Cristoforo Colombo

Le condizioni economiche e politiche degli anni ’70

Capitolo 2°
martedì 15 agosto 2006.
 

2. LA CRISI DEL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO

La «crisi del movimento rivoluzionario» è diventata oramai un luogo comune. E’ un tema obbligato sia della borghesia e dei suoi portavoce tradizionali e nuovi, sia di molti esponenti del movimento rivoluzionario. In questo capitolo cercheremo di capire in cosa consiste questa crisi e cosa dobbiamo fare per uscirne.

Le condizioni economiche e politiche degli anni ’70

In Italia esisteva qualcosa di simile alle condizioni necessarie allo sviluppo e al successo di una rivoluzione sopra indicate e desunte dall’esperienze di tutti i moti rivoluzionari avvenuti in Europa in questo secolo?

Se non esistevano, chi parla di crisi perchè non abbiamo vinto, non abbiamo fatto la rivoluzione, persiste a sostituire i propri desideri all’analisi materialista dei modi e delle cause del movimento della società.

Facendo cosi, butta via inevitabilmente anche le conquiste reali della lotta di quegli anni.



La crisi della classe dominante

Nel periodo compreso tra il 1968 e il 1978 si hanno nella classe dominante italiana contraddizioni acute ed un notevole sbandamento.

Questo è dimostrato da:

-  lo sviluppo eccezionalmente elevato di progetti eversivi da parte di gruppi della classe dominante (Rosa dei Venti, P2, ecc.),

-  lo sviluppo del terrorismo di stato (da P.za Fontana in avanti) e l’ampiezza assunta dal progetto di una parte della classe dominante di rianimare lo squadrismo fascista come forza di repressione parallela ed extralegale,

-  le continue modificazioni di maggioranze di governo (non solo cambi di governo, visto che questo in Italia è un dato costante dal 1948),

-  lo sbandamento d’indirizzo che portò tanti esponenti della classe dominante e in particolare i loro figli a flirtrare col movimento di protesta delle masse, e vari esponenti della burocrazia statale, inclusi esponenti delle Forze Armate e delle Forze di Polizia, a intrecciare rapporti con esponenti del movimento di massa,

-  l’incapacità, durata vari anni, dei gruppi industriali di reagire efficacemente alla conflittualità diffusa nelle fabbriche e all’ingovernabilità delle fabbriche,

-  la tolleranza delle forze di polizia verso i servizi d’ordine dei gruppi e la diffusa cooperazione tra servizi d’ordine e forze di polizia,

-  il succedersi caotico sia di concessioni economiche (aumenti salariali, servizio sanitario nazionale, presalario scolastico, punto unico di contingenza, ecc.), normative (Statuto dei lavoratori, ecc.) e legislative, sia di conati repressivi (repressione militare di manifestazioni di piazza e stragi di stato),

-  il via dato all’indebitamento pubblico e all’inflazione,

-  la fuga dei capitali all’estero,

-  il grande sviluppo della criminalità organizzata, mafia e affini, interna alla classe dominante,

-  la lotta all’ultimo sangue attorno al progetto Moro della nuova maggioranza governativa di «solidarietà nazionale».

Questo inizio di sbandamento è dovuto all’inversione della fase economica (culmine del boom e inizio del declino, crollo di alcune strutture internazionali su cui si era retto il ciclo economico: sistema monetario di Bretton Woods, shock petrolifero, lotta acuta tra gruppi capitalistici internazionali, ecc., indebolimento dell’egemonia USA acuita dalla sconfitta inflitta dal popolo del Vietnam) e allo sviluppo delle premesse del progetto di costruire una società del benessere oltre quanto compatibile con le concrete condizioni della valorizzazione del capitale (assemblearismo diffuso, diritto di sciopero portato all’estremo come esercizio individuale del diritto, ecc.).

Lo sbandamento non è limitato alla classe dominante italiana, ma in Italia è più acuto e più persistente che negli altri paesi imperialisti. In Francia è una crisi acuta ma breve, nella RFT si risolve col cambio al governo tra DC e SPD, in Inghilterra e negli USA la crisi nella classe dominante è ancora più contenuta.

Alla classe dominante italiana però restano ampi margini di manovra. Infatti la situazione economica è ancora florida, il processo produttivo è lungi dal collasso, le classi borghesi degli altri paesi imperialisti sono in grado di prestarle larghi aiuti. La classe dominante può prendere tempo e riorganizzarsi.

Lo sbandamento viene superato senza cambiamento traumatico di regime, avviando una modificazione strisciante attraverso il cambio del Presidente della Repubblica, la direzione del governo affidata ad esponenti non democristiani, il pentapartito, la decretazione d’urgenza, il licenziamento dei 60 alla FIAT, l’autunno 1980 alla FIAT, ecc.

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Il movimento delle masse

Il movimento di massa degli anni 70 era tutto rivendicativo e di protesta.

Fu più una prosecuzione ed un portare all’estremo i contenuti e le forme delle lotte degli anni precedenti, fino a renderne chiare i limiti e l’impossibilità pratica, che un prodotto della nuova situazione. Era un movimento che lottava per avere di più, sul piano della distribuzione del reddito, delle condizioni di vita e di lavoro, della partecipazione agli istituti della democrazia borghese, non un movimento di masse che lottavano per sopravvivere. Anche se, avvenendo nel periodo di passaggio dal culmine del boom economico postbellico all’inizio della crisi economica, aveva in sè la contraddizione tra la massimizzazione e l’estremizzazione delle richieste da parte del movimento e l’impossibilità, o almeno la riduzione delle possibilità, di dare di più da parte della borghesia. Ma la rivoluzione non è solo il confluire di lotte rivendicative e di protesta, specie se esse trovano ancora parziale soddisfazione.

Se, come si deve, si parte dall’analisi del movimento economico della società, gli anni 70 sono solo l’inizio di una nuova fase, e segnano la fine del tentativo della borghesia di costruire una società di benessere nella metropoli imperialista. La propensione delle masse a combattere non è assente, e da questo infatti nascono le organizzazioni comuniste combattenti, ma non si traduce praticamente in più di qualche decina di migliaia di uomini mobilitati in armi o coinvolti in operazioni di appoggio a gruppi armati. La diffusione e autonomia dei gruppi armati testimonia però del loro carattere di massa: erano il risultato estremo, la punta più avanzata del movimento delle masse. Questa fu la loro forza, la ragione del loro sorgere e la possibilità del loro perdurare nonostante la debolezza dell’impianto politico.

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Le organizzazioni rivoluzionarie e le bande

Le organizzazioni rivoluzionarie che si contendono la guida del movimento di massa negli anni 70 sono tutte nuove, sorte nel corso delle lotte rivendicative e di protesta di quegli anni (movimento studentesco, autunno caldo, ecc.). Dovevano costruirsi e nello stesso tempo costruire anche il loro rapporto con le masse.

Esse non hanno alcuna continuità con l’esperienza rivoluzionaria della Terza Internazionale. I trent’anni di predominio del revisionismo moderno hanno fatto piazza pulita.

Dapprima le organizzazioni rivoluzionarie sorgono su rivendicazioni immediate, poi esprimono parole d’ordine più generali, ma proprio per questo meno corrispondenti alla loro reale pratica.

Fondamentalmente le prime organizzazioni che si formano sono rivendicative estremiste nell’ambito dell’esistente regime politico ed economico.

La seconda ondata che si forma è caratterizzata dalla lotta armata ed è quì che si determina oggettivamente il salto, che i protagonisti non avvertono. Le bande sono la parte più avanzata, perchè dotata di un impianto teorico e politico più organico, con legami meno tenui con la tradizione comunista, più sistematicamente tesa a porre l’azione combattente all’interno di un progetto di mobilitazione del proletariato e delle masse per la conquista del potere.

Ma anche le organizzazioni combattenti sono un prodotto dello slancio del movimento popolare dell’epoca, con le generosità, le velleità e le ingenuità di un movimento nuovo.

Solo man mano che il movimento avanza, che la situazione politica attraversa fasi contrastanti, si incomincia a consolidare un’esperienza, si inizia una verifica pratica delle teorie, delle strutture e degli uomini. Nelle organizzazioni combattenti vengono in luce, e si cristallizzano in organizzazioni distinte, le varie anime che erano confluite nella lotta armata. Ognuna si caratterizza sempre più, man mano che viene meno il comune retroterra e motore: la possente spinta del movimento di massa che unificava, dava forza e permetteva di eludere la verifica della linea nella pratica.

Prima Linea si rompe in spezzoni sempre più simili a cricche attorno ad un capo, fino a liquidarsi nella dissociazione.

Alcuni gruppi si danno all’esproprio per le masse, altri ad amministrare la «giustizia proletaria» colpendo i borghesi «colpevoli», altri si danno al sindacalismo armato, altri all’organizzazione dell’emarginazione e del ribellismo vitalistico, altri si pongono il problema della costruzione e del salto al partito.

Inizia una fase in cui si tratta non più di procedere sull’onda dell’entusiasmo, ma di raccogliere, selezionare, verificare e rendere organici e sistematici i risultati e gli insegnamenti della fase trascorsa.

Questa seconda fase è ancora in corso e al suo travaglio viene dato il nome di crisi del movimento rivoluzionario.

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Nelle analisi delle organizzazioni combattenti il predominio della cultura borghese progressista è pressochè completo, come abbiamo cercato di mostrare.

Il PCI non era solo la via democratica e parlamentare al socialismo, cui contrapporre la lotta armata. Era anche - ed anzi la via democratica e parlamentare trovava giustificazione in - una data concezione del movimento economico e politico della società borghese (catastrofista fino allo VIII congresso in contrasto con l’andamento reale; apologetica dopo l’VIII congresso, non vedendo la crisi che si avvicinava e anzi sostenendo che la società capitalista aveva trovato il rimedio alla tendenza alla crisi e alla guerra). Il PCI degli anni 40 e 50, anche nelle sue correnti di sinistra, non si era reso mai conto che la partita era momentaneamente chiusa perchè il capitalismo grazie alla 2° Guerra Mondiale avrebbe avuto davanti 30 anni di sviluppo sostanzialmente ininterrotto, salvo le essenziali oscillazioni cicliche, non tali da riunire in alcun momento le condizioni per un’insurrezione vittoriosa. Dopo l’ottavo congresso esso approda sempre più ampiamente alla cultura borghese, anche se continua ancora per anni a stampare letteratura del movimento rivoluzionario e comunista internazionale.

Come dicono gli autori di Politica e Rivoluzione «la guerriglia in Italia ha avuto come ascendenti più i Tupamaros che non la Terza Internazionale, più la mistica dell’azione audace che non il respiro profondo dell’insurrezionalismo!» e ancora «Per molti versi la base teorica della Lotta Armata si è formata da zero, riesumando un po’ di ricordi resistenziali, raccogliendo frammenti di esperienze da innestare sui filoni del marxismo-leninismo o dell’operaismo. In questo senso ha imparato da sé, teorizzando su se stessa e autocondannandosi all’empirismo.».

Consideriamo la concezione del mondo, le linee e i programmi delle organizzazioni combattenti, compreso anche il meglio di esse, le bande: cosa resta oggi, se non sistematizzazioni di alcune delle banalità della cultura corrente (SIM, ecc.)? (21)

Una disanima esauriente delle basi teoriche e della genesi delle tesi delle bande è stata fatta dagli autori di Politica e Rivoluzione e a questo libro rimandiamo. La disanima conferma che non è in questo campo che le bande hanno dato il loro contributo positivo al movimento comunista. Per poter avanzare, sarà utile che venga fatto anche un inventario degli elementi di analisi della società, messi in campo dalle organizzazioni combattenti, che sono stati confermati dalla pratica e quindi vengono a costituire nostro patrimonio per il futuro.

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Sulla debolezza delle organizzazioni, dei capi e dei membri delle bande e delle organizzazioni combattenti in generale, tipica di organizzazioni di massa nuove, non occorre perdere molte parole, visto che i fatti successivi si sono già incaricati di mostrare abbondantemente la cosa. Quanti capi e membri hanno resistito e fatto fronte alla nuova situazione?

La sorte di vari membri delle bande e di altre organizzazioni comuniste combattenti, in particolare di quelli prigionieri, conferma pienamente che le organizzazioni comuniste combattenti negli anni 70 nacquero e si svilupparono come organizzazioni di massa. In particolare lo confermano il folto gruppo di compagni che non cedono alla collaborazione con lo Stato, ma si rinchiudono in una rassegnata resistenza, incapaci di sviluppare, da soli e nella situazione di disgregazione, iniziative di ripresa e assumono un atteggiamento tipico del proletario con coscienza di classe tenace ma elementare, che si mobilita quando c’è movimento e ripiega quando questo viene meno.

L’atteggiamento più comune è stato quello dello scioperante e del dimostrante, che nel caldo della lotta si butta in avanti, trascina i propri compagni, porta all’estremo i loro sentimenti e le loro forme di lotta, ma che quando l’atmosfera si raffredda e si ritorna "a ragionare", si ritrova grosso modo con il livello di capacità e di coscienza di prima. E’ a quel punto che avviene la divisione tra

-  quelli che ritornano alla sottomissione ed inerzia di prima, con in più ricordi che vengono rielaborati e sistemati sulla base della cultura corrente, cioè della cultura della classe dominante;

-  quelli che sull’esperienza vissuta ragionano, ne fanno la chiave per una nuova lettura della società e del mondo, la comprendono nel suo ruolo reale e collocata nel suo contesto storico e sociale, ne fanno il punto di partenza per la loro attività futura.

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Questo aspetto della debolezza del movimento rivoluzionario dell’epoca mette in luce però un fatto importante che dovremo riprendere più avanti. Il fatto cioè che nel corso del suo sviluppo il movimento delle masse genera iniziative combattenti. E’ un fatto confermato dal movimento degli anni 70, ma che si è verificato in ogni fase di ascesa del movimento delle masse in tutta l’epoca imperialista. E’ proprio perchè succede questo, che l’iniziativa combattente è una componente necessaria dell’attività del partito e non una forma escogitata da intellettuali a tavolino. E’ proprio solo in questo che sta la possibilità della sua affermazione come aspetto stabile della lotta del proletariato anche nella fase di accumulazione delle forze in condizioni di accerchiamento da parte delle forze della borghesia, quando cioè le forze militari della borghesia sono assolutamente preponderanti rispetto alle forze militari del proletariato.

In questo senso è rilevante la polemica, apparentemente nominalistica, tra quanti sostengono che la lotta armata è una forma di lotta e quanti invece sostengono che è una strategia. Quelli che sostengono che la lotta armata è una forma di lotta vogliono sottolineare il fatto inoppugnabile, ma tuttavia negato da alcuni, che essa non è l’unico campo di azione del partito e che l’importanza del suo ruolo varia a seconda delle situazioni. Tra questi confluiscono quelli che sostengono la tesi che i protagonisti della lotta armata seguono l’andamento del ciclo, gli alti e bassi delle lotte di massa e che la lotta armata è propria solo della fase culminante del movimento. La polemica è alimentata dal fatto che effettivamente nel corso delle lotte degli anni 70 sorsero molte iniziative armate, prive di progettualità strategica, appunto perciò iniziative, forme di lotta di massa che sono scomparse quando il movimento delle masse è rifluito (Prima Linea e la miriade di gruppi ed organismi combattenti, fino all’iniziativa militare di singoli o sporadica, che non dava luogo alla costituzione di un gruppo combattente di una certa continuità). Questa tendenza spontanea è inevitabile, è comune ad ogni periodo di crescita del movimento delle masse: è anzi un indice della sua crescita. Essa presentava molti lati positivi. L’attrazione che il movimento esercitava su elementi sbandati, avventurieri, ecc. aveva aspetti positivi. Era un segno dell’egemonia e della forza del movimento. L’errore fu di lasciarsi influenzare dagli aspetti negativi che inevitabilmente questi si portavano dietro. Ancora una volta siamo alla mancanza di una salda concezione, di una salda linea, di una salda organizzazione capace

-  di influenzare gli elementi non proletari, latori della coscienza e dell’esperienza di altre classi, privi di esperienza politica,

-  di orientare, dirigere e valorizzare anche elementi sbandati, avventurieri, ecc. che inevitabilmente affluiscono nelle file del movimento rivoluzionario quando il movimento delle masse cresce,

-  di non lasciarsi influenzare da essi.

Avviene per la lotta armata quello che avviene in altri campi della nostra lotta. Quando il movimento delle masse è in ascesa vi affluiscono nuovi e numerosi militanti, proletari e anche di altre classi che le conseguenze negative della sopravvivenza del rapporto di capitale nella fase imperialista predispongono al ribellismo e al sovversivismo. Allora essere all’altezza dei suoi compiti per il partito consiste nel sapere incanalare i nuovi militanti nella giusta direzione, nel non lasciarsi travolgere dai loro limiti e difetti senza chiudersi a riccio e respingerli, nel saper far fruttare il loro apporto. Questo è possibile solo se il partito ha preparato le sue forze nei periodi di riflusso del movimento delle masse, nei periodi «tranquilli». Cioè se il partito non ha seguito il riflusso del movimento delle masse.

La lotta armata è una forma della lotta del movimento proletario nella fase imperialista, le cui dimensioni e il cui ruolo si espandono nei momenti di espansione del movimento delle masse e si riducono inevitabilmente se esso rifluisce. Appunto perciò è uno stabile campo di lavoro del partito, una forma stabile della sua attività, i cui obiettivi però cambiano di fase in fase.

Quanti sostengono che la lotta armata non è una forma di lotta ma una strategia, vogliono dire che essa rientra tra le attività stabili del partito comunista, che la sua esistenza, praticabilità e necessità non sono sottomesse agli alti e bassi del movimento delle masse. Quindi portano argomenti a favore della continuità dell’attività armata dei militanti anche nei periodi di stasi della mobilitazione di massa. La lotta armata non è una forma di lotta che sorge solo nei momenti dello scontro decisivo, durante i momenti acuti della crisi, ma fa parte delle attività con cui si accumulano forze e si preparano condizioni favorevoli al successo della rivoluzione.

Tra questi confluiscono anche quelli che sostengono la tesi che la lotta armata è l’unica attività rivoluzionaria, è l’unica attività dei comunisti, è in ogni momento l’attività principale dei comunisti. Confluiscono quelli che sostengono il carattere taumaturgico della lotta armata. Confluiscono quelli che sostengono una lotta armata d’elite e da gruppo emarginato, una lotta armata avulsa dal complesso del movimento delle masse, cioè una lotta armata destinata alla sconfitta o alla marginalizzazione. Da questi individui dobbiamo guardarci. Essi con le migliori intenzioni portano acqua all’obiettivo della borghesia di isterilire la lotta armata spoliticizzandola, riducendola a devianza sociale e ad attività da ghetto.

Il ruolo e il peso specifico che la lotta armata ha in ogni specifico passaggio della lotta del proletariato per il potere è ben determinato, come per qualsiasi altra attività, dalla concreta situazione politica. La combinazione delle varie forme di lotta, il loro peso è questione di tattica.

L’unica lotta armata d’avanguardia che può interessare i comunisti è quella che è elemento di mobilitazione, organizzazione, orientamento e direzione delle masse.