La Voce 8

La nuova vita dei membri del partito comunista

venerdì 6 luglio 2001.
 

È oramai relativamente diffusa l’aspirazione ad avere un vero partito comunista che abbia e diffonda un orientamento comunista, elabori una linea politica giusta, la traduca in piani di lavoro e abbia con le masse popolari, e in primo luogo con la classe operaia, i legami necessari per guidare le masse ad attuare i suoi piani. Si diffonde sempre più la coscienza che senza un vero partito comunista non solo non è possibile passare dall’opposizione all’imperialismo all’instaurazione del socialismo, ma non è possibile neanche sviluppare su larga scala la lotta per la difesa delle conquiste e le altre lotte rivendicative. Persino gli avversari del partito si rifugiano sempre più dietro il pretesto che non esistono ancora le condizioni: ma si tratta di condizioni che o in realtà non sono necessarie (l’adesione al partito di grandi masse, il loro consenso preliminare al partito) o che essi non si impegnano a creare valorizzando quello che già esiste (progetto di programma, organismi di partito). In conclusione, cresce il numero dei compagni e dei lavoratori avanzati che vogliono che si costituisca il partito comunista.

Questo non capita per caso. È il risultato di tre fattori: 1. l’esperienza diretta che compagni e lavoratori hanno fatto che senza partito vi è dispersione di forze e pochi risultati, 2. la lotta accanita condotta per propagandare la ricostruzione del partito (e di essa fa parte la campagna condotta dal Fronte Popolare per la ricostruzione del partito comunista durante le ultime elezioni politiche), 3. l’influenza del lavoro di costruzione che abbiamo condotto finora. Questi tre fattori sono di natura diversa, giocano e continueranno a giocare ruoli diversi: è la loro combinazione che produce buoni frutti.

Ovviamente questo stato d’animo diffuso tra lavoratori e compagni è giusto, la loro aspirazione è positiva. Costituiscono un buon punto di partenza per il nostro lavoro, un terreno favorevole per la ricostruzione del partito. Ma occorre trasformare questo stato d’animo e questa aspirazione in collaborazione con gli organismi di partito e, soprattutto, in arruolamento in un organismo di partito. Il partito non scende dal cielo, non è costruito da superuomini, non ce lo regala nessuno. Occorre che ogni compagno convinto che bisogna costruirlo, aderisca a una delle organizzazioni del partito o la costituisca. Bisogna promuovere la collaborazione e questa deve diventare l’anticamera dell’arruolamento. Sicuramente ogni compagno che si arruola, riuscirà poi a raccogliere e valorizzare l’aiuto di molti altri che collaboreranno con gli organismi del partito e in parte finiranno con arruolarsi anch’essi. Il partito esiste non solo perché lo proclamiamo, ma soprattutto, perché si forma un organismo nazionale capace di avere e diffondere un orientamento comunista, di elaborare una linea politica giusta, di tradurla in piani, di stabilire e rafforzare con le masse popolari legami tali che gli consentano di dirigerle. Il partito si rafforza nella misura in cui diventa l’avanguardia organizzata della classe operaia, che raccoglie in sé gli operai più attivi, più capaci, più generosi: i capi dei loro compagni di lavoro.

Questo organismo collettivo è però composto di collettivi minori che a loro volta sono composti di individui, i comunisti. L’arte di definire i compiti dei singoli collettivi e dei singoli individui che li compongono e le loro reciproche relazioni è l’arte dell’organizzazione comunista.

Noi dobbiamo reclutare singoli compagni e fonderli in un collettivo che svolge un compito definito. La fusione degli individui a formare un collettivo comporta alcuni problemi.

Ogni compagno che si arruola compie un salto di qualità. Passa da un livello istintivo, “naturale” a un livello razionale, artificiale, superiore, politico. Quindi si trova davanti a problemi nuovi. Affronta una vita per molti aspetti diversa da quella che si aspettava, certamente diversa da quella a cui era abituato. Man mano che cresce l’esperienza, cresce anche la consapevolezza dei problemi che ogni nuovo compagno affronta e le conoscenze necessarie per aiutarlo a risolverli. Ogni successo e ogni sconfitta ci aiutano ad accumulare un patrimonio prezioso di metodi, criteri e misure: è il patrimonio del nostro settore organizzazione.

Uno dei primi compiti che un nuovo compagno deve affrontare è il superamento dell’individualismo. Ogni compagno e ogni lavoratore è più o meno abituato ad arrangiarsi per conto suo, nel bene e nel male. È la condizione in cui la società borghese lo pone, in cui cresce e in cui viene quotidianamente, capillarmente, insensibilmente educato. Ognuno per sé e dio per tutti! La società borghese pone ogni membro delle masse popolari in una condizione in cui la sua vita è sempre più strettamente determinata dalla società e la società è impersonata dal capitalista: dal consumo delle pappe omogeneizzate alle Nike, dal tifo sportivo alla scelta delle vacanze. Nello stesso tempo la società borghese, per la sua stessa natura, lo lascia a se stesso: l’indifferenza di ognuno per la sorte di ogni altro è la sua regola generale. Vi sfugge in parte ancora la famiglia, ma non a caso anche la famiglia viene erosa. L’eliminazione delle conquiste rende nuovamente generale la barbarie capitalista: ognuno per sé e dio per tutti.

Entrato in un organismo di partito, ogni compagno deve invece abituarsi a vivere in funzione dell’organismo che a sua volta vive in funzione del partito. Si capovolge l’interesse principale, lo sguardo, il punto di vista: non più il tuo ombelico che il capitalismo ti ha lasciato come ultimo obiettivo, ma qualcosa d’altro, qualcosa di fuori, qualcosa di più grande, cioè l’interesse collettivo di tutti i lavoratori. La coscienza, la creatività e l’iniziativa individuali diventano caratteri preziosi, ma devono essere messi al servizio del collettivo. Il collettivo non è più impersonato dal padrone, dal capitalista a cui sei incatenato dal bisogno, ma dai dirigenti che il collettivo si dà. Non è più regolato secondo gli interessi del capitalista espressi dai suoi ordini o dalle sue leggi, ma secondo gli interessi della classe operaia espressi dalla linea che il collettivo si dà. Ogni individuo è prezioso, nessuno è un esubero, se fa parte del collettivo. Quello che conta sono i passi avanti che il collettivo compie, la crescita della coscienza del collettivo, la sua capacità di trattare i suoi problemi di vita interna e di adempiere i compiti assegnati, il patrimonio di esperienze che il collettivo accumula: solo il collettivo può accumulare le forze rivoluzionarie e vincere la borghesia. Benché, ovviamente, un collettivo acquisisca tutto ciò nelle persone dei suoi membri. Ciò è chiaro, è razionale. Ogni operaio acquista potere sociale solo nell’organizzazione, come membro e rotella dell’organizzazione. Il compagno che entra nel partito, da una parte compie una scelta per sua natura individuale, che lo distingue dai suoi compagni di lavoro, dai suoi amici e dai suoi familiari. Ma questo massimo di individualismo lo porta a diventare la rotella di un meccanismo, al punto che ogni sacrificio individuale (anche della libertà e della vita) è accettato a condizione che faccia avanzare l’organismo. Non c’è altro modo per vincere. Ogni compagno che si arruola lo sa, i membri del collettivo devono dirglielo e spiegarglielo. Ma ciò non toglie che tradurre questa decisione in pratica quotidiana, in ogni aspetto della vita e dell’attività, pone egualmente dei problemi. Ognuno di noi subisce per necessità e per abitudine ordini e imposizioni dal padrone e dalle sue autorità costituite, ma non siamo abituati a subordinarci consapevolmente e volontariamente ad un compito, ad una linea, al collettivo che abbiamo scelto e al dirigente che lo impersona. È un’altra cosa e un’altra vita. Ora che abbiamo fatto una scelta di libertà dal padrone, per mantenerci fedeli alla nostra libera scelta dobbiamo subordinarci al nostro collettivo; la nostra libertà dal padrone esiste solo come libertà del collettivo e integrazione dell’individuo nel libero collettivo. È una trasformazione lunga e in molti casi dolorosa.

Nel partito e in ogni suo organismo vige il centralismo democratico. Questo si traduce in regole che sono diverse per ogni organismo e a seconda delle circostanze, ma conservano sempre due capisaldi. Da una parte il diritto e il dovere per ogni compagno di esporre la propria opinione e il proprio stato d’animo e di partecipare alla definizione della volontà del collettivo nelle forme stabilite ed accettate. Dall’altra la divisione del lavoro, la responsabilità individuale nell’esecuzione, l’obbedienza alle direttive, il rispetto della gerarchia stabilita dall’organismo, la difesa dei dirigenti e, per chi è designato a dirigere, assumersi la responsabilità, cercare le opinioni degli altri e rispettarle, favorire la crescita e la partecipazione di ogni compagno. La causa vince solo se altri compagni crescono. Non è la fiducia del singolo compagno che stabilisce il suo dirigente, ma quella del collettivo; il dirigente non dirige perché è convinto di essere più bravo, ma perché il collettivo lo ha incaricato di dirigere. Nessuno dei due aspetti è semplice, spontaneo, innato. Da una parte la società borghese per sua natura alimenta in ogni operaio la tendenza a delegare, a tenere le proprie opinioni per sé, ad attenersi strettamente a quello che il padrone gli impone di fare e, quando è chiamato a dirigere, a fare come il padrone, a credersi indispensabile, a difendere la propria posizione. Dall’altra ogni comunista ha rifiutato e rifiuta l’ordine sociale esistente, la gerarchia che lo impersona, il ruolo esecutivo che in esso gli è assegnato, l’integrazione in una società impersonata dal padrone. La vita nel collettivo del partito è un’altra cosa. Dire la propria opinione anche se è impopolare, farsi un’opinione responsabile anche sul lavoro che non si deve svolgere direttamente, eseguire fedelmente e creativamente la direttiva di un compagno che l’organizzazione ha messo a dirigere, non misurarsi con lui da individuo a individuo ma dare il massimo contributo al funzionamento dell’organizzazione, conferire all’organizzazione le proprie esperienze, discuterle col proprio collettivo, accettare le conclusioni del collettivo e le direttive che i suoi dirigenti danno, dirigere secondo le decisioni del collettivo.

Un altro problema serio è la propria vita privata. La società borghese impone una certa concezione della vita privata. Da una parte è il padrone che ne stabilisce i confini (orario di lavoro, ecc.) e le forme (i soldi che hai, i beni e i servizi che la società mette sul mercato). D’altra parte, nei confini stabiliti dal padrone, nel bene e nel male sono fatti tuoi. Nel collettivo di partito è tutt’altra cosa. Da una parte niente è assolutamente privato. Questo vale per ogni compagno e per i rivoluzionari di professione in misura più stretta. Ogni segreto mantenuto rispetto al partito, è un terreno su cui la borghesia prima o poi farà leva per ricattarti, creare tra i membri del partito incertezza, sfiducia e diffidenza, metterti contro il partito. È una misura base di vigilanza che ogni membro del partito sia, per gli altri membri del suo collettivo e per i suoi dirigenti, un libro aperto, senza riserve. Dall’altra parte il partito deve sostenere ogni suo membro in ogni passaggio della sua vita, deve usare dei suoi mezzi perché ogni compagno superi i problemi che le condizioni pratiche e spirituali della società borghese e la sua storia personale hanno accumulato in lui e nello stesso tempo deve avere molta tolleranza e rispetto per gli aspetti specifici propri di ogni individuo e anche per il tempo e i percorsi necessari a superare abitudini negative, favorire l’entusiasmo per la trasformazione continua, la ricerca di un di più per sé e per gli altri.

Arruolarsi nel partito comunista è insomma una scelta di vita e una svolta. È questo complesso di problemi e altri ancora che inducono varie persone che predicano la necessità del partito comunista, anche persone che ne sono sinceramente convinte, a rimandare a domani il loro arruolamento in organismi di partito, a rinviare, per quanto sta in loro, il partito a un futuro immaginario in cui questi problemi si dovrebbero risolvere senza fatica, sforzo e sofferenza o addirittura non esistere affatto. In realtà, prima si incomincia e più presto si arriva: i problemi non scompaiono perché non si affrontano. Gli opportunisti non li affrontano mai e mai li risolvono.

Mi resta da dire, che non bisogna farsi spaventare dalla trasformazione che dobbiamo affrontare. Altri l’hanno affrontata e superata nei 150 anni di vita del movimento comunista. Non solo alcuni grandi intellettuali (come Marx, Engels, Lenin, Gramsci), ma anche migliaia e milioni di operai, di contadini poveri, di semplici lavoratori, di giovani e di donne che la società borghese guardava con disprezzo. È un’impresa del tutto possibile. D’altra parte è vero anche che il partito deve prevedere e prevede vie di ritorno per quei compagni che ad un certo punto non se la sentono più di andare avanti. Il partito non è una sala d’aspetto in cui si entra e si esce con facilità e con superficialità. Esso però fa i conti con la realtà che dobbiamo trasformare, con le condizioni concrete della società borghese. La candidatura serve a verificare la capacità e la volontà di ogni compagno di entrare nei ranghi del partito. Ma anche una volta diventati membri del partito, se per un qualche motivo un compagno deve o vuole lasciare, il partito prevede la possibilità che lo possa fare non solo senza infamia ma anche in modo da non ledere la causa alla quale fino allora ha contribuito e alla quale potrà continuare a contribuire, ad un altro livello e in altre condizioni. Quello che ha dato al partito, resterà a suo onore e sarà valorizzato da quelli che continueranno e da quelli che verranno.

Miriam R.