La Voce 6

Costituire il Fronte per la ricostruzione del partito comunista che partecipi alle elezioni politiche del 2001

Appello alle FSRS
venerdì 31 novembre 2000.
 

Dopo la Liberazione dal fascismo, dal 1945 in poi, la destra del PCI ha fatto valere tra le masse la concezione che lo scontro tra le classi antagoniste (classe operaia (operai e braccianti), altri proletari, contadini e altri lavoratori autonomi da una parte e la borghesia dall’altra) poteva e doveva essere risolto con elezioni condotte sotto la dominazione economica e politica della borghesia anziché con la instaurazione del potere politico della classe operaia.

In un primo periodo (1945-1956) la destra tradusse in una linea politica concreta la concezione che non era possibile passare direttamente dal fascismo al socialismo, che era necessaria una tappa intermedia, detta nuova tappa della rivoluzione democratica o completamento della rivoluzione democratica o democrazia progressiva.

Era la concezione detta “della Costituente”. Questa concezione aveva cominciato a circolare in sordina nel partito all’inizio degli anni ‘30 (v. Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano , vol. 4 cap. 14). Essa era in contrasto con le Tesi di Lione che (tesi 4 del cap. 4) affermavano che l’unica rivoluzione possibile in Italia era la rivoluzione socialista e denunciavano espressamente (tesi 26 del cap. 4) il pericolo della deviazione di destra espressa nella proposta della Costituente. Nonostante questo nel partito non era stata condotta una lotta aperta contro la concezione della Costituente. Per presentare una facciata di apparente unità e per indifferenza ai problemi “teorici”, la direzione del partito l’aveva semplicemente condannata come concezione contraria alla linea del partito e accantonata.

Tuttavia la destra aveva tacitamente fatto rivivere proprio questa concezione nell’interpretazione e attuazione fatte da essa della linea del Fronte popolare lanciata dal VII Congresso dell’Internazionale Comunista (1935). La destra infatti aveva interpretato la linea del VII Congresso cancellando gli aspetti essenziali dell’autonomia del partito comunista nel Fronte, dell’egemonia della classe operaia e della priorità della sua alleanza con il resto del proletariato e delle masse popolari (in sostanza con i contadini) rispetto alla sua alleanza con la borghesia antifascista.

Essa era poi riuscita a far valere in parte questa linea nell’orientamento dato al movimento antifascista (composizione e linea dei Comitati di Liberazione Nazionale - CLN) e in particolare al movimento partigiano (politica di classe e formazione politica delle forze armate). La fece valere in modo più ampio e aperto subito dopo la Liberazione: disarmo dei partigiani, scioglimento delle istituzioni statali costituite nella lotta partigiana e durante l’insurrezione (CLN e altri), riconoscimento dell’autorità delle istituzioni del vecchio Stato e del regio governo di Roma, reintegrazione ai loro posti (salvo l’epurazione di qualche individuo) della burocrazia, della magistratura e delle forze armate del vecchio Stato, rispetto della proprietà dei vecchi padroni sui grandi mezzi di produzione (fabbriche e terra) e sulle banche, rispetto delle proprietà personali dei ricchi, deviazione e repressione delle tendenze insurrezionali espresse dalle masse nei momenti di maggiore mobilitazione.

Una volta restaurato il potere dei capitalisti in campo economico e il vecchio Stato in campo politico, la destra fece in modo che la questione del potere fosse demandata prima alla Assemblea Costituente (1946-1947) e poi alle elezioni generali del 18 aprile 1948. Benché la lotta antifascista e la Resistenza avessero prodotto una grande maturazione politica, una generale mobilitazione e una diffusa organizzazione delle masse popolari, le elezioni vennero vinte dalla borghesia. Essa aveva già in mano il potere politico e nelle elezioni fece valere la forza della sua dominazione: assoluta in campo economico e forte anche in campo culturale. La vittoria elettorale rafforzò il potere della borghesia perché presso la parte più incerta delle masse popolari conferì ad esso anche l’autorevolezza della volontà della maggioranza.

In un secondo tempo (ottavo congresso, dicembre 1956) la destra del PCI proclamò apertamente che le elezioni erano la via per instaurare il socialismo nel nostro paese (via parlamentare al socialismo, via elettorale al socialismo, via democratica al socialismo, riforme di struttura). Essa poté proclamare apertamente questa linea quando la sua forza nel partito venne accresciuta dalla vittoria dei revisionisti moderni nell’URSS e in gran parte del movimento comunista internazionale. Questo passaggio del vecchio PCI è illustrato nello scritto Ancora sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi (in Opere di Mao Tse-tung , vol. 19). Con questa dichiarazione la destra passò dal disarmo di fatto del movimento comunista al suo disarmo anche ideologico, alla sua corruzione e disgregazione.

La riduzione dello scontro tra le classi allo scontro tra partiti nelle elezioni condotte sotto la direzione della borghesia imperialista (tutti i partiti presentavano liste e facevano campagna elettorale, ma solo la borghesia imperialista disponeva del potere) ha accompagnato il processo di corruzione prima e anche di disgregazione poi del movimento comunista nel nostro paese. La deviazione elettoralista della destra è diventata la concezione e la linea del vecchio PCI e ha segnato fortemente tutto il movimento comunista italiano. In un duplice senso. Nel senso che, col favore delle condizioni pratiche (economiche e politiche) del periodo del capitalismo dal volto umano, ha radicato nella classe operaia e nelle masse popolari illusioni e abitudini pacifiste e perbeniste, interclassiste. Nel senso che ha reso molti sinceri comunisti allergici alle elezioni (chi si è scottato, ha paura anche dell’acqua fredda); restii anche a sfruttarle per quello che esse possono dare; propensi a fare dell’astensione dalle elezioni o dell’indifferenza ad esse un dogma anziché una misura tattica che deve essere valutata di volta in volta in relazione alla situazione concreta; in una certa misura propensi a considerare in modo unilaterale alcuni la lotta di massa e altri la lotta armata anche di piccoli gruppi come un talismano che apre ogni porta. Per alcuni compagni elezioni è diventato sinonimo di opportunismo e di conciliazione con la borghesia e l’astensione un dogma come lo è da sempre per gli anarchici, i blanquisti e altre correnti. Essere contro le elezioni è ancora oggi per alcuni compagni, che pur si dicono comunisti, una discriminante tra veri comunisti e opportunisti (come per altri lo è l’uso delle armi). Possiamo comprendere la posizione degli “astensionisti di principio”: essa è il castigo che ci tocca a causa della deviazione di destra prevalsa nel vecchio PCI e che tanto danno ha fatto al movimento comunista italiano. Come eredi del vecchio PCI, è inevitabile che ne paghiamo anche i debiti. Ma essa è sbagliata. Il debito lo paghiamo con le risorse di tempo, di pazienza, di energia che dobbiamo dedicare a combattere contro l’astensionismo di principio e contro la deviazione militarista.

Il modo di condurre la lotta politica derivante da queste concezioni non è materialista dialettico, quindi non è conforme alla concezione comunista del mondo e al metodo comunista di conoscenza e di azione. Noi dobbiamo rigettare la sottomissione ai luoghi comuni. Ogni misura tattica se viene trasformata in una regola generale o in un principio che esime dall’analisi concreta di ogni concreta situazione, diventa un luogo comune. L’astensione per noi non è una regola, è una misura tattica da adottare quando la situazione politica lo comporta, quando è vantaggiosa per la raccolta delle forze rivoluzionarie, per la mobilitazione delle masse. Lo stesso è per la partecipazione alle elezioni. In Italia i revisionisti moderni sono riusciti, usando anche le campagne elettorali, a frenare, corrompere e liquidare un vasto movimento di masse. Ma sono riusciti in questo intento anche in paesi come la Spagna da una parte e l’URSS dall’altra, dove lo strumento che hanno usato non sono state né le campagne elettorali né il parlamentarismo.

La nostra attuale situazione è ben diversa da quella in cui la destra del PCI usò le elezioni a scopo di diversione. Noi oggi siamo un piccolo gruppo di Forze Soggettive della Rivoluzione Socialista alle prese con il compito di ricostruire il partito comunista dopo il crollo del campo socialista, la classe operaia è in larga misura in preda allo sbandamento e alle sfiducia e gli stessi sedicenti comunisti (le FSRS) sono frammentati, con scarsa fiducia nella propria causa e in preda a mille deviazioni ideologiche (tra le quali anche l’astensionismo di principio e il militarismo). In questa situazione dobbiamo prendere le iniziative adatte alle nostre forze attuali, che migliorano le condizioni della nostra lotta e le condizioni della lotta della classe operaia e ci rafforzano. Corriamo dei rischi di deviazione di destra? Certamente. Ma oggi prevale l’importanza di raccogliere le forze per la ricostruzione del partito comunista. Quanto ai rischi, non possiamo adottare il criterio di non correre rischi. Dobbiamo imparare a saperli vincere, perché non c’è nessuna iniziativa, per quanto vantaggiosa, che non presenti rischi. Anche la vita comporta il rischio della morte. Ma noi siamo vivi, quindi viviamo!

Ernesto V.