La Voce 2

Perché abbiamo bisogno del programma del partito

lunedì 12 luglio 1999.
 

 

Chi trascura il lavoro per la definizione del programma, è contrario (o indifferente) alla ricostruzione del partito o ha una concezione movimentista del partito, cioè concepisce il partito solo come un’organizzazione di lotta, alla maniera di Lotta Continua o di Autonomia o di una Organizzazione Comunista Combattente. Il movimentismo rappresenta una tendenza diffusa, una malattia storica del movimento comunista italiano: la tendenza a sottovalutare il ruolo della teoria rivoluzionaria, a trascurarla e a trattare con sufficienza e con insofferenza le persone e le iniziative che sviluppano e propagandano la teoria rivoluzionaria. Una tendenza che è il riflesso speculare della tendenza costituita dagli intellettuali accademici “di sinistra”, quelli che non fanno parte di organizzazioni rivoluzionarie, che si occupano di problemi che non c’entrano con i problemi del movimento pratico e che non si preoccupano di verificare nel movimento pratico le loro teorie.

Il movimentismo è una tendenza che, per quanto si richiami alla pratica, non è affatto pratica.

- Nella pratica noi abbiamo bisogno di un partito coeso, disciplinato, forte e alla lunga un partito rivoluzionario può essere coeso e disciplinato solo se i suoi membri sono uniti su una sua concezione del mondo e su un programma (per i movimentisti questo sa di setta, ma è un’accusa che i comunisti si sono spesso sentiti fare) e se personifica ciò che unisce gli operai al di là delle differenze e dei contrasti di categorie e di mestieri, di culture, di nazionalità, di sesso, di tradizioni e che li costituisce come nuova classe dirigente delle masse popolari: il programma del comunismo.

- Nella pratica noi abbiamo bisogno di un partito che sappia orientarsi nelle svolte e nei meandri della lotta politica, che sappia quindi orientare le masse: la capacità di orientamento di un organismo complesso come un partito non si improvvisa di fronte agli avvenimenti. È frutto di un’educazione del partito a considerare e comprendere gli obiettivi e il contesto della propria lotta.

- Nella pratica noi abbiamo bisogno di un partito legato alle masse profondamente e in mille modi, perché le masse lo alimentino e a sua volta alimenti il movimento delle masse. Il legame tra le masse e il partito è fondato principalmente sull’attività politica, ma il partito non riuscirà mai a svolgere il suo compito educativo nei confronti delle masse e a trarre dalle masse non solo seguaci della politica del momento ma nuovi comunisti, se non ha un programma.

Questo è anche l’insegnamento universale del movimento comunista. Ma per noi comunisti italiani la questione della concezione del mondo e della teoria rivoluzionaria riveste un’importanza particolare a causa di una nostra particolarità nazionale. Quando nel secolo XVI le forze feudali guidate dal Papato soffocarono la nascente borghesia, esse soffocarono (col rogo, con la prigione, col terrore, con la tortura e con la corruzione) anche la riforma intellettuale e morale che aveva accompagnato la nascente borghesia e che ha avuto i suoi ultimi e massimi esponenti in Nicolò Machiavelli, Francesco Guicciardini, Giordano Bruno, Galileo Galilei e Tommaso Campanella. Da allora nel nostro paese la chiesa cattolica, al di là delle apparenze e dei fuochi fatui alla Benedetto Croce, ha mantenuto il monopolio nel campo della cultura e della concezione del mondo, della teoria. Il Risorgimento non ha cambiato sostanzialmente la situazione. I figli della brande borghesia italiana sono stati educati nelle scuole dei preti, fin quando nel dopoguerra hanno incominciato a frequentare quelle degli imperialisti USA. Si pone quindi per il proletariato del nostro paese, per condurre in porto la propria emancipazione, anche il compito di fare un salto particolarmente grande in campo teorico e in primo luogo di rompere con l’indifferenza, la rinuncia e la delega a creare nel campo della teoria che da caratteristica della borghesia italiana hanno finito per diventare una nostra peculiarità nazionale. Già nelle Tesi di Lione del vecchio PCI (1926) Antonio Gramsci aveva affermato che “il Partito Comunista d’Italia ... non trova ... nella storia del movimento operaio italiano una vigorosa e continua corrente di pensiero marxista cui richiamarsi” (Tesi 25). Il concetto è ribadito nelle prime tre tesi dello stesso capitolo IV delle Tesi di Lione . Il proposito di una egemonia culturale e spirituale del proletariato nella società italiana prima della conquista del potere è velleitario nonostante la debolezza della borghesia italiana in questo campo: per essere la cultura dominante bisogna avere gli strumenti della classe dominante. Inoltre l’esperienza dei paesi socialisti ha mostrato che la classe operaia incontra particolare difficoltà a prendere il potere in campo culturale, proprio perché la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale è una delle divisioni di classe che nel socialismo vengono gradualmente eliminate. Ma il nucleo razionale della lotta condotta da Antonio Gramsci per una riforma intellettuale e morale e per l’egemonia culturale e spirituale del proletariato sta nel fatto che il partito della classe operaia italiana, per adempiere al suo compito politico, deve diventare portatore di una teoria rivoluzionaria che rompe con la tradizione clericale prima e americana poi della classe dominante del nostro paese. La sconfitta delle BR negli anni ‘80 è in sostanza dovuta al non essersi sottratte all’egemonia della cultura borghese di sinistra, alle carenze in campo teorico. L’indifferenza per la lotta in campo teorico, così diffusa e tenace nel movimento comunista italiano dai suoi inizi fino ai nostri giorni in contrasto con la ricchezza di lotte e iniziative pratiche, è figlia dell’indifferenza e della rinuncia che sono state caratteristica della borghesia italiana in questo campo a partire dalla sua sconfitta nel XVI secolo. È per noi più difficile superare un ostacolo che è diventato parte della nostra tradizione nazionale. Proprio per questo è indispensabile che dedichiamo a questo campo più energie di quelle che devono dedicarci compagni di altri paesi, stante il fatto che “senza teoria rivoluzionaria il movimento rivoluzionario non può svilupparsi fino a conseguire la vittoria”. L’origine e la pericolosità dei negatori della teoria rivoluzionaria, degli oppositori del lavoro sul programma, stanno proprio in questa nostra peculiarità nazionale. Lotta Continua e l’Autonomia sono il peggior retroterra del movimento che noi ereditiamo. La sconfitta del movimento degli anni ‘70 lo ha dimostrato.

L’opposizione al lavoro sul programma (l’inerzia, il non fare niente, la passività, ecc. sono una forma di opposizione), se si richiama al materialismo storico, si richiama in realtà a una caricatura del materialismo storico. Il materialismo storico ci insegna da dove vengono le idee, ma il materialismo dialettico ci insegna che le idee una volta diventate guida dell’azione delle masse, una volta assimilate dagli uomini diventano una forza materiale che trasforma il mondo. Ci insegna l’importanza delle idee nella pratica degli uomini e nella lotta delle classi. La classe operaia ha bisogno di idee giuste, di una concezione del mondo e di un programma.

A torto alcuni oppositori del lavoro sul programma del partito citano l’affermazione di Marx che “ogni passo di movimento reale è più importante di una dozzina di programmi” (Lettera del 5 maggio 1875 a Bracke che accompagnava la Critica al programma di Gotha ). Estrapolare una frase dal contesto per usarla a sostegno di idee sbagliate è una brutta abitudine e si finisce per fare anche cattiva figura. In primo luogo Marx aveva a che fare con un movimento operaio, quello tedesco, che non soffriva della peculiarità nazionale di cui ho detto sopra. Caso mai soffriva della peculiarità opposta: di filosofare troppo, come la sua borghesia del resto. La filosofia classica tedesca e il marxismo stesso lo stanno a comprovare. In secondo luogo Marx si trovava di fronte alla situazione concreta di due organizzazioni di lavoratori tedeschi (non due partiti come li intendiamo noi oggi, ma due partiti “di massa”, nell’epoca ancora di preparazione delle forze, prima che la storia entrasse nell’epoca del declino del capitalismo e dell’ascesa della rivoluzione proletaria) che si fondevano. Infatti prosegue: “Se non si poteva dunque - e le circostanze pratiche non lo permettevano - andare oltre il programma di Eisenach, si sarebbe dovuto semplicemente concludere un accordo per l’azione contro il nemico comune. Ma se si fanno dei programmi di principio (invece di rinviarli sino al momento in cui tali programmi siano stati preparati da una più lunga attività comune), si elevano davanti a tutti le pietre miliari dalle quali tutti giudicano il livello del movimento del partito. I capi dei lassalliani sono venuti perché le circostanze ve li hanno costretti. Se si fosse loro dichiarato in anticipo che non si sarebbe scesi ad alcun baratto di principi, essi si sarebbero dovuti accontentare di un programma di azione o di un piano di organizzazione per un’azione comune”. Ciò era giustissimo in un periodo in cui anche la semplice organizzazione dei lavoratori per lottare contro i padroni era un tale progresso nel cammino storico della classe operaia per costituirsi come classe a se stante, da far ricercare la massima unità. Per convincersene, basta rileggere gli Statuti provvisori dell’Associazione Internazionale degli Operai (1864) o studiare la storia della Prima Internazionale (1864-1876). Ma noi abbiamo già alle spalle le prime rivoluzioni socialiste e siamo alla vigilia della seconda ondata della rivoluzione proletaria. Il loro appellarsi a vanvera a una citazione di Marx, nelle circostanze attuali vale solo a confermare la scarsa importanza che movimentisti e opportunisti attribuiscono al programma e più in generale alla teoria rivoluzionaria. Ma in realtà Lenin e altri eminenti rivoluzionari comunisti hanno più volte indicato che la teoria rivoluzionaria è condizione indispensabile perché un movimento rivoluzionario possa svilupparsi fino alla vittoria. “Il movimento è tutto, il fine nulla”, affermava invece nel 1899 Bernstein, il padre di tutti gli opportunisti e promotore del primo movimento revisionista. Questa e non il comunismo è anche la concezione degli oppositori della preparazione del programma.

Nicola P.

10 aprile ‘99