Supplemento n° 1 de La Voce 7

Tanto tuonò ... che la montagna partorì un topolino

sabato 12 maggio 2001.
 

maggio 2001

 

A proposito delle Tesi programmatiche di Rossoperaio (gennaio 01)

Articolo di Umberto C. (membro della redazione di La Voce del (nuovo) Partito comunista italiano)


Allegato 1

Allegato 2

Allegato 3

-   NOTE


Tanto tuonò ... che la montagna partorì un topolino

ma è economicista, bardato di lustrini internazionalisti e di mostrine militari

 

Rossoperaio [RO] ha finalmente pubblicato, in nove pagine dai molti titoli ( Rompere le catene del capitalismo dello sfruttamento dell’oppressione/ Bisogno di rivoluzione/ L’ora del partito/ Documento-Tesi (2001) ), le Tesi programmatiche che viene annunciando dal settembre del ‘99. (Allegato 1)

È una buona cosa che tra le organizzazioni che si dicono favorevoli alla ricostruzione del partito comunista si stia sviluppando l’interesse per l’elaborazione del programma del futuro partito comunista. RO aveva dichiarato già nel 1984 che “l’elaborazione del programma è l’elemento chiave per la costruzione del partito” (vedi Documento Base 1984 di cui si parla in La Voce n. 7 pag. 32 e segg.), ma per più di 15 anni non ne aveva fatto nulla: ora ha fatto un passo avanti. Molte FSRS, tra cui RO, recalcitrano ancora a stabilire un programma di lavoro comune.(1) La proposta fatta dalla CP alle FSRS di sinistra di costituire un Fronte per la ricostruzione del partito comunista ( La Voce n. 6) implicava anche questo: un programma di lavoro comune e quindi anzitutto un lavoro comune per l’elaborazione del programma del partito. Nonostante questa resistenza, tuttavia si verifica un fatto curioso già osservato in altri campi: quando una parola d’ordine è giusta, essa viene in qualche modo recepita e attuata anche da quelli che ufficialmente la rifiutano e quindi per questa via si realizza egualmente la direzione politica del partito comunista. Alcune FSRS non hanno voluto e non vogliono partecipare ad un lavoro comune di elaborazione del programma del partito, ma si sono date a elaborare ognuna il suo progetto di programma. Ovviamente è un livello di organizzazione del lavoro inferiore rispetto a quello che noi proponiamo e una manifestazione di settarismo, ma tuttavia si sta delineando un corso in cui si dovranno incanalare tutte le organizzazioni che vogliono veramente ricostruire il partito comunista o che almeno vogliono dare a intendere di volerlo ricostruire.

Ben vengano quindi anche i progetti di programmi. Ovviamente un progetto non vale l’altro e quindi è attraverso la lotta che arriveremo a un programma all’altezza dei compiti che il nuovo partito deve assolvere. Per questo ogni membro di FSRS e ogni operaio avanzato deve sforzarsi di comprendere i vari progetti: le loro convergenze, le loro divergenze e le lacune.(2) Ogni compagno deve a sua volta sforzarsi di facilitare questa comprensione. Per questo ho steso ad uso dei nostri lettori il mio parere su Rompere le catene [nel seguito: RleC] e una guida alla sua lettura. Tra parentesi quadre do i riferimenti ai paragrafi del documento.

Nei primi 15 paragrafi di RleC, con termini di efficace lirismo RO riconosce che il capitalismo storicamente (cioè dal punto di vista del contributo che questo modo di produzione ha dato e poteva dare all’evoluzione dell’uomo dal suo stato quasi animale di qualche milione di anni fa) è giunto alla sua fine. Trasportato da una notevole vena lirica, RO perfino esagera nell’illustrare questa semplice e importante verità. Infatti abbondano le espressioni dalle quali sembra che tutti gli uomini e le donne (“l’intera società nel suo complesso”) e addirittura “tutti gli esseri viventi” e “gli esseri viventi in quanto tali” si sollevino contro il capitalismo.(3) Questi di conseguenza aleggia in queste pagine come morta materia o come puro spirito cui si contrappongono “tutti gli esseri viventi in quanto tali” e comunque spogliato, nella lirica di RO, di ogni espressione in uomini e donne concreti che nella realtà, con cui noi facciamo i conti, ne sono invece i funzionari e costituiscono una classe concreta (la borghesia imperialista) che è parte della concreta “intera società nel suo complesso”. Secondo il Progetto di Manifesto Programma [PMP‘98] pubblicato dalla SN dei CARC nel ‘98 questi individui legati a ogni costo al capitalismo costituiscono invece ben il 10% della popolazione della “intera società nel suo complesso” e si tratta di “esseri viventi” che, salvo casi individuali, sono disposti a lottare con ogni mezzo per la sopravvivenza del capitalismo.

Importa fissare nella mente le immagini dei primi 15 paragrafi di RleC (fugacemente riprese nel [49]), perché più avanti vedremo che, in questa stessa “intera società nel suo complesso”, RO non trova però alcuna altra classe disposta a schierarsi col proletariato quando si tratta di costruire il Fronte nella lotta contro lo stesso capitalismo inopinatamente ridiventato parte ingombrante della “intera società nel suo complesso” da cui, nelle prime due pagine, sembrava completamente avulso.

Infatti dopo i primi 15 paragrafi, quando si tratta di passare dalla lirica alla prosa, dallo slancio retorico all’esposizione degli avvenimenti, alla spiegazione dello sviluppo delle cose, alla definizione degli obiettivi e dei metodi e delle linee per arrivarci, la musica di RO cambia alquanto. Cosa troviamo? Troviamo uno scritto in cui risalta l’accostamento e la sovrapposizione tra due cose che non si fondono, ma anzi fanno tra loro a pugni.

Da una parte troviamo l’influenza del movimento comunista, l’ossequio formale ad alcune “verità comuniste” nella forma di adeguamento per così dire ai luoghi comuni della letteratura comunista. Troviamo alcune note affermazioni generali, quasi dei luoghi comuni che devono per forza di cose essere dette da RO che frequenta un ambiente impregnato del patrimonio teorico e dell’esperienza del movimento comunista come il MRI (Movimento Rivoluzionario Internazionalista).

Dall’altra parte troviamo un sindacalismo rozzo e primitivo che si vuole nobilitato da un po’ di militarismo, secondo il quale solo la lotta sindacale è lotta “concreta”, i comunisti si possono costituire in partito solo se sono dirigenti sindacali riconosciuti, la lotta politica della classe operaia non può essere che una derivazione della lotta sindacale e consiste nello scontrarsi con la polizia.

Calunnie o esagerazioni le nostre? Assolutamente no. È un accostamento che caratterizza da sempre la stampa di Rossoperaio: una politica economicista ornata e velata giustapponendovi comunicati del MRI e dei partiti comunisti aderenti. L’esame un po’ in dettaglio di RleC conferma questa caratteristica del gruppo. Vediamo.

RO giustamente indica che per costituire il partito comunista sono indispensabili tre elementi.

1. Il bilancio e gli insegnamenti dell’esperienza storica del movimento comunista. Elemento costitutivo indispensabile del nuovo partito è la memoria storica [56].

2. L’analisi delle classi. “In ciascun paese occorre sviluppare un specifica analisi delle classi ” [62]. RO dichiara addirittura che la sua “concezione del Fronte Unito si basa sull’analisi di classe” [58].

3. Il programma per la fase socialista. “L’organizzazione di classe degli operai deve basarsi su un progetto per il socialismo ” ([36], ripreso in [48]).

La necessità dei tre elementi viene espressa in altri termini in [28 e 29]: alla “autorganizzazione sociale senza partito”, cioè al “popolo” dei Centri Sociali, RO giustamente insegna che “il movimento organizzato delle masse può sviluppare l’antagonismo vincente” solo se è diretto da “un partito rivoluzionario di tipo nuovo” dotato di 1. “una teoria che risponda ai bisogni attuali”, 2. “una politica rivoluzionaria”, 3. “un’organizzazione rivoluzionaria”.

Siamo perfettamente d’accordo. E infatti il PMP‘98 dedica alla “memoria storica” gran parte dei capitoli 1 e 2 e della metà del cap. 3. Dedica all’analisi di classe la seconda metà del cap. 3 e dedica al programma per la fase socialista il capitolo 4.

Cosa dicono le Tesi programmatiche di RO su questi tre elementi indispensabili?

- Quanto alla memoria storica, RO aggiunge giustamente che sono gli “intellettuali piccolo borghesi” quelli che negano la storia del movimento comunista e considerano “anno 0 del movimento operaio” quello in cui essi hanno incominciato a far politica [57]. Ma, forse a conferma della propria natura, dichiara che nel nostro paese il recupero della memoria storica “vuol dire, in particolare, ricomporre la memoria storica delle lotte operaie del ciclo 68-80 con la nuova classe operaia delle nuove concentrazioni operaie del nostro paese” [56]. Del resto dei 150 di storia del movimento comunista non una parola! Dopo ciò pensate che RO dia almeno un bilancio degli anni ‘70? Vi ingannate. RO si limita a dire che negli anni ‘70 la borghesia e il revisionismo sono riusciti a ottenere risultati tattici importanti nella loro offensiva contro lo spettro della rivoluzione e del partito rivoluzionario [22]. Sul perché ci siano riusciti e quali insegnamenti RO ne tragga (che è la sostanza di un bilancio), silenzio!

- Quanto all’analisi di classe, RO non va oltre l’affermazione che in Italia “ci sono solo due classi fondamentali: il proletariato e la borghesia” [62]. Quali lavoratori facciano parte del proletariato resta nel vago e le espressioni “proletariato” e “classe operaia” sono impiegati come sinonimi. Nel vago resta anche la differenza tra borghesia e borghesia imperialista. Quali siano poi le altre classi in cui è divisa la società italiana (la famosa “intera società nel suo complesso”) resterà oscuro per il lettore delle Tesi programmatiche di RO. Il mondo è complesso, non resta che navigare a vista: questo è il principio che permea tutto quello che RO dice sulla politica di Fronte ([58] e segg.).

- Quanto al progetto per il socialismo, RO dice alcune cose, su cui vale la pena soffermarsi in dettaglio.

 

1. La lotta politica della classe operaia, la politica rivoluzionaria.

La lotta politica della classe operaia secondo RO consiste nello “scontro degli operai con gli apparati dello Stato, non altro” [44]. Però finché “la lotta contro lo Stato ... non avviene ancora sul piano militare, la lotta contro lo Stato vive nella lotta contro il riformismo” [44] che sarebbe “una metafora dello scontro tra classe e Stato” [44]. Il riformismo a sua volta sarebbe l’espressione dei gruppi di capitalisti sconfitti o comunque svantaggiati nella lotta contro i gruppi vincenti [13]. Cioè, in attesa della lotta contro lo Stato, lottare contro i capitalisti già sconfitti da altri capitalisti. Non basta: finché “la classe non si riesce a muovere come movimento organizzato ... la politica di classe cammina su altre gambe e noi rappresentiamo la classe” [46], “in certe fasi gli operai sono rappresentati da altri movimenti di classe” [47], da intendersi come “movimenti di altre classi”.

Se queste parole vanno prese sul serio, se non si tratta di pura declamazione, esse dicono che la lotta politica della classe operaia e del suo partito consiste nello scontro degli operai con la polizia e, in attesa della polizia, con i riformisti e che, in attesa che gli operai siano pronti a scontrarsi con la polizia, “noi” o “movimenti di altre classi” devono recitare la parte degli (rappresentare gli) operai nello scontro.

Ovviamente dissentiamo assolutamente in tutto e per tutto da questa concezione della politica rivoluzionaria. Secondo il PMP‘98, la lotta politica della classe operaia consiste nell’instaurare la propria direzione, tramite il suo partito comunista, sulle masse popolari nella lotta contro la borghesia imperialista per eliminare la direzione di questa sull’intera società e instaurare la direzione della classe operaia sull’intera società, cioè il socialismo. Questa politica rivoluzionaria si compone di molteplici attività: la costituzione e il rafforzamento del partito comunista clandestino fino a farne l’avanguardia organizzata della classe operaia; la mobilitazione e organizzazione della classe operaia, delle altre classi proletarie e delle classi non proletarie delle masse popolari; la costituzione delle più varie organizzazioni di massa di queste classi e la loro unità nel Fronte Popolare diretto dal partito comunista; la costituzione delle forze armate popolari dirette dal partito comunista; le lotte di ogni genere atte ad accrescere le nostre forze fino a rovesciare il rapporto di forza con la borghesia imperialista; le lotte di ogni genere tese a indebolire la borghesia imperialista fino a eliminare il suo potere e instaurare la dittatura del proletariato (cioè il socialismo). Si tratta della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata in cui Mao Tse-tung ha sintetizzato l’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria (1905-1950), che dovremo applicare creativamente alla realtà di un paese imperialista come il nostro.

Quanto al riformismo, è per noi chiaro che esso ha due facce combinate tra loro, che dobbiamo trattare differentemente e dividere con una tattica accorta. Da un lato è la risposta dei capitalisti all’avanzata del movimento comunista secondo il principio: dare qualcosa per non perdere tutto, concedere qualcosa alle masse per impedire che aderiscano al movimento comunista. Dall’altro lato è l’aspetto arretrato delle varie classi delle masse popolari che incominciano a svegliarsi alla lotta rivendicativa e alla lotta politica ma non sono ancora acquisite alla direzione della classe operaia tramite il suo partito comunista. RO è unilaterale: vede solo la prima faccia del riformismo [12]. Del tutto errata è poi la tesi che il riformismo (nel sua prima faccia) sarebbe la politica dei gruppi di capitalisti perdenti nello scontro con altri gruppi. Sono al contrario i gruppi imperialisti dirigenti che mettono in campo il riformismo per tagliare l’erba sotto i piedi al movimento comunista. Basta guardare la storia del secolo XX. In generale il riformismo perde ragion d’essere e le sue specifiche organizzazioni vanno in crisi quando il movimento comunista è debole, come nel periodo attuale: né la borghesia imperialista ne ha bisogno, né il movimento comunista desta nuovi strati alla lotta.

È ovvio che con una simile concezione della lotta politica della classe operaia, che in pratica oggi la riduce a scontro di piccoli gruppi con gli apparati dello Stato o con i riformisti, RO non può fare alcun bilancio degli anni ‘70, benché pretenda, a torto, di riassumere in essi tutta l’esperienza del movimento comunista. Al contrario il PMP‘98 espone un bilancio degli anni ‘70 (della ascesa, della deviazione e della sconfitta delle Brigate Rosse e del movimento di massa di cui erano rappresentative) con i relativi insegnamenti per l’oggi: bilancio e insegnamenti che sono stati dimostrati e spiegati sia nella rivista Rapporti Sociali (v. ad es. il n. 9/10), sia nella rivista La Voce (v. ad es. il n. 2).

È ovvio che, con una simile concezione della lotta politica della classe operaia, RO non dice parola contro il militarismo e il blanquismo, che sono attualmente deviazioni ancora ben presenti tra le FSRS e tra le masse popolari del nostro paese. Al contrario la concezione della lotta politica della classe operaia espressa nel PMP‘98 ispira le ripetute prese di posizione contro il militarismo e il blanquismo comparse su La Voce e nel suo supplemento Martin Lutero . RO si limita a dire che “nel movimento operaio lo scontro frontale è con gli economicisti” [35]. Vedremo più avanti quanto poco frontale sia lo scontro di RO con l’economicismo. Qui ci interessa far notare che RO non prende (e non può prendere) posizione contro il militarismo e il blanquismo.

 

2. Trasformare la lotta sindacale in lotta politica o fare di ogni lotta sindacale una scuola di comunismo?

Che relazione c’è secondo RO tra la lotta politica della classe operaia e la sua lotta sindacale? RO sostiene che la lotta sindacale è l’unica lotta “concreta” [41, 42 e altri] e sintetizza il compito del partito con le espressioni “esplicitazione della politica all’interno delle lotte sindacali” [43], “il partito ... trasforma la lotta sindacale in lotta politica” [43 e 44], “in ogni lotta concreta ci sono elementi politici” [43], ecc. Cioè la lotta sindacale è la base della lotta politica. La lotta politica si sviluppa (per opera del partito) dalla lotta sindacale. Questa è una variante di economicismo.

Non a caso, parlando dell’economicismo [35], RO omette proprio quell’aspetto dell’economicismo che consiste 1. nel sostenere che “la lotta sindacale è sempre (necessariamente) per il partito la premessa per la lotta politica” e che “la lotta sindacale è il mezzo più largamente applicabile dal partito per attirare le masse alla lotta politica” e 2. nel sintetizzare il compito del partito nelle lotte sindacali come “dare alla stessa lotta economica un carattere politico” e “trasformare le lotte sindacali in lotte politiche”. È proprio a questi aspetti dell’economicismo che Lenin ha dedicato la prima parte L’agitazione politica e la sua limitazione da parte degli economicisti del cap. 3 del Che fare? (1902). Invito i lettori a leggere le pagine scritte da Lenin contro questa variante dell’economicismo e a confrontarle con le tesi di RO. (Allegato 2)

Secondo il PMP‘98 la lotta sindacale e in generale le lotte rivendicative hanno lo scopo di difendere gli interessi immediati delle masse popolari e il partito ha il compito di sostenerle, promuoverle, organizzarle, dirigerle e, soprattutto, di fare di ognuna di esse una scuola di comunismo. “Fare di ogni lotta rivendicativa una scuola di comunismo” non è una bella frase, ma comporta compiti precisi per la cui esplicitazione rimandiamo all’articolo Fare di ogni lotta rivendicativa una scuola di comunismo pubblicato sul mensile Resistenza n. 7-8 del 2000. (Allegato 3)

È poi assolutamente falso che solo le lotte sindacali siano “lotte concrete”. La Resistenza non è stata una lotta concreta? La lotta per la parità dei diritti delle donne non è stata una lotta concreta? La lotta della classe operaia contro la NATO, quella contro la legge truffa, il Luglio 60, il ‘68, il movimento degli anni ‘70, la protesta contro la guerra del ‘99, la ricostruzione del partito comunista, ecc. non sono lotte concrete? Le proteste contro i summit dei principali caporioni mondiali della borghesia imperialista (G8, FMI, BM, OMC, UE, ecc.) non sono lotte concrete? È vero che il revisionismo moderno e la sconfitta del movimento comunista hanno ridotto gli operai a fare quasi unicamente lotte sindacali: ma RO si adegua a questo stato e lo teorizza, anziché indicare come superarlo. È assolutamente falso che gli operai si siano sempre mobilitati solo per lotte economiche, che le lotte economiche siano state sempre e necessariamente per la massa degli operai la premessa indispensabile per la loro formazione politica comunista e per l’impegno nella lotta politica rivoluzionaria: basta pensare alla Resistenza! È invece vero che, se guardiamo le numerose annate del periodico Rossoperaio (e prima quelle di AgitProp ), in esse la denuncia politica e la teoria rivoluzionaria hanno pochissimo spazio, come se nella propaganda rivolta agli operai simili cose fossero inutili. La sostanza di quei fogli sono notizie e denunce economico-sindacali, abbellite da comunicati dall’estero (Perù, Nepal, Turchia, ecc.).

 

3. Fronte.

Esistono altre classi che la classe operaia può unire a sé nella lotta contro la borghesia imperialista, da qui alla rivoluzione socialista, facendo leva sui loro stessi interessi materiali? RO dice che occorre costituire un Fronte (che chiama Fronte Unito), ma aggiunge “noi consideriamo che classi alleabili, in forma stabile e con prospettive strategiche, al proletariato nel nostro paese non ce ne sono” [62]. Come può RO fare simile affermazione senza aver fatto un’analisi delle classi? Non avendo indicato quali lavoratori appartengono al proletariato, non è neanche possibile valutare una tale affermazione. Essa sarebbe tuttavia logica se RO includesse nel proletariato gran parte delle classi delle masse popolari (la famosa “intera società nel suo complesso”: ciò però sarebbe a sua volta un errore di altro genere). Quali sono secondo RO le classi, “strati sociali, gruppi sociali, ceti sociali” che il partito dovrebbe via via neutralizzare o farsi alleati con misure politiche (cioè con provvisorie concessioni politiche)?

Prendiamo il PMP‘98 cap. 3.2 e consideriamo le classi lì indicate. I dipendenti pubblici, i lavoratori dipendenti da imprese non capitaliste e tutte le altre classi proletarie diverse dalla classe operaia ivi indicate fanno parte secondo RO della classe operaia (espressione che RO usa come sinonimo di proletariato)? E le classi popolari non proletarie parimenti indicate nel cap. 3.2 del PMP‘98, che collocazione hanno secondo RO nella lotta della classe operaia contro la borghesia imperialista?

La tesi di RO sul Fronte è d’altra parte in flagrante contraddizione con tutte le affermazioni fatte da RO nei primi 15 paragrafi di RleC (dove addirittura “tutti gli esseri viventi”, “l’intera società nel suo complesso” avrebbero interessi vitali a eliminare il capitalismo) e a [49] dove è ripetuto lo stesso concetto.

Il PMP‘98 indica chiaramente seppure a grandi linee la composizione e la struttura del Fronte delle masse popolari che condurrà la lotta contro la borghesia imperialista da qui fino alla rivoluzione socialista (alla attuazione delle Dieci Misure Immediate ): classe operaia come classe dirigente, le classi proletarie diverse dalla classe operaia come più prossimi alleati della classe operaia, le altre classi delle masse popolari come classi che hanno interessi propri da difendere contro la borghesia imperialista che le elimina e che per questo la classe operaia può, con una politica adeguata (vedere in proposito l’articolo La classe operaia comparso su Rapporti Sociali n. 26/27), coinvolgere nella lotta contro la borghesia imperialista sotto la propria direzione. Le Dieci Misure Immediate indicate da La Voce n. 5 (pag. 43 e segg.) contemplano infatti anche gli specifici interessi materiali delle classi non proletarie delle masse popolari.

Dire che non vi sono nel nostro paese classi alleabili, sulla base dei loro stessi interessi materiali, con la classe operaia da qui fino alla rivoluzione socialista, cioè all’instaurazione del socialismo (cioè alla applicazione delle Dieci Misure Immediate ) vuol dire o mischiare tutte le classi nella classe operaia o non vedere che la borghesia imperialista sta colpendo gli interessi materiali delle diverse classi delle masse popolari, fino a quelle più lontane dalla classe operaia: gli allevatori, i bottegai, i camionisti, i benzinai, gli artigiani, i titolari di imprese familiari, ecc. che la borghesia imperialista elimina a centinaia di migliaia ogni anno.

La tesi di RO che “classi alleabili, in forma stabile e con prospettive strategiche, al proletariato nel nostro paese non ce ne sono” è lontana dalla realtà, ma coerente con la concezione economicista della lotta politica che RO espone in RleC. Infatti non è sugli interessi immediati, in cui rientrano gli obiettivi della lotta sindacale, che si forma l’unità delle masse popolari e che si afferma la direzione della classe operaia, ma nella lotta per eliminare la direzione della borghesia imperialista sulla società e sostituirla con la direzione della classe operaia.

 

4. La situazione politica nei paesi imperialisti: stabilità o situazione rivoluzionaria in sviluppo?

RO dichiara che la borghesia imperialista gode nei paesi imperialisti (“primo mondo”) di regimi politici relativamente stabili [59] e che il proletariato degli USA, del Giappone e della Germania è costituito da una “gigantesca aristocrazia operaia” [52]. Infezione da cui RO invece assolve il proletariato italiano! Perché questa assoluzione? “Le dimensioni dell’aristocrazia operaia in paesi come l’Italia sono inferiori”. Bontà sua!

Sul piano empirico, verrebbe da dire che i capi di RO non seguono la cronaca. In realtà essi pagano le conseguenze di essere privi di una teoria della crisi generale del capitalismo. Questa lacuna impedisce loro di vedere il nesso tra gli avvenimenti che li circondano. Le contraddizioni tra gruppi imperialisti che si acuiscono, le contraddizioni tra i gruppi imperialisti e i loro servi che essi hanno posto alla testa dei governi dei paesi semicoloniali già sfociate più volte in guerre, la guerra civile strisciante che in quasi ogni paese imperialista si svolge tra i gruppi imperialisti stessi, la crescita della resistenza delle masse popolari al progredire della crisi del capitalismo, la guerra di sterminio condotta dalla borghesia imperialista contro le masse popolari, la lotta per la rinascita del movimento comunista: sono tutte cose che RO non vede. RO vede solo i limiti che la mancanza di partiti comunisti pone al protagonismo politico della classe operaia e quindi alla lotta politica di tutte le masse popolari contro la borghesia imperialista, assolutizza come insuperabili questi limiti e ripiega sulla lotta sindacale. Ecco perché ai capi di RO i paesi imperialisti sembrano politicamente stabili, ecco perché non vedono le crepe dei loro regimi politici e la situazione rivoluzionaria in sviluppo.

Ma cosa è allora, secondo RO, che genera la rivoluzione socialista nei paesi imperialisti? La domanda è doverosa dato che RO non dice mai esplicitamente che la rivoluzione socialista è impossibile nei paesi imperialisti. Secondo RO le fonti della rivoluzione sarebbero la buona volontà e l’indignazione dei rivoluzionari, il “bisogno di rivoluzione” sentito da “tutti gli esseri viventi” e le altre paccottiglie moraliste ed esistenziali di cui ci hanno già anche troppo a lungo deliziato Toni Negri e gli altri suoi soci della “autorganizzazione sociale senza partito”.

Il PMP‘98 al contrario fa propria la teoria di Lenin sulla situazione rivoluzionaria e quella di Mao Tse-tung sulla situazione rivoluzionaria in sviluppo (in proposito vedasi anche Rapporti Sociali n. 9/10). La borghesia imperialista non può più continuare a governare come per il passato. Le masse popolari non sono rassegnate a perdere quello che hanno conquistato. La crisi politica dei paesi imperialisti è una conseguenza e una manifestazione della crisi economica per sovrapproduzione assoluta di capitale. Gli avvenimenti giornalieri mostrano, a chi ha senso storico e capacità di vedere le connessioni, la crisi politica nei paesi imperialisti; gli altri la vedranno quando sarà già esplosa. Ma noi prima di allora vogliamo raccogliere, formare nella lotta e accumulare le nostre forze, perché vogliamo “collaborare” a far maturare la crisi politica già in atto fino all’esplosione e vogliamo che allora la classe operaia possa dare alla crisi la sua soluzione. Vogliamo insomma guidare gli avvenimenti futuri verso il socialismo.

Quanto alla “gigantesca aristocrazia operaia”, rimandiamo all’articolo Anzitutto, facciamo pulizia nella nostra testa pubblicato in Rapporti Sociali n. 23/24 contro le posizioni del MPA ( Il Futuro ) analoghe, in argomento, a quelle di RO, per mostrare l’inconsistenza pratica e la matrice borghese di questa tesi.(4) RO non vede l’attacco che la borghesia imperialista da venti anni a questa parte sta portando proprio contro la classe operaia dei paesi imperialisti, per eliminare le conquiste di civiltà e di benessere che i lavoratori avevano strappato durante il periodo di ascesa del movimento comunista, grazie alla prima ondata della rivoluzione proletaria, così come non vede il progredire della crisi generale dei paesi imperialisti. Non vede neppure che la borghesia imperialista sta riducendo perfino la vera aristocrazia operaia: infatti liberalizzazione e privatizzazione comportano la riduzione di quella escrescenza del movimento operaio, come confermano le vicende di l’Unità e la riduzione degli organici della CGIL.

 

5. La contraddizione principale in questa fase.

Secondo RO “la contraddizione principale del mondo contemporaneo è quella tra imperialismo e popoli oppressi” [60]. Noi per contraddizione principale in una data fase intendiamo quella dal cui sviluppo dipende il movimento d’insieme, quella che condiziona lo sviluppo di tutte le altre contraddizioni (v. Mao Tse-tung, Sulla contraddizione ). Recentemente (estate ‘99) il presidente del CC del Partito comunista filippino (Armando Liwanag) ha pubblicato un lungo scritto in cui cerca di dimostrare la tesi espressa da RO. Altri dirigenti comunisti dei paesi semicoloniali si sono espressi negli stessi termini. È vero che in alcuni paesi semicoloniali (Perù, Nepal, India, Colombia, ecc.) i partiti comunisti stanno dirigendo con successo guerre popolari rivoluzionarie. È lo sviluppo di queste guerre e del fermento negli altri paesi semicoloniali il centro da cui derivano i movimenti politici del resto del mondo?

A noi pare di no. È giocoforza constatare che la rivoluzione di nuova democrazia (la rivoluzione nei paesi semifeudali e oppressi dall’imperialismo) ha subito una battuta d’arresto da quando la rivoluzione socialista si è fermata nei paesi imperialisti e nei paesi socialisti, cioè da quando i revisionisti moderni hanno paralizzato il movimento comunista. Da ciò deduciamo che in definitiva, se consideriamo gli avvenimenti a livello generale, è la rivoluzione socialista che determina la rivoluzione di nuova democrazia e non viceversa. Le guerre popolari rivoluzionarie che si sviluppano in alcuni paesi semicoloniali non contraddicono questo: anche nel periodo precedente la prima guerra mondiale vi furono esplosioni rivoluzionarie in alcuni paesi coloniali e semicoloniali (Turchia, Persia, Cina, ecc.), che “aiutarono” lo sviluppo della prima ondata della rivoluzione proletaria mondiale, ma non la generarono. In che senso allora la contraddizione tra imperialismo e popoli oppressi sarebbe principale ?

Le grandi contraddizioni della nostra epoca sono tre: quella tra la classe operaia e la borghesia imperialista, quella tra i popoli oppressi dall’imperialismo e il sistema imperialista mondiale, quella tra i gruppi imperialisti. Noi riteniamo che la confusione che caratterizza la fase che stiamo vivendo sia in definitiva l’effetto del fatto che queste tre contraddizioni si combinano tra loro senza che una emerga nettamente sulle altre. Ma riteniamo anche che l’anello della catena che i comunisti devono afferrare e solo afferrando il quale possono muovere l’intera catena degli avvenimenti, è la rinascita del movimento comunista e quindi da noi la ricostruzione del partito comunista. La classe operaia nella società capitalista moderna, globalizzata e mondializzata, è oggettivamente potente e costituisce un ostacolo per ogni movimento politico di cui non sia alla testa. Le cronache lo confermano. Ma oggi come protagonista della lotta politica è debolissima, stante l’assenza nei paesi imperialisti di veri partiti comunisti. Senza protagonismo della classe operaia nella lotta politica nei paesi imperialisti, i popoli oppressi dall’imperialismo possono portare e alcuni portano validi contributi alla rinascita del movimento comunista (esemplare è il ruolo svolto dal Partito comunista peruviano per affermare il maoismo come terza e superiore tappa del pensiero comunista), ma non riescono a conquistare vittorie decisive. Le contraddizioni tra gruppi imperialisti e i loro Stati sono enormi e crescenti. Essi si sorridono ma si armano l’uno contro l’altro e non possono farne a meno, perché chi si ritirasse da questa lotta precipiterebbe la crisi economica e politica nel proprio paese. Ma d’altra parte, nello sviluppo della contraddizione con altri gruppi imperialisti, i gruppi imperialisti sono molto condizionati dalla contraddizione con la classe operaia e le masse popolari del loro proprio paese. Insomma in questa fase vi è una sorta di equilibrio instabile e di reciproca paralisi tra le tre grandi contraddizioni della nostra epoca, che è la condizione che precede le esplosioni. Per questo diciamo che siamo in una situazione rivoluzionaria in sviluppo, in cui ogni contendente prepara e deve preparare le sue armi e crearsi condizioni favorevoli per lo scontro. Dobbiamo ricostruire il partito comunista. Quindi dobbiamo anche rifuggire dal parlare a vanvera, per sentito dire o per darci lustro.

 

6. La restaurazione del capitalismo nei paesi socialisti: dove è la borghesia nei paesi socialisti?

A proposito dell’esperienza dei paesi socialisti, implicitamente RO dice alcune cose. Precisamente dice che i cooperatori (i lavoratori del settore cooperativo) “saranno base della restaurazione del capitalismo” nei paesi socialisti [74] e che “il controllo dei tecnici sulla produzione mina concretamente il processo di transizione, aprendo la strada alla affermazione della nuova borghesia” [75]. Resta oscuro da chi sia costituita la “nuova borghesia” dei paesi socialisti, ma è chiara la tesi che i membri del settore cooperativo (in URSS i colcosiani) e i tecnici sarebbero alla base della restaurazione del capitalismo.

RO avanza una tesi analoga a quella che Garabombo aveva espresso nell’articolo Per una discussione sull’esperienza della costruzione del socialismo in Rapporti Sociali n. 21 copiandola da Andrea Catone (del resto è una tesi corrente). RO resta però talmente sul vago, che potrà a buona ragione dire che non vuole dire qualunque tesi precisa io gli attribuissi. Mi limito quindi a ribadire che la nuova borghesia nei paesi socialisti è costituita dai dirigenti del partito, dello Stato e delle istituzioni pubbliche, economiche e culturali che seguono la via del capitalismo. Questa è la tesi confermata dall’esperienza di tutti i paesi socialisti e che da questa esperienza hanno tratto Mao e gli altri dirigenti della RPC (v. in proposito Critica a “Per una discussione sull’esperienza della costruzione del socialismo” in Rapporti Sociali n. 22). Questa tesi di Mao è strettamente legata alla concezione marxista della società attraverso la teoria dei rapporti di produzione (i tre aspetti costitutivi dei rapporti di produzione: proprietà dei mezzi di produzione, rapporti tra gli uomini nel lavoro, rapporti di distribuzione). I cooperatori e i tecnici sono componenti indispensabili della società socialista, che saranno superati solo nel corso della transizione. La loro esistenza nella fase socialista è necessaria e non implica la restaurazione del capitalismo. La loro abolizione, anche se fosse possibile, non eliminerebbe la possibilità della restaurazione. La tesi di RO apre la via a deviazioni di sinistra (nazionalizzare le cooperative, eliminare i tecnici, ecc.). Cooperatori e tecnici sono un falso bersaglio che nasconde il vero bersaglio (i dirigenti che seguono la via del capitalismo) e la lotta tra le due classi, le due vie e le due linee nei paesi socialisti e nel partito comunista.

 

In conclusione, continua il muro di silenzio calato da varie FSRS sul Progetto di Manifesto Programma pubblicato nel ‘98 dalla SN dei CARC. Alcune FSRS sono talmente ancorate al settarismo che fingono di ignorare che si sta comunque svolgendo un lavoro comune. Paiono gli imperialisti americani che pensavano di cancellare dal mondo l’esistenza della RPC non riconoscendo la RPC. Non l’hanno riconosciuta fino all’inizio degli anni ‘70. Ma questo non ha impedito che la RPC esistesse e esercitasse la sua influenza sul mondo. Pensano che non parlando di ciò che si sviluppa, questo cesserà di svilupparsi. Come i bambini che chiudono gli occhi. Nonostante ciò il lavoro per l’elaborazione del programma del futuro partito sta facendo la sua strada. Da quanto ho sopra detto, è tuttavia evidente il vantaggio che ne avrebbe la causa della ricostruzione del partito comunista se ogni FSRS tenesse conto del lavoro delle altre, si appropriasse dei risultati positivi del lavoro delle altre e li valorizzasse nel proprio lavoro.

Umberto C. (membro della redazione di La Voce del

(nuovo) Partito comunista italiano)

 

NOTE

 

1. Sulle manovre specificamente messe in atto da Rossoperaio contro la ricostruzione del partito comunista, vedere La Voce n. 7 pag. 31 e segg.

 

2. L’elaborazione del programma del partito comunista fa parte della lotta teorica della classe operaia (di cui Engels parla come del terzo fronte di lotta della classe operaia, con quello economico e quello politico). Questa lotta serve di per se stessa a raccogliere forze e a educare le nostre forze.

 

3. Chi ha presente le ecatombi di pecore, capre, maiali, manzi e vacche che la borghesia imperialista per i propri interessi di classe perpetra proprio in questi giorni in Europa, capisce bene perché RO sia affascinato dall’immagine di “tutti gli esseri viventi” che si sollevano contro il capitalismo che li sacrifica alla propria valorizzazione. Con uno sforzo di fantasia, pensando alle foreste e alle specie vegetali sacrificate dall’imperialismo quotidianamente sullo stesso altare, il corteo di “tutti gli esseri viventi” in rivolta contro il capitalismo diventerebbe ancora più vasto e pittoresco, misto di animali e di vegetali quasi a eguagliare i quadri di Lucrezio e del suo De rerum natura o quelli dei Fioretti di Francesco d’Assisi. Con maggiore slancio lirico e uno sforzo di fantasia un po’ maggiore, RO poteva evocare anche i ghiacciai che si sciolgono, le montagne che franano, i cieli che diluviano e i mari che invadono la terraferma, a significare la rivolta di tutta la natura contro il corso su cui il capitalismo, come una tragica maledizione divina, ha spinto finora “l’intera società nel suo complesso”.

 

4. Nella accezione leninista, l’aristocrazia operaia non è costituita dagli operai meglio pagati (come sostengono Il Futuro , Rossoperaio e altri). La teoria di Il Futuro , RO, ecc. implica una “giusta distribuzione del reddito”, una “distribuzione egualitaria del reddito” in regime capitalista, per cui chi prende di più porterebbe via anche la parte che altrimenti andrebbe a chi prende di meno. Nella società capitalista non esiste ed è utopistica qualsiasi “giusta distribuzione del reddito”. Contano i rapporti di forza tra lavoratori e borghesia. Gli operai con i salari più alti in generale appartengono a categorie molto combattive che noi additiamo come esempio alle categorie con salari più bassi. Ogni conquista salariale o d’altro genere strappata alla borghesia da una categoria di lavoratori o dai lavoratori di un paese o di una regione, è un successo per tutti i lavoratori (indebolisce la borghesia imperialista, è di esempio e stimolo per gli altri lavoratori, ecc.). Altra cosa è promuovere la solidarietà dei lavoratori meglio organizzati e più combattivi verso i lavoratori più arretrati, meno organizzati, ecc. Ma ciò non ha nulla a che vedere con la questione della aristocrazia operaia. Anzi sono proprio i sindacati di regime (quindi una parte proprio dell’aristocrazia operaia) che dicono ai lavoratori dei paesi imperialisti che devono moderarsi perché prendono già molto di più dei lavoratori delle semicolonie e degli ex paesi socialisti, che dicono ai lavoratori delle categorie con salari più alti che devono moderarsi perché prendono di più di quelli delle categorie con salari più bassi, che predicano il livellamento al minimo.

L’aristocrazia operaia è costituita da quella escrescenza del movimento operaio formata da: 1. funzionari e dirigenti delle organizzazioni operaie (sindacati, cooperative, casse mutue, ecc.), 2. giornalisti, scrittori e altri impiegati dei giornali, case editrici, ecc. del movimento operaio, 3. membri di parlamenti, consigli e altri enti locali in rappresentanza degli operai, 4. membri operai o “delegati dagli operai” di comitati e commissioni paritetiche, di consigli di amministrazione, di commissioni miste di studio, ecc. La borghesia imperialista esercita una precisa opera di corruzione materiale e morale, economica e culturale verso questa massa considerevole di persone, le educa a ragionare come ragionano i capitalisti (compatibilità, razionalità, ecc. tutto nell’ambito e nell’orizzonte della società attuale, quindi degli interessi della borghesia imperialista), li ammette a godere delle briciole del suo potere, del suo benessere, della sua cultura e dei suoi privilegi. Quei membri dell’aristocrazia operaia che si lasciano corrompere e si dimostrano capaci e affidabili, la borghesia li ammette a far parte della “classe dirigente” del paese. Li privilegia nella gestione della conquiste dei lavoratori (sono i primi nelle liste per assegnazione di case popolari, di premi di ogni genere, stock options, ecc.), li ammette a partecipare alle speculazioni finanziarie, a costituire società che sfruttano alcune nicchie del mondo degli affari, alcune previdenze contemplate dalla legge ma che il gran pubblico non conosce e non è comunque in condizioni di sfruttare, li favorisce con articoletti e modifichette delle leggi che passano quasi inosservate (contributi figurativi, previdenze per quello o quel caso tagliato su misura, ecc.), ecc.

Nei paesi imperialisti l’aristocrazia operaia così intesa è numerosa (in Italia probabilmente alcune centinaia di migliaia di persone) e costituisce una massa tra i membri dei partiti di sinistra (DS, PRC, PdCI, Verdi, ecc.). Essa ha un’influenza sociale molto superiore al suo peso numerico. Ognuno dei suoi membri parlando con i giornali, con la TV, ecc. parla contemporaneamente a migliaia di persone, quindi la sua voce risuona come quella di migliaia di lavoratori semplici; ha prestigio, sa districarsi nei meandri della pubblica amministrazione costruita appositamente in modo che il semplice lavoratore si perda: anche questo aumenta il suo influsso, il suo prestigio e il suo potere. A differenza del borghese, il membro dell’aristocrazia operaia ha modi di fare, relazioni, linguaggio, amicizie e frequentazioni che lo mettono a contatto con la massa della popolazione e gli permettono di fare quel lavoro di persuasione, di divisione, di corruzione morale, ecc. che il borghese direttamente non potrebbe fare.