La Voce 26

L’opera che i comunisti italiani devono compiere in questi mesi

venerdì 15 giugno 2007.
 

L’opera che i comunisti italiani devono compiere in questi mesi

La putrefazione del regime DC dura oramai da quindici anni. Il regime non ha ancora avuto un successore. Quindici anni fa alcuni minimizzarono l’ampiezza e la portata della crisi del regime DC. Si affrettarono a dichiarare che una seconda repubblica aveva preso il posto della prima. Oggi è a tutti evidente che non è subentrata nessuna seconda repubblica. In realtà non si trattava solo della crisi di un regime. La crisi del regime DC era il prodotto della nuova crisi mondiale dell’ordinamento sociale borghese. Il regime non era in crisi perché lo sviluppo ineguale delle forze che lo componevano richiedeva che tra loro si stabilisse una gerarchia diversa da quella su cui il regime era basato. In tal caso sarebbe stato chiaro quali erano le forze in campo, anche se solo uno scontro tra loro avrebbe potuto instaurare la nuova gerarchia. Nel caso concreto la crisi del regime DC era invece il frutto e l’espressione nazionale della nuova crisi universale dell’ordinamento sociale borghese. La riprova è che la crisi politica imperversa in tutti i paesi imperialisti. In tutto il mondo le relazioni di denaro (mercantili) e di capitale sono diventate un abito troppo stretto per un funzionamento razionale della società attuale. Senza crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) il sistema capitalista non sta in piedi, il suo sistema finanziario va in tilt e con esso va in tilt tutto il resto. Per aumentare il PIL deve devastare il pianeta, travolgere centinaia di milioni di uomini e donne nel marasma dell’emigrazione, della precarietà e dell’abbrutimento, obbligarli a tornare indietro di decenni.

 

Il regime clericale instaurato in Italia alla fine degli anni quaranta ha fatto sopravvivere l’ordinamento sociale capitalista nel nostro paese. Non aveva ridato il potere politico alla borghesia, neanche nella misura limitata in cui essa lo aveva esercitato prima del fascismo, in relazione di unità e lotta con il Vaticano e la sua Chiesa. 1 Il fascismo era stato l’estremo ricorso della borghesia e della Chiesa, uniti, per ristabilire con il terrore la sottomissione delle masse popolari, in primo luogo degli operai e dei contadini. Ma era stato anche l’ultimo tentativo della borghesia italiana per indurre le masse popolari a collaborare con il suo Stato. Durante il ventennio la borghesia ha fatto seri e originali sforzi per stabilire una sua egemonia diretta sulle masse popolari e modificare quindi il suo rapporto di forza con la Chiesa. Ma il tentativo era per sua natura velleitario, destinato al fallimento. Per gli stessi motivi per cui non era riuscito alla borghesia unitaria durante il Risorgimento. Travolta nella sconfitta del fascismo, la borghesia italiana non ha avuto altra possibilità che rifugiarsi sotto l’ala protettrice del Vaticano e della sua Chiesa sostenuti dall’imperialismo americano che, anch’esso, vedeva in questi l’unica forza in grado di mantenere l’Italia nel sistema imperialista mondiale. Il Vaticano e la sua Chiesa hanno largamente permesso alla borghesia di fare i suoi affari. Hanno garantito le condizioni politiche e sociali perché la ricostruzione postbellica avvenisse in forma capitalista. Ne avevano anzi bisogno: ne hanno approfittato largamente per attingere dal nostro paese le risorse necessarie allo sfarzo dei loro riti e della loro vita e a compiere con abbondanza di mezzi la loro “missione divina in Italia e nel mondo”. Come anche avevano bisogno che i chierichetti, i sacrestani e gli intellettuali cattolici, chiamati a fornire il personale laico del regime, trovassero con lo stato reale del paese un compromesso atto a rendere stabile il regime, a garantire l’ordine pubblico con mezzi moderni. La storia non si cancella. Era impossibile per motivi di rapporti di forza nel paese e incompatibile con il contesto internazionale ricacciare indietro le masse popolari, in particolare gli operai e i contadini, riportarli alle condizioni che la crisi generale del capitalismo, la prima ondata della rivoluzione proletaria e la Resistenza avevano sconvolto. Non era il caso di ingaggiare uno scontro frontale con il movimento comunista: sarebbe stato uno scontro dall’esito incerto. I revisionisti moderni che avevano saldamente in mano il PCI gliene offrirono il modo. Collaborazione leale, assicurazione che non avrebbero forzato i limiti compatibili con la natura dell’ordinamento sociale, ma nello stesso tempo portavoce di rivendicazioni economiche e culturali delle masse popolari. Era inevitabile che sia la borghesia che i revisionisti fossero profondamente marchiati dal parassitismo e dalla concezione feudale della società propri del Vaticano e della Chiesa che con i suoi interessi tentacolari raggiungeva anche l’angolo più recondito del paese e permeava anche gli aspetti più minuti della società italiana e ne condizionava con autorità la vita. “Capitalismo impresentabile”, “anomalia italiana”, “crisi della politica” e tante altre sono le categorie che oggi vengono coniate per caratterizzare la particolarità attuale del nostro paese. Ma è impossibile capire l’origine di quanto di vero queste categorie rivelano e mascherano, se non si guarda realisticamente in faccia la storia che abbiamo alle spalle, da cui viene il nostro presente, nel corso della quale si è formato il nostro presente. Altrettanto impossibile capire il nostro presente, le sue origini e quindi le sue leggi di sviluppo, le vie alternative di sviluppo futuro insite in esso, se non si guarda realisticamente in faccia il contesto internazionale che ha permesso che il regime DC avesse successo per un certo tempo e ne ha poi decretato la crisi: i trenta anni di ripresa dell’accumulazione del capitale e di espansione dell’attività economica e poi, dalla metà degli anni ’70, la seconda crisi generale del capitalismo.2 L’evidente crisi del regime DC è il risultato particolare, italiano, della crisi generale dell’ordinamento sociale capitalista.

Noi comunisti dobbiamo guardare in faccia la realtà, dobbiamo andare a fondo nell’analisi, dobbiamo chiederci il perché delle cose. Il nostro futuro non dipende dalle idee correnti. Non è lì che dobbiamo cercarlo. È inscritto nel nostro presente come uno dei suoi sviluppi possibili. È nelle idee solo nella misura in cui le idee riflettono abbastanza da vicino il nostro essere presente, la dialettica delle sue componenti, i loro contrasti e i loro legami. A noi le formule vuote, le mezze verità, le formule “algebriche” che vanno bene a tutti perché ognuno le riempie delle quantità aritmetiche che vuole, non bastano, anzi sono dannose. La borghesia deve nascondere, imbrogliare, confondere. Noi abbiamo tutto da guadagnare dalla conoscenza. Noi abbiamo bisogno della verità. Se non la cercassimo, nessuna buona volontà, nessuno sforzo eroico ci consentirebbero di scoprire e comprendere la strada che il movimento comunista deve seguire per fare del nostro paese un nuovo paese socialista. Non vedremmo realmente neanche che il successo di questa impresa è del tutto possibile. Al fondo del disfattismo e della sfiducia di molti compagni sta il rifiuto o l’incapacità di partecipare a un rigoroso lavoro teorico. Senza un nostro rigoroso, ampio e radicale lavoro teorico, noi resteremmo schiavi dell’influenza della cultura borghese, privi di autonomia ideologica dalla borghesia e dalla Chiesa. In questa fase l’incertezza e la timidezza del pensiero va di pari passo con il pessimismo disfattista e con l’esaltazione retorica e vuota. I compagni che non vogliono studiare sono a rischio: lo slancio e l’istinto difficilmente basteranno per reggere lo sforzo che la situazione richiede. Per decenni la cultura borghese, clericale e revisionista ha travisato la natura reale del regime che ci opprimeva. Ha presentato come invalicabili i suoi limiti e ha nascosto i suoi meccanismi di funzionamento. Ha dato per certa e immodificabile l’egemonia spirituale del Vaticano e della Chiesa su tanta parte della popolazione italiana. Ha in sostanza avvalorato quello che le mummie clericali proclamano: la Chiesa è eterna.

Ancora oggi lo fa. Stante la crisi politica i “laici” non riescono più a fare abbastanza. Il Vaticano e la Chiesa non sono più soddisfatti dei servizi dei loro “laici”. Quindi intervengono sempre più apertamente e direttamente nel “teatrino delle politica borghese”, ben più apertamente e direttamente di quanto lo facevano quando il regime DC era in forza. Ma nessun partito borghese attacca direttamente le soluzioni reazionarie che il Vaticano e la Chiesa cercano di imporre, per assurde e materialmente impossibili che esse siano. I “laici più laici” si limitano a dire che il Vaticano e la Chiesa dovrebbero essere più riservati, protestano per l’ingerenza, subiscono il ricatto dei “voti cattolici”, chiedono al Vaticano e alla Chiesa maggiore moderazione e discrezione, più rispetto per la “laicità dello Stato”. Nel merito delle questioni reputano il Vaticano e la Chiesa inattaccabili e invincibili. In realtà il Vaticano e la Chiesa sono sopravvissuti finora, hanno mantenuto un po’ della loro egemonia su una parte delle masse popolari e in particolare delle donne, anzi si sono ripresi dall’agonia cui erano avviati alla metà del secolo XIX, solo perché la borghesia, a livello internazionale e ancora più a livello nazionale, non ne poteva e non ne può fare a meno. Basta considerare l’appoggio che in ogni paese imperialista e nelle semicolonie la borghesia dà al sistema educativo della Chiesa. Per questo nelle loro analisi e denunce delle “anomalie” del nostro paese neanche i “laici più laici” osano arrivare a vederne la fonte storica e la causa presente da estirpare, perché la borghesia non può estirparla. Il suo destino è inestricabilmente unito a quello del Vaticano e della sua Chiesa. Quando gli uomini politici borghesi (tutti confusi, da Bertinotti a Berlusconi, da Prodi a Fini, da Draghi a Montezemolo) analizzano e denunciano i problemi del paese, è come se il dominio del Vaticano e della Chiesa non fosse mai esistito o comunque non avesse impresso la sua impronta morbosa nel carattere materiale e spirituale del nostro paese, in particolare della sua classe dominante. È chiaro perché la borghesia ha tanto rispetto per il Vaticano e la Chiesa. Fin dalla fondazione dell’Italia 150 anni fa, non reputa d’avere più solido puntello per il suo ordinamento sociale. A ragione non ha fiducia di poterlo tenere in vita senza tale puntello. Quindi, per quanto malcontenta, brontola, supplica, geme, si lamenta, depreca, ma non va più in là: come un socio di minoranza. Il Vaticano e la Chiesa hanno l’iniziativa in mano: i “laici” contrattano, tirano sul prezzo, ma non rompono, ci devono stare.

Il (nuovo)Partito comunista italiano è soddisfatto di aver raccolto l’eredità di Antonio Gramsci, di aver valorizzato la sua opera e di essere andato a fondo nello stabilire le origini delle particolarità del nostro paese. 3 Nell’ambito dei regimi politici dei paesi imperialisti del secondo dopoguerra, la particolarità di fondo della sistemazione politica del nostro paese consiste nel fatto che il Vaticano e la sua Chiesa sono il potere politico supremo di ultima istanza. È impossibile combattere un nemico, capire realisticamente le proprie possibilità di vincerlo, concepire le vie per vincerlo, osare combatterlo, se non si osa conoscerlo. È anche questo che ci permette di capire le reali oggettive possibilità di vittoria della nostra causa e di studiare quindi con sicurezza i mezzi per arrivarci.

Fin dalla creazione della “carovana”, capire dove eravamo, il contesto oggettivo, sociale, storico della nostra lotta è stata la base che bisognava gettare per poter avanzare. Per questo abbiamo costantemente criticato quei compagni che guardavano con indifferenza, con diffidenza o con ostilità il nostro lavoro teorico, non partecipavano e neanche ne approfittavano. Preferivano pascolare nelle vicinanze delle stalle borghesi, farfugliare formulazioni, versioni, appendici di sinistra delle formule con cui gli intellettuali borghesi (laici, clericali o revisionisti) mascherano e abbelliscono, ricamano la loro società in crisi, piuttosto che avventurarsi in un’inchiesta radicale basata sul patrimonio teorico e sull’esperienza del movimento comunista. La condiscendenza, l’ospitalità e gli ammiccamenti degli intellettuali borghesi e, in alcuni casi, le briciole che la borghesia lasciava cadere, li gratificavano e supplivano alla solidità dei loro argomenti. Invece di analizzare e denunciare il regime, si accontentavano di essere benvoluti o almeno tollerati dagli intellettuali del regime.

Noi abbiamo fatto nostro concretamente l’insegnamento dei dirigenti del movimento comunista: “Un movimento rivoluzionario proletario non può andare oltre un livello elementare senza una teoria rivoluzionaria che gli illumina la strada”. Alla fondazione del Partito, quasi tre anni fa, abbiamo rivendicato e posto la conquista raggiunta in questo campo come il principale dei due elementi che rendevano possibile e necessaria la costituzione del Partito. Abbiamo dichiarato: “L’elemento chiave e decisivo della vita di un vero partito comunista è l’unità sulla concezione comunista del mondo, che è anche bilancio del passato e direzione di marcia. Quindi è l’unità sul marxismo-leninismo-maoismo. Cosa questo vuol dire, il lavoro compiuto in molteplici campi negli anni passati dalla “carovana” e negli ultimi anni dalla CP lo mostra concretamente a ogni compagno interessato a conoscerlo”. 4

È su questa base che abbiamo tracciato la strategia che i comunisti devono seguire nel nostro paese: la strategia della Guerra Popolare Rivoluzionaria di Lunga Durata. Su questa base abbiamo specificato il lavoro da compiere nella sua prima fase (Piano Generale di Lavoro).

Senza queste premesse il nostro ulteriore lavoro non potrebbe svolgersi su vasto raggio e non potrebbe servire ai fini del nostro obiettivo: fare dell’Italia un nuovo paese socialista. Sarebbe un agitarsi alla cieca. È questa premessa che ci rende capaci di far leva in modo scientifico e sistematico sulla esperienza pratica della classe operaia e delle altre classi delle masse popolari per sviluppare la loro coscienza e la loro organizzazione fino a renderle capaci di instaurare il socialismo. È su questa base che possiamo e dobbiamo sviluppare con forza il nostro lavoro organizzativo.

Senza una teoria giusta, senza una linea giusta non potremmo avanzare. Ma una volta definita una teoria e una linea giuste, il fattore decisivo diventa l’organizzazione.

Anche le teorie più giuste e più belle restano lettera morta, inutili e non lasciano traccia se non sono assimilate dalle masse e non diventano guida della loro lotta pratica per trasformare il mondo. Questo concretamente oggi vuol dire: se non vengono assimilate da un organismo di uomini e donne e non diventano guida della loro attività pratica per consolidare e rafforzare il Partito fino a farne l’effettivo Stato Maggiore della classe operaia che lotta contro la borghesia imperialista. Persino il grande lavoro teorico di Marx ed Engels non avrebbe avuto alcun effetto sociale e sarebbe stato dimenticato se non fosse diventato la guida del movimento comunista. Solo se sono assimilate dalle masse le idee diventano una forza materiale che trasforma il mondo. La trasformazione della teoria in una forza materiale che trasforma il mondo la compie l’organizzazione.

Consolidare e rafforzare il Partito oggi vuol dire principalmente rafforzare la sua organizzazione: la sua struttura centrale clandestina, il sistema dei Comitati di Patito di base (cellule) e intermedi, le relazioni tra queste due parti. È l’insieme di questi tre elementi che, arrivato a un certo grado di crescita, farà del Partito il nuovo Stato Maggiore della classe operaia.

Abbiamo già detto che il nostro Partito sarà effettivamente in grado di assolvere al compito proprio del partito comunista, al compito di Stato Maggiore della classe operaia nella sua lotta contro la borghesia imperialista, quando avrà unito nelle sue fila almeno una parte importante degli operai avanzati del nostro paese, vale a dire dai 70 ai 300 mila uomini e donne. 5 Solo man mano che ci avvicineremo a questo traguardo il lavoro di consolidamento e rafforzamento del Partito cederà la priorità al lavoro di massa. Solo in quelle condizioni la nostra iniziativa sarà l’iniziativa della classe operaia, perché la classe operaia e il suo Stato Maggiore formeranno finalmente ancora una unità. Allora il nostro lavoro di massa cesserà di essere principalmente in funzione del consolidamento e rafforzamento del Partito. I rapporti si invertiranno. Lo scopo principale e la misura della bontà della linea del Partito saranno i risultati del lavoro di massa del Partito, cioè i successi della classe operaia nella lotta che condurrà contro la borghesia imperialista sotto la direzione del Partito. Finché siamo lontani da quel traguardo, ogni bilancio del movimento della classe operaia e delle masse popolari deve tener conto che esse combattono senza uno Stato Maggiore all’altezza della situazione o addirittura con una direzione in mano al nemico (la destra sindacale costituita dagli Epifani, dai Bonanno, dagli Angeletti e da altri simili tristi figuri). Chi non ne tiene conto, fa un bilancio permeato di spontaneismo. Al modo degli spontaneisti, fa un bilancio della lotta senza tener conto che è ancora una lotta senza comando, senza coordinamento delle forze e delle operazioni, senza preparazione delle battaglie che non siano il disfattismo, la disorganizzazione e la divisione sparsi a piene mani dalla stessa direzione, senza possibilità di vittorie decisive. È una guerra che gli operai e il resto delle masse popolari combattono in ordine sparso, in gran parte spontaneamente. Un simile bilancio normalmente o è disfattista, individualista e denigratorio delle capacità rivoluzionarie delle masse, o è un bilancio soggettivista, retorico, enfatico. Il rendimento di ogni individuo, quali che siano le sue doti o i suoi difetti, dipende in larga misura dal collettivo in cui opera. Chi non è spontaneista, sa che una guerra moderna è una guerra di masse che la possono vincere solo con una direzione adeguata. Nel fare il bilancio della situazione della guerra di classe e di ogni sua singola operazione o battaglia, tiene conto del grado in cui questa direzione effettiva si è formata. Finché la classe operaia non avrà un effettivo Stato Maggiore, l’importante ai fini dell’esito finale della guerra sono i progressi dell’influenza del Partito su questa o quella parte delle forze in campo, l’elevamento della coscienza e dell’organizzazione che qua e là singoli raggruppamenti delle forze in campo compiono, il reclutamento e il raggruppamento delle forze attorno al Partito che il singolo scontro ha determinato. Il contributo migliore, strategico, che ogni operazione della lotta di classe, ogni trasformazione individuale e di gruppo può dare, su cui va anzitutto valutata, per il quale, anche al di là della coscienza che i suoi protagonisti, il Partito già esistente la deve valorizzare è il contributo che essa dà alla creazione della direzione effettiva generale, alla formazione dello Stato Maggiore, al consolidamento e al rafforzamento del Partito.

Noi dobbiamo avere l’iniziativa in mano, prendercela proprio in questo lavoro. Muovere con iniziativa, secondo un nostro piano preciso, realistico, ben studiato, le nostre limitate forze di oggi per accrescerle. Beninteso, noi siamo del tutto contrari alla marcia e idealistica concezione trotzkista e bordighista di costruire un partito “grosso, diffuso, con militanti presenti e operanti ovunque” costituito da quadri pronti ad entrare in azione allo scoccare dell’ora X della rivoluzione. La concezione trotzkista e bordighista non è che la putrida concezione del partito che era prevalsa, nonostante gli insegnamenti di Marx e gli sforzi di Engels, nella II Internazionale e che ha dato la prova di sé nel 1914 e dopo. Riverniciata certo con altre parole, ridotta alla dimensione del “partito di quadri” mentre la II Internazionale aveva almeno il pregio di mobilitare delle masse, giustificata con la promessa volontarista di preservare la purezza teorica dei propri membri, della setta. È una concezione che in realtà nasconde, proclamandosi partito di quadri, il fatto, evidente a chi ben considera i fatti e la teoria e li combina, che essa rinnega o non ha mai assimilato uno degli apporti principali del leninismo al patrimonio del movimento comunista: quello relativo alla natura e al ruolo del partito comunista nella rivoluzione proletaria. Il partito comunista si sviluppa, cresce di forza man mano che cresce la mobilitazione rivoluzionaria delle masse popolari e in particolare della classe operaia. La sua crescita è un aspetto, il prodotto, il coronamento oltre che il motore essenziale della mobilitazione rivoluzionaria delle masse popolari. Il partito impara a combattere combattendo. È diffondendo e rafforzando la sua influenza al massimo che le sue forze consentono che il partito si lega alle masse popolari. Guardiamo la dialettica tra il partito comunista che lottava contro il fascismo tra il 1926 e il 1943, il partito comunista che promuove e dirige la Resistenza, il partito comunista che emerge dalle vittoriose insurrezioni del 1945 come effettivo Stato Maggiore della classe operaia: quando la classe operaia e le masse popolari seguivano le indicazioni del partito come un esercito proletario e democratico segue la direzione del suo Stato Maggiore. Nella rivoluzione proletaria non c’è un’ora X. La rivoluzione proletaria è una guerra, non un’insurrezione. Essa si sviluppa man mano che crescono le forze che la combattono, le forze che il partito riesce ad aggregare attorno a sé e a dirigere con iniziativa e secondo una linea giusta contro la borghesia. La concezione trotzkista, la concezione bordighista e la concezione della II Internazionale sono conformi alla concezione della rivoluzione che scoppia (il giorno X) o che, riverniciatura e abbellimento trotzkista e bordighista, viene scatenata dal partito (il giorno X). La nostra concezione è invece quella del partito che organizza e conduce la rivoluzione, la concezione leninista che ha trovato il suo completamento organico nella concezione maoista della Guerra Popolare Rivoluzionaria di Lunga Durata: un processo che si sviluppa per accumulazioni quantitative e per salti di qualità, per fasi. Il partito comunista non si prepara in attesa del giorno X quando scoppierà la rivoluzione. Il partito comunista costruisce, organizza, conduce giorno dopo giorno la rivoluzione secondo un piano.

È con questo occhio, con questa concezione che dobbiamo creare i nostri Comitati di Partito, in particolare i Comitati di Partito nelle aziende. Ogni Comitato di Partito deve accostarsi e partecipare alla lotta che gli operai e il resto delle masse popolari conducono contro il governo Prodi-D’Alema-Bertinotti. Ogni Comitato di Partito, oltre alle attività relative al suo funzionamento, deve svolgere un lavoro di massa. Quindi deve avere un piano preciso, per limitate che siano le sue forze, per legarsi alle masse popolari.

Beninteso, noi concepiamo il legame del partito comunista con le masse popolari in primo luogo come legame con le organizzazioni di massa, in secondo luogo come legame con gli esponenti avanzati delle masse che a loro volta mobilitano le masse. Non lo concepiamo al modo dei movimentisti: come “confondersi con le masse”, “mettersi al livello delle masse”. Chi concepisce in questo modo il legame dei comunisti con le masse, non capisce il senso del nostro lavoro. Il nostro legame con le masse consiste in ogni organizzazione, in ogni ambiente e in ogni ambito nell’individuare, mobilitare, rafforzare, organizzare la sinistra perché unisca a sé il centro e isoli la destra. Non diciamo alle masse che noi faremo questo o quello per loro. Diciamo alle masse quello che esse possono e devono fare per uscire dal marasma in cui la borghesia le ha impantanate. Nel corso di questo lavoro individuiamo gli elementi migliori, più generosi e più disposti e capaci di impegnarsi in un lavoro di lungo respiro e con ognuno di loro facciamo uno specifico lavoro di formazione per elevare la sua coscienza e la sua capacità di dirigere e in definitiva per reclutarlo al Partito.

Si tratta quindi anzitutto di stendere e attuare un piano per influenzare, orientare le organizzazioni operaie e popolari esistenti e le lotte che si sviluppano. Ogni CdP deve proporsi di affermare un orientamento giusto nel movimento esistente, di migliorare l’orientamento del movimento esistente. Su questa base e solo su questa base riuscirà a consolidare e rafforzare ad ogni livello l’organizzazione delle masse popolari già esistente: dal Partito clandestino alla più larga e pubblica, legale organizzazione di massa e a fare delle organizzazioni di massa il suo bacino di reclutamento, il bacino che alimenta il CdP.

Noi abbiamo spesso criticato e continueremo a criticare gli economicisti e gli anarcosindacalisti. Ma non li critichiamo perché partecipano alle lotte rivendicative e sindacali. Oggi non siamo noi a decidere quali lotte gli operai e il resto delle masse popolari fanno. Certamente bisogna partecipare a tutte le lotte che si sviluppano, nella massima misura consentita da un buon uso delle proprie forze. Ogni lotta e ogni mobilitazione crea circostanze favorevoli al lavoro di massa dei comunisti. Abbiamo criticato gli economicisti e gli anarcosindacalisti per il modo in cui vi partecipano. “Bisogna fare di ogni lotta una scuola di comunismo”: questa è la nostra linea. Ogni lotta, ogni mobilitazione è già di per se stessa una scuola di comunismo per chi vi partecipa. Insegna a organizzarsi, a stabilire e rafforzare relazioni, a individuare i nemici, a lottare, a scoprire e arricchire i mezzi e le forme di lotta, alimenta la coscienza e la conoscenza. L’azione dei comunisti potenzia questo carattere, ne fa una scuola di comunismo di livello e di efficacia superiori. Scuola di comunismo non vuol dire solo e a volte non vuole dire del tutto reclutamento al Partito, condivisione del programma e della concezione dei comunisti, simpatia per i comunisti. Questi sono risultati che maturano in tempi e in modi diversi a secondo delle classi, degli ambienti e degli individui. Scuola di comunismo vuol dire anzitutto portare un orientamento giusto nella lotta in corso e in ogni aspetto della vita sociale e individuale che la lotta fa emergere; in ogni scontro mobilitare la sinistra perché unisca il centro e isoli la destra; trattare, imparare e insegnare a trattare le contraddizioni in seno al popolo in modo da unire le masse e mobilitarle contro la borghesia imperialista; favorire i legami della lotta in corso con le altre lotte; allargare e mobilitare la solidarietà oltre la cerchia dei protagonisti diretti della lotta in corso; sfruttare ogni appiglio e aspetto che la lotta presenta per favorire l’elevamento della coscienza di classe; mobilitare tutti i fattori favorevoli e neutralizzare quelli sfavorevoli alla vittoria della lotta in corso; favorire la massima partecipazione possibile a ogni livello di ideazione, progettazione, direzione e bilancio; individuare gli elementi più avanzati e spingerli in avanti; favorire la crescita di ogni elemento avanzato al livello massimo che ognuno può raggiungere; far emergere il legame tra le varie lotte e i vari aspetti della lotta; insegnare il materialismo dialettico nell’azione; insegnare a diventare comunisti; ecc. ecc. In ogni organizzazione di massa già esistente si tratta di migliorare il suo orientamento, rafforzare l’autonomia dalla borghesia del suo orientamento e dei suoi obiettivi, mettere a tacere ed emarginare i dirigenti corrotti e succubi della borghesia, rafforzare l’autonomia degli altri dalla borghesia. E su questa base creare e rafforzare i rapporti del Partito con gli elementi che più avanzano, fino reclutare quelli capaci di fare un lavoro di partito.

Noi critichiamo gli economicisti e gli anarcosindacalisti per la concezione borghese che portano nelle lotte, per i limiti del loro intervento, per il carattere della loro attività, per la loro natura non comunista. Non perché sono presenti nelle lotte sindacali e rivendicative. Al contrario, ogni CdP deve darsi un preciso piano di intervento sistematico nelle lotte rivendicative e sindacali, in ogni lotta esistente, in ogni aggregazione delle masse: beninteso un piano proporzionato alle sue forze, non dispersivo. L’attività che ogni compagno compie in una lotta o in un’organizzazione, i criteri che segue, i problemi che affronta, il bilancio che ne trae devono essere oggetto delle riunioni del CdP e diventare materia del suo contributo e delle sue richieste alla struttura centrale del partito.

È principalmente attraverso questa attività di massa dei suoi CdP che il Partito influenza e orienta la lotta che le masse popolari conducono contro il governo PAB e la valorizza per il consolidamento e il rafforzamento del Partito. Solo con la costituzione dei CdP, con la costituzione di un sistema di CdP, con questo lavoro dei CdP le idee, la teoria, la linea del Partito diventano una forza materiale, influenzano in misura crescente l’evoluzione del nostro paese e contribuiscono alla rinascita del movimento comunista.

A proposito del lavoro dei CdP, credo sia utile esaminare in dettaglio le seguenti sei questioni.

 

1. Un CdP è un collettivo, piccolo (al massimo cinque membri, quando si supera questo numero, bisogna dividere il collettivo in due e formare due CdP, per poter funzionare secondo i principi, i criteri e le regole della clandestinità e secondo i principi del centralismo democratico), ma pur sempre un collettivo. Un collettivo funziona secondo leggi diverse da quelle di un singolo individuo. Deve regolarsi in modo da consentire una buona integrazione di ogni individuo, una buona valorizzazione delle qualità e delle doti di ciascuno e una buona neutralizzazione dei difetti di ciascuno. È sbagliato pretendere che tutti facciano tutto, che ognuno sappia fare tutto, che ognuno superi (per di più di colpo) i suoi difetti, che gli individui siano tutti eguali. Se il collettivo non è ben regolato e diretto, le doti di un individuo possono diventare un ostacolo per il collettivo. Se il collettivo è ben diretto, i difetti di un individuo possono diventare un vantaggio per il collettivo. Noi dobbiamo anzitutto curare che il collettivo funzioni bene: quindi regolamento, direzione, divisione del lavoro fatti alla luce del patrimonio universale del partito ma tenendo conto dei particolari e della situazione concreta più che ne siamo capaci. In secondo luogo bisogna curare la crescita di ogni individuo, in quello che sa fare di meglio, ma almeno in una certa misura anche in quello che gli riesce meno bene, che gli è più difficile fare. Alcuni difetti e limiti personali non pongono gravi problemi, per altri invece bisogna assolutamente impostare un programma di superamento e trovare la strada giusta per realizzarlo. Non farlo è un chiaro e sicuro indizio di opportunismo, che prima o poi porta al disfattismo e alla defezione. Il liberalismo provoca la mancanza di risultati e di vittorie, questa genera sfiducia, la sfiducia porta alla defezione. La formazione culturale e morale degli individui è una parte essenziale del funzionamento di ogni CdP e deve essere condotta con il metodo della critica, autocritica, trasformazione (CAT). Ogni CdP è un organismo in trasformazione.

Senza una concezione e una linea giuste non potremmo avanzare. Ma una volta elaborate una concezione e una linea giuste, il fattore decisivo diventa l’organizzazione. Anche le teorie più giuste e più belle restano lettera morta e non lasciano traccia se non sono assimilate dalle masse e non diventano guida della loro lotta pratica per trasformare il mondo. Concretamente oggi vuol dire: se non vengono assimilate da un organismo di uomini e donne e non diventano guida della loro attività pratica per consolidare e rafforzare il Partito fino a farne l’effettivo Stato Maggiore della classe operaia che lotta contro la borghesia imperialista. Solo se sono assimilate dalle masse le idee diventano una forza materiale che trasforma il mondo. La trasformazione della teoria in una forza materiale che trasforma il mondo la compie l’organizzazione.

Consolidare e rafforzare il Partito oggi vuol dire principalmente rafforzare la sua organizzazione: la sua struttura centrale clandestina, il sistema dei Comitati di Patito di base (cellule) e intermedi, le relazioni tra queste due parti. È l’insieme di questi tre elementi che, arrivato a un certo grado di crescita, farà del Partito il nuovo Stato Maggiore della classe operaia.

 

2. Ogni trasformazione è un salto di qualità. Ogni salto di qualità è il risultato dell’accumulazione di una certa quantità di elementi opportuni. Per creare una foresta, bisogna piantare molti alberi, non portare molte galline sul posto. Individuato il salto che si vuole e deve fare, si tratta di trovare uno, due, tre tipi di elementi che occorre accumulare, moltiplicare, ripetere un numero sufficiente di volte finché il salto è fatto. È un procedimento che funziona e che risponde al principio della dialettica della trasformazione della quantità in qualità. Nel nostro lavoro normalmente individuiamo delle trasformazioni necessarie. Precisiamo la trasformazione da compiere e ce la proponiamo. Ma come realizzarla? Se vogliamo parlare una lingua nuova, dobbiamo imparare vocaboli, regole di grammatica e di sintassi. L’apprendimento è faticoso ma semplice. Quando ne abbiamo imparato un certo numero, riusciamo a parlare e già la cosa mostra i suoi vantaggi. Raggiunto un numero più elevato, parliamo scorrevolmente e il salto è fatto. Un procedimento analogo vale per i comportamenti e le capacità degli individui e degli organismi. Bisogna fare ripetutamente gli esercizi adatti, ognuno dei quali comporta sforzo e fatica e ad un certo punto ciò che sembrava difficile e complesso, diventa semplice e i risultati lo confermano.

L’opera a cui ci siamo accinti, fare dell’Italia un nuovo paese socialista, è un’opera complessa, un grande salto di qualità. La rivoluzione socialista è la più grande trasformazione che l’umanità abbia compiuto a partire dalla divisione in classi in qua. Dobbiamo suddividere quest’opera immane in fasi più semplici, ogni fase in passi elementari e per ogni passo individuare le operazioni che devono concorrere a compierlo. Vedere per ogni passo quali trasformazioni comporta e come si combinano tra loro. Si tratta di fare nel campo della pratica quello che facciamo nel campo della conoscenza. Anche nella conoscenza all’inizio in ogni campo ci troviamo di fronte a un insieme apparentemente caotico. Dobbiamo analizzarlo, suddividerlo nelle sue parti componenti fino ai suoi componenti più elementari, comprendere la natura di ognuno di essi e le relazioni di ognuno di essi con gli altri, quindi rimontare i componenti, fino a ricostruire l’insieme che a quel punto non appare più un insieme caotico ma come un insieme ordinato di parti, ognuna al posto che per la sua natura le compete. 6 Un processo analogo bisogna fare nell’attività pratica, quanto il processo è complesso.

 

3. Il lavoro dei CdP comporta difficoltà differenti, ma di certo non inferiori a quelle affrontate dalla struttura centrale e dalla direzione. In un certo senso le difficoltà sono anzi maggiori. Da qui l’importanza delle esperienze-tipo, di imparare dalle esperienze-tipo e di diffondere nel partito, tramite la struttura centrale, i loro insegnamenti. Una volta tracciata una linea, il CdP deve attuarla. In cosa consistono le sue specifiche difficoltà?

Elaborare una linea generale è difficile: bisogna esaminare molti particolari e trovare quello di comune (l’universale) che almeno nella maggior parte di essi si riesce a vedere, la loro fonte comune, la legge comune. Tradurre una linea nella pratica quotidiana è in un certo senso ancora più difficile: ci si scontra con la materia sociale riottosa con le sue particolarità alla nostra attività trasformatrice. Dobbiamo imparare a vedere l’universale (l’operaio, la sinistra, la tendenza positiva, ecc.) precisamente nel particolare (nell’individuo, nel gruppo, nell’avvenimento, nella presa di posizione, ecc.) che abbiamo di fronte, nonostante tutto ciò che ha di specifico e di accidentale. Quando si elabora una linea si cerca di capire una legge, si considerano molti e svariati particolari che si scelgono opportunamente tra tanti, in modo da trovare quelli nei quali l’universale emerge abbastanza chiaramente. Intravedere l’universale nel particolare che ti è dato, è cosa difficile, concreta, artistica. Tutti sappiamo che le pietre di determinate rocce hanno dei piani di taglio ben definiti. Trovare precisamente nella pietra che hai sotto mano il suo piano di taglio, non è scontato. Imparare le regole di un mestiere è una cosa, praticarlo è un’altra. Non a caso quando si vuole dimostrare una legge, si fanno esperimenti di laboratorio, si cercano le condizioni più adatte e più favorevoli perché l’esperimento riesca, per evitare fattori collaterali che ne disturbano l’andamento. Un CdP spesso non sceglie, e comunque non ha mai molti casi tra cui scegliere quello su cui lavorare. Bisogna lavorare quali che siano le condizioni in cui ci si trova, le situazioni con cui si ha a che fare. Quindi bisogna avere idee chiare, pazienza, iniziativa, creatività, tenacia, provare e riprovare senza scoraggiarsi e senza farne un problema personale. Il problema è difficile, la soluzione esiste, trovarla non è semplice. Non a caso a volte si riesce a concludere un buon lavoro in ambiti apparentemente più difficili, a cui siamo esterni, che nell’ambito a cui siamo interni: perché i primi li scegliamo a ragion veduta.

In conclusione bisogna non scoraggiarsi per le difficoltà iniziali, per le sconfitte, per la mancanza di risultati: occorre affrontare il compito con iniziativa e creatività. È il compito che è in sé difficile. Solo dopo aver imparato, quindi avuto qualche successo, le cose marceranno più spedite.

 

4. Il sistema dei CdP comprende CdP di base (cellule) e CdP intermedi.

I CdP di base (cellule) sono quelli che fanno principalmente il lavoro sul terreno: nel reparto, nell’azienda, nella scuola, nell’ente, nel caseggiato, nel quartiere, nel paese, nell’organizzazione di massa dove sono costituiti. I CdP intermedi sono quelli che devono dirigere i CdP di base (cellule), devono promuovere la formazione dei CdP di base (allargare la rete), devono scegliere oculatamente un ambito (o due o più ambiti) tra i tanti possibili come loro terreno di intervento dove conducono un’esperienza-tipo di lavoro che, se si conclude con successo, si conclude con la costituzione di un CdP di base in quel terreno, una cellula che continuerà il lavoro iniziato come esperienza-tipo dal CdP intermedio.

Beninteso, un CdP di base fa principalmente il lavoro sul suo terreno, ma deve anche tener conto dei legami di ogni lotta con le altre lotte, delle relazioni di ogni ambito con gli altri, dell’influenza che la classe operaia esercita (e noi dobbiamo promuovere questo esercizio) sulle altre classi delle masse popolari. Quindi per forza di cose spesso l’attività di un CdP di base trasborda in altri terreni, pur avendo ogni CdP di base un suo terreno principale d’azione. È importante tener conto di questo anche perché un ambito non riuscirà a progredire oltre un certo limite se non progredisce anche l’ambiente circostante, se non promuove il progresso dell’ambiente che lo circonda. Questo trasbordare dell’attività è molto utile per l’espansione della rete dei CdP, per creare nuovi CdP di base. Quindi CdP intermedio e CdP di base devono coordinare questo trasbordare.

Oggi le tendenze erronee più diffuse nel lavoro di massa dei CdP sono le seguenti: i CdP intermedi svolgono in modo disordinato e spontaneista, cioè non come esperienza-tipo, lavori propri dei CdP di base; al lavoro di orientamento delle organizzazioni di massa non viene data l’importanza che ha nel lavoro del CdP, ogni suo membro lo svolge per conto suo; il CdP concepisce il suo lavoro di massa solo o principalmente come lavoro di propaganda “a pioggia”, anziché concepirlo come lavoro sulle organizzazioni di massa e sugli individui più avanzati: viene quindi trascurato l’aspetto organizzativo; il lavoro di orientamento svolto dai singoli membri del CdP non viene discusso e pianificato nel CdP, non viene assunto dal CdP come un suo lavoro e inglobato nel suo piano di lavoro.

 

5. Il partito comunista è il partito della classe operaia, deve diventare lo Stato Maggiore della classe operaia che lotta contro la borghesia imperialista, deve condurre la masse popolari ad instaurare la dittatura del proletariato, dirige il resto delle masse popolari tramite la classe operaia. Perché il partito diventi l’effettivo Stato Maggiore della classe operaia, sia capace di raccogliere ed elaborare i sentimenti e le aspirazioni migliori e l’esperienza della classe operaia e la sua linea diventi la linea di condotta che la classe operaia fa sua e realizza, occorre che nelle fila del partito siano reclutati gran parte se non tutti gli operai avanzati. È quindi chiaro che il lavoro di massa dei CdP deve essere rivolto in modo preferenziale alla classe operaia. I nostri CdP a qualunque livello operino, nel loro lavoro di massa devono dare la preferenza al lavoro per orientare le organizzazioni di massa operaie, devono dedicare particolare cura a stabilire relazioni con gli operai avanzati, devono dedicare particolare cura alla formazione degli operai avanzati, devono curare in modo particolare il reclutamento di operai avanzati nel Partito. Al loro interno, nel loro funzionamento devono dedicare particolare attenzione alla formazione dei membri operai e alla loro promozione a ruoli dirigenti.

Questo non vuol dire che bisogna spalancare le porte del partito agli operai. Né che nel Partito bisogna promuovere gli operai a ruoli dirigenti quale che sia il loro livello. Sarebbe una procedimento che brucerebbe gli individui e ostacolerebbe il progresso del nostro lavoro. Vuol dire che dobbiamo dedicare particolare attenzione, risorse e tempo alla formazione degli operai, per promuovere una leva di operai avanzati che diventano comunisti e, prima possibile, dirigenti del partito.

Tutto questo non va preso in termini dogmatici, schematici. Ci sono casi in cui per raggiungere un obiettivo, bisogna fare delle deviazioni. A volte per raggiungere la cima di una montagna, bisogna passare prima da un negozio di articoli sportivi, da una palestra, da un ufficio informazione, da una scuola di alpinismo. Bisogna anche in questo campo aver chiaro l’obiettivo e poi operare con creatività, iniziativa, aderenza alle condizioni concrete per raggiungerlo ma compiere ogni operazione in funzione dell’obiettivo da raggiungere.

 

6. La lotta contro il governo Prodi-D’Alema-Bertinotti crea un terreno più favorevole al lavoro dei nostri CdP e all’estensione della rete dei CdP. Nei sindacati di regime, in tutte le organizzazioni di massa, nel movimento popolare la destra appoggia la politica antipopolare del PAB. È un puntello importante del PAB. Quindi la sinistra si oppone, per sua natura, alla destra. Ma ci sono due modi di opporsi della sinistra a questa destra. Opporsi di malavoglia, opporsi volendo però mantenere a tutti i costi l’unità con la destra, tenere la destra alla direzione, pregare e supplicare la destra perché “faccia qualcosa di sinistra”, piagnucolare e lamentarsi: insomma fare l’opposizione della destra, l’ala sinistra della destra, essere a rimorchio della destra. O invece combattere con forza la destra, cercare di isolarla, osare prendere l’iniziativa, prendere la direzione, osare. Ogni CdP deve cercare di mobilitare e rafforzare la sinistra, fornirle parole d’ordine, analisi e sostegno, propagandare gli obiettivi e mostrare le possibilità di vittoria. Sfruttare le difficoltà della destra, che sta perdendo ogni sponda politica, perché il governo PAB va sempre più a destra, Bertinotti va a braccetto di Bush, Prodi a braccetto di Sarkozy, l’intervento umanitario in Libano produce nuove Sabra e Shatila.

Nello stesso tempo ogni CdP deve far valere nella sinistra una concezione dialettica, da dirigenti. Il partito comunista impersona l’autonomia della classe operaia dalla borghesia e da qualsiasi altra classe. L’autonomia della classe operaia è un principio su cui il partito non può transigere. La classe operaia deve cercare di sfruttare le divisioni in campo nemico, di sfruttare ogni appoggio e appiglio, di isolare di volta in volta il nemico principale e batterlo portando contro di esso il colpo principale, usando ogni volta che è possibile a proprio favore anche la forza del nemico secondario. La destra che dirige i sindacati di regime, gli Epifani, i Bonanno, gli Angeletti e gli altri tristi figuri di questa fatta non sono il nemico principale, sono dei servi. Come dirigenti portano gli operai alla sconfitta e alla sottomissione. Ma il nemico principale è la borghesia imperialista. A chi segue quei tristi figuri, la sinistra deve soprattutto mostrare come si fa a combattere e vincere i padroni. Deve mostrare con la parola, ma soprattutto con l’esempio di una direzione vittoriosa che la direzione di quei tristi figuri è dannosa per gli operai e per le masse popolari, che gli operai vincono se hanno una direzione che lotta per vincere. Bisogna educare la sinistra a dividere il nemico e a dirigere il colpo principale contro il nemico principale. Tra la borghesia imperialista e la destra sindacale, il nemico principale è la borghesia imperialista. Tra la borghesia di destra e la borghesia di sinistra il nemico principale è la borghesia di destra, perché è questa che dirige la borghesia di sinistra, la borghesia di sinistra non sta in piedi senza la borghesia di destra. Tra il Vaticano sostenuto dagli imperialista USA e la borghesia imperialista, il nemico principale è il Vaticano, perché la borghesia imperialista in Italia non potrebbe tenere il potere politico senza il Vaticano e la sua Chiesa. È per questa via che la sinistra diventa direzione di un movimento che avanza sulla via della vittoria.

Nicola P.



1 Qui e nel seguito uso ripetutamente l’espressione “il Vaticano e la Chiesa” perché è proprio questa combinazione che è specifica dell’Italia. Una Chiesa cattolica, gerarchica e clericale, oscurantista e filopadronale, esiste anche in altri paesi: dalla Spagna, alla Francia, alla Germania, al Belgio, ai paesi dell’America Latina. Ciò che rende particolare, tra tutti i paesi “cattolici”, la condizione dell’Italia è proprio la combinazione del Vaticano con la Chiesa. 

2 Vedere Il fiasco del 27 marzo 1994 (inverno 1994-1995), in Rapporti Sociali n. 16.

3 Plinio M., Il futuro del Vaticano (2006), in La Voce n. 23.

4 Nicola P., Il nuovo partito comunista (2005), in La Voce n. 19.

5 Nicola P., Elevare la qualità del nostro Partito per porre le basi del suo salto qualitativo (2005), in La Voce n. 20.

6 Karl Marx, Il metodo dell’economia politica (1857), in Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (Grundrisse), Introduzione.