Cristoforo Colombo

Il metro su cui misurare la crisi: le possibilità del movimento reale

Capitolo 2° - La crisi del movimento rivoluzionario
martedì 15 agosto 2006.
 

2. LA CRISI DEL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO

La «crisi del movimento rivoluzionario» è diventata oramai un luogo comune. E’ un tema obbligato sia della borghesia e dei suoi portavoce tradizionali e nuovi, sia di molti esponenti del movimento rivoluzionario. In questo capitolo cercheremo di capire in cosa consiste questa crisi e cosa dobbiamo fare per uscirne.

-  Il metro su cui misurare la crisi: le possibilità reali e i compiti oggettivi


Il metro su cui misurare la crisi: le possibilità reali e i compiti oggettivi

La crisi attuale del movimento rivoluzionario deve essere misurata sulle possibilità reali insite nella situazione di ieri e sui compiti che la situazione oggettiva attuale ci pone, non sulle aspettative e le illusioni dei protagonisti delle lotte di ieri che si aspettavano che la «conquista del potere» fosse a portata di mano, che sarebbe stata lo sbocco del movimento delle masse allora in corso.

Solo per una concezione idealista e meccanicista del movimento della società (18) alcuni ancora si ostinano a stabilire l’entità della crisi del movimento rivoluzionario sulla base della continuità o meno dell’azione combattente. Di conseguenza per essi il compito principale di oggi, come bandolo da afferrare per dipanare la matassa, è la ripresa dell’attività combattente.

I movimenti politici e rivendicativi, i movimenti di massa in genere hanno sempre un importante significato per il rivoluzionario, ma non per quello che essi dicono di sé, per la coscienza che essi hanno di sé, nè per quel che appaiono, ma per quello di cui sono sintomo. Il problema è capire di che cosa sono sintomo. Il loro risultato va misurato su quello che hanno effettivamente realizzato, non sulle loro aspirazioni.

Ci sono movimenti che un giorno sembrano volere scalare il cielo («lo stato borghese si abbatte e non si cambia!», «carabiniere, basco nero, il tuo posto è al cimitero!», «padroni, borghesi, ancora pochi mesi!», ecc., ecc.) e il giorno dopo non esistono più. Sono come le idee delle persone: un giorno grandi ideali e proclami (i famosi «ideali comunisti») e il giorno dopo quelle stesse persone obbediscono e tacciono, alcuni addirittura irridono a quello che erano il giorno prima.

Invece il materialista vede come punto di partenza, su cui misurare la situazione e scorgere le possibilità aperte alla sua attività, la situazione oggettiva e le tendenze in essa operanti. Quindi è avanguardia in quanto facilita, aiuta a svilupparsi quello che la realtà materiale via via fa spuntare, quello di cui essa è gravida.

Meccanicista, in quanto non vede il processo effettivo, non vede attraverso quale concatenazione e successione di anelli intermedi la situazione oggettiva genera idee e comportamenti: generazione che non è diretta, immediata, ma avviene tramite gli effetti delle iniziative culturali, politiche, rivendicative, propagandistiche, militari del partito e dei vari organismi che, con maggiore o minore coscienza, la favoriscono. La situazione oggettiva può generare, ma non è detto che generi (la 1° Guerra Mondiale in Francia non generò alcunchè!), nè che cosa generi (la crisi del ’29 in Germania generò il nazismo!).

L’arresto sostanziale dell’attività combattente nel 1982 non è stato la causa della nostra crisi, è stato solo un effetto di essa. Già da tempo la prosecuzione delle azioni combattenti sulla base dello stesso impianto teorico e politico era principalmente un danno, perchè logorava le nostre forze e costituiva una giustificazione alla mancata attuazione della trasformazione necessaria.

L’ascesa del movimento delle masse aveva creato le organizzazioni comuniste combattenti e ne aveva permesso il consolidamento e la riproduzione. Ma quando il movimento delle masse iniziò a rifluire a causa dell’impossibilità di andare oltre su quel terreno, di fronte alle difficoltà che incontravano e dovevano risolvere per dirigere il grosso delle masse nella nuova situazione che si veniva creando, le «avanguardie» rifuggendo dai loro compiti confluirono nelle organizzazioni comuniste combattenti. La nuova fase del movimento delle masse poneva alle bande il compito pressante di estendere e rafforzare la propria attività di orientamento e direzione nel movimento delle masse, di fare il «salto a partito», anche a costo di distogliere dall’attività combattente quadri dirigenti e militanti sperimentati. Ma le bande erano intente, come le altre organizzazioni comuniste combattenti, a condurre la loro guerra che si sviluppava molto bene e credevano (dirette da buoni soggettivisti e militaristi e quindi vedendo il mondo capovolto) che l’estensione di questa guerra fosse la solida base del movimento rivoluzionario e del movimento delle masse, e che quindi arruolare uomini nelle strutture militari ed estendere le formazioni combattenti e la loro attività fosse il compito principale (come di fatti lo è quando si è allo scontro risolutivo). L’arruolamento cospicuo (delle «avanguardie» che venivano meno ai loro compiti abbandonando ai revisionisti l’orientamento e la direzione del movimento delle masse) e l’estensione conseguente delle attività combattenti davano alle bande, come alle altre organizzazioni comuniste combattenti, una falsa immagine di forza e di sviluppo. Questa le confermava nel loro errore di continuare a puntare sull’estensione della guerra e non curarsi del fatto che stavano venendo meno le forze che avevano fino allora spontaneamente permesso ed alimentato la loro nascita e la loro attività. Quando esse ebbero assorbito gran parte dell’humus che rendeva fertile il loro terreno di coltura e l’ebbero isterilito, quindi giunte al massimo del loro volume, furono pronte per la sconfitta.

L’aspetto negativo di quel periodo non fu l’arresto delle iniziative combattenti, ma il fatto che venne deciso solo sotto l’incalzare dei colpi inflitti dalle forze di polizia, come decisione a cui i successi delle forze di polizia costringevano le bande, quindi come misura di difesa e salvaguardia. In realtà una decisione del genere le bande avrebbero dovuto prenderla prima, sulla base dei successi conseguiti dalla «propaganda armata», nell’ambito dell’adeguamento della struttura, dell’impianto, della linea e della propria attività (e quindi anche dell’attività combattente) alla nuova fase, alla fase del passaggio al partito.

Non è quindi sulla ripresa dell’attività combattente che si valuta il superamento della crisi e il grado di salute del movimento rivoluzionario. Chi porta la ripresa dell’attività combattente come riprova e contenuto del superamento della crisi illude se stesso e gli altri e rinnega l’autocritica da cui era partito.

Il proposito di passare dalla fase della «propaganda armata» a quella della «guerra civile dispiegata» era frutto di una concezione libresca (cioè formulata in base alla lettura di avvenimenti di altri paesi e di altri tempi) dello sviluppo della lotta di lunga durata, non si basava sull’analisi dei caratteri propri dello scontro rivoluzionario nei paesi imperialisti e della fase attuale del movimento della società, era una riproduzione militarista (che cioè trascurava di considerare il complesso dei fattori) dello sviluppo seguito da alcuni movimenti di liberazione nazionale. Tutti abbiamo ora capito che la natura della fase che si apre dipende dallo stato oggettivo del movimento economico e politico della società e dall’esito della fase che si chiude.

Posto questo, il salto da fare allora non consisteva nell’aumento dell’attività militare che già si era sviluppata quantitativamente oltre quanto fosse compatibile con la capacità di direzione politica dell’epoca. Consisteva invece nel rafforzare la nostra capacità di analisi ed orientamento politico, nel rafforzare la nostra direzione nel movimento delle masse, nella creazione di nostri canali e strumenti per formare e reclutare nuove leve in vista del declinare del movimento delle masse. Non avendo compiuto quel salto, le bande hanno subito delle sconfitte che le hanno costrette a ridurre e quasi annullare anche l’attività militare. La ripresa non è quindi principalmente ripresa dell’attività militare, ma costruzione della capacità di direzione politica e di legami col movimento delle masse.

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Solo per una concezione idealista e meccanicista del movimento della società altri cercano di stabilire l’entità della crisi del movimento rivoluzionario sulla base della continuità o meno delle lotte rivendicative e delle iniziative di protesta delle masse e in generale del movimento di massa e addirittura pongono come compito principale del momento quello di resuscitare, ricreare un movimento di massa.

Tutta la storia contemporanea conferma che i movimenti di massa alternano periodi di flusso e periodi di riflusso e ciò non comporta alcuna crisi del movimento rivoluzionario.

L’idea di promuovere per propria decisione e volontà un flusso di mobilitazione di massa è così inconsistente e un così palese prodotto di soggettivismo da quattro soldi che non vale la pena che ci soffermiamo a considerarla.

Il proposito di dirigere o anche solo influenzare l’attuale movimento delle masse senza avere affrontato i compiti specifici relativi alla soluzione della crisi del movimento rivoluzionario è una trovata (consapevole o no, poco importa) per addolcire la pillola della liquidazione del movimento rivoluzionario. Prima di tutto sarebbe interessante sapere dove vogliono dirigere un movimento di massa individui che non sanno essi stessi che direzione prendere! L’avanguardia ha trovato sulla sua strada ostacoli che deve superare per vivere e svilupparsi: chi rinuncia a questo lavoro, sia pure in nome dell’andata alle masse, non solo non combinerà niente di buono nel movimento delle masse, per il cui sviluppo e orientamento occorre appunto l’avanguardia alla cui costruzione egli ha rinunciato, ma inevitabilmente finirà col promuovere la liquidazione dell’avanguardia.

Individui sparsi, che rinunciano a raggiungere una concezione complessiva del movimento economico e politico della società, un programma di trasformazione della società, una linea di lotta politica che orienti e discrimini, sulla base di un unico progetto, tutte le loro diverse attività e ad organizzare unitariamente il loro lavoro in un sistema disciplinato di divisione dei compiti, ossia in una parola individui che rinunciano a costituirsi in partito, non possono esercitare alcuna influenza nel movimento di massa, possono solo «starci dentro» come qualsiasi altro. E cosa è questo se non liquidazione (indolore, silenziosa, ma liquidazione) dell’avanguardia? E’ evidente che in tale logica quelle persone saranno costrette a spostarsi sempre più a destra, alla rincorsa delle masse, per essere «più interni» ad una situazione che obiettivamente in questa fase è di riflusso e che potrà trasformarsi tanto meglio proprio quanto meglio l’avanguardia risolverà i problemi relativi al suo ruolo.

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Per capire la natura e la consistenza della «crisi» del movimento rivoluzionario, dobbiamo riprendere le cose più da lontano, andare a vedere le possibilità reali di ieri, i risultati obiettivi conseguiti dalle bande, i compiti posti dalla situazione oggettiva attuale.