La Voce n. 22
marzo 2006 - anno VIII

Il potere sociale nella società borghese

sabato 25 marzo 2006.
 

Il potere sociale nella società borghese

Consideriamo ad esempio un capitalista. L’educazione che ha ricevuto lo ha messo in contatto con persone abituate a decidere e a comandare, gli consente di concepire obiettivi e gli ha insegnato come muoversi per realizzarli. Se decide di realizzare un obiettivo, egli dispone liberamente di se stesso, del suo tempo e delle sue risorse. Se l’obiettivo va oltre la sua attività personale, a secondo della quantità del suo capitale egli può mobilitare 50, 1000, 100.000 o più persone di sua scelta che lo assecondano nel suo proposito o che addirittura lo sostituiscono. Grazie alla sua collocazione sociale, egli è in contatto con altri capitalisti, può raccogliere il loro consenso e il concorso delle loro risorse; può avere credito dalle banche; può raccogliere capitali e risparmi in Borsa. Insomma egli individualmente ha un vero potere sulla vita della società. Beninteso, il suo potere individuale non è né assoluto né dispotico. La sua forza dipende dalla grandezza del suo capitale, ma anche dalle condizioni specificamente politiche del paese (es. virulenza della lotta di classe, ecc.). È un potere che di regola si combina o entra in contrasto con quello degli altri capitalisti (questa è la sostanza della democrazia borghese). Ma anche quando è solo tra i capitalisti a voler realizzare un progetto, egli ha individualmente i mezzi per farsi intendere dagli altri capitalisti e, in una democrazia borghese, anche dal popolo, dalle altre classi.

Prendiamo di contro un proletario. La sua educazione è diretta a insegnargli un mestiere e cresce tra persone abituate a essere comandate e ad obbedire. Se gli va bene, trova lavoro alle dipendenze di un capitalista o comunque di un padrone e lo deve eseguire secondo gli ordini e le disposizioni che questi impartisce. Supponiamo che non ci sia né partito comunista, né sindacato, né altra organizzazione di massa. La vita del nostro proletario si svolge nella cerchia ristretta dei suoi famigliari, amici, conoscenti e, nel caso più fortunato, compagni di lavoro. Anche la sua coscienza e i suoi gusti e sentimenti, abitudini e aspirazioni si formano in quella cerchia ristretta.

Il sindacato e altre organizzazioni di massa, se esistono, gli consentono di allargare i suoi contatti, la sua esperienza, le sue conoscenze, i suoi orizzonti. Il sindacato ha un ruolo e un peso nella vita sociale. Quindi educa e mobilita una cerchia più o meno vasta di lavoratori a esercitarlo. Attraverso di esso il nostro proletario può acquisire una coscienza più vasta e un potere sociale. Quando parla nel sindacato, parla a centinaia o migliaia di persone, direttamente o indirettamente. Comunica e assorbe idee, esperienze e sentimenti in una cerchia più vasta. Tanto più vasta quanto maggiore è il numero dei lavoratori organizzati nel suo sindacato. Il numero organizzato fa la forza sociale del proletario.

Supponiamo ora che, per un qualunque motivo e canale, il nostro proletario arrivi addirittura a diventare membro del partito comunista. Egli si trova a far parte di una organizzazione che vuole cambiare l’ordinamento della società, che ha una linea d’azione, una concezione del mondo, un metodo di lavoro e, al suo interno, una divisione del lavoro con gli strumenti e i mezzi necessari per svolgerlo. Il nostro proletario da il suo contributo di attività e di pensiero a questo progetto e viene formato a una visione nazionale e internazionale della lotta tra le classi e della trasformazione degli ordinamenti sociali, acquisisce una comprensione, la più elevata di cui è capace, delle condizioni, delle forme e dei risultati della lotta del proletariato e contribuisce in corrispondenza.

Di regola un membro delle classi oppresse che non è mai stato influenzato dal movimento comunista, ha difficoltà persino a comprendere che esistono vari ordinamenti sociali; che la vita sua e dei suoi famigliari è regolata da un ordinamento sociale che gli uomini hanno creato in una data epoca e per dati motivi; che il mondo non è sempre stato così e quindi non sarà sempre così; che l’ordinamento sociale che regola la sua vita può essere cambiato; che lui e quelli come lui sono in grado di cambiarlo e di sostituirlo con uno migliore. Ovviamente per riuscirci devono procedere con un certo metodo, che è quello che il movimento comunista è venuto elaborando da 200 anni a questa parte e che sta ancora elaborando, perché l’impresa non è ancora compiuta.

In conclusione, nella società borghese il capitalista ha per sua natura un potere sociale. È nelle condizioni che gli consentono e quasi esigono che lui contribuisca a definire l’indirizzo della società e ad attuarlo. Al contrario il proletario senza partito è per sua natura in condizioni che lo escludono individualmente da ogni potere sociale. Anche se ha diritto di voto (elezioni, democrazia borghese), vota come suo delegato (deputato) persone di cui non conosce né indole né intenzioni dei problemi su cui i suoi delegati (i parlamentari, i consiglieri, ecc.) decideranno, conosce poco o niente e comunque solo quello che la classe dominante gli dice, non ha alcuna possibilità di controllare né come stanno le cose né di chiedere conto al suo delegato delle sue azioni. La classe dominante cerca di mantenerlo in questo stato, lo scoraggia dall’organizzarsi, lo distrae, gli confonde le idee e i sentimenti, diffonde notizie inventate, lo spaventa, lo minaccia se ha “grilli per la testa”. Ecco, tra l’altro, perché il borghese non ha bisogno di partito nel senso corrente del termine, il proletario sì. I legami, le alleanze e le combinazioni politiche il borghese le stabilisce sulla base delle relazioni che egli ha nella sua vita quotidiana, in particolare sulla base delle sue relazioni d’affari che sono il centro delle sue relazioni: cioè sulla base delle relazioni la cui rete è chiamata “società civile”. Il declino dei partiti, il prevalere di “partiti leggeri”, ecc. degli ultimi anni, a vantaggio della “società civile”, il ruolo politico assunto dagli esponenti della “società civile”, ecc. sono stati una manifestazione della crescente esclusione della classe operaia dal “teatro della politica borghese”.

Solo organizzato e nell’organizzazione il proletario acquista un potere sociale. Ma anche al momento del massimo sviluppo del movimento comunista, solo una frazione del proletariato entra a far parte del sindacato o di altre organizzazioni di massa proletarie. Una frazione ancora minore vi svolge un ruolo in qualche misura attivo, che va oltre pagare la quota e partecipare alle mobilitazioni (assemblee, scioperi, dimostrazioni, ecc.). Una frazione di gran lunga minore entra a far parte del partito comunista.

È da questo stato che un paese socialista grosso modo parte. L’avanzamento del socialismo, il suo successo, consiste e si misura nella partecipazione con un ruolo attivo di parti crescenti della classe operaia, del proletariato, delle masse popolari alle organizzazioni di massa e al partito comunista (e attraverso di essi alla gestione della società). Senza successo in questo campo, nessun paese socialista può esistere e tanto meno progredire. Se regredisce in questo campo, prima o poi un paese socialista va in rovina.

È evidente che l’attività svolta dalla parte del proletariato e delle masse popolari già organizzata, quindi già socialmente influente, ha un peso decisivo nel far progredire o regredire la mobilitazione, l’organizzazione e la coscienza delle masse non ancora mobilitate e organizzate. Quindi in definitiva è la concezione del mondo e la linea politica del partito comunista che decide di tutto: del successo o della rovina di un paese socialista.

Rosa L.