In morte di Massimo D’Antona

Luglio 1999.
 

“Sono ritornate le Brigate Rosse” hanno urlato il 20 maggio i portavoce del regime e le loro grida non si sono ancora spente: riempiono ancora giornali, radio e TV. Piangono i padroni e i loro amministratori: hanno perso uno dei più solerti e capaci collaboratori. Al contrario, al sentire la notizia, per un momento si sono sentiti vendicati migliaia di lavoratori, padri di famiglia “esuberi” o “rottamati” (secondo la nuova gentile espressione inventata da Bassolino e da Morese), giovani che senza speranza a decine di migliaia affollano i concorsi per cinque, dieci posti di lavoro, disoccupati, donne costrette a scegliere tra avere un lavoro e avere un figlio, operai che giorno dopo giorno sperimentano i “diritti umani” che i padroni riconoscono ai “loro” dipendenti nelle “loro” fabbriche, persone che di fronte alla malvagità e alle angherie del regime avevano gridato o sospirato “Ci vorrebbero ancora le BR!”. C’è un funerale e una volta tanto non è un disoccupato o uno sfrattato che disperato si è tolto la vita, un morto sul lavoro, una donna violentata, un bambino di borgata, un giovane allo sbando, un uomo qualunque finito sotto una casa crollata, o in un tunnel devastato o travolto da un alluvione, insomma una delle tante quotidiane vittime di questo regime che soffoca ogni giorno la vita e ancora più la gioia di vivere (di mangiare, di respirare, di nuotare, di far l’amore, di pensare, di divertirsi, di riposare, di stare insieme, ecc.), una delle vittime di questo regime di morte. Questa volta si tratta di uno di quegli uomini istruiti e perbene impegnati a trovare le misure e gli accordi per rendere il lavoro più precario, il salario più elastico, l’orario più flessibile: insomma uno che lavorava a rendere la vita più difficile, più precaria e più amara per la maggioranza della popolazione. Una fine degna del lavoro che faceva, anche se la soddisfazione è in parte guastata dal clima di paura che padroni, ministri, preti e sindacalisti di regime cercano di diffondere, come se la morte di uno di loro facesse gravare un’oscura minaccia su tutti. E promettono lotta senza quartiere contro gli oppositori e contro i rivoluzionari; minacciano perquisizioni, controlli, arresti, galera e torture. Dalle bocche sazie di giornalisti, portaborse e portavoce del regime erompono ingiurie e insulti per tutti quelli che osano impugnare le armi contro i padroni e i loro servitori: le armi sono monopolio dei padroni. Quasi linciano Bertinotti che per una manciata di voti in più si è lasciato andare a dire che alcune denunce del documento di rivendicazione corrispondono al vero. Fanno piovere sul paese lodi a non finire per il loro morto. Se non si pensa che a parlare sono gli autori delle misure che giorno dopo giorno rendono la vita più difficile ai lavoratori, viene da chiedersi come mai tanto lavoro nero e precario, tanta disoccupazione, tanta prostituzione e tanta disperazione, così poca gioia di vivere e la guerra, con persone così perbene al governo del paese. Tanti sono i meriti che i padroni attribuiscono al morto che vien da dire: “Se voleva danneggiare i padroni, chi l’ha colpito ha scelto bene il bersaglio!”. Come faranno senza un uomo di tante portentose virtù e capacità?

Sembra che davvero i meriti di D’Antona fossero tanti, grandi le sue doti e infaticabile la sua attività. La prima conclusione è: se le cose vanno così male per i lavoratori benché i padroni abbiano al loro servizio così geniali vulcani di attività, vuol dire che gli interessi dei padroni sono proprio l’opposto degli interessi dei lavoratori. I profitti, il benessere e la libertà dei padroni sono inversamente proporzionali ai salari, al benessere, alla sicurezza e alla libertà della massa dei lavoratori. La macchina che ogni giorno sforna soprusi, che taglia posti di lavoro (33.000 in meno nelle grandi industrie solo nell’ultimo anno), che sfratta (sono 1.200.000 gli sfratti pendenti e il governo D’Alema si è appena rifiutato di rinnovare la proroga), che mette lavoratori contro lavoratori, non è una macchina oscura e misteriosa o anonima e impersonale come un uragano o un terremoto. È fatta da tanti uomini perbene, gente che ammazza senza sporcarsi le mani, che fa coscienziosamente la sua parte dello sporco lavoro, come Eichmann faceva la sua. Esponenti di un apparato che giorno dopo giorno sforna ben elaborati decreti che traducono in misure concrete e pratiche la concezione che le pensioni sono un peso insostenibile, i bambini un aggravio per la società, i salari un freno allo sviluppo economico, il lavoro un privilegio da conquistare facendo a gomitate con altri proletari; la concezione che la casa, la salute, l’istruzione e in definitiva ogni cosa è una merce riservata a chi ha soldi a sufficienza per pagarla. Il posto di lavoro garantito, la casa, i servizi e i beni indispensabili assicurati a tutti sono una piaga sociale da combattere ed eliminare. Il diritto a vivere deve essere proporzionale ai titoli di proprietà e sono da eliminare tutte le conquiste strappate in contrasto con questa regola.

In una società moderna e “democratica”, per imporre queste loro concezioni i padroni hanno bisogno di una macchina composta da tanti solleciti e colti funzionari come D’Antona, ognuno solerte a fare la sua parte. Massima divisione del lavoro, così nessuno si sente personalmente responsabile del massacro che ne risulta, è ridotto il rischio del disgusto e della diserzione e l’intellettuale proclama “non esiste più un Palazzo d’Inverno”, “non esiste più un cuore dello Stato”, “siamo tutti vittime e carnefici”. Consulenti amabili e sorridenti stendono con sindacalisti di regime e con rappresentanti dei padroni (le “parti sociali”) ben elaborate riforme che cancellano le conquiste di civiltà e di benessere che nell’ambito del movimento comunista le masse popolari hanno strappato con dure lotte. I ministri le faranno approvare dagli “eletti dal popolo”, funzionari delle imposte, dei servizi e degli uffici-personale le applicheranno, poliziotti e magistrati colpiranno chi non le rispetta, le associazioni di beneficenza si occuperanno dei casi più disgraziati. Orari più elastici che rompono legami e relazioni dei lavoratori ma rendono più liberi i padroni, salari più flessibili che non permettono di arrivare a fine mese ma gonfiano i profitti e il capitale finanziario di banche e monopoli, lavori più precari che tolgono serenità, spingono a far le scarpe al nostro compagno di lavoro, a povera gente come noi, che mettono milioni di uomini l’uno contro l’altro, che creano ansia, depressione, disperazione, odio. Ma anche ribellione e certamente l’uccisione di D’Antona, da qualunque parte venga, è un cattivo esempio che i padroni vogliono esorcizzare. Una dimostrazione di quanto padroni e loro funzionari sono vulnerabili. Gli stessi che mandano aerei ad ammazzare in Jugoslavia e navi ad affogare immigrati in mare, i mandanti di mille stragi gridano agli “assassini che hanno le mani sporche del sangue del povero D’Antona”.

Ciò che D’Antona con le sue tante doti contribuiva a creare, è esattamente ciò di cui hanno bisogno i padroni ed è ciò che i lavoratori hanno bisogno di eliminare. Purtroppo un D’Antona in meno non lo eliminerà. Tanti baldi e dotati professionisti aspiravano a prendere il suo posto e ora un altro è all’opera per tradurre in decreti governativi e in “patti sociali” le aspirazioni degli Agnelli, dei De Benedetti e di finanzieri e speculatori loro pari, aspirazioni che essi chiamano “leggi oggettive dell’economia”: in effetti il capitalismo può funzionare solo con queste leggi. Esse sono quindi oggettive finché la società è retta dal capitalismo. “Morto un papa se ne fa un altro”. Non basta ammazzare un re per porre fine alla monarchia. La borghesia imperialista in Italia è composta da circa 6 milioni di persone, insegna il Progetto di Manifesto Programma del nuovo partito comunista italiano. In più la borghesia imperialista ha una certa influenza sulle masse popolari e non sono pochi quelli che cercano di farsi largo nella società e di entrare a far parte della borghesia imperialista. Non basterebbe la minaccia di morte a dissuaderli. Comunque muoiono più metalmeccanici e muratori, per non parlare di minatori e di camionisti, che non funzionari o consulenti di Ministeri. La cosa valeva anche negli anni ‘70 e ‘80, quando le BR erano al massimo della loro attività. Quindi per quanto il castigo sia meritato, non basta a porre fine al capitalismo. Ma è proprio di porre fine al capitalismo e di creare un’economia e una società comunista quello di cui abbiamo bisogno. Per questo però ci vuole ben altro che eliminare ogni tanto un servo dei padroni e un funzionario del capitalismo! Ci vuole che milioni di lavoratori si muovano insieme, organizzati con una loro direzione, a organizzare la loro stessa vita. E anzitutto ci vuole un partito comunista. Un partito che abbia un concezione del mondo giusta, cioè corrispondente alla realtà; che comprenda nei sui ranghi la parte più cosciente e attiva della classe operaia; che persegua consapevolmente e con costanza e determinazione gli obiettivi verso cui le condizioni materiali spingono le masse popolari; che raccolga, organizzi e porti alla lotta su tutti i fronti le forze rivoluzionarie dei lavoratori che man mano il corso della società suscita, dirigendole in modo che “combattendo imparino a combattere” e in modo che le forze che scendono in lotta oggi favoriscano la nascita di altre che si uniscono a loro fino a rovesciare i rapporti di forza, a eliminare l’attuale regime, a togliere ai padroni tutti i loro strumenti di forza, a instaurare la direzione della classe operaia sulle masse popolari, a creare un nuovo Stato che reprima con decisione ed efficacia l’attuale classe dominante e i suoi tentativi di riconquistare il potere, ad avviare la trasformazione dei rapporti di produzione e del complesso dei rapporti sociali e delle concezioni ad essi corrispondenti. Insomma occorre portare avanti praticamente la rivoluzione socialista e anzitutto compiere il primo passo di questa lunga marcia: la ricostruzione del partito comunista.

Crediamo di interpretare i sentimenti di molti lavoratori augurandoci che la morte di D’Antona non sia solo la punizione di uno che lavorava a strozzare lavoratori e pensionati, ma contribuisca a rafforzare le forze che lottano per la ricostruzione del partito comunista.

Nicola P.

(30 maggio ‘99)