esso è un partito serio, se adempie di fatto i suoi doveri verso la propria classe e verso le masse lavoratrici. Riconoscere apertamente un errore, scoprirne le cause, analizzare la situazione che lo ha generato, studiare attentamente i mezzi per correggerlo: questo è indizio della serietà di un partito; questo si chiama fare il proprio dovere, educare ed istruire la classe e, quindi, le masse.» (Lenin, L’estremismo, malattia infantile del comunismo).

Solo chi ha il coraggio di sottoporre a verifica critica le proprie concezioni e le concezioni dei propri compagni nelle lotte del passato, può sperare di avanzare. Gli altri nel migliore dei casi resteranno ancora a constatare la crisi, esposti ogni giorno di più al rischio di cedere alle repressioni e alle lusinghe della borghesia, nel dilemma se continuare a ripercorrere una strada già percorsa e che ha già dato quanto poteva dare o accettare vie di fuga come quella offerta dal trio Curcio-Moretti-Balzerani (e mimata da Scalzone, che non manca occasione per esprimere la sua più intima natura di pagliaccio).